Párodos – Catharsis

La speranza è che questo, per i Párodos, sia solo il primo passo del brillante cammino intrapreso da una nuova band formata da musicisti che, forse proprio in quest’ambito, paiono aver trovato la loro ideale dimensione.

Anche se il monicker Párodos è una novità nella scena metal italiana, si tratta in realtà del prodotto dell’unione di musicisti già attivi in diverse band dell’area salernitana.

Catharsis dimostra in ogni passaggio d’essere frutto di un lavoro di squadra nel quale nulla è stato lasciato al caso, partendo dal pregevole songwriting per arrivare alla realizzazione curata da Marco Mastrobuono ai Kick Recordings Studio di Roma, in quella che si può considerare la fucina sonora per eccellenza del metal italiano centro-meridionale.
L’etichetta di avantgarde/post black attribuita ai Párodos può starci anche se, come spesso accade, vuol dire tutto e niente, visto che qui troviamo certamente qualche accelerazione di matrice black, ma anche una ricerca melodica che spinge spesso il sound su versanti heavy progressive, mantenendo quale tratto comune un’oscurità di fondo che ben si addice ai contenuti lirici dell’album.
Catharsis, infattiscaturisce dall’elaborazione di un lutto entrando a far parte di quella categoria di dischi che, oltre ad essere riusciti da un punto di vista prettamente artistico, racchiudono quella scintilla di creatività derivante dalla volontà di omaggiare qualcuno che non c’è più ottenendo, appunto, il desiderato effetto “catartico”.
L’album è brillante in ogni sua parte, a partir dall’interpretazione vocale versatile di Marco Alfieri, per arrivare all’elegante ed  incisivo lavoro tastieristico di Giovanni Costabile, passando per la puntualità ritmica della coppia Gianpiero “Orion” Sica (basso) ed Alessandro Martellone (batteria), e per il sobrio ed efficace lavoro chitarristico di Francesco Del Vecchio: è notevole l’equilibrio che i Párodos riescono a mantenere tra la tensione drammatica e l’impatto melodico, che sovente squarcia con decisione il velo di oscurità che attanaglia un album di grande intensità emotiva.
Space Omega, la title track e Metamorphosis sono i brani che spiccano in un contesto di spessore talvolta sorprendente, e gli ospiti illustri nelle persone dello stesso Marco Mastrobuono (Hour Of penance), Massimiliano Pagliuso (Novembre) e Francesco Ferrini (Fleshgod Apocalyspe) arricchiscono del loro personale marchio di qualità un’opera che si dimostra già dopo pochi ascolti ben superiore alla media.
La speranza è che questo, per i Párodos, sia solo il primo passo del brillante cammino intrapreso da una nuova band formata da musicisti che, forse proprio in quest’ambito, paiono aver trovato la loro ideale dimensione.

Tracklist:
1. Prologue
2. Space Omega
3. Catharsis
4. Heart of Darkness
5. Stasima
6. Black Cross
7. Evocazione
8. Metamorphosis
9. Exodus

Line-up:
Marco “M.” Alfieri – Vocals
Giovanni “Hybris” Costabile – Synth & Keyboards
Francesco “Oudeis” Del Vecchio – Guitars
Gianpiero “Orion” Sica – Bass
Alessandro “Okeanos” Martellone – Drums & Percussions

Special Guests :
Marco Mastrobuono – fretless bass in “Space Omega”, “Black Cross”, “Evocazione”
Massimiliano Pagliuso – guitar solo in “Black Cross”
Francesco Ferrini – “Stasima”, fully arranged and composed

PARODOS – Facebook

Kabbalah – Spectral Anscent

L’album, che definire vintage è un eufemismo, piacerà non poco ai doomsters dai gusti classici, con le tre musiciste spagnole che hanno il merito di mantenere alta la componente atmosferica e rituale senza perdere nulla in impatto.

E chi l’ha detto che per fare doom rock bisogna per forza avere folti barboni a coprire i manici delle chitarre e vocioni alla zio Ozzy in perenne trip? Chi meglio di tre streghe spagnole, può suonare retro rock, mistico ed occulto, liturgico e sabbathiano?

Benvenuti ai piedi dell’altare dove le tre sacerdotesse (Marga, Carmen e Alba) vi ipnotizzeranno per poi sacrificarvi nel bel mezzo di una messa dai colori scuri e ombre luciferine.
Le Kabbalah tornano con questo nuovo lavoro e ci imprigionano nel loro vortice di musica doom/psichedelica devota agli anni settanta e al filone occulto del rock e dell’ hard rock.
Quindi niente scherzi, lasciate perdere le trovate pubblicitarie su testi letti alla rovescia delle icone del rock mondiale, le tre musiciste spagnole fanno sul serio, imprigionandovi con incantesimi stregoneschi e sacrificandovi sull’altare mentre un lungo pugnale maledettamente lucido rispende nell’oscurità prima di stapparvi il cuore al ritmo di Resurrected, The Darkest End, o Dark Revelation.
La componente psichedelica che si insinua come un serpente albino nelle trame ricoperte da insidiose ragnatele dove dominano aracnidi dal morso letale e mid tempo che avvolgono lo spartito tra oscure note liturgiche, sono il contorno al doom rock di scuola Black Sabbath che le Kabbalah creano quale colonna sonora ai loro pericolosissimi sabba, mentre tutto intorno l’odore di incenso copre quello dolciastro e ferroso del sangue.
Album che definire vintage è un eufemismo, piacerà non poco ai doomsters dai gusti classici, le tre musiciste spagnole hanno il merito di mantenere alta la componente atmosferica e rituale senza perdere nulla in impatto.

Tracklist
1.Spectral Ascent
2.Resurrected
3.Phantasmal Planetoid
4.The Darkest End
5.The Reverend
6.The Darkness of Time
7.Dark Revelation
8.The Shadow
9.Presence

Line-up
Marga
Carmen
Alba

KABBALAH – Facebook

Grima – Tales of the Enchanted Woods

Un lavoro che squarcia il velo sul talento di questi due ragazzi, per i quali mi piace pensare che il comune sentire causato dalla loro condizione gemellare abbia realmente fatto la differenza.

Uno degli aspetti negativi dell’essere più o meno sommersi da materiale proveniente da ogni parte del globo è quello di rischiare di trascurare dischi di enorme valore: ecco perché ci ritroviamo a parlare di questo secondo album dei russi Grima a ben otto mesi dalla sua uscita nonostante si riveli, alla prova dei fatti, uno dei migliori album di black metal atmosferici usciti nel corso dell’anno.

Del resto bisognerebbe anche fidarsi delle etichette che promuovono questi lavori, in questo caso la Naturmacht che di colpi, oggettivamente, ne sbaglia ben pochi: qui però il centro è pieno, perché Tales of the Enchanted Woods è una delle espressioni più fresche ed entusiasmanti del genere che ci sia stato dato modo di ascoltare in tempi recenti.
I Grima sono un duo siberiano formato dai gemelli Gleb e Maxim Sysoev (membri anche degli Ultar), qui con i nickname Vilhelm e Morbius, i quali annichiliscono ed emozionano con il loro black metal epico e maestoso, capace di prendere il meglio dalla scena scandinava e tedesca, iniettandovi una sognante componente cascadiana, splendide venature folk grazie all’inserimento della fisarmonica ed un velenoso screaming che rimanda parzialmente ai Cradle Of Filth.
Tutte queste componenti si amalgamano alla perfezione dando vita ad un lavoro che si sviluppa su cinque tracce portanti più tre strumentali; se l’ascolto, come a volte accade, inizia in maniera un po’ distratta, i Grima impiegano poco per catalizzare l’attenzione con un brano ottimo come The Moon And Its Shadows e, successivamente, con il capolavoro Ritual, grazie al suo enorme carico evocativo dovuto ad una stupefacente capacitò del duo di creare melodie di rara solennità. Never Get Off The Trail , The Grief (con trame chitarristiche che ne illuminano il finale), The Shepherds Of The sono altre perle che trasportano l’ascoltatore all’interno delle maestose e gelide foreste siberiane, protette da uno spirito che ne tutela gli abitanti e che punisce severamente chi non ne rispetta le forme di vita animale e vegetale (forse è l’unico tipo di divinità della quale ci sarebbe veramente bisogno …).
I Grima regalano quasi tre quarti d’ora di magnificenza oscura ed atmosferica, con un ispirazione ed una freschezza che fanno passare sopra a qualche piccola sbavatura esecutiva e l’assenza di un batterista in carne ed ossa.
Inezie, se rapportate al valore complessivo di un lavoro che squarcia il velo sul talento di questi due ragazzi, per i quali mi piace pensare che il comune sentire causato dalla loro condizione gemellare abbia realmente fatto la differenza

Tracklist:
1. The Sentry Peak
2. The Moon And Its Shadows
3. Ritual
4. Wolfberry
5. Never Get Off The Trail
6. The Grief
7. The Shepherds Of The
8. The Sorrow Bringer

Line-up
Morbius – Guitars
Vilhelm – Vocals, Guitars, Programming

GRIMA – Facebook

Divinity Compromised – Terminal

The Terminal risulta un album discreto anche se con qualche difetto, che i Divinty Compromised dovranno correggere in futuro se non vorranno rimanere nel limbo dei soli cultori del prog metal underground.

Progressive metal che punta molto sulla melodia senza rinunciare alla componente metallica di estrazione americana, proprio come il paese d’origine del gruppo.

Stiamo parlando dei progsters dell’Illinois Divinity Compromised, sestetto giunto al secondo album dopo A World Torn, debutto licenziato quattro anni fa.
Prog metal che si discosta dall’usuale solo per una drammaticità di fondo tipica dell’U,S. metal, altra fonte di ispirazione insieme al thrash per il sestetto che, in regime di autoproduzione, dà alle stampe un lavoro tutto sommato discreto, magari poco personale ma ben bilanciato tra melodie, evoluzioni progressive e ripartenze power/thrash.
Leggermente prolisso, in verità, Terminal alterna momenti interessanti ad altri già sentiti ma che riescono, anche se con un po’ di fatica, a tenere la tensione su livelli sufficientemente alti, grazie alle atmosfere drammatiche di scuola Nevermore ed Evergrey.
L’album parte bene, le melodie della title track risultano un buon biglietto da visita, le ritmiche corrono veloci e le tastiere ricamano fraseggi moderni prima di lasciare alle chitarre il palcoscenico.
Il metal estremo è un’ altra componete importante nella musica dei Divinity Compromised, in evidenza nell’atomica The Definition Of Insanity, tra Dream Theater e Nevermore, thrash progressivo pesantemente influenzato da un’anima intimista e tragica.
Il cantato di Lothar Keller è quanto di più simile al giovane La Brie troverete in giro, mentre il sound continua la sua corsa tra le molte anime del metal americano, dai Queensryche ai Symphony X, passando per i Metal Church, il tutto passato nel frullatore progressivo del gruppo del cantante canadese.
C’è ancora l’ottima Legacy ad alzare il valore di un album discreto anche se con qualche difetto, che il gruppo dovrà correggere in futuro se non vorrà rimanere nel limbo dei soli cultori del prog metal underground.
Promossi, ma si può e si deve fare di più, le potenzialità ci sono tutte.

Tracklist
1.Terminal
2.Shelter in Place
3.My Escape
4.The Definition of Insanity
5.The Last Refugee
6.Free to Speak
7.Legacy
8.The Fall of Æstoria
9.Saving Grace

Line-up
Andy Bunk – Bass
Ben Johnson – Guitars, Keyboards
Lothar Keller – Vocals
Mike Mousel – Drums
Jeff Treadwell – Lead Guitars

DIVINITY COMPROMISED – Facebook

Ruxt – Running out Of Time

Una perfetta simbiosi tra i maestri (Rainbow, Dio, Whitesnake) e i loro eredi (Lande, Astral Doors), questo è se Running Out Of Time, secondo imperdibile album dei Ruxt.

Neppure il tempo di archiviare le bellissime trame power di Metalmorphosis, opera licenziata dagli Athlantis di Steve Vawamas, che la Diamonds Prod. sforna il secondo lavoro dei Ruxt, band hard & heavy che, oltre al bassista in forza pure a Mastercastle, Bellathrix ed Odyssea, vede all’opera Stefano Galleano ed Andrea Raffaele (Snake, Rock.It), il batterista Alessio Spallarossa (Sadist) ed il talentuoso vocalist Matt Bernardi (Purplesnake).

Ed è ancora una volta, tra gli stretti vicoli di una Genova mai così metallica, che si consuma il secondo rito targato Ruxt, un altro riuscito esempio di nobile metallo, pregno di atmosfere hard’n’heavy che, di questi temp,i molti preferiscono chiamare old school ma che è invece semplicemente classico.,
Certo, probabilmente il sound del gruppo è il più ottantiano tra quelli in dote alle band che gravitano intorno alla scena sviluppatasi nei dintorni del capoluogo ligure, ma per gli amanti dell’ hard & heavy targato Rainbow, Dio, Whitesnake, Lande, ed Astral Doors, anche Running Out Of Time. come il primo Behind The Masquerade (uscito lo scorso anno) risulterà una vera cavalcata tra le sonorità che hanno reso famose questi grandi interpreti della nostra musica preferita.
Un songwriting di alto livello, accompagnato da una prova esemplare del buon Matt “Jorn” Berardi, fanno sussultare dalla poltrona più di un fans del metal/rock classico, tra arcobaleni, serpenti bianchi, folletti dal cognome religiosamente importante, talentuosi omoni nordici dal microfono facile e porte astrali, che si aprono su un mondo dove le sei corde squarciano il cielo, con solos che sono tuoni e fulmini nel tramonto, oscure e drammatiche trame dal flavour epico che a suo tempo fecero storia e chorus che sprizzano orgoglio metallico.
Un album più diretto rispetto al debutto, un mastodontico pezzo di granito hard & heavy che risveglia gli appetiti dei fans legati alla tradizione con una serie di brani pesanti, colmi di epica tragicità e che regala nel suo insieme tanta buona musica, anche se la title track, posta in apertura e perfetto ed esplosivo brano alla Lande che ci invita all’ascolto dell’album, il nuovo singolo e video Everytime Everywhere, con Pier Gonella (Necrodeath, Mastercastle, Vanexa, Odissea, Athlantis) in veste di ospite, l’accoppiata Leap In The Dark/Let Me Out, e lo spettacolare mid tempo Queen Of The World sono i pezzi pregiati che troverete in questo ennesimo scrigno da aprire senza indugi per coglierne i tesori.
Una perfetta simbiosi tra i maestri (Rainbow, Dio, Whitesnake) e i loro eredi (Lande, Astral Doors), questo è Running Out Of Time, secondo imperdibile album dei Ruxt.

Tracklist
1.Running out of Time
2.Legacy
3.In the Name of Freedom
4.Everytime Everywhere
5.Scars
6.Leap in the Dark
7.Let me Out
8.My Star
9.Queen of the World
10.Heaven or Hell

Line-up
Matt Bernardi – Vocals
Stefano Galleano – Guitars
Andrea Raffaele – Guitars
Steve Vawamas – Bass
Alessio Spallarossa- Drums

RUXT – Facebook

Omega – Eve

Un altro livello di lettura è chiudere gli occhi e sentire cosa fa veramente questa musica, cosa provoca nelle nostre sinapsi: in codesta maniera si potrà scoprire un mondo, una raccolta di emozioni e stati d’animo come in un’ipnosi, perché questo disco è concepito per farci viaggiare alla ricerca del nostro io, della nostra volontà su questo pianeta, ma anche e soprattutto oltre questo pianeta e questi limiti che ci imponiamo.

Eve degli Omega è un disco che va ben oltre le emozioni che da un supporto fonografico, fa vedere orizzonti lontani.

Il disco è composto da vari livelli, quello più immediato può essere descrivibile come un tenebroso disco di black metal misto a doom ed un pizzico di death, con stacchi dark ambient. Un altro livello di lettura è chiudere gli occhi e sentire cosa fa veramente questa musica, cosa provoca nelle nostre sinapsi: in codesta maniera si potrà scoprire un mondo, una raccolta di emozioni e stati d’animo come in un’ipnosi, perché questo disco è concepito per farci viaggiare alla ricerca del nostro io, della nostra volontà su questo pianeta, ma anche e soprattutto oltre questo pianeta e questi limiti che ci imponiamo. Le tracce sono quattro, il disco va sentito come un continuum sonoro, una lunga suite di musica estrema. Eve è ispirato dal manoscritto Voynich, forse il libro più misterioso mai scritto, o forse soltanto un tentativo di oltrepassare la realtà andando oltre i sensi, in un flusso che lega tutto ciò che è stato, tutto ciò che è e tutto ciò che sarà. Lo stile musicale è pienamente narrativo, veniamo trasportati in una storia dall’architettura profonda con l’uomo al centro, ed intorno un universo che vortica. Il black metal qui è un punto di partenza, perché il suono di questo disco ne ha molti elementi, ma è un’opera nuova ed originale. Nel nuovo splendido libro Black Metal Compendium Volume II – Europa e Regno Unito – di Vavalà e Ottolenghi per i tipi della Tsunami Edizioni, gli autori spiegano molto bene cosa sia il black metal per noi mediterranei, ed in particolare per noi italiani, ovvero un codice da far evolvere, un punto di partenza per profonde esplorazioni, e Eve ne è la spiegazione perfetta: un manoscritto Voynich che ognuno deve decifrare, perché parla di noi stessi, della nostra storia, e della cosmogonia che abbiamo dentro. Un’esperienza, molto più di un disco.

Tracklist
1.Arboreis
2.Sidera
3.Mater
4.Laudanum

Line-up
Alexios Ciancio – Vocals
Mike Crinella – Guitars, Synths, Samples
Fabio Arcangeli – Bass
Marco Ceccarelli – Drums

DUSKTONE – Facebook

Inconcessus Lux Lucis – The Crowning Quietus

Trascinante e adrenalinico, The Crowning Quietus è l’ascolto ideale per ripulirsi dalle scorie della quotidianità e combattere efficacemente “il logorio della vita moderna”, parafrasando una famosa pubblicità di altri tempi …

La I, Voidhanger è una label alla quale si associa in maniera automatica l’ascolto dischi tutt’altro che banali, se non talvolta cervellotici o di complessa decrittazione, a seconda dei punti di vista.

Tanto per togliere qualsiasi dubbio all’audience sulla qualità e la varietà del proprio roster, l’attiva etichetta italiana consegna alle stampe questo sismico The Crowning Quietus, secondo full length dei britannici Inconcessus Lux Lucis, che poi a ben vedere sarebbe il terzo, tenendo condo anche di quello inciso nella prima parte della loro storia con il monicker Whorethorn.
Baal e Malphas fanno coppia artisticamente da oltre un decennio e credo che la loro comunione d’intenti si evinca fin dalle prime note dell’album: il duo, infatti, offre un black metal senza orpelli di alcun tipo, stante una pesante propensione per il rock’n’roll che rende questi sei brani una piacevole ed inarrestabile galoppata verso gli inferi, un luogo ameno nel quale, visto che ci si dovrà trascorrere un po’ di tempo, è forse meglio accedere con il giusto piglio, e direi che, all’uopo, farsi precedere dal sound degli Inconcessus Lux Lucis sia il modo più indicato per rendersi simpatici ai padroni di casa.
The Crowning Quietus parte sparato, con le sue pesanti iniezioni di hard ‘n’heavy d’autore, ed arriva altrettanto forte, con l’unica anomalia di chiudersi con tre brani piuttosto lunghi per il genere, comunque ben lontani dal rischio di apparire tediosi, visto che proprio grazie al loro protrarsi sono anche quelli che presentano le maggiori variazioni ritmiche nonché apprezzabili spunti di chitarra solista, con il brano di chiusura Fever Upon The Firmament che, nel finale, diventa una vera e propria cavalcata maideniana.
Trascinante e adrenalinico, The Crowning Quietus è l’ascolto ideale per ripulirsi dalle scorie della quotidianità e combattere efficacemente “il logorio della vita moderna”, parafrasando una famosa pubblicità di altri tempi …

Tracklist:
1. With Leaden Hooks And Chains
2. Amour Rides Upon Midnight
3. At The Behest Of The Sinister Impulse
4. To Satiate Silence
5. The Crowning Quietus
6. Fever Upon The Firmament

Line-up:
W. Malphas – Guitars/Drums/Vocals
A. Baal – Bass Guitar

INCONCESSUS LUX LUCIS – Facebook

Fozzy – Judas

Judas è un album ideato per sfondare sul mercato, non solo americano ovviamente; l’appeal non manca, così come le caratteristiche peculiari per fare dei Fozzy la rock band del momento: se ci riusciranno si vedrà con il tempo, ma c’è da scommetterci.

Tornano i Fozzy, la band del wrestler Chris Jericho e del chitarrista dei metal rappers Stuck Mojo con il nuovo album Judas, licenziato dalla Century Media.

Chi l’avrebbe mai detto, all’alba del nuovo millennio e all’uscita del primo album omonimo che la band capitanata da Jericho sarebbe arrivata a quasi vent’anni di attività e vicino alla doppia cifra in quanto ad uscite discografiche; eppure il successo (dovuto anche all’attività del cantante/lottatore) è arrivato con un rock che ha sempre mostrato i suoi due volti (potenza e melodia) mantenendo un approccio ruffiano che negli States significa primi posti nelle classifiche, video in rotazione continua sui media, copertine dei magazines di settore e dischi venduti a vagonate.
Judas, a ben sentire, non si discosta da quello che il gruppo ha presentato ai propri fans in tutti questi anni: rock ad alto voltaggio, melodico e dal groove che esplode in chorus e riff scritti per accompagnare Jericho sul palco come sul ring, una buona dose di ispirazione che porta alla tradizione rock/metal americana (si parla di Kiss sulla presentazione dell’album, ma il sottoscritto opta per un Ozzy Osbourne vecchia maniera) e tanto moderno alternative metal, dagli Alter Bridge, agli Avenged Sevenfold.
Judas accende la miccia con la title track posta furbescamente in apertura e che risulta il sunto di questo lavoro; scorrendo poi la track list ci si imbatte in brani più potenti (Painless, Three Days In Jail), altri dal flavour moderno e che strizzano l’occhiolino all’elettronica (Burn Me Out) e le solite e più leccate song da sbancare classifiche.
L’album è ideato per sfondare sul mercato, non solo americano ovviamente; l’appeal non manca, così come le caratteristiche peculiari per fare dei Fozzy la rock band del momento: se ci riusciranno si vedrà con il tempo, ma c’è da scommetterci.

Tracklist
1. Judas
2. Drinkin With Jesus
3. Painless
4. Weight Of My World
5. Wordsworth Way
6. Burn Me Out
7. Three Days In Jail
8. Elevator
9. Running With The Bulls
10. Capsized
11. Wolves At Bay

Line-up
Chris Jericho – vocals
Rich Ward – guitars, vocals
Frank Fontsere – drums
Billy Grey – guitars
Paul DiLeo – bass

FOZZY – Facebook

Elmo Karjalainen – Age Of Heroes

Quarto album solista per Elmo Karjalainen, ex chitarrista dei melodic rocker finlandesi Deathlike Silence, che con Age Of Heroes è protagonista di un buon lavoro di metal strumentale, leggermente prolisso ma consigliato agli amanti dei guitar heroes.

Quarto lavoro strumentale per l’ex chitarrista del Deathlike Silence, gruppo hard rock melodico pregno di atmosfere horror e gotiche, che nel 2009 licenziò il bellissimo ed ultimo album Saturday Night Evil.

Del sestetto di Turku abbiamo purtroppo perso le tracce, mentre il suo axeman dal 2012 ha intrapreso la carriera solista con una serie di lavori strumentali di ottima fattura.
Poco conosciuto fuori dal territorio nazionale, Elmo Karjalainen giunge al quarto album, interamente scritto da lui, una lunga jam strumentale di settanta minuti (forse troppi) dove il metal e l’hard rock incontrano varie soluzioni stilistiche, sognanti atmosfere pinkfloydiane tra musica dura e progressiva.
Le influenze del musicista finlandese sono da attribuire ai maghi delle sei corde che tanto hanno fatto parlare in passato gli addetti ai lavori (Paul Gilbert, Joe Satriani e Yngwie J. Malmsteen), quindi l’opera è adatta ai palati metallici, anche se in così tanti minuti troverete riferimenti a più di un’ icona del rock /metal mondiale.
Age Of Heroes ha nella sua eccessiva durata il punto debole, anche se la musica suonata da Karjalainen non si avvolge su se stessa come quella di molti suoi colleghi.
How Can Less Be More, The Grassy Gnoll, la doppietta composta dalla title track e dalla speed metal song A Meeting Of The Gods (And This Guy), sono i momenti più interessanti di un album che rischia di passare inosservato come i suoi predecessori, mentre meriterebbe più di attenzione da parte degli amanti del genere, anche se come detto il minutaggio non gioca a favore della fruibilità, importantissima in lavori come Age Of Heroes.

Tracklist
1. Warm Welcome
2. How Can Less Be More
3. The Colour of Greed
4. Chikken Noodul
5. A Fertile Discussion
6. The Grassy Gnoll
7. Blue Eyes
8. Party Political Speech
9. Age of Heroes
10. A Meeting of the Gods (And This Guy)
11. Sunset
12. Return of the Silly English Person
13. Falling for Falafels
14. Lost In a Foreign Scale
15. Three Days of Peace
16. Limiting Rationality
17. Breathe

Line-up
Derek Sherinian – Keyboards on “The Colour of Greed”
Mattias IA Eklundh – Gutiar solos on “A Fertile Discussion” and “Falling for Falafels”
Janne Nieminen and Emil Pohjalainen – Guitar solos on “A Meeting of the Gods (And This Guy)”
Vesa Kolu – Drums on “A Fertile Discussion”, “Blue Eyes”, “Falling for Falafels”, “Three Days of Peace”, and “Limiting Rationality”
Christer Karjalainen – Drums on “Chikken Noodul” and “Sunset”
Elmo Karjalainen – everything else

ELMO KARJALAINEN – Facebook

Profundum – Come, Holy Death

Ogni attimo è finalizzato al completamento di un percorso che porta verso una fine più invocata che temuta, con la tensione che non viene mai lasciata scemare.

I Profundum sono una di quelle misteriose band che periodicamente sbucano da qualche oscuro anfratto esibendo in maniera magnifica sonorità disperatamente malsane e funeree.

Come spesso avviene in questi casi, tra l’altro, le uniche notizie certe sono la provenienza statunitense (San Antonio), il fatto che Come, Holy Death sia il loro full length d’esordio che segue l’ep dello scorso anno What No Eye Has Seen, e che si tratta di un duo formato dai misteriosi LR e R, anche se diversi indizi mi fanno ragionevolmente ritenere che quest’ultimo sia, in effetti, il Ryan Wilson titolare del pregevole monicker The Howling Void.
Inoltre, le note promozionali ci fanno sapere che i Profundum traggono la loro ispirazione dai fondamentali primi lavori degli Emperor per poi sviluppare un’idea di musica oscura, ferale e nel contempo maestosa.
Indubbiamente, chi ha ben presente le sonorità di In The Nightside Eclipse può trovarsi d’accordo con tale affermazione, fermo restando che il sound dei californiani propende in maniera decisiva verso il funeral doom, lasciando che le sfuriate di matrice black siano solo una delle componenti del sound e non quella preponderante.
Fatte le debite premesse, si può tranquillamente dichiarare Come, Holy Death come una delle sorprese dell’anno quando si parla di sonorità in grado di evocare un senso di struggimento misto ad angoscia e ottundente dolore: mi spingo oltre, affermando che forse mai nessuno, almeno nell’ultimo decennio, è riuscito a realizzare con tale efficacia il connubio atmosferico tra il black metal ed il funeral.
L’album non è particolarmente lungo, con i suoi otto brani dalla durata media di cinque minuti ciascuno che vanno a creare, però, un flusso unico nel corso del quale soffocanti rallentamenti si legano in un abbraccio mortale alle repentine accelerazioni grazie alla solennità delle tastiere: la voce di LR è un growl che sovente si tramuta in uno screaming mai troppo esasperato, comunque restando sempre nei limiti di una certa intelligibilità.
Come, Holy Death, proprio per tutte queste caratteristiche,  non possiede picchi né punti deboli, perché non c’è un solo secondo sprecato indugiando in passaggi interlocutori: qui ogni attimo è finalizzato al completamento di un percorso che porta verso una fine più invocata che temuta, con la tensione che non viene mai lasciata scemare. Obbligato a scegliere un brano emblematico, opto per Unmoved Mover, abbellito da un misurato tocco pianistico, ma ribadisco che anche le altre sette tracce non sono affatto da meno.
Profundum è un altro nome da segnare con il circoletto rosso in egual misura, sia per per gli appassionati di black atmosferico sia per quelli di funeral doom.

Tracklist:
1. Sentient Shadows
2. Unmoved Mover
3. Antithesis
4. Tunnels to the Void
5. Storms of Uncreation
6. Into Silences Ever More Profound
7. I Have Cast A Fire Upon The World
8. Illuminating The Abyss

Line-up:
LR – vocals
R – all instruments

PROFUNDUM – Facebook

The Watchers – Sabbath Highway

I The Watchers sono come un tornado in mezzo al deserto, un vortice di sonorità hard & heavy che si abbattono sulla campagna americana, un twister selvaggio dal titolo Sabbath Highway.

Torniamo indietro fino alla metà degli anni novanta, il decennio più importante della storia del metal/rock dopo gli anni settanta, facciamoci ancora del male con i primi lavori di Zakk Wilde e dei suoi Black Label Society, aggiungiamoci i Soundgarden di Louder Than Love e i Corrosion Of Conformity nella versione più stonerizzata (Wiseblood/America’s Volume Dealer) ed avremo ottenuto una ricetta musicale da veri Masterchef del rock, oppure saremo molto vicini alla proposta di questi clamorosi rockers statunitensi, i The Watchers.

Sabbath Highway, ep uscito qualche tempo fa, ci consegna un gruppo davvero interessante, pronto per licenziare il primo lavoro sulla lunga distanza che si preannuncia come una bomba sonora, almeno per chi apprezza queste sonorità.
Niente di nuovo, chiariamolo subito, ma senz’altro convincente, con i Sabbath che compaiono nel titolo e fanno da padrini al quartetto composto da Tim Narducci alla voce, Jeremy Von Eppic alla chitarra, Cornbread al basso e Carter Kennedy (Orchid) alla batteria.
Esaltanti ed irresistibili, i The Watchers sono come un tornado in mezzo al deserto, un vortice di sonorità hard & heavy che si abbattono sulla campagna americana, un twister selvaggio dal titolo Sabbath Highway.
E selvagge sono le note che escono a tratti violente dalla title track o dalla monumentale Call The Priest, spettacolare brano tra Soundgarden e Black Sabbath, dove Narducci fa il Cornell d’annata.
I nostri picchiano duro anche in Today, veloce come una Harley lanciata all’impazzata e nella conclusiva Just A Needle, mid tempo potente e cadenzato, un carro armato hard rock con la scritta B.L.S. sulla fiancata.
Ripple Music è l’etichetta responsabile dei danni inferti ai padiglioni auricolari degli amanti del genere da parte del gruppo, in attesa di un full length che si preannuncia dinamitardo.

Tracklist
1.Sabbath Highway
2.Requiem Intro
3.Call The Priest
4.Today
5.Just A Needle

Line-up
Carter Kennedy – Drums
Cornbread – Bass
Jeremy Von Eppic – Guitars
Tim Narducci – Vocals

THE WATCHERS – Facebook

Iron Monkey – 09 13

09 13 è una prova potentissima e molto violenta, che fa ben capire perché come questo gruppo sia stato uno dei più amati del genere, e mostra anche quanto ancora possano dare alla musica estrema.

Torna con una formazione diversa uno dei gruppi fondamentali nella storia dello sludge, pubblicando un album pesantissimo e bellissimo.

Con gli inglesi Iron Monkey ci eravamo lasciati nel 1999, quando si sciolsero dopo aver pubblicato due album devastanti come Iron Monkey e Our Problem, grondanti sangue e uno sludge metal imbastardito con il noise e con il metal, il tutto farcito da un groove marcio.
Nati a Nottingham e fieramente parte di quella scena, pubblicarono il primo album omonimo nel 1996 con la piccola Union Mill, e il disco venne ristampato l’anno successivo dalla concittadina Earache, il massimo all’epoca per chi volesse farsi devastare le orecchie. Gli Iron Monkey avevano e hanno un retroterra punk hardcore e ciò lo si può sentire anche ora, riuscendo ad unire ciò con altri elementi per un mix unico. La linea genealogica porta sicuramente ai Black Sabbath per quanto riguarda i riff, inoltre i ragazzi di Nottingham hanno sviluppato un qualcosa che dall’altra parte dell’oceano veniva su quasi uguale ad opera degli Eyehategod o dei Crowbar per certi aspetti. Bisogna però mettere subito in chiaro che il suono degli Eyehategod e degli Iron Monkey ha ben poco in comune se lo si ascolta, poiché gli inglesi hanno una maggiore linea melodica nascosta sotto un cumulo di pesantezza, mentre gli americani sono maggiormente legati alla jam come metodo di composizione.
Questo album non è affatto un tuffo nel passato, questa è una nuova fase nella vita della band: sono cambiati i componenti, nel 2002 è morto Johnny Morrow per un attacco di cuore, essendo gravemente malato ai reni, ed il suo posto alla voce è stato preso da S. Briggs dai Chaos Uk, il quale aveva suonato con Morrow nei My War. Rispetto a Morrow, Briggs possiede una voce meno potente e cavernosa, ma più adatta a pezzi maggiormente veloci. Uno dei pregi del gruppo, e che è fortemente presente su 09 13, è l’assoluta mancanza di pianificazione della canzone, si parte e poi si vedrà dove si arriva, per cui si alternano pezzi più lenti e pesanti ad altri veloci, quasi hardcore sludge, con il risultato di dare una mazzata incredibile all’ascoltatore. Gli Iron Monkey sono sempre pesanti e dal suono unico, ed in questo disco riescono a completare alcuni discorsi che nei lavori precedenti erano rimasti solo in nuce. 09 13 è una prova potentissima e molto violenta, che fa ben capire perché questo gruppo sia stato uno dei più amati del genere, e mostra anche quanto ancora possa dare, anche se in pratica l’unico membro originario rimasto è il chitarrista Robert Graves.

Tracklist
1.Crown of Electrodes
2.OmegaMangler
3.9-13
4.Toadcrucifier – R.I.P.PER
5.Destroyer
6.Mortarhex
7.The Rope
8.Doomsday Impulse Multiplier
9.Moreland St. Hammervortex

Line-up
JIM
LEGENDARY STEVE WATSON
BRIGGA

IRON MONKEY – Facebook

Regardless Of Me – The Covenant

The Covenant è un album da non perdere, drammaticamente ruvido, oscuro e colmo di musica che rompe gli argini e sgorga libera dai vincoli di genere.

La Sleaszy Rider è una delle label che ultimamente hanno contribuito in maniera importante allo sviluppo del metal underground nella vecchia Europa, con uno sguardo sempre attento alla scena italiana, fucina di ottime realtà dal metal classico a quello estremo.

I lombardi Regardless Of Me, freschi di firma con l’etichetta greca, sono un quartetto attivo da una decina d’anni, con due full length alle spalle (The World Within del 2009 e Pleasures And Fear uscito sei anni fa) e hanno calcato i palchi assieme a nomi importanti del panorama metal mondiale come Meshuggah, Fear Factory, Children Of Bodom e molti altri, prima di arrivare all’importante contratto ed all’uscita di The Covenant.
La band nostrana ha un suo particolare approccio al dark/gothic metal, infatti il sound di The Covenant è in generale moderno e cool, ma non risparmia puntate estreme, un uso sagace della componente alternative, sconfinando in atmosfere trip hop, ed una buona dose di elettronica, che a tratti si nobilita di tappeti liquidi e sfumature dai richiami ai Lacuna Coil.
La bravura strumentale, che aiuta la band nelle parti più vicine al death metal progressivo, è la ciliegina sulla torta di un album originale e ben strutturato, vario nel suo mantenere la componente dark/gothic cercando di non soffermarsi troppo su soluzioni abusate e cercando sempre un proprio tocco personale.
Anche l’uso della doppia voce è perfetto, con la voce femminile di Arys Noir che si scambia o si accompagna con il growl di Mr.Dark, che non disdegna passaggi rap style, in un’atmosfera drammatica ed oscura che pervade le tracce di The Covenant.
Il singolo Losing You, Nothing Can Last Forever, la splendida ed estrema Amore Nero, l’alternative dark/rock violentato da dosi massicce di metal di This Broken World, con il gran lavoro chitarristico sotto forma di assoli di ispirazione heavy/prog, fanno di The Covenant un album da non perdere, drammaticamente ruvido, oscuro e colmo di musica che rompe gli argini e sgorga libera dai vincoli di genere
La data di uscita suggerita dall’etichetta è il 31 ottobre, un ottimo modo per accompagnare musicalmente la notte di Halloween …

Tracklist
1.The Covenant
2.We Are
3.Losing You
4.Nothing Can Last Forever
5.Neurotic Trains
6.A Different Way
7.Amore Nero
8.This Night
9.This Broken World
10.Weightless
11.Blue Apocalypse

Line-up
Arys Noir – Vocals
Mr Dark (Emiliano Sicilia) – Rap, Growls and Screams, Vocals,11 Strings Guitar, Programming
The Grand Duke (Niccolò Parrini) – Fretless Bass Guitar, 7 Strings Bass guitar, effects, piano and keyboards
Simon “Bullet” Whites – Drums, Percussions, Effects

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Noturnall – 9

9, ultimo lavoro dei Noturnall, conferma la tradizione brasiliana per i suoni heavy power metal ed è consigliato ai fans di Angra ed Almah.

Brasile: terra di calcio, samba ed heavy metal.

Tramite la Rockshots Records arriva in questo infuocato autunno il nuovo album degli heavy/prog metallers Noturnall, band che vede all’opera gli ex Shaman Thiago Bianchi (voce), Fernando Quesada (basso), Léo Mancini (chitarra), con il supporto di Juninho Carelli alle tastiere e l’ex Angra Aquiles Priester alla batteria.
Continua la tradizione brasiliana nei suoni classici e progressivi, 9 è il terzo full length del gruppo, attivo dal 2013, quindi molto attivo nelle uscite discografiche che si completano con un live ed un singolo.
Il sound del gruppo di San Paolo risulta molto più heavy che prog, a dire il vero, anzi le cavalcate power sono il punto di forza di un metal tagliente e duro come l’acciaio, dove le chitarre ricamano solos classici, le tastiere orchestrano il tutto e la voce di Bianchi segue le orme dei vari Andrè Matos ed Edu Falaschi, mostrandosi melodica e varia nell’approccio, brillando a livello emozionale.
Si diceva delle ritmiche power, prevalenti in molti dei brani che si rivelano diretti ed a tratti esaltanti e qui il plauso va tutto a Priester e Quesada, coppia d’assi ritmica al servizio della riuscita di 9.
L’opener Hey!, la violentissima Change, Moving On che sa tanto di ultimi Angra, l’heavy power metal di cui è splendidamente rivestita What You Waiting For, colorano di grigio acciaio l’atmosfera di un album sempre in bilico tra potenza (tanta) e melodia.
Se parliamo di influenze o ispirazioni il sound vive delle sfumature insite negli album degli Angra (quelli con Falaschi) e Almah, con un occhio in terra tedesca e la sua tradizione metallica, con gli Edguy in testa.
Un ottimo lavoro, sicuramente consigliato ai fans dei gruppi citati e riprova di quanto bene si suoni il genere in Brasile, nazione guida del metal sudamericano.

Tracklist
1.Hey!
2.Change
3.Wake Up
4.Moving On
5.Mysterious
6.Hearts As One
7.What You Waiting For
8.Shadows
9.Pain

Line-up
Fernando Quesada – Bass
Aquiles Priester – Drums
Léo Mancini – Guitars
Junior “Juninho” Carelli – Keyboards
Thiago Bianchi – Vocals

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Monarch – Never Forever

Ancora una buona prova da parte dei Monarch, gruppo culto di extreme doom europeo: convinti della loro arte ci regalano un’opera intensa, avvolgente nel suo drone-doom.

Nome di culto nella scena extreme doom europea, i francesi Monarch si ripresentano dopo Sabbracadaver del 2014, sempre per l’etichetta statunitense Profound Lore che continua, a ragione, a credere nella loro oscura arte.

La band, attiva ormai dal 2005, oggi con Never Forever ci propone un grandioso abisso di suoni drone stesi su un colossale e profondo doom e, come afferma la band, ci presenta “a new path to explore”. Cinque lunghi brani, ed il suono estenuante (non in accezione negativa) che viene prodotto si tinge di una vena melanconica e sinistra, dove le clean vocals, sussurrate ed eteree di Emilie Bresson, producono sinistre ambientazioni plumbee per nulla rassicuranti (Song to the void); il mood deve essere quello giusto per abbandonarsi e lasciarsi conquistare dalla profondità dei riff creati dalle due chitarre.
In questo disco risalta maggiormente , rispetto ai precedenti, l’importanza maggiore data alla struttura di brani che, nonostante il lungo minutaggio, mantengono forma e non perdono nulla in atmosfera, sempre spettrale e ossessiva. Il primo brano Of night, with knives è esemplificativo: lento, imponente, screziato dal lento salmodiare delle vocals, accompagnato da chorus intensi che si sfaldano su vocals sgraziate, si abbatte senza speranza sull’ascoltatore; l’atmosfera pesante mantiene una vena malinconica, non molto presente nei precedenti lavori, piuttosto intensa e inattesa. Gli altri tre brani presentano una band matura, conscia dei propri mezzi, che non teme di coverizzare in Diamant Noir il brano dei Kiss, Black Diamond, trasfigurandolo completamente e riducendolo in un qualcosa difficilmente riconducibile al brano originale. L’ultimo brano, Lilith, con i suoi venti minuti accentua l’iniziale componente drone creando un’atmosfera immobile e spettrale prima di far iniziare il viaggio verso luoghi con aromi di kosmische musik. In definitiva, ancora una buona prova da parte di musicisti capaci, con personalità e che amano ricercare il meglio dalla propria arte.

Tracklist
1. Of Night with Knives
2. Song of the Void
3. Cadaverine
4. Diamant Noir
5. Lilith

Line-up
Emilie Bresson – Vocals, Electronics
Shiran Kaïdine – Guitars
Miomio – Guitars
MicHell Bidegain – Bass
Benjamin Sablon – Drums

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