MANTAR

Il lyric video di The Spell, tratto dall’ep omonimo (Nuclear Blast).

Il lyric video di The Spell, tratto dall’ep omonimo (Nuclear Blast).

I MANTAR, la mostruosa chimera black/doom/punk, pubblica oggi il nuovo EP 10” intitolato »The Spell«! La band ha inoltre iniziato ieri da Bielefeld, Germania, il nuovo tour Europeo da headliner.

»The Spell« include 3 nuovi brani. La title track vede la partecipazione alla voce di Okoi Jones del duo extreme metal svizzero BÖLZER. Creatore dell’inquietante copertina è il famoso artista Aaron Wiesenfeld (www.aronwiesenfeld.com) che ha curato anche l’artwork dell’album debutto dei MANTAR.

Clicca qui per dare uno sguardo a ‘Age Of The Vril’: https://youtu.be/MDT0NFVJfdM

Guarda un estratto di ‘Pest Crusade’ qui: https://youtu.be/tn9P89AFGsw

»The Spell« viene pubblicato come 10” (nero e argento -quest’ultimo già sold out, sono rimaste pochissime copie solo della versione black! – in versione limitata 500 copie) e in digitale. L’EP in versione limitata è disponibile qui: http://nblast.de/MantarTheSpellNB

Il cantante e chitarrista Hanno dei MANTAR commenta: “Dopo aver registrato »Ode To The Flame« abbiamo avuto difficoltà a decidere quali delle 12 canzoni scegliere per il disco finale. Siccome entrambi non amiamo gli album troppo lunghi, dopo esserci completamente persi in questo processo decisionale, abbiamo alla fine concordato quali 10 pezzi pubblicare. Sono così rimasti due brani e abbiamo pensato fosse arrivato il momento giusto di farli uscire prima di dimenticarcene. Due tracce vecchio stile, aggressive e groovy. ‘The Spell’ in realtà è una prima registrazione avvenuta nel 2013 durante le sessioni del nostro debutto »Death By Burning«. Ascoltandola si può infatti notare come il sound si avvicini più a quello di una jam; suonando non avevamo idea di dove la canzone ci avrebbe portato. Ma ci sono sempre piaciute queste grezze ma eleganti atmosfere, così in pochi mesi abbiamo deciso di chiedere al nostro amico Okoi Jones dei BÖLZER di aggiungere la sua voce e trasformare il pezzo in una sorta di duetto tra me e lui. Le parti vocali sono state registrate in Svizzera e a Tampa, Florida: il mondo è piccolo oggigiorno…”

Ghost Season – Like Stars In The Neon Sky

Debutto per i greci Ghost Season, band alternative sulla scia degli dei americani Alter Bridge, con Like Stars In The Neon Sky che risulta un buon ascolto in grado di ritagliarsi uno spazio nei cuori dei fans dell’hard rock moderno.

I Ghost Season sono un quartetto greco nato solo tre anni fa, autore del classico ep di rodaggio che ha portato il gruppo alla firma con Pavement Entertainment ed alla realizzazione di Like Stars In The Neon Sky, full length che darà sicuramente ottimi riscontri al gruppo ateniese, vista l’ottimo amalgama tra alternative metal e rock, un buon uso di groove nelle ritmiche e tanta ispirazione presa dagli dei del genere, gli Alter Bridge.

Da qui si parte con la consapevolezza che la band non ha nulla di originale, il loro rock/metal americano è figlio del post grunge con le chitarre che tagliano l’aria intorno a noi a colpi di solos metallici, le voci che non si spostano di un millimetro dallo stile di Myles Kennedy e, in generale, l’atmosfera che rimane melanconicamente ribelle, triste ed intimista come il grunge ha insegnato per tutti gli anni novanta.
Detto questo, l’album ha dalla sua una serie di buone canzoni, che poi è quello che a noi interessa, e la band sa dove andare a parare per piacere, facendolo con una buona dose di furbizia.
Il singolo Fade Away, Break My Chains e Vampire, brano che sembra uscito dalla colonna sonora di Twilight (la famosa trilogia sui vampiri adolescenti tratta dai romanzi di Stephenie Meyer) entrano nella testa al primo passaggio, tutto è perfettamente studiato per provare a mettere un piede più avanti rispetto alla scena underground e non è detto che il gruppo di Atene non ci riesca, con queste premesse.

TRACKLIST
1. The Reckoning
2. Sons Of Yesterday
3. Fade Away
4. Break My Chains
5. War Of Voices
6. The Highway Part I
7. The Highway Part II
8. Just A Lie
9. The Vampire
10. The Mirror
11. Of Hearts And Shadows
12. Break Me Shake Me (Bonus Track)

LINE-UP
Hercules Zotos – Vocals
Nick Christolis – Guitars/vocals
Dorian Gates – Bass/vocals
Helen Nota – Drums

GHOST SEASON – Facebook

PAIN OF SALVATION + PORT NOIR – 6/4/17 Circolo Magnolia

Il racconto del concerto del 6 aprile al Magnolia.

Cinque anni sono trascorsi da quando vidi per l’ultima volta dal vivo i Pain Of Salvation: quel concerto, tenutosi al Live di Trezzo sull’Adda, mi aveva soddisfatto solo parzialmente perché incentrato fondamentalmente sui due Road Salt, dischi senza dubbio di buon livello, ma a mio avviso inferiori per impatto ed intensità alla produzione precedente .

Dopo le varie vicissitudini, di cui tutti sappiamo, che hanno afflitto per un lungo periodo Daniel Gildenlöw, è arrivato il recente In The Passing Light Of Day a risistemare le cose e, soprattutto, a ricollocare la band svedese al posto che le compete tra le più esaltanti espressioni musicali dell’ultimo ventennio.
Il buon pubblico accorso al Circolo Magnolia di Segrate testimonia l’approvazione dei fans nei confronti dell’ultima svolta stilistica, nonché l’attesa per rivedere all’opera Daniel con una band quasi del tutto rinnovata rispetto a quella che incise l’ultimo album di inediti (fa eccezione solo il batterista francese Leo Margarit).

Ad aprire la serata sono stati chiamati i Port Noir, giovane band svedese che accompagna i più famosi connazionali per l’intero tour europeo, della quale ammetto colpevolmente d’aver sentito parlare per la prima volta in questa occasione. Come spesso accade, quindi, si spera essenzialmente che il tempo a disposizione della band di supporto non sia troppo e che, soprattutto, passi più o meno piacevolmente.
E, invece, avviene l’inaspettato … questi tre ragazzi di Södertälje sono una vera folgorazione: il loro alternative metal, che sicuramente prende diversi spunti dagli altri famosi conterranei Katatonia, ammantandoli di una vena più moderna e meno malinconica, rifulge per intensità e compattezza, grazie ad un affiatamento perfetto tra i vari membri e l’ottimo utilizzo delle voci, con quella del chitarrista Andreas Hollstrand a supportare con continuità quella principale e più suadente di Love Andersson. I Port Noir riescono a rendere magicamente fresco ed avvincente un genere che troppo spesso viene afflitto dal manierismo, anche da parte dei suoi più famosi interpreti: così il loro set scorre via tra l’approvazione di un pubblico per lo più entusiasta e probabilmente sorpreso quanto il sottoscritto e chi lo accompagna .
Tutti sanno quanto sia difficile la vita per le band di supporto, specialmente in Italia e soprattutto quando c’è un’attesa fremente nei confronti degli headliner: ebbene, la possibile insofferenza è stata del tutto cancellata da una totale approvazione, tanto che se i Port Noir fossero rimasti sul palco per proporre altri due o tre brani nessuno avrebbe avuto alcunché da ridire, anzi … Questi ragazzi sono da tenere monitorati con estrema attenzione, perché in un futuro prossimo lo stesso numeroso pubblico che accompagna le tappe di questo tour potrebbe ritrovarsi lì solo per loro.

Dopo questo graditissimo antipasto, è con un piccolo ritardo sull’orario previsto che si presenta in scena il solo Daniel Gildenlöw in abiti ancora “borghesi”, per annunciare che la serata sarà dedicata ad Alberto Granucci, fondatore del fan club italiano dei Pain of Salvation, scomparso tragicamente pochi giorni fa e per la cui sorte non possiamo che unirci al cordoglio di parenti ed amici.
Una breve pausa ed ecco i nostri presentarsi al gran completo mettendo da subito a ferro e fuoco il palco con Full Throttle Tribe, uno degli episodi più duri dell’ultimo album: le bordate metalliche condotte dalle chitarre di Daniel e di Ragnar Zolberg e dal basso di Gustaf Hielm (uno che ha grande familiarità con suoni estremi avendo militato nei Meshuggah e ricoprendo il ruolo di bassista live nei Dark Funeral), sono sferzate di energia per un pubblico che può così testare la bontà dell’impianto sonoro del Magnolia e dell’ottimo lavoro dei fonici.
E’ la volta poi di Reasons e Meaningless, le due canzoni scelte per essere abbinate ad un video, diverse tra loro ma indubbiamente complementari, mentre è poi Linoleum, con il suo chorus killer, a rappresentare il primo passo indietro nella ricca discografia dei Pain Of Salvation.
Il trittico tratto da Remedy Lane eleva ad dismisura il pathos dell’esibizione, perché non si può nascondere che quell’album incarna, assieme al duo predecessore The Perfect Element I, uno dei momenti creativi più elevati della band, almeno fino all’uscita di In The Passing Light Of Day, che ne insidia il valore molto da vicino: A Trace Of Blood, Rope Ends e Beyond The Pale, un po’ come per tutta la restante scaletta, dal vivo si accendono di una luce diversa e ancora più vivida, capace di accentuare sia la robustezza delle basi ritmiche, sia le ampie ed incancellabili aperture melodiche.

Ashes, che segue subito dopopuò essere considerato il classico cavallo di battaglia per i Pain Of Salvation: forse non è il brano più bello che abbiano mai inciso, ma sicuramente il più noto, quello che li ha portati all’attenzione di un pubblico più vasto dopo due dischi magnifici ma passati un po’ sottotraccia; con questa canzone si tocca il punto più datato tra quelli toccati dalla scaletta, ed è un peccato, perché sia dallo stesso The Perfect Element I che da EntropiaOne Hour By The Concret Lake ci sarebbe stato molto da cui attingere.
Finita questa entusiasmante parentesi retrospettiva si ritorna all’ultimo album e, dopo aver sviscerato i momenti più metallici, è la volta dei brani caratterizzati da passaggi intimisti, quelli che fanno svoltare l’audience dall’headbanging alla commozione: la carezza di Silent Gold e la drammaticità di On a Tuesday, dove le violente accelerazioni sono i soprassalti vitali di un organismo che non vuole arrendersi all’ineluttabile, conducono alla parte conclusiva del concerto, che viene affidata a The Physics of Gridlock, traccia emblematica con il suo chorus dai rimandi western di quell’anima alternative rock che era stato il tratto comune di Road Salt Two.
L’uscita dal palco, dopo circa un’ora e tre quarti di concerto, chiama ovviamente un bis che non può essere che la title track dell’ultimo album: The Passing Light of Day è una splendida, sentita e commovente canzone d’amore che Daniel interpreta per buona parte da solo, per poi essere raggiunto dall’intera band nell’ideale chiusura di una serata pressoché perfetta.

Certo, quando ci si trova dinnanzi ad una band che, come i Pain Of Salvation, ha alle spalle una discografia cosi ricca, qualitativa e soprattutto stilisticamente sfaccettata, a seconda di quale sia la fase della loro carriera che si predilige, ognuno può essere più o meno soddisfatto della scelta della scaletta.
Così, chi ha amato la band nei due Road Salt forse avrebbe sperato in qualcosa di diverso, mentre chi invece considera In The Passing Light Of Day un nuovo apice della carriera della band svedese avrà senz’altro approvato, considerando che poi l’altro album più rappresentato, Remedy Lane, è uno di quelli che mette d’accordo tutti.
C’è anche il fan più di vecchia data, come il sottoscritto, che come detto avrebbe apprezzato il recupero di qualche brano dai primi lavori, o chi dall’ultimo nato avrebbe voluto ascoltare dal vivo uno dei suoi momenti più intensi dal punto di vista emotivo, come If This Is The End e chi, infine, pensa che nel complesso tre brani in più ci sarebbero potuti stare, accontentando così tutte queste istanze.
Ma questi sono ovviamente i discorsi che si possono fare solo se si vuole cercare il pelo nell’uovo ad un concerto magnifico, una delle rare occasioni in cui la compenetrazione tra band e pubblico si rivela massimale, e questo è ciò che conta maggiormente, assieme al fatto d’aver ritrovato Daniel Gildenlöw in una forma smagliante, e per questo ognuno di noi deve ringraziare una divinità a sua scelta, o semplicemente il fato, per avercelo riconsegnato intatto in tutto il suo talento artistico ed umano.

Althea – Memories Have No Name

Il gruppo milanese risulta maestro nel creare passaggi ora suadenti, ora intimisti, toccando svariate sfumature melodiche e generi diversi che confluiscono in un’opera completa sotto tutti gli aspetti.

I buoni riscontri che Memories Have No Name ha ottenuto qualche mese fa da varie webzine, tra le quali la nostra, ha consentito agli Althea di destare l’interesse di diverse label, tra le quali la più lesta ad accaparrarsene le prestazioni è stata la Sliptrick Records, che ha licenziato la versione fisica dell’album proprio in questi giorni.
Ci sembra opportuno, quindi, rinfrescare la memoria degli ascoltatori riproponendo la nostra recensione risalente allo scorso dicembre.

E’ durissima la vita per chi decide (spronato da una passione infinita per il mondo delle sette note), di dedicare gran parte del suo tempo ad alimentare un webzine come la nostra.

Sempre a rincorrere le tonnellate di materiale che puntualmente (e fortunatamente) arrivano alla base, con poche persone che hanno voglia di mettersi in gioco e dare una mano (anche e soprattutto nell’ambiente) e sempre i soliti che tra famiglia, l’odiato lavoro, gli scazzi di una vita sempre più difficile e gli anni che cominciano ed essere tanti sul groppone, portano inevitabilmente a quei momenti no dove tutto quello che si fa appare inutile e la voglia di mollare fa capolino nella testa.
Poi d’incanto tutto torna ad avere un senso, le dita scorrono sulla tastiera più fluide che mai mentre le note di un bellissimo album che, probabilmente, non sarebbe entrato mai nella propria sfera musicale se non fosse giunta una richiesta di ascolto da parte del gruppo protagonista di cotanta maestria musicale.
E allora pronti e via per questo viaggio in musica sulle note progressive dei nostrani Althea, quintetto lombardo fondato dal chitarrista Dario Bortot e dal bassista Fabrizio Zilio, al primo full length ma con un ep alle spalle (Eleven) risalente ad un paio di anni fa .
Memories Have No Name è un bellissimo concept di un solo brano diviso in sedici capitoli, incentrati sui ricordi e sull’impatto che questi hanno su due diversi personaggi, raccontato con il supporto della musica totale per antonomasia, il progressive.
Il sound di questo lavoro, pur mantenendo un approccio metallico alla musica progressiva, è molto più rock di quello che ad un primo ascolto si può recepire, il gruppo milanese risulta maestro nel creare passaggi ora suadenti, ora intimisti, toccando svariate sfumature melodiche e generi diversi che confluiscono in un’opera completa sotto tutti gli aspetti.
Hard rock, AOR, metal prog ed un pizzico di rock moderno sono gli ingredienti principali di Memories Have No Name, album che sotto l’aspetto dell’emozionalità tocca vette sorprendenti.
La bravura dei musicisti coinvolti non si discute, ma sono appunto il calore e le emozioni che sprigionano dai vari capitoli a rendere l’opera un piccolo gioiello progressivo, con Paralyzed che, subito dopo l’intro, mostra la parte più metallica del sound, avvicinando il gruppo alla musica dei Dream Theater.
E allora direte voi?
Basta saper aspettare e la musica degli Althea saprà sorprendervi con un continuo ed entusiasmante cambio di atmosfere, dove i momenti topici sono quelli in cui l’anima intimista e sperimentale prende il comando dello spartito regalando momenti di ottima musica progressiva, con i vari intermezzi che non risultano riempitivi ma fondamentali momenti acustici ed atmosferici (A New Beginning, Drag Me Down e la title track) e tracce capolavoro come Halfway Of Me, Leave It For Tonight (brano progressivo dai rimandi beatlesiani), con la ballad Last Overwhelming Velvet Emotion (L.O.V.E.), dallo smisurato impatto emotivo.
Parlare di influenze è riduttivo, ma il paragone a mio parere più calzante (e con le dovute differenze) è con gli Active Heed di Umberto Pagnini, specialmente nel talento innato per le melodie e per le emozioni che suscita la musica prodotta: Memories Have No Name è un lavoro imperdibile per gli amanti delle sonorità progressive.

TRACKLIST
1.Regression From Regrets
2.Paralyzed
3.A New Beginning
4.Revenge
5.Drag Me Down
6.Halfway Of Me
7.Intermediated pt. 1
8.I Can’t Control My Mind
9.Intermediated pt. 2
10.Leave it for Tonight
11.Memories Have No Name
12.The Game
13.Last Overwhelming Velvet Emotion (L.O.V.E)
14.Take Me As I Am
15.Anything We’ll ever be
16.A Final Reflection

LINE-UP
Dario Bortot – Guitar
Fabrizio Zilio – Bass
Marco Zambardi – Key and Loops
Sergio Sampietro – Drums
Alessio Accardo – Vocal

ALTHEA – Facebook

Methane – The Devil’s Own

Southern metal ad alto volume, alcool e perdizione, cosa volere di più ?

Esordio sulla lunga distanza al fulmicotone per questo gruppo svedese devoto al southern metal e al metallo pulsante in generale.

Devil’s Own è un trionfo di chitarre distorte alla Pantera, incedere metallico e gran divertimento. Non parlo di Black Label Society ma di cose molto più divertenti e coinvolgenti. Nulla è statico in questo disco e tutto gira intorno al suono del diavolo. La voce è abrasiva e ci introduce in un girone infernale di sbronze cattive e sonno discinte che ci portano ancora più in basso nella scala della nostra perdizione. Il metal dei Methane è davvero notevole, con un groove dall’uncino notevole e il disco resiste molto bene ad ascolti ripetuti, anzi più lo si ascolta e maggiore è il piacere. Era da tempo che non usciva un disco così bello e ben prodotto di southern metal. Questo sottogenere del metal è una bestia che è sempre più difficile da gustare selvatica, ci sono alcuni esemplari in cattività ma non valgono nulla. Invece i Methane sono selvatici e vanno ad alta velocità senza risparmiare nulla, e la loro intensità e passione metallica è di gran livello. Gli svedesi riescono a creare un disco potente e mai ripetitivo, giocando molto bene con i codici e gli stilemi del southern metal. Alto volume, alcool e perdizione, cosa volere di più ?

TRACKLIST
1. The Devil’s Own
2. Scars and Bars
3. Blood Sweat and Beer
4. Pray for Death
5. Stone Garden
6. Spit on Your Grave
7. 72
8. Peel Off the Skin
9. Hang Me High

LINE-UP
Tim Scott – Bass, Vocals
Jimi Masterbo – Lead Guitar
Dylan Campbell – Guitar
Andreas Strom – Drums

http://www.facebook.com/methaneband

Roommates – Fake

Il viaggio nella frontiera americana è appena iniziato per i Roommates, partite insieme a loro con Fake

Quelle che sono sempre state le sonorità americane per antonomasia, negli ultimi anni hanno sempre preso più campo sia nell’hard rock che nel metal, tanto che è sempre diventato più facile parlare di southern metal o southern hard rock, riguardo a molte uscite discografiche degli ultimi tempi.

Una moda o qualcosa di più?
Vero è che il post grunge e lo stoner ben si adattano ad essere amalgamati con le note, molte volte malinconiche,  del southern rock puro, mentre nel metal già i Pantera avevano a loro modo giocato con il genere, poi approfondito con i vari progetti che hanno visto coinvolto Phil Anselmo.
Una premessa per presentare questo gruppo ligure, prima trio acustico, poi con l’entrata di Alessio Spallarossa degli storici deathsters genovesi Sadist, trasformatosi in una southern rock band elettrica, ma dal talento innato per le armonie semiacustiche e le atmosfere poetiche di un viaggio sulle highway americane.
L’esordio dei Roommates riesce a toccare vette emotive altissime e, per chi ama il genere e le opere dei maestri americani, risulta un piccolo gioiellino di rock americano perso tra la tradizione sudista ed accenni alle band che del genere hanno preso l’attitudine e quel tocco blues nascosto dall’elettricità del grunge o dello stoner (Kyuss/Pearl Jam), oppure ben evidenziato dalle scorribande di quella che è stata l’ultima grande rock blues band, i Black Crowes.
Così tra bellissime atmosfere di quel rock a stelle e strisce sinonimo di una libertà cercata, trovata e vissuta su strade bruciate dal sole, l’odore di pneumatici consumati in chilometri di deserto, ed una chitarra che lancia le sue note al cielo stellato, Fake trova la sua dimensione brani che non contengono appunto elettricità, ma anche delicata poesia western, come ben evidenziato dalle prime note della splendida Light.
Blow Away torna con il suo umore post grunge (mi ha ricordato non poco il southern hard rock dei napoletani Hangarvain), mentre le delicate armonie di Fakin’ Good Manners portano al rock blues dell’irresistibile Black Man Guardian, con le moto che ruggiscono di primo mattino e l’adrenalina del viaggio che sta per iniziare è alle stelle.
Le ultime tre tracce tornano a riempire la stanza di armonie delicate, con una Empty Love che è una rock ballad da antologia e On Water Wings e I Smile che sembrano dare il benvenuto alla notte e al meritato riposo.
Il viaggio nella frontiera americana è appena iniziato per i Roommates, partite insieme a loro con Fake, vi faranno sognare.

TRACKLIST
1.Light
2.Blow Away
3.Fakin’ Good Manners
4.Black Man Guardian
5.Empty Love
6.On Water Wings
7.I Smile

LINE-UP
Davide Brezzo – Guitar & Voice;
Danilo Bergamo – Guitar & Voice;
Marco Quattrocorde – Bass & Voice;
Alessio Spallarossa – Drum

ROOMMATES – Facebook