Il video di My Only Faith, tratto dall’album Domino in uscita ad aprile (Scarlet Records).
SINHERESY
Il video di My Only Faith, tratto dall’album Domino in uscita ad aprile (Scarlet Records).
Il video di My Only Faith, tratto dall’album Domino in uscita ad aprile (Scarlet Records).
Il video di My Only Faith, tratto dall’album Domino in uscita ad aprile (Scarlet Records).
Il video di Deranger, tratto dall’album Stream Of Shadows (Selfmadegod Records).
Il video di Deranger, tratto dall’album Stream Of Shadows (Selfmadegod Records).
Giunti al terzo album dopo quasi 13 anni di onorata carriera nell’under-grind, gli Haemophagus da Palermo confezionano ora il loro lavoro più allucinato e ossessivo. Stream of Shadows, primo lavoro del gruppo dall’uscita del bassista Gas, conterrà infatti 14 nuove tracce di feroce horror metal impregnato di death, grind e thrash. Oltre alle consuete tematiche orrorifiche, il gruppo snocciola incursioni nella fantascienza e nei cortocircuiti logici della mente umana: uomini intrappolati in flipper (Blastmaniacom!), la resistenza del Buddha alle schiere di demoni del Dio della Morte Mara (Innergetic) e scenari distopici di società futuristiche dominate dalla tecnocrazia (Meteor Mind) inaugurano sonorità visionarie riflesse in un sound quanto mai estremo, schizofrenico e sanguinolento. La copertina ad opera di Luis Sendón (Nashul, MacabreE, Obscene Extreme Festival Festival, Collision) sintetizza il concetto senza ricorrere a compromessi. Registrato e mixato ancora una volta a Palermo ai Tone Deaf Studio di Silvio “Spadino” Punzo e masterizzato da Dan Randall ai Mammoth Sound Mastering di Alameda, California (studio noto per il lavoro con Sodom, Ghoul, Spazz, Iron Reagan), Stream of Shadows uscirà il 20 marzo in cd per la polacca Selfmadegod Records e in vinile per tedesca Lycanthropic Chants Records.
Gli Haemophagus nascono a Palermo nel 2004 nel segno dell’adorazione verso nomi immortali come Repulsion, Autopsy, Napalm Death, Carcass, Death, Pungent Stench o Black Sabbath.
Attraverso vari cambi di formazione e con i soli David alla batteria e Giorgio alla chitarra e voce come membri fissi, gli Haemophagus hanno sempre percorso i sentieri più fetidi del death metal, del grindcore e del thrash, pubblicando tre album (Slaves to the Necromancer nel 2009, Atrocious nel 2013, e Stream of Shadows nel 2017) nonché un’ampia manciata di split con gruppi come Agathocles, Bonesaw, Grind Crusher, Repuked e così via.
Un’intensa attività live li ha portati in giro per buona parte d’Europa, con concerti nei principali festival di musica estrema (Obscene Extreme, Inferno Festival, Bloodshed Fest, Blutsvente).
Severed Monolith sarà apprezzato dagli amanti del death metal diretto e distruttivo, perché se si pensa di trovare qualcosa di simile alla melodia è meglio guardare altrove, qui c’è solo massacro.
Stiamo ancora viaggiando a pieno regime per quanto riguarda il filone old school del death metal: le band che si affacciano nel mondo estremo underground sono, nella maggior parte dei casi, ottime eredi dei gruppi storici nati negli anni novanta.
I finlandesi Gorephilia fanno parte dell’ultima ondata di gruppi dediti alle sonorità classiche, e Severed Monolith segue di cinque anni l’esordio Embodiment Of Death e tre lavori minori mentre si avvicinano al decimo anno di attività.
La band non ha certo perso lo smalto che ne aveva caratterizzato gli inizi, anche questo album corre su ritmiche oscure e devastanti con un occhio particolare per i primi Morbid Angel, senza dimenticare chiaramente la lezione scandinava.
Il quintetto di Vantaa imprime una forza disumana al sound estremo di cui è composto Severed Monolith, creando un lavoro devastante e monolitico, magari non così vario ma dall’impressionate forza d’urto.
Senza compromessi, i Gorephilia ci invitano al massacro, non concedono quasi nulla in melodia e attaccano senza pietà con una serie di brani che hanno nella terribile Black Horns, il punto più sadico di questa carneficina, seguita dalla disumana Return To The Dark Space.
Gli altri brani seguono pedissequamente le coordinate di queste due tracce, con le ritmiche che si mantengono su velocità alte, il growl da demone perverso ed una atmosfera da fine del mondo riscontrabile proprio nei primi lavori dei Morbid Angel.
Severed Monolith sarà apprezzato dagli amanti del death metal diretto e distruttivo, perché se si pensa di trovare qualcosa di simile alla melodia è meglio guardare altrove, qui c’è solo massacro.
TRACKLIST
1. Interplanar 2
2. Hellfire
3. Harmageddon of Souls
4. Words That Solve Problems
5. Black Horns
6. The Ravenous Storm
7. Return to Dark Space
8. Eternity
9. Crushed Under the Weight of God
LINE-UP
Henry Kuula – Vomit
Tami Luukkonen – Bass
Jukka Aho – Guitar
Pauli Gurko – Guitar
Kauko Kuusisalo – Battery
Un album ad esclusivo uso e consumo dei fruitori del prog rock moderno e della musica gravitante attorno a Steve Wilson.
Quarto album solista per Tim Bowness, cantante e autore inglese che molti progsters ricorderanno nei No-Man in compagnia del leader dei Porcupine Tree Steve Wilson.
L’artista si circonda di una manciata di nomi altisonanti della musica progressiva mondiale come Ian Anderson, Andrew Keeling, Stephen Bennet (Henry Fool), Colin Edwin (Porcupine Tree), Brice Soord (The Pineapple Thief) tra gli altri, e con Steve Wilson dietro alla consolle crea questo concept sulla vita di un musicista e tutto ciò che circonda il mondo.
Il progressive rock di Tim Bowness è delicato, suadente, moderno nella concezione ma purtroppo monocorde: le canzoni, alcune comunque davvero belle, alla lunga non decollano e rimangono impantanate in un rock d’autore ma nulla più.
Manca la canzone che traini l’album, assolutamente obbligatoria anche in un genere come il progressive rock, nel quale le derive moderne hanno portato la musica su territori pericolosissimi, dove la linea tra un capolavoro atmosferico ed intimista ed una lenta agonia musicale è sottilissima.
Peccato, perché a tratti l’ascolto è piacevole anche se non si va mai oltre il compitino con melodie pinkfloydiane, accenni al gruppo di Wilson ed un rock semiacustico a cui manca una melodia che distolga dall’andamento monotematico che, dalla prima canzone, attanaglia questo Lost In The Ghost Of Light.
Certo è che se il concept si ispira alla vita di un musicista a fine carriera, musicalmente viene descritto più il nostalgico canto del cigno che non le bizze di gioventù: nel finale, You Wanted To Be Seen si pone come picco più alto del disco, essendo una traccia ariosa e ritmicamente più varia rispetto all’andamento generale dell’album, che risulta così ad uso e consumo dei soli fruitori del prog rock moderno e della musica del gruppo di Steve Wilson.
TRACKLIST
01. Worlds Of Yesterday
02. Moonshot Manchild
03. Kill The Pain That’s Killing You
04. Nowhere Good To Go
05. You’ll Be The Silence
06. Lost In The Ghost Light
07. You Wanted To Be Seen
08. Distant Summers
LINE-UP
Tim Bowness
Colin Edwin (Porcupine Tree)
Bruce Soord (The Pineapple Thief / Katatonia)
Hux Nettermalm (Paatos)
Stephen Bennett (Henry Fool / No-Man)
Andrew Booker (Sanguine Hum / No-Man)
Ian Anderson (Jethro Tull)
Kit Watkins (Happy The Man / Camel)
Andrew Keeling (Hilliard Ensemble / Robert Fripp)
Steve Bingham (Ely Sinfonia / No-Man)
David Rhodes (Peter Gabriel / Kate Bush / Scott Walker)
…Ladies & Gentlemen ci presenta gli sleazy glam rockers Groupie High School, una band pronta per l’importante passo del full length che sicuramente non tarderà, sotto l’ala della Atomic Stuff.
La Scandinavia non è solo terra di metal estremo ma in essa prospera anche una radicata scena hard rock.
Da un po’ di anni pure i suoni sleazy e street vi hanno trovato la tana per leccarsi le ferite dopo gli anni di autodistruzione del periodo ottantiano, con la Finlandia che è entrata prepotentemente in gioco con una serie di band tra le quali questi Groupie High School sono uno dei più esplosivi esempi.
La Atomic Stuff, label nostrana dal gran fiuto quando si parla di queste sonorità, non se li è fatta scappare ed ora …Ladies & Gentlemen, secondo ep autoprodotto, ci viene proposto in tutta la sua esplosiva carica rock ‘n’ roll, o come lo volete chiamare, un’irresistibile scarica elettrica di sleazy, street, glam metal irriverente, a suo modo ignorantissimo e dalla carica sessuale di un toro da monta.
Sei brani più un’intro recitata, una ventina di minuti abbondanti in balia delle note infuocate sul Sunset Boulevard, un missile sparato tra le chiappe dei benpensanti al ritmo indiavolato di un party losangelino.
E mentre gentili donzelle godono lascive sotto i colpi dell’ ambigua Chick With The Flips, il metal sporcato dalla polvere della strada di Liquid Lunch ci porta sotto un palco di un qualsiasi locale, perso nella notte, mentre i gruppi storici che hanno fatto la storia della scena vengono passati in rassegna con le note ruffiane della ballad Hard To Breathe, scontata quanto si vuole ma perfetta per sciogliere le ultime resistenze della signorina bionda inquadrata a lato palco.
L’attitudine c’è, la voglia di sfondare pure, il talento tutto scandinavo per queste sonorità non manca di certo, confermato dall’irresistibile This Is How We Say Goodbye, brano che si prende lo scettro di top song dell’ep, dal piglio punk, robusta ed aggressiva il giusto per sfondare crani in sede live, mentre un piano indiavolato in sottofondo tiene il brano ancorato al rock’n’roll.
Navy Blue ha un approccio molto vicino all’hard rock melodico e conclude con un tocco raffinato: …Ladies & Gentlemen, album che ci presenta una band pronta per l’importante passo del full length che sicuramente non tarderà.
TRACKLIST
01. Ladies & Gentlemen (Intro By Bruce Buffer)
02. Chicks With The Flips
03. Liquid Lunch
04. My Medicine Woman
05. Hard To Breathe
06. This Is How We Say Goodbye
07. Navy Blue (Bonus Track)
LINE-UP
Vinny Olavi – Vocals
Matt Nitro – Guitars
Smippe Youngblood – Guitars
Jay Mickey – Drums
Wegster – Bass
Uno dei dischi più interessanti degli ultimi tempi nel campo della musica italiana pesante.
Nudist incarnano tutto ciò che un gruppo italiano deve avere per piacere anche fuori dai confini italiani.
Innanzitutto il necessario talento, ma anche una grande capacità di saper unire stili diversi e un sentire speciale per l’evoluzione sonora. Burn My Innocence è, fino ad oggi, il disco centrale dell’opera di questo trio toscano, poiché oltre ad essere il secondo album cantato, ha in sé una notevole ricerca sonora. Nati nel 2008 come trio strumentale noise i Nudist si sono evoluti in una maniera non facile da immaginare all’inizio, e ora con faciloneria potrebbero essere definti i Melvins italiani. Ascoltando Bury My Innocence si viene trascinati dal loro grande groove, e dalla capacità di cambiare tempo e trama della canzone, come i Melvins appunto, per cui l’affinità è musicale più che stilistica. Si viaggia molto in queste cinque canzoni, che sono soprattutto collage di fotografie di attimi, con i panni newyorchesi che vengono lavati nell’Arno, e vengono ben mossi. Ci sono anche momenti alla Primus, equilibrismi graditi e funzionali all’opera, nel quale tutto si incastona alla perfezione. Strenghtless è la canzone maggiormente post rock del discorso, con arpeggi sognanti, anche se l’impianto generale è potente. La canzone che da il titolo all’album, che è la seconda traccia, ha molti echi del noise newyorchese, ma possiede aperture melodiche che molti gruppi dell’epoca si sognavano. Bloody Waters è il momento più noise del disco, ed è una canzone davvero incisiva. La successiva Dead Leaves è quella che sembra in apparenza la più furiosa, ed è così, ma il suo sviluppo non è per nulla scontato, e dà la misura della capacità compositiva dei Nudist. A concludere arrivano gli oltre sei minuti di Drift, degna conclusione di un disco davvero di alto livello.
I Nudist sono un gruppo che ha una fortissima impronta personale, e in realtà hanno riferimenti e padri, ma non imitano nessuno. Nella loro musica troviamo anche una certa urgenza hardcore, che è presente, ma è geneticamente mutata.
Uno dei dischi più interessanti degli ultimi tempi nel campo della musica italiana pesante.
TRACKLIST
1.Strengthless
2.Bury My Innocence
3.Bloody Waters
4.Dead Leaves
5.Drift
LINE-UP
France
Gabo
Lore
Non resta che l’ascolto di Symptoms per rendersi conto di quanta grande musica ci giri intorno, basta solo volerla realmente intercettare …
I tedeschi Maladie sono un affollato combo che, in ossequio al monicker prescelto, definisce il proprio stile musicale plague metal.
In effetti, l’operato della band non è facilmente definibile in quanto convoglia elementi del metal più oscuro (doom, black, depressive) rielaborandoli con una vena progressiva e sperimentale il cui vessillifero è senz’altro il sassofonista Hauke Peters.
Infatti, il primo aspetto che colpisce all’ascolto è il tono caldo di questo strumento la cui impronta mi ricorda non poco quella di David Jackson dei mitici Van Der Graaf Generator e, in fondo, non credo neppure sia una bestemmia attribuire ad un lavoro come Symptoms una visionarietà degna dell’Hammill settantiano, il tutto ovviamente trasposto su un piano metal.
Quando poi si scopre che la voce più ruvida appartiene a Déhà (anche al piano e violoncello), sorta di Re Mida della scena estrema underground europea, molti dei cerchi si chiudono: francamente non ho idea di quanto, in percentuale, sia misurabile il contributo compositivo del musicista belga, fatto sta che a tratti emergono passaggi la cui irresistibile progressione e la struggente malinconia riportano ad uno dei suoi migliori progetti, We All Die (Laughing).
Sicuramente, però, anche gli altri sette componenti sono fondamentali alla riuscita di questo magnifico affresco musicale, a partire dal secondo vocalist Alexander Wenz, dotato di un timbro stentoreo ed evocativo, per passare all’ottimo trio di chitarristi (Bjorn Koppler – Mark Walther – Kevin Olasz) e alla coppia ritmica (Moritz Grenzmann – basso – e Tobias Blach – batteria -).
Un lavoro di squadra, dunque, che fornisce uno dei frutti più prelibati degli ultimi tempi (l’album è uscito alla fine dello scorso anno, ma forse non se ne è parlato ancora per quanto meriterebbe): Symptoms si snoda per circa quaranta minuti come una traccia unica (Divinitas – A Journey) suddivisa in otto parti, il che consente di riproporre in diverse fasi lo splendido tema portante (part II e part VII) e in qualche modo a terminare l’album così come si era aperto, in una sorta di perfetta struttura circolare.
Nel mezzo ci sta tutto ciò che l’ispirazione di questo ensemble di musicisti consente di riversare sullo spartito, per cui senza soluzione di continuità si alternano parti solo apparentemente in contrasto tra loro (e che se maneggiate da altri forse lo diverrebbero realmente) ma in realtà legate da un filo melodico tutt’altro che sottile, anche quando a prendere campo sono le sfuriate in blast beat di matrice black.
Questa è una descrizione di massima di ciò che si più trovare all’interno di questo lavoro dei Maladie, visto che entrare nei particolari di un qualcosa di così geniale e sfaccettato rischierebbe di risultare ridondante, nonché fuorviante: non resta quindi che l’ascolto diretto di Symptoms per rendersi conto di quanta grande musica ci giri intorno, basta solo volerla realmente intercettare …
Tracklist:
1.Divinitas – A Journey, Pt. I
2.Divinitas – A Journey, Pt. II
3.Divinitas – A Journey, Pt. III
4.Divinitas – A Journey, Pt. IV
5.Divinitas – A Journey, Pt. V
6.Divinitas – A Journey, Pt. VI
7.Divinitas – A Journey, Pt. VII
8.Divinitas – A Journey, Pt. VIII
Line-up:
Hauke Peters – Saxophone
Bjorn Koppler – Guitars
Marl Walther – Guitars
Déhà – Vocals, Piano, Cello
Alexander Wenz – Vocals
Moritz Grenzmann – Bass
Kevin Olasz – Guitars
Tobias Blach – Drums