Riftwalker – Green & Black

Questo trio canadese si presenta con il debutto sulla lunga distanza e ci travolge con il suo sound estremo e progressivo, magari di questi tempi non originalissimo, ma quantomeno interessante.

Questo trio canadese si presenta con il debutto sulla lunga distanza e ci travolge con il suo sound estremo e progressivo, magari di questi tempi non originalissimo, ma quantomeno interessante.

Che i Riftwalker non vogliano essere una band come le altre lo si evince dalla copertina, un pastore montano con il suo cane che, con il technical progressive death metal suonato dal gruppo, non ci azzecca un granché.
Ma qui si parla di musica, ed allora sappiate che siamo al cospetto di un trio molto interessante, magistrale tecnicamente ma molto attento al songwriting che mantiene alta la media qualitativa di un album di notevole spessore.
Solo un ep, Wreckage of the Old World di tre anni, fa separa il gruppo di Vancouver tra i suoi inizi targati 2009 e quest’opera estrema, che mantiene per tutta la sua durata un approccio moderno, progressivo ed intricato, ma che non perde mai le briglie di un sound che è un animale selvaggio e indomabile.
Ripeto, ormai parlare di originalità diventa difficile anche in un genere che, per primo, ha permesso di amalgamare sonorità lontane anni luce dal metal estremo con il death metal, ma in Green & Black tutto è perfettamente al suo posto senza risultare forzato.
Harlequin Ichthyosis, Primordial Collapse e Beyond Mortality sono i brani migliori di un lavoro che speriamo non si disperda nello sterminato universo dell’ underground estremo.

TRACKLIST
1.B.H.O.
2.Harlequin Ichthyosis
3.Engineer Their Consent
4.Intrinsic Degeneration
5.Primordial Collapse
6.States of Decay
7.Beyond Mortality
8.Green & Black

LINE-UP
Spencer Atkinson – Bass, Vocals
Zan Petrovic – Drums, Percussion
Miles Morrison – Guitars, Vocals

RIFTWALKER – Facebook

Embrace Of Silence – Where Darkness Swallow The Sun

Where Darkness Swallow The Sun si attesta su un livello medio alto, magari non sullo stesso piano dei capolavori che il genere sforna con buona regolarità, ma senz’altro di grande sostanza e di gradevole ascolto.

Quasi cinque anni dopo il buon esordio su lunga distanza Leaving The Place Forgotten By Gods ritornano gli ucraini Embrace Of Silence,con il loro eccellente death doom.

All’epoca definimmo quell’album come un’operazione riuscita, in quanto tutto sommato neppure troppo derivativa e dipendente dalle pesanti influenze delle band di riferimento del genere: tale giudizio vale anche per il nuovo Where Darkness Swallow The Sun, nel quale lo stile del gruppo assume contorni ancora più nitidi, benché scevri da ogni tentazione innovativa.
L’album si dipana lungo una serie di tracce dall’incedere oscuramente melodico, con uno sguardo rivolto più alla scuola nordamericana che non a quella scandinava, quindi, per essere sintetici, più affine ai Daylight Dies che non ai Swallow The Sun, benché il titolo dell’album possa suggerire il contrario: alla riuscita del tutto, poi, contribuisce in maniera decisiva quel tocco drammatico che è l’impronta di molte band provenienti dall’ex-URSS.
In un contesto di buona compattezza qualitativa si stagliano la title track, piuttosto movimentata per ritmi e soluzioni melodiche, e la stupenda In The Embrace Of The Stygian River, segnata da un eccellente lavoro chiotarristico che delinea un tema portante davvero struggente.
Proprio le sei corde assumono il totale controllo della situazione, in virtù della rinuncia sostanziale alle tastiere, che venivano invece utilizzate più generosamente in Leaving The Place Forgotten By Gods: questo rende il suono senz’altro più roccioso ed asciutto senza fargli perdere, però, i tipici connotati dolenti anzi, attribuendogli forse anche una maggiore incisività.
Where Darkness Swallow The Sun si attesta su un livello medio alto, magari non sullo stesso piano dei capolavori che il genere sforna con buona regolarità, ma senz’altro di grande sostanza e di gradevole ascolto; come per altre band del settore i tempi molto dilatati tra un’uscita e l’altra con aiutano a tenere caldo il nome, per cui una nuova release in tempi leggermente più ristretti potrebbe avere una doppia valenza, quella di fissare nella mente degli appassionati il monicker Embrace Of Silence, oltre alla possibilità di accelerare quell’ulteriore salto di qualità che pare essere nelle corde della valida band ucraina.

Tracklist:
1. The DesertOf Your Mind
2. Where Darkness Swallow The Sun
3. Faceless
4. Last Winter
5. Cyclic Motions
6. Idols Defame Your Faith
7. In The Embrace Of The Stygian River

Line-up:
Eugeniy Voronchihin – Bass
Yuriy Sivkov – Guitars
Igor Zhurzha – Vocals, Guitars
Vladislav Fatkhullin – Drums
Dennis Kutsy – Guitars

Chetyre Muzhika – Howl

Un quartetto da seguire in futuro, non fosse che per la sua originalità che lo porta ad essere un compromesso tra Mastodon, Primus e Nirvana uniti sotto la bandiera dell’hardcore.

MetalEyes, pur cercando di non farvi perdere nulla della scena metal nazionale ed internazionale, cerca nel più puro spirito underground di portare alla vostra conoscenza gruppi persi nelle scene metal rock mondiali, dalle piccole cittadine alle più importanti metropoli del mondo.

In queste righe si vola a Mosca per incontrare i Chetyre Muzhika, quartetto di pazzi rockers alternative stoner metal con testo in lingua madre ad accompagnare la devastante e potentissima proposta che lascia a bocca aperta per i continui accenni ad un prog moderno, in un contesto atmosferico ed attitudinale dalla forte connotazione punk/hardcore.
Howl è il loro debutto in formato ep, accompagnato dalla copertina che prende ispirazione dai fumetti tratti dalla famosa saga La Torre Nera di Stephen King, ed è stato registrato da Stas Baranov ai DTH Studios di Mosca.
Quattro brani per soli quindici minuti di musica ma che valgono la pena di essere ascoltati, la carne al fuoco è tanta ma il pericolo che si bruci è lontano, anche per il gran lavoro che la band svolge nel songwriting, creando un caos ragionato e un susseguirsi di sorprese tra metal moderno, alternative rock e pazza furia hardcore.
I brani sono quattro pugni nello stomaco sorprendenti, con attimi di grande musica, specialmente quando la band, sfogata la rabbia selvaggia, si lascia andare a ritmiche progressive geniali, piccole divagazioni che aumentano il feeling instaurato da subito con questo ep (Mustanga).
Un quartetto da seguire in futuro, non fosse che per la sua originalità che lo porta ad essere un compromesso tra Mastodon, Primus e Nirvana uniti sotto la bandiera dell’hardcore, notevoli.

TRACKLIST
1.Kitovaya
2.Liho
3.(Mustanga
4.Howl

LINE-UP
Mokerov Alexey – vocals, guitar
Palashev Alexander – guitar
Votincsev Mihail – bass
Zaytsev Ilya – drums

CHETYRE MUZIKA – Facebook

Nailed To Obscurity – King Delusion

King Delusion ha tutte le caratteristiche per essere apprezzato da chi ama partiture robuste, ritmate e un po’ malinconiche, soprattutto perché impeccabile per resa sonora e dalla fruibilità relativamente elevata.

King Delusion è il terzo album dei tedeschi Nailed To Obscurity in circa un decennio di carriera.

Indubbiamente i ragazzi della Bassa Sassonia devono essere soliti a prendersi il loro tempo prima di dare alle stampe un nuovo disco, ma tutto sommato i frutti compensano le attese; intendiamoci, qui non si parla di un lavoro epocale e capace di sposate gli equilibri all’interno del death doom melodico, ma sicuramente siamo in presenza di un’opera di indubbio spessore esecutivo e con più di un passaggio dal grande impatto.
Se vogliamo, quello che potrebbe esser il punto di forza dei Nailed To Obscurity, ovvero l’incontro tra il death melodico di scuola scandinava e quello venato di doom, potrebbe rivelarsi anche un aspetto negativo, rischiando di non accontentare i fans più intransigenti in nessuna delle due correnti.
Al di là di questo, King Delusion ha tutte le caratteristiche, invece, per essere apprezzato da chi ama partiture robuste, ritmate e un po’ malinconiche, soprattutto perché impeccabile per resa sonora e dalla fruibilità relativamente elevata.
Provando a shakerare con una certa pervicacia Novembres Doom, Dark Tranquillity, Opeth e Swallow The Sun, quelle che ne salta fuori è a grandi linee il contenuto di quest’album, che vede i suoi picchi in Memento e Devoid, brani che si avvolgono di linee chitarristiche decisamente coinvolgenti, mentre il resto della tracklist non delude e non esalta, lasciando comunque sensazioni abbastanza positive al termine dell’ascolto.
Se proprio devo fare un appunto ai Nailed To Obscurity è la mancanza di una certa profondità, compensata non del tutto dalla padronanza del genere: il re non risulta affatto una delusione, ma alla lunga alcune delle caratteristiche evidenziate impediscono all’album di raggiungere l’eccellenza nonostante, ripeto, l’ascolto si riveli alquanto gradevole.

Tracklist:
1.King Delusion
2.Protean
3.Apnoea
4.Deadening
5.Memento
6.Uncage My Sanity
7.Devoid
8.Desolate Ruin

Line-up:
Jan-Ole Lamberti – Guitars
Volker Dieken – Guitars
Jann Hillrichs – Drums
Carsten Schorn – Bass
Raimund Ennenga – Vocals

NAILED TO OBSCURITY – Facebook

The Mugshots – Something Weird

Un album che si rivela una continua sorpresa anche dopo ripetuti ascolti, un’esperienza musicale che ha tutti i crismi del lavoro di livello superiore, da avere e custodire gelosamente.

Come la creatura che il dottor Frankenstein assemblò con parti rubate a vari cadaveri, anche la musica dei The Mugshots del cantante Mickey Evil si può sicuramente considerare un mostro musicale, composto da svariati spunti stilistici solo in teoria lontani fra loro, ma perfettamente bilanciati e fatti convivere su questa che ha tutti i crismi dell’opera rock, il cui titolo è Something Weird.

Ed all’ascolto dell’album la mia mente ha immagina personaggi bizzarri, come in un luna park di creature da freak show, mentre il sound si trasforma, modellato dai vari generi che si scambiano o prendono il sopravvento ad ogni brano, formando (questa è la mia impressione) una colonna sonora per un horror show decadente.
I The Mugshots sono in giro da un po’ di anni, provengono da Brescia ed hanno creato qualcosa di unico, valorizzato da una lista di ospiti eccellenti come Matt Malley (Counting Crows,) Tony Dolan (Venom Inc., Atomkraft), Mike Browning (Nocturnus AD), Steve Sylvester (Death SS), Freddy Delirio (Death SS, H.A.R.E.M.), Martin Grice (Delirium), Manuel Merigo (In.Si.Dia), Ain Soph Aour (Necromass), Andrea Calzoni (Psycho Praxis) ed Enrico Ruggeri.
Prodotta da Freddie Delirio, la musica racchiusa in questo entusiasmante lavoro è qualcosa di unico, bizzarro (come ci ricorda il titolo), perfettamente incastonato in un contesto che, come detto, può essere definito opera rock.
Theatrical Rock Music è l’etichetta coniata per rappresentare al meglio un sound che ci delizia di glam rock, per volare in tutta fretta nello spazio in una jam tra Marc Bolan e gli Hawkwind, ed atterrare poi in un cimitero e tra le tombe trasformarsi in gothic, dark rock e steampunk; ovviamente non manca neppure una componente metal, quella classica e teatrale di Death SS e Alice Cooper, intrise di atmosfere horror da film di serie b, brividi in bianco e nero, da molti ormai dimenticati.
Gli ospiti sono quel tocco in più per rendere il tutto spettacolare nella sua attitudine underground, con addirittura Enrico Ruggeri che dà il suo apporto alla traccia gothic metal Sentymento.
Non c’è un solo brano che non sia pervaso da un approccio originale, teatrale e io aggiungerei da musical, specialmente nei brani dove la parte dark gotica lascia spazio al glam/space/punk /rock di The Circus e Rain, mentre la creatura musicale rappezzata da lunghe e profonde cicatrici che tengono insieme i pezzi si rivitalizza con scosse di elettrico rock/metal, piazzando una serie di brani capolavoro come I Am Eye, Scream Again e Pain, con le sue le melodie dark rock.
Un album che si rivela una continua sorpresa anche dopo ripetuti ascolti, un’esperienza musicale che ha tutti i crismi del lavoro di livello superiore, da avere e custodire gelosamente.

TRACKLIST
1.Introitus
2.The Circus
3.Rain
4.I Am an Eye (feat. Freddy Delirio)
5.An Embalmer’s Lullaby, Pt. 2 (feat. Andrea Calzoni)
6.Ophis
7.Sentymento (feat. Enrico Ruggeri)
8.Scream Again (feat. Steve Sylvester, Freddy Delirio, Ain Soph Aour)
9.Grey Obsession (feat. Matt Malley, Martin Grice, Mike Browning)
10.Dusk Patrol (feat. Tony Dolan)
11.Pain (feat. Manuel Merigo)
12.Ubique

LINE-UP
Mickey Evil – Vocals, Keyboards
Priest – Guitar
Gyorg II – Drums
EyeVan – Bass
Erik Stayn – keyboards

THE MUGSHOTS – Facebook

Blood Region – For All the Fallen Heroes

Metal, atmosfere dark e tanta melodia, un’alleanza vincente che continua a mietere vittime.

Terzo ep in un anno per la metal band finlandese Blood Region, attiva addirittura da una quindicina d’anni ma arrivata solo di questi tempi all’uscita discografica tramite Inverse Records.

Un tris di e, si diceva, in un anno di grande produttività per il gruppo scandinavo che propone un heavy metal dai toni leggermente più aggressivi rispetto ai canoni, senza andare troppo verso lidi estremi, ma senza dubbio vicino al death metal melodico suonato da quelle parti tra gli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio.
Con una cura per le melodie accentuata, i Blood Region ricordano i Sentenced prima della svolta gotica (era Down), ma con un tocco epico e più orientati verso l’heavy metal vero e proprio.
For All the Fallen Heroes risulta un bel dischetto, i brani che formano questi ventitré minuti abbondanti portano con loro un appeal che, con una cura maggiore nella produzione e qualche brano in più, potevano conquistarsi la palma di sorpresa metallica di questi ultimi mesi.
Tra le cinque tracce, la conclusiva ed oscura Across The Dark River è quella che maggiormente colpisce per una accentuata vena dark e per l’ottimo lavoro chitarristico a conferma della vena dei musicisti finlandesi.
Metal, atmosfere dark e tanta melodia, un’alleanza vincente che continua a mietere vittime.

TRACKLIST
1.Awaiting the Storm
2.Heroes
3.New Rising
4.In My Father’s Room
5.Across the Dark River

LINE-UP
Riku Paananen – Bass
Sami Vertanen – Drums
Aleksi Möksy – Guitars
Mika Minkkinen – Vocals, Guitars

BLOOD REGION – Facebook

Obscure Devotion – Ubi Certa Pax Est

Un lavoro di grande maturità e chiarezza di intenti, per cui la naturale e spontanea espressione del genere si abbina ad una non sempre scontata cura dei particolari.

Gli Obscure Devotion sono una band potentina la cui genesi affonda le radici ancora nel secolo scorso: una storia lunga con una produzione comunque abbastanza scarna quantitativamente, visto che Ubi Certa Pax Est è solo il terzo full length in poco più di un ventennio.

Il passato è importante ma il presente lo è ancora di più, per cui è necessario focalizzarsi su questo notevole album che conferma il livello della scena black lucana, con pochi nomi ma decisamente buoni.
Ubi Certa Pax Est  si rivela un’interpretazione efficace e credibile di un genere nel quale si richiedono essenzialmente queste due doti a chi lo suona, ma l’operato degli Obscure Devotion non di riduce solo a questi aspetti, c’è infatti molti di più tra le note di un album che mette in mostra doti superiori alla media del genere per songwriting ed esecuzione.
Per esempio il lavori chitarristico di Cabal Dark Moon, in diverse occasioni, è ben più composito rispetto al canonico tremolo picking al quale siamo abituati, conferendo all’album quella componente death che viene poi rafforzata dalla sua interpretazione vocale efferata, ed  è piacevole godere al meglio di tutte queste sfumature grazie ad una produzione eccellente.
Tra gli aspetti che emergono dopo diversi ascolti va annotata la tendenza ad una sorta di attenuazione dei ritmi man mano che l’album procede verso la sue conclusione: se la prima metà tutto sommato ricalca con padronanza le sonorità tipicamente nordeuropee, nella seconda parte il tutto diviene ancor più vario e ragionato, elevando ulteriormente il valore complessivo di un lavoro già di suo ottimo.
Gli Obscure Devotion offrono così  un sound che sa essere maligno e corrosivo ma anche evocativo e malinconico: come brano trainante dell’album citerei la magnifica The Sign Of Pain,  anche se il trittico Arrivederci Part I e II e Beyond the Flesh mette in mostra un lato più riflessivo che, come detto, rende la parte conclusiva meno violenta e più meditata, a favore di un maggiore slancio melodico.
Ubi Certa Pax Est è un altro bel tassello piazzato a comporre l’interessante mosaico stilistico e geografico del black metal italiano; nello specifico questo è un lavoro di grande maturità e chiarezza di intenti, per cui la naturale e spontanea espressione del genere si abbina ad una non sempre scontata cura dei particolari.
Alla luce dei risultati ottenuti, resta solo da sperare che gli Obscure Devotion trovino lo slancio per presentare nuovo materiale nel prossimo futuro con una cadenza meno rarefatta.

Tracklist
1. Meet the Sorrow (Intro)
2. Ubi Certa Pax Est
3. Burning Blades of Frozen Tears
4. Dreaming a Dead Home
5. The Sign of Pain
6. On Butterfly Wings
7. Arrivederci Pt. I
8. Arrivederci Pt. II
9. Beyond the Flesh
10. Last Embrace (Outro)

Line-up:
Vox Mortuorum – bass
Abyss 111 – drums
Cabal Dark Moon – guitars, vocals

OBSCURE DEVOTION – Facebook

15 Freaks – Stuntman

Le intenzioni del gruppo sono quella di divertirsi e far divertire e con questi cinque brani che compongono Stuntman, la missione è compiuta.

Torna a proporci interessante musica hard rock la label portoghese Ethereal Sound Works con il quintetto dei 15 Freaks, autori di un hard & heavy sufficientemente trascinante per non passare inosservato se amate il rock dal taglio metallico.

Il vocione alla Blaze Bayley nel sound proposto ci sta che è un piacere, le ritmiche non disdegnano dosi di corroborante groove, tanto per rendere la proposta in linea con le nuove tendenze, il tutto al servizio di una manciata di canzoni che si fanno apprezzare, oneste, ben prodotte e con quell’animo stradaiolo che ne fanno un ascolto perfetto quando si accende il cuore pulsante del vostro bolide e vi volete scrollare di dosso le menate della noiosa vita di tutti i giorni.
La band di Sintra apre le danze con il brano che porta il nome del gruppo: uno, due e tre e veniamo sparati nel mondo dei 15 Freaks, con il rock’n’roll che fa da Caronte alla musica del gruppo che, quando dà gas viaggia a mille tra solos metallici e tanta attitudine, con Crazy Randy e Stallion a ribadire le intenzioni del gruppo, divertirsi e far divertire, mentre in un attimo le curve cominciano a farsi difficoltose, l’attenzione cresce e Stuntman irrompe, adrenalinica, assolutamente rock ‘n ‘ roll, tra Motorhead, Aerosmith ed irriverenti sfumature punk rock.
La conclusiva Time Flies è un hard rock discretamente trascinante, con una serie di buoni interventi chitarristici ed un chorus che riporta il sound sulle coordinate stilistiche del genere, mettendo la parola fine a questo primo sussulto del gruppo portoghese, che non si rivelerà l’ultima frontiera del rock, ma che sa come farci muovere i muscoli.

TRACKLIST
1.15 Freaks
2.Crazy Randy
3.Stallion
4.Stuntman
5.Time Flies

LINE-UP
Rui Abrantes – Bass
Carlos Matos – Drums
Alex Duarte – Vocals
Mário Figueira – Guitars
João Abrantes – Guitars

15 FREAKS – Facebook

The Mute Gods – Tardigrades Will Inherit The Earth

Da un trio di simile caratura non poteva certo scaturire un lavoro deludente dal punto di vista tecnico e va detto che, anche sotto l’aspetto compositivo, Tardigrades Will Inherit The Earth mostra a tratti un caratura di livello superiore alla media.

Seconda uscita nel giro di poco più di un anno per i The Mute Gods, trio composto da musicisti di spicco che rispondono al nome di Nick Beggs (voce, basso e chitarra)  e Roger King (tastiere), entrambi appartenenti alla cerchia di collaboratori del grande Steve Hackett, e Marco Minnemann (batteria) uno che non ha certo bisogno di presentazioni visto il suo curriculum chilometrico che spazia dal rock al metal.

L’estroso Beggs porta avanti a livello lirico il suo lodevole intento di sensibilizzazione degli ascoltatori riguardo alle problematiche ambientali e sociali che stanno portando il pianeta al collasso e, di conseguenza, tutti i suoi ospiti verso un’estinzione più rapida di quanto si possa pensare: il titolo dell’album ci ricorda, con un humour amaro e tipicamente britannico, come ad ereditare la Terra, di questo passo, saranno probabilmente i tardigradi, minuscoli invertebrati a otto zampe capaci di sopravvivere nelle condizioni più ostili per qualsiasi altra forma di vita.
Il rivestimento sonoro, invece, non può che essere costituito da un prog rock che spazia da quello più tradizionale e settantiano a quello più moderno, in stile Porcuipine Tree (non a caso Beggs e King hanno lavorato anche con Steve Wilson).
Chiaramente da un trio di simile caratura non poteva certo scaturire un lavoro deludente dal punto di vista tecnico e va detto che, anche sotto l’aspetto compositivo, Tardigrades Will Inherit The Earth mostra a tratti un caratura di livello superiore alla media.
A lungo andare, infatti, è possibile apprezzare le ottime linee melodiche offerte con la prevedibile perizia, oltre a familiarizzare con la voce di Nick, stranamente molto efficace sui toni medio altri ma piuttosto piatta ed impersonale su quelli più bassi.
La varietà stilistica è un altro punto di forza dell’album, in cui si passa da tracce più ritmate e robuste come la trascinante title track, Animal Army e The Dumbing Of The Stupid, agli umori decismente oscuri di We Can’t Carry On, fino alle più sudenti ed emotive Stranger Than Fiction, Early Warning, Window Onto The Sun e soptattutto la stupenda e prevalentemente acustica The Singing Fish Of Batticaloa, riguardo al cui testo Beggs ha dichiarato: “Ho scritto la canzone immaginando che questi pesci, con il loro canto, forse stanno cercando di comunicarci qualcosa riguardo al futuro e ci mettono in guardia sulla nostra fine imminente”.
Rispetto al precedente album viene meno la collaborazione dei diversi ospiti che avevano contribuito ad arricchirne per un verso il contenuto ma forse, per un altro, a deviare parzialmente l’attenzione dall’operato di questi tre ottimi musicisti i quali, pur senza aver dato alla luce un’opera epocale, ci regalano un qualcosa di ugualmente prezioso e meritevole d’attenzione, sia dal punto di vista lirico che musicale.

Tracklist:
1 Saltatio Mortis
2 Animal Army
3 We Can’t Carry On
4 The Dumbing Of The Stupid
5 Early Warning
6 Tardigrades Will Inherit The Earth
7 Window Onto The Sun
8 Lament
9 The Singing Fish Of Batticaloa
10 The Andromeda Strain
11 Stranger Than Fiction

Line-up:
Nick Beggs: string basses, guitars, Chapman Stick, programming, keyboards and vocals
Roger King: keyboards, programming, guitars, backing vocals, production and mastering
Marco Minnemann: drums, additional guitars

THE MUTE GODS – Facebook

Haemophagus – Stream Of Shadows

Più aggressivo e grind rispetto al suo predecessore, Stream Of Shadows continua comunque a far risplendere la vena creativa di questa miniera d’oro musicale che è la Palermo dell’underground.

Atrocious, full length uscito tre anni fa, era un’opera death metal che portava in sé molte delle varie correnti estreme del genere, dal grind al progressive ma non il classico prog metal di moda in questi anni, piuttosto un quid settantiano che, unito a rallentamenti doom, portavano nei brani dell’album un’atmosfera soffocante, pregna di polveroso mistero.

Il gruppo palermitano, nato in una scena che pullula di talenti e che ha dato i natali ad una manciata di band da considerare di culto nell’underground metal/rock, torna con Stream Of Shadows: più aggressivo e grind rispetto al suo predecessore, l’album continua comunque a far risplendere la vena creativa di questa miniera d’oro musicale che è la Palermo del sottosuolo.
Gli Haemophagus, pur ribadendo il loro forte impatto, non risparmiano escursioni nelle atmosfere progressive alla King Crimson (Meteor Mind) grazie al sax di Giorgio Trombino, così come i soffocanti rallentamenti che questa volta più che i Cathedral ricordano i primi Morbid Angel.
Estremo, violentissimo, un abisso di morte dove si viene sballottati tra i vari generi del death metal più violento e (se mi passate il termine) meno commerciale, dove le melodie sono nascoste all’ombra di ritmiche dal groove maligno, il suono porta con sé l’umidità di un pozzo di cadaveri e l’atmosfera si mantiene irrespirabile, mentre i brani si succedono e il gruppo snocciola non solo atmosfere dai temi horror, ma introduce tematiche di allucinata fantascienza (Blastmaniacom!, Innergetic e Meteor Mind).
Registrato e mixato a Palermo da Silvio “Spadino”, Stream Of Passion è stato masterizzato da Dan Randall presso i Mammoth Sound Mastering di Alameda in California, mentre il gruppo, oltre al polistrumentista e cantante, si completa con Gioele (chitarra e voce) e David (batteria).
Gli Haemophagus mettono la firma sull’ennesimo notevole lavoro e chi non conoscesse questi fantastici musicisti è invitato ad ascoltare la devastante Monochrome, spettacolare nel suo stacco centrale dai rimandi fusion,  e lo strumentale conclusivo The Darkest Trip, praticamente i King Crimson di Red in versione death metal.

TRACKLIST
1. Shadowline
2. Tombtown
3. Blastmaniacom!
4. Deranger
5. Meteor Mind
6. Electric Circles in a Yellow Sky
7. Captured from Above
8. Innergetic
9. The Cosmicorpse
10. Infectious Domain
11. Monochrome
12. Unrestrained
13. Twisted Syllables
14. The Darkest Trip

LINE-UP
Giorgio – guitars, bass, vocals, synth, sax alto
Gioele – guitars, vocals
David – drums

HAEMOPHAGUS – Facebook

Kadinja – Ascendancy

Se l’idea era quella di rendere ultra-tecnico un genere che si basa principalmente sull’impatto, i Kadinja riescono nell’impresa solo a sprazzi, mentre trovo ormai superato l’uso della doppia voce, specialmente se non si è maestri nel far funzionare un abbinamento che negli ultimi tempi sta tirando la corda.

Prendete un gruppo di giovani metallari dal suono moderno ed in linea con il metalcore, ma con la voglia matta di sfoggiare la loro ottima tecnica, usando i cliché tipici del prog metal ed avrete in mano il sound di Ascendancy, full length dei Kadinja.

Il quintetto francese, proveniente dalla capitale, non le manda certo a dire e abbina un devastante ma comunque melodico metal moderno, con il prog metal, un’aggressività che viene nobilitata da intricate ritmiche e da un lavoro delle sei corde che passa dal classico melodico/stoppato a fughe sul manico che riportano al genere più tecnico per eccellenza.
Il problema maggiore di questo album è che risulta un po’ freddino, e il metal estremo abbinato alla tecnica, spesso fine a sé stessa, produce un effetto caotico che non giova alla fruibilità della musica prodotta dal combo transalpino.
I momenti migliori, infatti, si mostrano quando l’aggressività si placa per lasciare spazio alla melodia, momenti nascosti tra i vari brani che risultano poco emozionali e, alla lunga, pervasi da una ripetitività di fondo che non aiuta certo l’attenzione dell’ascoltatore già provato nel seguire l’intricata ragnatela di note in brani come le due parti di Episteme, A November Day o Bittersweet Guilt.
Se l’idea era quella di rendere ultra-tecnico un genere che si basa principalmente sull’impatto, i Kadinja riescono nell’impresa solo a sprazzi, mentre trovo ormai superato l’uso della doppia voce, specialmente se non si è maestri nel far funzionare un abbinamento che negli ultimi tempi sta tirando la corda.
Ascendancy raggiunge la sufficienza ma nulla più, le potenzialità ci sono ma vanno sfruttate meglio da parte del gruppo francese.

TRACKLIST
01. Stone of Mourning
02. Glhf
03. Episteme
04. Episteme Part II
05. ‘Til the Ground Disappears
06. A November Day
07. Dominique
08. Ropes of You
09. Bittersweet Guilt
10. Seven (The Stick Figures)

LINE-UP
Philippe Charny Dewandre – Vocals
Pierre Danel – Guitars
JJ Groove – Bass
Nicolas Hørbacz – Guitars
Morgan Berthet – Drums

KADINJA – Facebook

Naudiz – Wulfasa Kunja

Un disco come questo riporta alla sorgente stessa del concetto di black metal, dato che ha in sé tutte le caratteristiche migliori del genere.

Puro, devastante e senza compromessi black metal pagano, che più nero e pagano non si potrebbe.

Gli italiani Naudiz tornano con un secondo disco per la Iron Bonehead Productions, ed alzano ulteriormente l’asticella rispetto al disco precedente, Aftur till Ginnungagaps, che era già su ottimi livelli. Il black metal dei Naudiz è di concezione classica, ovvero chitarre non troppo distorte ma belle corpose e veloci, voce in clean e potente, e batteria al fulmicotone. Il risultato è molto interessante, regalando un gran disco di black metal, come è sempre più difficile ascoltarne. Con ciò qui non si vuole affermare che fosse meglio prima, anche perché il black metal ha moltissime declinazioni, e bisogna ascoltare caso per caso. Un disco come questo riporta alla sorgente stessa del concetto di black metal, dato che ha in sé tutte le caratteristiche migliori del genere. Wulfasa Kunja è soprattutto un disco pagano, che descrive il mondo e la religione nordica con competenza, come fanno i Naudiz fin dal primo disco. Non si sa granché di questo gruppo, ma non interessa nemmeno, dato che la potenza e la godibilità di questo lavoro sono molto esaurienti di per sé. Gli argomenti trattati sono tutti inerenti alla mitologia nordica, un substrato antichissimo che non è mai veramente morto, e che ha resistito più tenacemente delle nostre tradizioni pagane, che invece hanno perso molto presto la battaglia con il cristianesimo. Il mondo descritto in questo disco è radicalmente differente dal nostro, è più vicino di noi al caos primordiale, e sa che prima o poi finirà, e non ci sarà nessuna ricompensa. I Naudiz sono bravissimi nel mettere in musica questo differente sentire, che è maggiormente veritiero rispetto alle nostre menzogne quotidiane. Siete pronti per un ragnarok di black metal ? Una delle migliori uscite di quest’anno per il vero black metal.

TRACKLIST
01 Garmr
02 Vali ok Nari
03 Jarnvidr
04 Angrboda
05 Loki
06 Geri ok Freki
07 Vanargandr
08 Wulfasa Kunja

LINE-UP
ᛗᚲ: Guitars
ᚢᛞ: Bass, Vocals
ᛗᛞ: Drums

NAUDIZ – Facebook

Rainforce – Lion’s Den

Lion’s Den è il debutto per i Rainforce, quindi perdoniamo qualche passaggio a vuoto e promuoviamo il gruppo, che in futuro potrà solo migliorare partendo dalle cose buone che, fortunatamente, non sono poche.

Arrivano al debutto i rockers svizzeri Rainforce e lo fanno con un concentrato di nitroglicerina hard rock dal titolo Lion’s Den.

La band fondata dal chitarrista Andy La Morte vede Matt Brand al basso, Benjamin Mann alle pelli, il singer Jordan Cutajar più vari ospiti, tra cui Kevin Wright ex Jacob’s Dream.
La proposta del gruppo è un hard rock di matrice centro europea, del resto i Rainforce appartengono a tale area geografica e non fanno niente per nasconderlo, neppure nel sound che richiama lo stile degli storici Krokus, un ‘icona dell’hard rock aldilà delle Alpi.
Dunque, Lion’s Den mantiene quello che promette un album di genere: ritmiche hard & heavy, voce al vetriolo, chorus da cantare come se non ci fosse un domani sotto ad un palco (anche se a tratti risultano leggermente forzati) e solos di estrazione heavy ottantiana che può portare al gruppo qualche fan dai gusti metallici in più.
Niente di più classico che farsi sballottare dalle grintose My Rock e Feed Me (I’m Hungry), mentre la title track lascia qualche dubbio con il suo refrain ripetuto all’infinito.
L’album scorre così tra alti (la bluesy New Jerusalem) e bassi (lo strumentale Speechless), mentre Desert Sand è il classico brano anni ottanta tra Ac/Dc, Krokus ed arena rock, e The Gods Have Failed ha un andamento riscontrabile nel rock di fine anni settanta; proprio l’alternarsi tra brani riusciti ed altri meno convincenti porta ad usare il tasto numerico del vostro lettore più volte.
Lion’s Den è comunque il debutto per i Rainforce, quindi perdoniamo qualche passaggio a vuoto e promuoviamo il gruppo, che in futuro potrà solo migliorare partendo dalle cose buone che, fortunatamente, non sono poche.

TRACKLIST
01. Lion’s Den (with Philipp Rölli)
02. My Rock (with Rex D. Scott)
03. Feed Me (I’m Hungry)
04. I Am Yours (with Rex Carroll)
05. Speechless (with Philipp Rölli)
06. New Jerusalem (with Hämu Plüss)
07. Desert Sand (with Jim LaVerde)
08. The Gods Have Failed (with Philippe “The Greis” Kreis)
09. He Came To Set The Captives Free (with Oliver Schneider & Philipp Rölli)
10. Shine A Light (with Kevin Wright & Philipp Rölli)

LINE-UP
Jordan Cutajar – lead vocals
Andy La Morte – guitars
Matt Brand – bass
Benjamin Mann – drums

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Mosaic – Old Man’s Wyntar

Supreme Thuringian Folklore …come spesso accade nell’underground si celano grandi realtà per “open-minded people”.

Spettacolare riedizione (la quarta in tre anni) da parte della tedesca Eisenwald dell’ep Old Man’s Wyntar dei Mosaic, che in realtà nascondono le gesta musicali di un solo artista, Inkantator Koura, accompagnato da altri musicisti (Leshiyas, Scorpios, Maya e altri).

Le tre precedenti edizioni non sono neanche lontanamente paragonabili alla magnificenza dell’ attuale packakging in A5 digibook con testi tedesco e inglese, con intervista all’artista e storia del concept; inoltre, per rendere imperdibile il tutto e’ stato aggiunto un terzo capitolo intitolato Joyful reminiscense and sacred eyes. Inkantator Koura narra di un concept riguardo a winter journey through ancient mysticism and bittersweet darkness e lo fa creando un masterpiece, stratificando suoni black metal, neofolk, ambient, experimental trascinando l’ascoltatore in un vortice di emozioni varianti dall’ incanto alla melanconia, dall’orgoglio alla oscurità, dalla disperazione alla estasi. L’opera alterna momenti folk e neo folk struggenti e dolorosi con parti black raramente esasperate o ritmicamente forsennate, ma cariche di fierezza e disperazione; la struttura è complessa a formare una materia cangiante che sfida l’ascoltatore ad entrare in un regno di freddo e oscurità omaggiante la stagione invernale. L’opera originaria, edita nel 2014, nelle parole dell’autore intesa come un omaggio a Paysage d’Hiver, entità guidata da Wintherr (ora anche nei Darkspace), si divide in due capitoli: il primo, Awakening & Snowfall, inizia con Incipit:Geherre, una litania ovattata sferzata da un gelido vento, per poi proseguire con Onset of Wyntar, brano a tinte black molto atmosferico con Inkantator che declama le sue lyrickal magick.
Il terzo brano Im Winter, che conclude il primo capitolo, profuma di immobili e infiniti ghiacci e mi ha ricordato echi, probabilmente non voluti, di una leggenda Krauta di acidfolk, gli Amon Duul II (qualche vecchio ascoltatore ricorderà); il secondo capitolo, …of Magick and Darkness, presenta Snowscape, un breve viaggio guidato da una tersa melodia,White gloom, un fiero inno black come un lupo in cerca di prede da dilaniare, mentre in the darkness the wind still blows… e Black Glimmer, spettrale e salmodiante racconto ricco di tensione per un posto in cui …nothing shall be green here, for as long as winter reigns. Il terzo capitolo, Joyful reminiscense and sacred eyes, presenta altri tre brani che completano il concept, Silent world, holy awe, oscuro e acido folk rock ,Vom ersten schnee/a tale of mother Hulda dove una nonna, su note molto malinconiche, narra al nipote l’origine della neve; il finale Silver Nights, della durata di circa venti minuti (l’opera dura in tutto molto più di un’ora) chiude su intense, atmosferiche ed epiche note black un lavoro molto particolare, originale, di non facile assimilazione e, come chiosa Inkantator, …for candid, open minded people that take an umbiased approach to music and don’t need to sort everything into stereotyped thinking.

TRACKLIST
1.Incipit: Geherre
2.Onset of Wyntar
3.Im Winter
4.Snowscape
5.White Gloom
6.Black Glimmer
7.Silent World, Holy Awe
8.Vom ersten Schnee
9.Silver Nights

LINE-UP
Inkantator Koura – all instruments and vocals

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