Radio Free Universe – Casa Del Diablo

Casa Del Diablo è consigliato senza riserve ai rockers dai gusti vintage, genere che di questi tempi regala bellissimi lavori come caramelle e dolcetti il giorno di Halloween!

Cosa si suona nella casa del diavolo se non hard rock blues?

Magari come fanno i canadesi Radio Free Universe, che al rock vintage dai rimandi settantiani aggiungono dosi letali di grunge ed alternative così da creare una proposta dall’appeal altissimo e per tutti i gusti.
Ottimo debutto quindi per la band proveniente dal lago Ontario, che dalle frequenze della propria radio riempie l’atmosfera di rock sanguigno con un lotto di canzoni davvero belle e per giunta varie, passando da riff scolpiti sulla roccia scalata da Jimmy Page su The Song Remains The Same, al selvaggio hard rock cantato da Chris Cornell nei primi album dei Soundgarden, senza farci mancare poi atmosfere psichedeliche tipiche degli anni dove comandava la cultura flower power, con sfumature orientaleggianti dal retrogusto acido (Butterfly).
Mixato e masterizzato da Glen Robinson (Voivod) e distribuito dalla Jet Pack, l’album ci accoglie nella casa del diavolo che, passato l’uscio si presenta come un giardino fiorito, un labirinto di musica rock dove ad ogni angolo troviamo le icone della nostra musica preferita intente a riprodurre leggendarie armonie, riprese da una serie di album immortali (Led Zeppelin II, Louder Than Love, Deep Purple In Rock, Southern Harmony And Musical Companion), mentre un buffet di funghi allucinogeni ed insalate di erbe magiche ci aspetta per saziarci e farci perdere tra le stanze e gli anfratti della diabolica casa/giardino.
Ed infatti Magnolia Girl è un blues distorto che ipnotizza, prima che l’atmosfera sixties di The Rest Of Us ci abbandoni tra le sinuose forme di una sacerdotessa hippy, con noi ancora storditi dal riffone di 18 Wheels creato da Page ma suonato da Iommi.
Dirty Little Things è un blues sabbathiano, mentre ci sembra che le armonie acustiche e vocali prese da Led Zeppelin III di Armageddon Road chiudano definitivamente ogni speranza di uscire dall’infernale casa, ma è un attimo ritrovare la strada con le ariose hard rock songs che avvicinano l’album alla conclusione (Rhythm And Bones e Happy)
Esordio più che positivo per la band canadese, Casa Del Diablo è consigliato senza riserve ai rockers dai gusti vintage, genere che di questi tempi regala bellissimi lavori come caramelle e dolcetti il giorno di Halloween!

TRACKLIST
1. American Gun
2. Disclosure
3. 18 Wheels
4. Butterfly
5. DMT
6. Six
7. Magnolia Girl
8. The Rest of Us
9. Dirty Little Things
10. Rhythm and Bones
11. Happy
12. Armageddon Road

LINE-UP
George Panagopoulos – Vocalist, lyricist
Ryan DavieBackup – Vocalist, guitarist
Ashton Norman – Drums
Adam Neumann – Backing vocals, bass

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Ever Circling Wolves – Of Woe or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Gloom

Of Woe … è il tipico album che necessita di diversi ascolti prima d’essere assimilato al meglio, a causa dell’esplicito intento, da parte degli Ever Circling Wolves, di non appiattirsi sulle posizioni delle band guida, cercando invece di trovare una strada sufficientemente personale.

Gli Ever Circling Wolves arrivano da Helsinki e, quindi, la loro provenienza costituisce una sorta di marchio di qualità quando si parla di death doom dalle inclinazioni melodiche.

Nonostante ciò, le presumibili forti influenze di Swallow The Sum e co. non si fanno sentire più di tanto, perché i nostri prediligono un approccio piuttosto particolare, affidandosi per lo più ad un riffing secco e ritmato e rinunciando sostanzialmente all’apporto delle tastiere. Anche per questo il lavoro, cosi come il sound della band, appare saltellante e talvolta dispersivo ad un primo ascolto: non a caso il meglio lo si percepisce proprio negli episodi più convenzionali, quelli in cui il sound rallenta lasciandosi guidare dalle melodie chitarristiche.
Emblematica in tal senso è la traccia finale These Are Ashes, These Are Roots, perfetta esibizione di death doom dolente e malinconico, ma tutto questo non deve far pensare che il resto del lavoro sia trascurabile: semplicemente Of Woe … è il tipico album che necessita di diversi ascolti prima d’essere assimilato al meglio, a causa dell’esplicito intento, da parte degli Ever Circling Wolves, di non appiattirsi sulle posizioni delle band guida, cercando invece di trovare una strada sufficientemente personale.
L’operazione riesce piuttosto bene, visto che il death doom del gruppo di Helsinki, screziato da intriganti sfumature sludge (Haunted) e post metal (Challenger Deep), convince non poco a lungo andare, anche se poi sono comunque gli episodi più “classici” a risaltare per il loro carico melodico ed emotivo (assieme alla già citata These Are Ashes, These Are Roots, va segnalata anche In The Trench).
Molto interessante anche una canzone come Lenore,dallo sviluppo particolare visto che, dopo una metà fatta di un riffing abbastanza compatto si apre in una parte corale in stile Novembers Doom, per poi defluire in un bel crescendo di chiatarra, elettrica prima ed acustica infine.
L’album ha avuto una gestazione lunga, dato che parte dei brani trova la sua genesi all’inizio del decennio, subito dopo l’uscita del full length d’esordio The Silence From Your Room, e questo fa pensare che i diversi rivoli stilistici rinvenibili nel lavoro siano dovuti all’inevitabile trascorrere del tempo, oltre che all’evolversi come musicisti da parte di Otto Forsberg ed Henri Harell.
In definitiva, Of Woe or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Gloom è un buonissimo disco (oltre che un bel titolo), che necessità però di qualche ascolto in più rispetto al dovuto per coglierne l’essenza e, magari, imparare davvero come smettere di preoccuparsi, accettando il lato oscuro dell’esistenza …

Tracklist:
1. Sunrise Has Gone
2. Coeur
3. Haunted
4. In The Trench
5. Challenger Deep
6. Deeper
7. Lenore
8. Ibn Qirtaiba
9. These Are Ashes, These Are Roots

Line up:
Otto Forsberg – Guitar
Henri Harell – Guitar, Vocals
Niko Karjalainen – Drums
Sami Nevala – Bass

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Within The Ruins – Halfway Human

Halfway Human si piazza nelle migliori uscite di questo inizio anno per quanto riguarda il deathcore e, in tempi di dischi tutti uguali, non possiamo che fare i complimenti ai quattro musicisti americani.

E’ superfluo continuare a scrivere che il metal estremo moderno dai rimandi core ha tirato la corda: si sa che, quando un genere crea interesse nei fans, la scena stessa viene invasa da centinaia di gruppi che provano a cavalcare l’onda; molte falliscono miseramente ma altre, pur non arrivando al successo, si creano un loro seguito continuando a sfornare album meritevoli d’attenzione.

Un esempio ne sono gli statunitensi Within The Ruins, quartetto proveniente dal Massachusetts, che l’anno scorso ha festeggiato i dieci anni di attività e con questo nuovo lavoro a rimpinguare una già folta discografia.
Siamo al quinto album infatti, lanciato sul mercato tre anni di distanza dal precedente Phenomena, non male di questi tempi se aggiungiamo i due ep usciti ad inizio carriera, con la band non ancora stanca di devastare i padiglioni auricolari dei giovani metallers dai gusti moderni con la loro proposta violentissima, oscura ma dal gusto particolare nel saper far convivere ritmiche sincopate e stop and go tipici del genere, grazie ad un lavoro chitarristico raffinato e progressivo (sempre in un contesto estremo) e con quei piccoli dettagli nel songwriting che fanno la differenza sulla massa.
Non fraintendetemi, Halfway Human non è un lavoro che spicca in originalità anzi, il suo percorso stilistico è un approdo del gruppo al massimo che il genere può dare in termini qualitativi, ma è indubbia l’abilità dei nostri nel saper incastrare i tasselli del loro puzzle musicale al posto giusto, rendendo l’album scorrevole e violentemente piacevole all’ascolto.
D’altronde, viene difficile pensare che un gruppo di origine americana possa toppare in quello che ha insegnato in tutto il mondo, suonare death metal contaminandolo con l’hardcore e l’industrial.
Detto di un uso delle due voci molto ben congegnato e di un lavoro chitarristico sopra la media, lasciate che il gruppo vi investa con il suo carro armato che, senza tregua, lancia bordate come l’opener Shape-Shifter, Bittersweet, Absolution e la melodic death oriented Ataxia No.4, brano strumentale da applausi.
Halfway Human si piazza nelle migliori uscite di questo inizio anno per quanto riguarda il deathcore e, in tempi di dischi tutti uguali, non possiamo che fare i complimenti ai quattro musicisti americani.

TRACKLIST
1.Shape Shifter
2.Death of the Rock Star
3.Beautiful Agony
4.Incomplete Harmony
5.Bittersweet
6.Objetive Reality
7.Absolution
8.Ivory Tower
9.Sky Splitter
10.Ataxia IV
11.Treadstone

LINE-UP
Tim Goergen – Vocals
Joe Cocchi – Guitar
Paolo Galang – Bass
Kevin “Drummer” McGuill – Drums

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Förgjord – Uhripuu

Uhripuu è un gran disco, senza compromessi e con ottime melodie, ed è un’opera da non lasciarsi assolutamente scappare.

Terzo album per i Förgjord , leggendario gruppo finnico attivo da metà degli anni novanta.

Formati in concomitanza con l’epoca aurea del black, i Förgjord sono un gruppo che ha prodotto poco ma tutto di estrema qualità. Il loro suono è un black classico molto devoto alla tradizione finnica del genere, quindi assai fedele al passato ma molto efficace. La loro caratteristica principale è quella di saper creare un pathos notevole, riuscendo a scolpire nella mente dell’ascoltatore melodie ben precise, sotterrate sotto tonnellate di riffs e distorsioni. La voce è un growl senza tregua, con la chitarra perfettamente distorta in stile black e la batteria costantemente all’assalto. In generale il suono non è molto dissimile da quello di molte altre band, ma è profondamente diverso il risultato, essendo davvero notevole l’empatia che riescono a scatenare. Black metal in giro ce n’è molto ma difficilmente riesce a raggiungere queste vette, coinvolgendo totalmente e direttamente, portandoci in un nero vortice di ossa e neve. La scuola finlandese, ed in particolare le uscite della Werewolf Records, qui in collaborazione con la Hells Headbangers, è di grande interesse, e ultimamente sta continuando a tenere elevata la qualità delle sue uscite, confermando la Finlandia come una delle terre promesse, o maledette, del metal, e del black in particolare. Uhripuu è un gran disco, senza compromessi e con ottime melodie, ed è un’opera da non lasciarsi assolutamente scappare.

TRACKLIST
1.Johdanto
2.Uhripuu
3.Kuolleiden Yö
4.Täyttymys
5.Vahvempi Kuin Koskaan
6.Nälkämaan Laulu
7.Kiviseen Syleilyyn
8.Tie, Totuus Ja Kuolema
9.Ovat Korpit Pois Lentäneet

LINE-UP
Valgrinder – Guitars, Bass
Prokrustes Thanatos – Vocals, Drums
BLK – Drums

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Angel Martyr – Black Book: Chapter One

Chapter One è consigliato ai defenders dai gusti tradizionali, che troveranno di che crogiolarsi tra le cavalcate fiere ed epiche create dal trio toscano.

Debutto sulla lunga distanza per gli speed/power metallers Angel Martyr, trio toscano che porta, tramite Iron Shield, una ventata di metallo classico, old school, fiero ed epico il giusto per inorgoglire i defenders di lunga data.

Il gruppo nasce dalle ceneri dei Wraith’sing, band attiva già dal 2006 dopo quattro anni di attività, purtroppo sempre condizionato dai numerosi cambi di line up: il trio dal nuovo monicker trova stabilità nel corso degli anni con il sempre presente Tiziano “Hammerhead” Sbaragli (ex Etrusgrave), chitarra e voce, il bassista Dario “Destroyer Rostix” Rosteni ed il batterista Francesco Taddei.
Black Book: Chapter One, segue di due anni l’ep Black Tales – Prelude e continua a raccontare di battaglie epiche e storie fantasy, mentre l’heavy metal ottantiano si potenzia di energia power e velocità speed, a tratti sostenuta anche se non mancano mid tempo e cavalcate di matrice maideniana.
Trame acustiche spezzano l’assalto sonoro ed il clima da battaglia delle canzoni, che portano con se tutta la fierezza del metal classico.
Il sound prodotto dal gruppo, che nell’album raggiunge l’apice nelle notevoli Eric The Conqueror e On The Divine Battlefield (che ricorda con il suo flavour scozzese le atmosfere di Tunes Of War, capolavoro dei Grave Digger), è di fatto un esempio di new wave of british heavy metal, dove non poca importanza hanno gli insegnamenti del maestro Steve Harris riletti in versione speed/power, quindi si sprecano tra lo spartito veloci cavalcate, ritmiche sparate, mid tempo di orgoglioso metallo pesante e tutta la serie di ingredienti per fare di un album heavy metal un manifesto di epica fierezza.
Iron Maiden, power metal di scuola tedesca, accenni all’epic metal classico e tanta attitudine e passione: se vi considerate veri defenders, Black Book: Chapter One è l’opera metallica che fa per voi.

TRACKLIST
1. Obsequies
2. They. … Among Us
3. Victims
4. Eric The Conqueror
5. Midnight Traveller
6. Turn On The Fire
7. Pirate Song
8. On The Divine Battlefield
9. Angel Martyr

LINE-UP
Francesco Taddei – drums
Dario Rosteni – bass
Tiziano Sbaragli – vocals, guitars

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