Gravdal – Kadaverin

Kadaverin è un album che, senza stravolgere i canoni consolidati, si concede diverse divagazioni che donano a ciascun brano motivi di interesse, con il valore aggiunto d’essere eseguito e prodotto in maniera impeccabile.

Con i Gravdal siamo al cospetto di un’interpretazione del black metal leggermente fuori dai canoni, soprattutto se pensiamo che si tratta di una band norvegese.

Infatti, se togliamo alcuni nomi storici, che spesso hanno spinto la loro vena sperimentale fino ad uscire del tutto o quasi dall’alveo del genere, non sono molte le realtà provenienti dalla nazione dove il black è nato che provano ad interpretarlo in maniera diversa, pur senza stravolgerne l’essenza.
I Gravdal esistono da oltre un decennio e nel corso degli anni hanno visto ruotare diversi elementi attorno a Phobos, batterista degli Aeternus e, dal vivo, dei Gorgoroth, che con questa sua creatura si disimpegna, invece, alla chitarra: gran parte dei partecipanti al progetto sono sempre stati legati, in un modo o nell’altro, a diverse band storiche della scena, per cui il quadro che ci troviamo davanti è quello di un consesso di musicisti di grande esperienza nonché conoscenza approfondita del genere.
Proprio questo consente ai nostri di sperimentare, ma sempre con lodevole misura, utilizzando per esempio in più di un passaggio uno strumento come il sax, oppure spingendo talvolta l’uso della voce verso tonalità pulite e stentoree; il bello però è che, anche quando il black viene proposto in maniera più ortodossa ciò avviene in maniera esemplare, con un brano travolgente come Arkaisk kamp, angrip!, il cui solo elemento di discontinuità è un assolo chitarristico di matrice classica.
In sintesi, Kadaverin è un album che, senza stravolgere i canoni consolidati, si concede diverse divagazioni che donano a ciascun brano motivi di interesse, con il valore aggiunto d’essere eseguito e prodotto in maniera impeccabile; d’altronde una band di matrice estrema che decide di chiudere un proprio album con una splendida pennellata notturna come Når noen tar farvel non può mai essere banale.

Tracklist:
1. Kadaverin
2. Apostler av døden
3. Dans med livet, dans med døden
4. Arkaisk kamp, angrip!
5. Vi som ser i mørket
6. Eklipse
7. Roten til all ondskap
8. Inni menneskedyret
9. Når noen tar farvel

Line-up:
Eld – Vocal & Bass
Phobos – Guitar
Saur – Guitar
Taakesjel – Drums

GRAVDAL – Facebook

Kroh – Altars

Altars è il secondo full length dei doomsters britannici Kroh, ottimi cultori del verbo sabbathiano portato ad un livello di misticismo occulto affascinante e ricco di sfumature oniriche.

Liturgie doom in arrivo dalle strade bagnate dall’umidità del Regno Unito, sabbatiche litanie, lenti e monolitici cammini pregni di musica del destino e metal d’annata, tradizionalmente fermo tra gli anni settanta e i primi passi nel decennio successivo.

I Kroh non sono una band al debutto, il primo album omonimo risale al 2011, poi seguito da una manciata di split e singoli, fino alla creazione di questo ultimo lavoro intitolato Altars, una lunga e sacrale litania doom metal, che una voce femminea rende ancora più sabbatica.
Un album che mette in ombra la pura tecnica e pulizia del suono, per un approccio da messa occulta, con l’atmosfera che ad ogni passaggio si fa sempre più intensa, come l’aria irrespirabile dal profumo d’incenso che la sacerdotessa Oliwia Sobieszek elargisce sull’altare dove rimangono i poveri resti umani di quello che una volta era un dio, votato al male e maledetto.
Altars rievoca antichi costumi e riti, celebrati ancora una volta intonando note doom metal con la chitarra satura di watt che crea riff mastodontici su tempi lenti e dilatati.
Mother Serpent, il mid tempo psichedelico Living Water, l’ipnotica Malady e la conclusiva, lentissima e rituale Precious Bones segnano il tempo trascorso imprigionati nell’incantesimo creato dal gruppo di Birmingham, ottimo cultori del verbo sabbathiano portato ad un livello di misticismo occulto affascinante e ricco di sfumature oniriche.

Tracklist
1.Krzyżu święty
2.Mother Serpent
3.Living Water
4.Feed the Brain
5.Malady
6.Break the Bread
7.Stone into Flesh
8.Cold
9.Precious Bones

Line-up
Oliwia Sobieszek – Vocals
Paul Kenney – Guitar
Paul Harrington – Guitar
Darren Donovan – Bass
Rychard Stanton – Drums

KROH – Facebook

Descrizione Breve

Three Eyes Left – The Cult Of Astaroth

Chitarre ribassate, basso che schiaccia per terra, mentre la batteria ci percuote i neuroni e la voce di un caprone che ci comanda: tutto ciò è pesante, bellissimo e sta in questo disco.

I Three Eyes Left sono un rumoroso ensemble bolognese attivo dal 2004, con la loro miscela di stoner, doom, fuzz e psichedelia pesante.

Dopo alcuni demo ed ep approdano su Go Down Records con due dischi che li mettono sulla cartina delle migliori band del genere. Grazie a queste due uscite suonano molto in giro con gruppi di grosso calibro, riuscendo sempre a farsi notare. Ascoltando The Cult Of Astaroth si intuisce presto il perché: il disco è un concentrato astrale di musica pesante in varie forme, da momenti doom alla Candlemass, allo stoner più marcio, passando per iniezioni di sludge in vena, il tutto fatto con grande equilibrio. Non ci si annoia mai, sia grazie a riff che vengono sparati nell’etere fino a pianeti molto lontani, e con il contributo della sezione ritmica si produce un connubio potente e ritualistico, anche perché l’intero disco parla di culti che per fortuna non si sposano molto bene con le religioni dominanti. The Cult Of Astaroth è un invito ad aprire la mente e a togliere il velo che abbiamo davanti a gli occhi, ascoltare musica pesante che ci può portare a captare la nostra vera essenza carnale. Uno dei pregi maggiori del gruppo bolognese è quello di comporre e suonare canzoni di lunga durata mai noiose, poiché dentro ad esse vi sono momenti, stili e generi diversi. Chitarre ribassate, basso che schiaccia per terra, mentre la batteria ci percuote i neuroni e la voce di un caprone che ci comanda: tutto ciò è pesante, bellissimo e sta in questo disco.

Tracklist
1. Sons of Aries
2. You Suffer… I, the Evil Dead
3. Spiritic Signals Through the Beyond
4. Chants into the Grave
5. The Satanist
6. Demon Cult
7. De Umbrarum Regni
8. Funeral of an Exorcist
9 … And Then God Will Die…

Line-up
Maic Evil – voice-guitar
Andrew Molten – bass
K. Luther Stern – drum

THREE EYES LEFT – Facebook

Novelists – Noir

Un album moderno che si ascolta come un’opera tradizionale verrebbe da dire, nella quale il gruppo parigino mette una tecnica invidiabile al servizio di brani piacevolmente scorrevoli

Un album basato su quello che, oggi, viene definito prog core è sempre un’incognita ed è facile sia trovarsi al cospetto di un buon lavoro, sia di brutte copie di opere che ingarbugliano il metalcore con tecnicismi intricati e fini a se stessi.

Le nuove leve fortunatamente sembrano indicare una via che possa mettere d’accordo tutti, puntando su melodie ed atmosfere e cercando di smuovere emozioni che l’ascoltatore molte volte attende che si risveglino in lavori del genere.
I francesi Novelists riescono ad uscire da questa impasse con un sound fortemente progressivo e moderno, dove la rabbia core viene stemperata da uno stato di grazia melodico sopra la media.
Un album moderno che si ascolta come un’opera tradizionale, verrebbe da dire, nel quale il gruppo parigino mette una tecnica invidiabile al servizio di brani piacevolmente scorrevoli, sia quando atmosfere liquide ci trasportano su notturni territori progressivi (Monochrome), sia quando il metalcore strappa le redini al suo alter ego e lancia il purosangue metallico al galoppo.
Non è mai troppo sincopato il sound di Noir, procede su linee che variano ad ogni traccia lasciando all’ascoltatore tantissimi input utili alla comprensione della musica del gruppo, mentre accenni nu metal compaiono a ribadire con forza la capacità dei Novelist di non ripetersi (Les Nuits Noires).
Confermate le buone impressioni suscitate con il primo album Souvenirs, la band fa un passo avanti verso una popolarità che nel genere non mancherà di arrivare: l’album con estrema facilità giunge alle ultime cartucce, sparate dopo aver colpito il segno con una pioggia di fuoco metalcore progressiva portata da brani avvincenti come A Bitter End, The Light The Fire e la conclusiva Heal The Wound.
Giovani, preparati e con un’idea di sound che trova pochi paragoni, questi sono i Novelists e noi ve li consigliamo vivamente.

Tracklist
1. L’appel du Vide
2. Monochrome
3. Under Different Welkins
4. Les Nuits Noires
5. Grey Souls
6. A Bitter End
7. Stranger Self
8. The Light, The Fire
9. Joie de Vivre
10. Lead The Light
11. À Travers le Miroir
12. Heal The Wound

Line-up
Matt Gelsomino – vocals
Florestan Durand – guitar
Charles-Henri Teule – guitar
Nicolas Delestrade – bass
Amael Durand – drums

NOVELISTS – Facebook

Descrizione Breve
, sia quando atmosfere liquide ci trasportano su notturni territori progressivi (Monochrome) sia quando il metalcore strappa le redini al suo alter ego e lancia il purosangue metallico al galoppo.

Autore
Alberto Centenari

Voto
82

ONYDIA

Il video di A New Safe Path, brano che farà parte dell’album in uscita nel 2018 (Revalve Records).

Il video di A New Safe Path, brano che farà parte dell’album in uscita nel 2018 (Revalve Records).

Cradle Of Filth – Cryptoriana-The Seductiveness of Decay

Piacciano o meno a prescindere, questa volta i Cradle Of Filth hanno messo sul piatto argomenti a sufficienza per tacitare i detrattori per partito preso, riproponendosi al meglio nella loro veste di legittimi progenitori del symphonic metal estremo, gotico e romantico.

I Cradle Of Filth appartengono a quel novero di band che, ad ogni nuova uscita, vengono “simpaticamente” attese con i fucili puntati da parte di appassionati ed addetti ai lavori.

Del resto, anche negli anni del massimo fulgore, quelli corrispondenti ai primi quattro album, la divisione tra chi li amava e chi li odiava era netta e a questo ha sempre contribuito la presenza di un leader scomodo come Dani Filth, personaggio abbastanza sopra le righe e vocalist che non è mai stato apprezzato in maniera unanime per il suo caratteristico screaming “paperinesco”.
Ormai è passato quasi un quarto di secolo da quando il folletto britannico e la sua band impressero una svolta gotica e grandguignolesca al black metal, con un album sorprendente come The Principle Of Evil Made Flesh e successivamente con il capolavoro Dusk And Her Embrace. Gli album che seguirono, Cruelty And theBeast e Midian, si mantennero su un buon livello per poi veder scemare progressivamente la qualità, sia pure ancora con qualche sussulto, fino ad arrivare alle opere di questo decennio che hanno fornito decisi segnali di ripresa confermati pienamente da questo ottimo Cryptoriana – The Seductiveness of Decay.
Del resto il grafico qualitativo dei Cradle Of Filth non è dissimile da quello di illustri connazionali come Paradise Lost e My Dying Bride: una prima manciata di dischi eccellenti, un calo più o meno evidente ma generalizzato nella fase centrale della carriera ed un nuovo impulso creativo negli anni ‘10, con un ultimo album all’altezza dei fasti del passato.
Con Cryptoriana, i Cradle Of Filth ritornano ad esplorare quell’immaginario vittoriano che hanno sempre adorato, ammantandolo di un’aura gotica ovviamente esasperata ma confinata entro i limiti del buon gusto, il tutto poggiato su un tappeto sonoro thrash/black intriso delle consuete aperture sinfoniche e di azzeccate melodie, arricchite per di più da un efficace lavoro solista della chitarra.
Nonostante una persistente verbosità, il vocalist pare aver stemperato definitivamente il suo screaming abbinandolo ad un efficace growl, sorretto in diversi momenti dalla voce di Lindsay Schoolcraft: d’altra parte se, l’eccessiva “volatilità” della line-up è stato uno dei problemi che Dani ha sempre dovuto affrontare nel corso degli anni, non si può fare a meno di notare come per la prima volta la formazione sia rimasta immutata tra un full length e l’altro, con Richard Shaw e Marek “Ashok” Šmerda confermati alle chitarre, Daniel Firth al basso ed il tentacolare Martin “Marthus” Škaroupka alla batteria (oltre che alle tastiere in studio).
Forse è un caso, fatto sta che i tasselli spesso dispersi qua e là che hanno costituito il sound dei Cradle Of Filth per gran parte del nuovo millennio, paiono essere andati tutti al loro posto, come testimonia ampiamente un brano del livello di Heartbreak and Seance , anticipato giustamente come singolo e caratterizzato da linee melodiche di rara efficacia; Wester Vespertine si snoda furiosa ed incalzante, pur se punteggiata da parti corali, mentre The Seductiveness of Decay è l’altro picco del lavoro, con il suo tipico sviluppo colmo di cambi di tempo ma infiorettato da un ciclico assolo maideniano che ci si ritrova tra capo e collo senza alcun preavviso ma con un effetto trascinante.
L’ottima You Will Know the Lion by His Claw e Death and the Maiden chiudono il lavoro nella sua versione standard, mentre quella in digipack e in doppio vinile offrono anche due bonus track, tra le quali va segnalata la cover di Alison Hell degli Annihilator.
Piacciano o meno a prescindere, questa volta i Cradle Of Filth hanno messo sul piatto argomenti a sufficienza per tacitare i detrattori per partito preso, riproponendosi al meglio nella loro veste di legittimi progenitori del symphonic metal estremo, gotico e romantico.

Tracklist:
1. Exquisite Torments Await
2. Heartbreak and Seance
3. Achingly Beautiful
4. Wester Vespertine
5. The Seductiveness of Decay
6. Vengeful Spirit
7. You Will Know the Lion by His Claw
8. Death and the Maiden
9. The Night At Catafalque Manor
10. Alison Hell

Line up:
Dani Filth – Vocals
Marthus – Drums, Keyboards
Daniel Firth – Bass
Rich Shaw – Guitars
Ashok – Guitars
Lindsay Schoolcraft – Vocals (female), Keyboards

CRADLE OF FILTH – Facebook

Haemorrhage – We Are The Gore

Un bombardamento sonoro imperdibile per gli amanti di un genere che, quando è suonato a questi livelli, non lascia scampo.

E se l’album dell’anno, parlando di death metal estremo dai rimandi grind, arrivasse dalla vecchia Europa?

Forse molti non avevano fatto i conti con gli storici gore grinders spagnoli Haemorrhage che, sul finire dell’anno e quasi in zona Cesarini, mettono la palla in fondo al sacco con un colpo da maestro, mettendo una seria ipoteca sulla palma delle migliori torture in musica di questo 2017.
Infermieri e medici di un ospedale dove la gente non guarisce, ma lascia questo mondo sotto atroci sofferenze, fanno la ola all’ascolto di questa bomba sonora dal titolo We Are The Gore: una dichiarazione di intenti, un devastante tributo ai primi Carcass, valorizzato da una produzione esplosiva e da un songwriting che nel genere lascia di sale.
Sotto i ferri finiscono povere vittime inconsapevoli del sadico rito Haemorrhage, dal 1992 a sezionare corpi umani (vivi ovviamente) nell’ospedale più macabro del mondo dove le sale operatorie non sono altro che asettici covi dove i nostri massacrano a colpi di grind death metal dalla forza brutale, suonato divinamente e pregno di tutta la sadica malignità di un gruppo di serial killer sotto le mentite spogli di paramedici.
Mastering curato da Brad Boatright (Obituary, Nails, Skinless) e via con la lezione di anatomia firmata Haemorrhage, tra velocità al limite, cambi di tempo, blast beat e solos che tagliano la carne come affilati bisturi, o lacerano come seghetti per amputare, mentre il sangue abbonda, le urla sono puro e disperato dolore e la mezzora passa esaltante tra trombe d’aria brutali che devastano senza pietà.
Il singolo e video della title track anticipa questo bombardamento sonoro imperdibile per gli amanti di un genere che, quando è suonato a questi livelli, non lascia scampo.

Tracklist
1.Nauseating Employments
2.Gore Gourmet
3.We Are the Gore
4.Transporting Cadavers
5.Bathed in Bile
6.The Cremator’s Song
7.Medical Maniacs
8.Forensick Squad
9.Gynecrologist
10.Miss Phlebotomy
11.C.S.C. (Crime Scene Cleaners)
12.Prosector’s Revenge
13.Organ Trader
14.Intravenous Molestation of the Obstructionist Arteries (O-Pus VII)
15.Artifacts of the Autopsy

Line-up
Luisma – guitar, vocals
Ana – guitar
Lugubrious – vocals
Ramon – bass
Erik – drums

HAEMORRHAGE – Facebook

Essence of Datum – Nevermore

Nevermore continuerà a far discutere riguardo al prog metal, ma è indubbio che la band bielorussa ci sappia fare, grazie ad un sound duro come la roccia ma ricamato da tecnica e melodia.

Il prog metal è musica a 360° che dovrebbe tenere a distanza detrattori e quant’altro, ma che purtroppo è sempre motivo di discussione tra chi ama il genere e chi invece lo indica come esibizione tecnica fine a se stessa e poco emozionante: come sempre la verità sta nel mezzo e in ogni parte del mondo continuano a venire alla luce ottime realtà.

Erede del progressive rock, figlio ribelle della corrente settantiana a cui è comunque ed assolutamente legato, il metallo progressivo del nuovo millennio si è trasformato in un Kraken dai mille tentacoli, diventando un mostro che fagocita generi per risputarli, trasformati in musica per tutti i gusti, dal sound intimista ed emozionale delle nuove leve, alla tecnica sopraffina ma aggressiva dei gruppi dai rimandi metallici.
Gli Essence Of Datum si incontrano tra le strade di Minsk, capitale della Bielorussia, e il loro metal progressivo lascia buone impressioni non solo per l’ottima tecnica, ma per il feeling che riesce a crearsi con l’ascoltatore, non così banale quando si parla di lavori strumentali.
Nevermore è il secondo album, a distanza di quattro anni dal debutto Event Horizon, ed esplora il genere in molte delle sue sfaccettature, accontentando un po’ tutti gli abituali ascoltatori di musica progressiva.
Pochi attimi lasciati alla mera tecnica e tanta musica che riempie lo spazio, tra atmosfere melanconiche, partenze a razzo verso lidi neoclassici e aperture al rock progressivo tradizionale, il tutto legato da una matrice metal che raggiunge picchi estremi prima di tornare a respirare l’aria intimista delle proposte moderne.
Nevermore continuerà a far discutere riguardo al prog metal, ma è indubbio che la band bielorussa ci sappia fare, grazie ad un sound duro come la roccia ma ricamato da tecnica e melodia, ed è assolutamente consigliato a chi dei suoni progressivi ne ha fatto l’ascolto primario.

Tracklist
1.Satellites
2.Animal
3.Hexadecimal
4.Siberia
5.Aurorae (Australis | Borealis)
6.Blodørn
7.Thorns
8.Omens

Line-up
Dmitry Ramanouski – guitars
Alex Melnikau – bass
Pavel Vilchytski – drums

ESSENCE OF DATUM – Facebook

DEVANGELIC

Il lyric video di “Of Maggots And Disease”, dall’album “Phlegethon” in uscita a ottobre (Comatose Music).

Il lyric video di “Of Maggots And Disease”, dall’album “Phlegethon” in uscita a ottobre (Comatose Music).

Moonscape – Entity

Entity è un’opera incentrata su un melodic death metal sulle orme del blasonato Crimson, capolavoro degli Edge Of Sanity e che, senza raggiungere quelle vette qualitative, risulta un buon ascolto per gli amanti del genere.

Il sottoscritto quando sente parlare di Edge Of Sanity alza il collo e le orecchie diventano antenne per captare ogni nota che fuoriesce dall’opera in questione, se poi la foto promozionale ritrae il protagonista con una maglietta di quel gruppo, le attese si moltiplicano.

Fortunatamente i Moonscape, progetto solista del musicista norvegese Håvard Lunde, non deludono le aspettative che un nome scomodo come quello della creatura di Dan Swanö inevitabilmente provoca, risultando un’opera estrema interessante.
Entity offre quindi un death metal progressivo e melodico sulla scia del capolavoro Crimson, l’ album più famoso dei Sanity, e viene addirittura presentato in due versioni: quella tradizionale, divisa in nove brani distinti e quella alla “Crimson”, che tradotto significa una sola traccia intitolata Entity della durata di quaranta minuti, nella quale Lunde ed i suoi ospiti si dilettano in questa nuova proposta, influenzata non solo però dalla mente del geniale svedese.
Infatti, echi delle prime opere del Lucassen menestrello sotto il monicker Ayreon, sono le varianti in un approccio death melodico che attraversa il tappeto musicale su cui poggia la struttura dall’opera, mentre il prog non manca di nobilitare partiture che dall’estremo passano con disinvoltura al rock, colorato di nero ma aperto a soluzioni che sanno di arcobaleni progressivi: Entity è in buona sostanza una lunga jam suonata e composta da un ottimo musicista che omaggia al meglio quello che è evidentemente il proprio principale punto di riferimento.
Questo costituisce pregio e difetto per questo lavoro targato Moonscape, che se lascia ottime sensazioni perdendo qualcosa in personalità, inconveniente al quale Lunde saprà sicuramente rimediare in futuro: il presente invece si chiama Entity e si merita un ascolto.

Tracklist
1.Disconsolation (The Hidden Threat)
2.A Farewell To Reality
3.Into The Ethereal shadows
4.Abandonment
5.Under Absent Clouds
6.A Stolen Prayer
7.A Crack In The Clouds
8.The Bargaining
9.Entity

Line-up
Håvard Lunde

Guests:
Jim Brunaud (The Gaemeth Project) as “Father” – lead vocals
Matthew Brown (Arkhane) as “Man” – lead vocals and chants
Kent Are Sommerseth (Unspoken, Varulv) as “Demon” – lead vocals
David Russell – piano
Leviathan (ex- Unspoken, Kvesta) – lead guitars
Andreas Jonsson (ex- Spiral Architect) – lead guitars
Diego Palma (LordDivine) – keyboards
Simen Ådnøy Ellingsen (Shamblemaths) – acoustic and clean lead guitars
Jon Hunt – keyboards • John Kiernan – lead guitars
Alex Campbell (Seek Irony) – lead guitars
Noah Watts – lead guitars
Sean Winter – tenor saxophone
Justin Hombach (AeoS) – lead guitars

MOONSCAPE – Facebook

Grand Delusion – Supreme Machine

Supreme Machine è un lavoro sufficiente, nel quale non manca qualche difetto ma che nel suo insieme può sicuramente dire la sua, specialmente al cospetto degli amanti dei suoni doom/stoner e vintage

Da poco entrati nelle grazie della Minotauro, gli hard rockers svedesi Grand Delusion tornano con un nuovo lavoro intitolato Supreme Machine.

Hard rock stonerizzato e vintage è quello che ci propina il quartetto scandinavo, attivo dal 2011 e con alle spalle un ep di debutto seguito dal primo lavoro sulla lunga distanza uscito un paio di anni fa (The Last Ray of the Dying Sun).
La band di Umeå bada al sodo e spara sei cannonate heavy/doom/stoner metal senza risparmiarsi, con le chitarre che urlano riffoni metallici e le ritmiche che, senza mai affondare completamente negli abissi del doom, si fanno grosse di mid tempo heavy stoner.
Non mancano accenni alla psichedelia (Trail Of The Seven Scorpions) e quel tocco desertico tanto cool di questi tempi a mietere vittime tra gli amanti del genere.
La declamatoria Imperator si piazza sul gradino più alto del podio nelle preferenze del sottoscritto, mentre avrei lasciato l’onore di aprire l’album ad un brano più convincente che non la debole Just Revolution, ma sono dettagli, mentre a seguire l’atmosfera soffocante di Infinite ci pensa la conclusiva Ghost Of The Widow McCain, brano che attinge sia a Black Sabbath che ai Pink Floyd.
Supreme Machine è un lavoro sufficiente, nel quale non manca qualche difetto ma che nel suo insieme può sicuramente dire la sua, specialmente al cospetto degli amanti dei suoni doom/stoner e vintage, ai quali è rivolto l’invito ad ascoltare questi rockers svedesi e la loro musica.

Tracklist
1. Just Revolution
2. Mangrove Blues
3. Trail of the Seven Scorpions
4. Imperator
5. Infinite
6. Ghost of the Widow Mccain

Line-up
Mikael Olsson – Bass, Keyboards, Vocals (backing)
Magnus Rehnman – Drums
Per Clevfors – Guitars
Björn Wahlberg – Guitars, Vocals

GRAND DELUSION – Facebook

Gloomy Grim – Fuck the World, War Is War!

La compilation fotografa un progetto che vent’anni fa era ancora in embrione, con diverse idee valide ma ancora da sviluppare e suoni rivedibili, rivelandosi appetibile solo per i fans accaniti dei Gloomy Grim.

Battendo il ferro reso caldo dal ritorno con un nuovo full length a otto anni dal precedente, avvenuto lo scorso anno con The Age Of Aquarius, i Gloomy Grim pubblicano, via Symbol of Domination/Murdher, questa compilation contenente i due primi demo editi dalla band finlandese.

All’epoca Fuck the World, Kill the Jehova! (1996) e Friendship Is Friendship, War Is War! (1997) erano il frutto del lavoro solista di Agathon, il quale in seguito, pur mantenendone salde le redini, ha reso la sua creatura un band vera e propria.
I Gloomy Grim hanno sempre proposto un symphonic black metal dai tratti orrorifici e dagli esiti alterni ma nel complesso piuttosto interessante: quanto proposto in questa occasione altro non è che la fotografia di un progetto ancora in embrione, con diverse idee valide ma ancora da sviluppare e suoni rivedibili, soprattutto per quelli di tastiera piuttosto plastificati.
Tra gli otto brani offerti appaiono decisamente migliori i tre conclusivi, ovvero quelli corrispondenti al secondo demo, denotando come è naturale che sia un certo progresso rispetto a quello prodotto l’anno prima ma, evidentemente, una riproposizione pari pari di musica composta e incisa vent’anni fa risulta meno efficace e meno utile rispetto a quanto avrebbe potuto rappresentarne la sua riedizione ex novo.
Massimo rispetto per Agathon ed il suo lungo percorso artistico, e per la Symnbol Of Domination, etichetta ucraina che quasi sempre porta alla luce interessanti realtà sommerse dell’underground metal, ma questa uscita può risultare appetibile solo per quelli che ritengono i Gloomy Grim una band fondamentale (immagino che non siano moltissimi), mentre per tutti gli altri direi che si può tranquillamente passare oltre.

Tracklist:
01. Temple Of Agathon
02. Written In Blood
03. Pope Of The Black Arts
04. Asylum
05. Outro
06. War / Ashes
07. Blood
08. Reign

Line-up:
Agathon

GLOOMY GRIM – Facebook

Celesterre – The Wild

Il sound dei Celesterre convince soprattutto nei momenti in cui il sound si fa più epico ed evocativo, un po’ meno negli altri frangenti: resta comunque apprezzabile l’approccio non convenzionale della band olandese, che ha il merito di provare a svincolarsi dagli schemi consolidati.

Primo full length per questa band olandese denominata Celesterre, che si cimenta con un heavy doom dai tratti epici uscendo parzialmente dagli schemi stilistici più cupi ed estremi ai quali ci hanno abituato la Naturmacht e la sua sub-label Rain Without End.

Il sound della band di Den Haag è abbastanza arioso, pur conservando la cadenza tipica del classic doom, complice anche un’interpretazione sentita e stentorea del cantante/chitarrista/bassista Wouter Klinkenberg e di una serie non così scontata di assoli dallo splendido impatto melodico.
The Wild è un album strano, nel senso che il più delle volte sembra intraprendere strade imprevedibili per poi riportarsi in un alveo più tradizionale, lasciando però sempre la sensazione che queste divagazioni siano funzionali nel rendere più efficace il cammino all’interno dei sentieri sicuri e conosciuti.
Complessivamente il lavoro gode di una prima parte davvero brillante, grazie ad un pugno di brani intensi, melodici e venati di un’epicità che costituisce un deciso valore aggiunto: in Burst Into Life e Ramfight At Sundown, soprattutto, tali schemi compositivi vengono eseguiti in maniera brillante, mentre la più pacata ed acustica Endure The Cold è una piacevole oasi prima che l’istrionica (e forse un po’ fuori contesto) title track inauguri una fase del lavoro meno ispirata, pur mantenendosi su livelli più che accettabili, fino alla conclusiva e nuovamente efficace A Celebration Of Decay.
Di collocazione non semplice ma sicuramente dotato di una sua impronta personale, il sound dei Celesterre convince soprattutto nei momenti in cui il sound si fa più epico ed evocativo, un po’ meno negli altri frangenti: resta comunque apprezzabile l’approccio non convenzionale della band olandese, che ha il merito di provare a svincolarsi dagli schemi consolidati dimostrando una vis compositiva foriera di sviluppi interessanti nel presente e, ancor più, in futuro.

Tracklist:
1. Burst Into Life
2. Instinct
3. Ramfight At Sundown
4. Endure The Cold
5. The Wild
6. Hunger
7. The Pecking Order
8. A Celebration Of Decay

Line up:
Tim Zuidema – Drums
M. – Vocals (female)
Wouter Klinkenberg – Vocals, Guitars, Bass
Floris Kerkhoff – Guitars

CELESTERRE – Facebook

AFTER DUSK

Il lyric video di “Pyroclastic Flow (Honeydoom)”, dall’album “The Character Of Physical Law”.

Il lyric video di “Pyroclastic Flow (Honeydoom)”, dall’album “The Character Of Physical Law”.

Jag Panzer – The Deviant Chord

The Deviant Chord è un lavoro riuscito a base di puro metal statunitense e regge il confronto con gli album passati del gruppo, sorprendendo in positivo con una manciata di brani potenti e melodici.

Gli anni passano, i primi anni ottanta sono ormai solo un ricordo di giovinezza per molti di noi, ma il metal classico continua a mietere vittime, magari non come in passato ma con il vigore dei tempi migliori.

Lo storico gruppo del Colorado è una delle realtà nate negli anni d’oro del metal classico, ed oggi arriva con il nuovo album a toccare la doppia cifra per quanto riguarda i lavori ufficiali di una discografia neanche troppo ampia ma che, specialmente tra la fine degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio, ha avuto il suo massimo splendore con una manciata di album che hanno marchiato a fuoco il nome dei Jag Panzer come una tra i più importanti d’oltreoceano, almeno nel genere suonato.
La band torna con The Deviant Chord, un lavoro che più classico non si può, pregno di quella drammatica oscurità che aleggia sul genere suonato negli States, valorizzato dallo stato di grazia della coppia d’asce Tafolla/Briody, da una prova tutta grinta ed esperienza di Conklin al microfono e dalla sezione ritmica (Rikard Stjernquist alle pelli e John Tetley al basso) che accompagna i tre fuoriclasse con un’anima progressiva impressa ai molti cambi di tempo che sono la parte nobile del sound, insieme a qualche solo dal sapore neoclassico.
La copertina ricorda temi sci-fi (in verità bruttina) e il sound non perde un colpo, arcigno ma nobile, foriero di tempeste heavy/power e solcato da un’anima prog che si veste di nero per andare incontro ai colleghi che con i Jag Panzer hanno fatto la storia del genere.
The Deviant Chord è un lavoro riuscito a base di puro metal statunitense e regge il confronto con gli album passati del gruppo, sorprendendo in positivo con una manciata di brani potenti e melodici come Born Of The Flame, la title track, la progressiva Divine Intervention e l’inarrestabile Salacious Behavior.
Complimenti a questi cinque veterani  dell’heavy metal americano, tornati in forma come in passato con questo ultimo lavoro.

Tracklist
1.Born Of The Flame
2.Far Beyond All Fear
3.The Deviant Chord
4.Blacklist
5.Foggy Dew
6.Divine Intervention
7.Long Awaited Kiss
8.Salacious Behavior
9.Fire Of Our Spirit
10.Dare

Line-up
Harry Conklin – vocals
Mark Briody – guitars
Joey Tafolla – guitars
John Tetley – bass
Rikard Stjernquist – drums

JAG PANZER – Facebook

Vulture – The Guillotine

Nel genere, The Guillotine si difende bene e il metal suonato dal gruppo convince con soluzioni che ricordano i primi passi dei gruppi storici della scena power/speed tedesca, con i Judas Priest a fare da imprescindibili tutori.

Band nuova ma sound vecchio, per gli amanti dell’heavy metal old school, arrivano i tedeschi Vulture, quattro musicisti in trip per lo speed metal anni ottanta.

Heavy, speed, oggi ci siamo abituati ad usare una marea di aggettivi per descrivere quello che altro non è che heavy metal, veloce, diretto e senza compromessi.
La produzione segue il trademark dell’album, con la voce che rimane ovattata ed in secondo piano rispetto alle ritmiche, e le sei corde che partono sgommando per chissà quali mete, tra cavalcate e solos che tagliano come lame appena affilate.
Il quartetto è attivo da un paio d’anni ed ora entra nel roster della High Roller Records ad infoltire l’esercito di gruppi dediti al metal old school.
Nel genere, The Guillotine si difende bene e il metal suonato dal gruppo convince con soluzioni che ricordano i primi passi dei gruppi storici della scena power/speed tedesca, con i Judas Priest a fare da imprescindibili tutori.
L’opener Vendetta, da cui è tratto un video, apre le ostilità e The Guillotine non si ferma più tra ritmiche straordinariamente veloci, ottimi solos e tanta attitudine vecchia scuola, assolutamente perfetta per sollucherare l’appetito degli amanti dei suoni underground anni ottanta.
Stiamo parlando di un lavoro dignitoso ma assolutamente per appassionati del genere, quindi si astenga chi stravede per il decennio d’oro del metal classico.

Tracklist
1. Vendetta
2. Clashing Iron
3. Triumph Of The Guillotine
4. Electric Ecstasy
5. Adrian’s Cradle
6. (This Night Belongs) To The Dead
7. Paraphiliac
8. Cry For Death

Line-up
L. Steeler – Vocals
M. Outlaw – Guitars
S. Genozider – Guitars & Drums
A. Axetinctor – Bass

VULTURE – Facebook

Corpus Diavolis – Atra Lumen

L’operato dei Corpus Diavolis si rivela soddisfacente ma la loro integrità concettuale non basta per elevare Atra Lumen ad un livello di eccellenza, relegandolo allo status di lavoro apprezzabile ma non imprescindibile.

Terzo full length per i marsigliesi Corpus Diavolis, esponenti della vivace scuola black metal transalpina.

L’appartenenza a tale scena non è solo un dato geografico, perché nel nuovo secolo abbiamo imparato a conoscere ed apprezzare una maniera di interpretare il genere in maniera obliqua, sovente spiccatamente sperimentale, sicuramente mai banale.
I Corpus Diavolis si inseriscono di diritto in tale contesto con il loro sound aspro e per lo più essenziale, volto a sottolineare quell’oscurità che ne è parte fondante non solo nel titolo.
Meno dissonante rispetto a quello di altri connazionali, il black offerto da questi marsigliesi si fa talvolta più rallentato arrivando a lambire il doom: difficile trovare qui un brano trainante, perché il tutto nel complesso è caratterizzato da una certa uniformità, mancando sia di particolari picchi sia di evidenti cali qualitativi, ma dovendo proprio scegliere credo che Signs Of End Times costituisca l’episodio più significativo, tra atmosfere cariche di tensione, brusche accelerazioni ed un finale di maestosa ed oscura solennità.
La registrazione affidata a Greg Chandler è il segnale forte e chiaro che non è stato lasciato nulla di intentato per rendere quest’album inattaccabile a livello di suoni e il risultato in tal senso è del tutto garantito, ma quello che manca ad Atra Lumen è una maggiore capacità di penetrazione, ostacolata da un approccio complessivo piuttosto algido che ne rende difficile l’assimilazione.
In definitiva l’operato dei Corpus Diavolis si rivela soddisfacente ma la loro integrità concettuale non basta per elevare Atra Lumen ad un livello di eccellenza, relegandolo allo status di lavoro apprezzabile ma non imprescindibile.

Tracklist:
1. Revelations Before Dawn
2. The Ardent Jewel of His Presence
3. L’Oeil Unique
4. Signs Of End Times
5. Wine of The Beast
6. Flesh to Flesh
7. Thy Glorification
8. Sick Waters

Line up:
Analyser – Guitars
Lord Khaos – Guitars
Daemonicreator – Vocals
IX – Drums

CORPUS DIAVOLIS – Facebook

The Father Of Serpents – Age Of Damnation

Cercando di mettere contemporaneamente sul piatto gli influssi provenienti soprattutto da Moonspell, My Dying Bride e Paradise Lost, i The Father Of Serpents riescono senza dubbio nella non facile impresa e, laddove viene sacrificata in parte la freschezza della proposta, si riceve in cambio un’interpretazione pulita e ricca di buoni spunti melodici.

Gothic death doom di buona fattura è quello che ci arriva da Belgrado grazie ai The Father Of Serpents.

Cercando di mettere contemporaneamente sul piatto gli influssi provenienti soprattutto da giganti del genere come Moonspell, My Dying Bride e Paradise Lost, i nostri riescono senza dubbio nella non facile impresa e laddove viene sacrificata in parte la freschezza della proposta si riceve in cambio un’interpretazione pulita e ricca di buoni spunti melodici.
In effetti, l’unica critica attribuibile alla band serba è proprio quella di sembrare ogni tanto una congrega di bravissimi assemblatori delle intuizioni altrui, sensazione che prende piede, per esempio, fin dal secondo brano The Flesh Altar, con il suo riff portante simile a quello di Lesbian Show dei Nightfall, e che si protrae sino al termine, con l’appassionato più esperto che si diletterà nel rinvenire passaggi che rievocano, in maniera comunque mai troppo marcata, il meglio offerto dal genere negli ultimi vent’anni.
Detto ciò, veniamo ai lati positivi, che poi sono nettamente prevalenti su qualsiasi altra considerazione: i The Father Of Serpents, con Age Of Damnation mettono assieme un’opera dal notevole spessore qualitativo, con una decina di brani caratterizzati da un invidiabile equilibrio tra ruvidezza e melodia, esprimendo un gothic doom spesso elegante nel quale l’utilizzo appropriato del violino (ad opera di Pavle Sovilj, che si occupa anche delle clean vocals) conferisce in più di un frangente un decisivo tocco malinconico.
Il sestetto slavo fornisce una prova priva di sbavature, i suoni sono ottimi così come gli arrangiamenti, l’uso della doppia voce risulta inattaccabile (l’ottimo growl è opera di Tamerlan, il quale però ha da poco abbandonato la band) e si fatica davvero a trovare un brano che non sia all’altezza della situazione, con menzione d’obbligo per la notevole Tainted Blood e non solo per la citazione dantesca (“lasciate ogni speranza voi che entrate”, declamata con una dizione invero rivedibile).
Questo quadro complessivo ci suggerisce che Age Of Damnation è un album rimarchevole, prodotto da una band dal sicuro potenziale che deve fare, però, solo un piccolo sforzo per imprimere un marchio personale alla propria musica, pena la permanenza nel confortevole limbo delle realtà di buon livello ma nulla più.

Tracklist:
1. The Walls of No Salvation
2. The Flesh Altar
3. Tale of Prophet
4. The Grave for Universe
5. Tainted Blood
6. The Afterlife Symphony
7. The Quiet Ones
8. The God Will Weep for You
9. The Last Encore
10. Viral

Line-up:
Tamerlan – Vocals (growls/screams/narrations)
Pavle Sovilj – Vocals (clean) & Violin
Igor Lončar – Guitars
Željko Zec – Guitars
Milan Šuput – Bass
Aleksandar Maksimović – Drums

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