De La Muerte – Venganza

Immaginate la frontiera messicana di film come El Mariachi o Machete raccontata tramite una colonna sonora che amalgama metal classico, hard rock, groove ed atmosfere tradizionali, suonata ed interpretata da un vocalist eccezionale ed avrete un’idea più o meno esatta di quello che i De La Muerte intendono per musica metal.

Sorprendente e micidiale, un massacro sonoro che ricorda i film di Tarantino e Rodriguez, un concept ispirato al culto messicano della Nuestra Señora de la Santa Muerte ed un metal che passa con disinvoltura da potentissime cavalcate power/heavy metal ad un hard rock contaminato dalla musica tradizionale messicana in un delirio di pallottole che saltano dai caricatori e si infilano nei corpi martoriati, esplodono in cascate di sangue e materia cerebrale per lasciare solo morte.

Signore e signori, siamo nel mondo dei De La Muerte, gruppo romano che con Venganza dà un seguito al primo bellissimo lavoro omonimo licenziato tre anni fa: immaginate la frontiera messicana di film come El Mariachi o Machete raccontata tramite una colonna sonora che amalgama metal classico, hard rock, groove ed atmosfere tradizionali, suonata ed interpretata da un vocalist eccezionale come Gianluca Mastrangelo ed avrete un’idea più o meno esatta di quello che i De La Muerte intendono per musica metal.
Come il primo album, Venganza vive alternando tutte queste sfaccettature risultando un album vario ed assolutamente originale, passando con una facilità sorprendente dal sound “messicano” dell’intro Theme Of Revenge, al metal moderno e rabbioso di De La Muerte e all’hard rock’n’roll di Lady Death e siamo solo al terzo brano.
Registrato, mixato e masterizzato da Simone Mularoni ai Domination Studio, l’album esplode in fuochi d’artificio metallici come in una festa patronale in qualche cittadina sperduta del centro America, l’altalena tra tra generi e sfumature continua imperterrita con Mastrangelo che impazza tra mille tonalità, mentre Gambling In Hell ci ricorda che il deserto ci circonda ed il groove ci prende per mano prima di venire giustiziati con una pallottola piantata nel cranio.
La maideniana The Last Duel, la “metallica” (Black Album style) How Do You feel?, la bellissima cover dei Los Lobos Canción del Mariachi ed il crescendo conclusivo della varia e a suo modo progressiva Scream Of Madness arricchiscono un album travolgente dalla prima all’ultima nota.
Secondo straordinario lavoro di una delle realtà più brillanti della scena metal nazionale, fatevi un favore e non perdetevi Venganza, per una volta i soliti ascolti possono rimanere al loro posto sulla vostra mensola.

Tracklist
01 – Theme of Revenge
02 – De La Muerte
03 – Lady Death
04 – The Last Duel
05 – Gambling in Hell
06 – Heart of Stone
07 – Death Engine
08 – How Do You Feel?
09 – Horizon – De
10 – Canción del Mariachi – Los Lobos Cover
11 – Scream Of Madness – De La Muerte

Line-up
Gianluca Mastrangelo – Vocals
Gianluca Quinto – Guitars
Christian D’Alessandro – guitars
Claudio Michelacci – Bass
Luca Ciccotti – Drums

DE LA MUERTE – Facebook

Thungur – No Going Back

No Going Back si sviluppa lungo undici brani di hard rock moderno, dai rimandi stoner e psichedelici, americano di ispirazione, pesante nelle ritmiche e dal groove bene in evidenza.

Arrivano all’esordio sulla lunga distanza i rockers svedesi Thungur, nati tre anni fa e con due lavori minori alle spalle, la raccolta di singoli The Village Sessions e l’ep The Cage, licenziati nel 2015.

No Going Back si sviluppa lungo undici brani di hard rock moderno, dai rimandi stoner e psichedelici, americano di ispirazione, pesante nelle ritmiche e dal groove bene in evidenza.
La parte psichedelica, anche se rimane in ombra rispetto alle influenze hard rock. porta il sound su territori cari ai Tool, mentre fanno capolino nei brani più leggeri accenni al post grunge.
Ne esce un lavoro magari poco originale ma sicuramente d’impatto, specialmente quando la band decide di picchiare con forza sugli strumenti senza rinunciare alla melodia (White Lies, Pink Champagne).
Il quartetto di Malmö (ma con un vocalist islandese, Kristjan Samuelsson) non impiega molto a convincere gli amanti del rock pesante da rotazione televisiva, con le allusioni ai Tool che si ammorbidiscono quando il sound si sposta verso i Nickelback o si stonerizza con l’influsso dei Kyuss, mentre No Going Back scorre liscio sino alla conclusione tra brani più pesanti, altri più intimisti o valorizzati da buone melodie.
Ancora il singolo Animals, la ballad acustica Breathe Under Water e la pesantissima e cadenzata Trigger fanno dell’album una buona uscita per quanto riguarda queste sonorità, anche se la strada per una definitiva affermazione è ancora lunga come quelle che separa il Nordeuropa dall’America.

Tracklist
1.White Lies
2.Abandon
3.Nightmare
4.Pink Champagne
5.Animals
6.Rainmaker
7.Temptation
8.Breathe Under Water
9.Bay Harbour
10.Trigger
11.Skin [ink]

Line-up
Kristjan Samuelsson – Vocals, Guitar
Bjorn Stegerling – Guitar
Roger Nielsen – Bass, Vocals
Andreas Albihn – Drums

THUNGUR – Facebook

Tantal – Ruin

Il death metal melodico rimane il protagonista principale della musica dei Tantal, infarcito di ottime reminiscenze progressive che fanno di Ruin un altro bellissimo esempio di album metal tra death e prog.

Tornano freschi di firma per la Sleaszy Rider gli ottimi Tantal, band proveniente dalla madre Russia e di cui vi avevamo parlato tre anni fa in occasione dell’uscita del bellissimo secondo album Expectansy.

Molte cose sono cambiate in casa Tantal con appunto la line up stravolta, nella quale resta al suo posto il solo chitarrista Dmitriy Ignatiev, ed il sound che però mantiene il suo approccio heavy/death melodico su un tappeto di suoni darkwave e gothic.
Da quintetto, con la punta di diamante Milana Solovitskaya al microfono, la band è diventata un quartetto dove, oltre al  leader del progetto, troviamo Sofia Raykova alla voce, Ivan Izotov al basso e Srgey Serebrennikov dietro al drumkit a completare una line up che, anche questa volta, convince a più riprese.
La musica dei Tantal continua la sua non facile impresa di risultare fresca, pur animata da ispirazioni evidenti che si fanno spazio tra le trame dei brani, ma valorizzate da un songwriting di alto livello che fa risplendere anche questa nuova raccolta di brani chiamata Ruin.
Pur con tutti i cambiamenti il sound varia di quel tanto da non far sembrare l’album una fotocopia del precedente lavoro, la parte elettronica e l’andamento liquido di alcuni brani avvicinano di più la band a realtà come i nostrani Lacuna Coil, merito anche della voce della nuova arrivata dietro al microfono, anche se il punto di forza del gruppo rimane il death metal melodico, infarcito di ottime reminiscenze progressive che fanno di Ruin un altro bellissimo esempio di album metal tra death e prog.
Quindi si sfugge a lunghi e noiosi piagnistei gothic, perché qui si viaggia a velocità sostenuta, tra tecnica sopraffina (Ignatiev conferma d’essere un chitarrista davvero bravo), passaggi progressivi di scuola Dream Theater e tempeste estreme, melodiche e suggestive alla Dark Tranquillity, a cui come scritto si aggiunge quel tocco più moderno che ricorda i Lacuna Coil.
Ruin rimane di altissimo livello per tutta la sua durata e brani come Torn Inside, la suadente Low e la moderna title track confermano il valore di questa ottima realtà che abbiamo avuto modo di incontrare di nuovo sul nostro cammino.
Con l’aiuto della Sleaszy Rider, i Tantal troveranno sicuramente nuovi ammiratori, e noi non possiamo che consigliare il nuovo album agli amanti del genere che cercano un sound fresco ma ancora legato al metal.

Tracklist
01 – Constant Failure
02 – Denial
03 – Torn Inside
04 – Drained
05 – Torpid
06 – A Hopeful Lie
07 – Low 08 – Ruin
09 – Tears Of Yesterday
10 – The Awakening

Line-up
Sofia Raykova – vocals
Dmitry Ignatiev – guitars/keys
Ivan Izotov – bass
Srgey Serebrennikov – drums

TANTAL – Facebook

Dark Matter Secret – Perfect World Creation

Perfect World Creation è il classico album da scritto da musicisti per musicisti, con l’autoreferenzialità formale che prevale in maniera schiacciante su un aspetto emotivo pari a zero.

Nell’ambito del technical death metal e del progressive estremo, i gruppi che lasciano senza fiato per tecnica esecutiva perdono molti punti se si parla di pure emozioni, importantissime per entrare nel cuore dell’ascoltatore; ci si imbatte così molto spesso in maestri dello strumento dalla tecnica invidiabile, che mostrano i muscoli con scale ultra veloci e ritmiche inumane, ma che già al secondo ascolto delle loro opere sono destinati ad essere dimenticati, così come temporali passeggeri nelle serate estive.

I Dark Matter Secret sono tre musicisti russi provenienti da Mosca il cui primo album intitolato Perfect World Creation segue di un paio d’anni l’ep Xenoform, suonano progressive technical death metal strumentale all’interno del quale si riescono a captare alcuni momenti dal buon impatto melodico, sommersi da altri che si rivelano esercizi tecnici fini a se stessi, lunghe scale già sentite migliaia di volte nel genere e strutturate su ritmiche funamboliche ma che, alla lunga, lasciano il tempo che trovano non appena svanisce lo stupore nel constatare l’abilità del trio.
Perfect World Creation è il classico album da scritto da musicisti per musicisti, con l’autoreferenzialità formale che prevale in maniera schiacciante su un aspetto emotivo pari a zero: un’opera che avvicina la band a gruppi come gli Obscura e a tutta la scena technical death, ma che troverà fans entusiasti solo in coloro che godranno per le intricate parti che sfiorano il nonsense in brani come Ancient Gods Genesis, Synthesis Of Matter o la title track.

Tracklist
1.Chaos Born
2.Ancient Gods Genesis
3.Emergence of Time
4.Synthesis of Matter
5.Constellation Glows
6.Organic Nucleation
7.Perfect World Creation

Line-up
Pavel Semin – Bass
Denis Shvarts – Guitars
Andrey Ischenko – Drums

DARK MATTER SECRET – Facebook

Kartikeya – Samudra

Colmo di riferimenti alla cultura Indù ed alla sacra Trimurti, Samudra è uno scrigno colmo di sorprese, con una band che tecnicamente lascia a bocca aperta riuscendo con grande disinvoltura a far convivere generi apparentemente lontani tra loro.

Cercando nel vasto mondo del metal se ne trovano di gioielli musicali, basta avere voglia di non fermarsi in superficie e scavare in un sottosuolo dove si muovono realtà sconosciute ai più ma di altissimo valore.

Senza paraocchi e con una visione della musica a 360° si possono fare piacevolissimi incontri, sotto forma di gruppi autori di lavori sorprendenti come per esempio i russi Kartikeya con questa bellissima opera estrema dal titolo Samudra.
Ispirato concettualmente alla religione indù, l’album è un concept che si sviluppa in settanta minuti di metal estremo progressivo, il Carnatic Metal come lo chiamano loro, una straordinaria alleanza tra blackened death metal, progressive e folk che sfocia in un saliscendi artistico, un’altalena di emozioni tra tempeste estreme, bellissime parti progressive e suggestive atmosfere folk di origine indiane e arabe.
Colmo di riferimenti alla religione della Sacra Trimurti, Samudra è uno scrigno colmo di sorprese, la band che tecnicamente lascia a bocca aperta riesce con clamorosa disinvoltura a far convivere generi apparentemente lontani tra loro in un sound che tiene incollati alle cuffie, bellissimo esempio di come il metal sia tutt’altro che un genere conservatore come vorrebbe qualcuno ma che, anzi, in questi anni si è trasformato, grazie a gruppi come il sestetto moscovita, in musica camaleontica ed estremamente volubile.
In Russia, come in India, i gruppi sono meno legati alle regole di mercato statunitensi ed europee, così che è facile incontrare realtà di levatura superiore ed assolutamente fuori da qualsivoglia ambizione commerciale; qui a parlare è la musica, con brani fuori dagli schemi e di una bellezza disarmante come Tandava, Mask Of The Blind, Kannada – Munjaaneddu Kumbaaranna (con l’ospite Karl Sanders, leader dei Nile) e i tredici minuti progressivamente estremi di Dharma, Pt. 2 – Into the Tranquil Skies.
Orphaned Land e Melechesh, ma rimanendo in ambito molto più underground e nel territorio indiano, Demonic Resurrection e Fragarak, sono le band accostabili a questi sei geniali musicisti russi, giusto per fornire qualche coordinata in più a chi si volesse accostare a questo magnifico lavoro.

Tracklist
1. Dharma pt. 1 – Into The Sacred Waves
2. Tandava
3. Durga Puja
4. Pranama
5. The Horrors Of Home (feat. Keith Merrow)
6. Mask Of The Blind
7. Samudra
8. The Golden Blades
9. We Shall Never Die
10. Kannada – Munjaaneddu Kumbaaranna (feat. Sai Shankar & Karl Sanders / Nile)
11. Tunnels Of Naraka (feat. David Maxim Micic)
12. The Crimson Age 13. Kumari Kandam
14. Dharma pt. 2 – Into The Tranquil Skies

Line-up
Anton Mars – Vocals
Roman Arsafes – Guitars, Vocals, Ethnic Instruments
Sasha Miro – Bass
Misha Talanov – Violin
Dmitriy Drevo – Percussion
Alex Smirnov – Drums

KARTIKEYA – Facebook

Cradle Of Haze – Sirenen

Musica della notte, oscura e melanconica, linfa e sangue per i vampiri da club mitteleuropei, ma ottimo anche per chi normalmente predilige ascolti più cool come il gothic metal.

Tornano dopo quattro anni i Cradle Of Haze, duo tedesco attivo da quasi vent’anni e con una discografia che conta altri dieci full length.

Sirenen è dunque l’undicesimo album di questa dark gothic band che segue la tradizione del genere radicata nel loro paese, cantato rigorosamente in lingua madre e completato da una versione remix, inclusa nella confezioni, di sette dei quattordici brani proposti da Thorsten Eligehausen e Anni Meier.
L’album si ascolta piacevolmente, i brani sotto l’aspetto melodico sono ottimi, le ritmiche seguono la marzialità del sound dei Rammstein ma senza toccare assolutamente lidi metallici e rimanendo ancorato piuttosto alle oscure trame dark rock che al sottoscritto hanno in più di una occasione ricordato i Lacrimosa di Tilo Wolf.
Molto dark rock, sfumature gotiche ed elettronica presa in prestito dalla new wave ottantiana è ciò che contiene Sirenen, con il vocione di Eligehausen reso ancor più aspro dalla lingua tedesca, mentre tappeti di synth e ottime aperture chitarristiche rendono l’ascolto vario e dall’ottimo appeal.
Siamo nel più puro sound della notte e dall’opener e primo singolo Alphatier si entra nel mondo delle luci soffuse, degli indumenti in lattice e delle lascive tentazioni, mentre i brani si susseguono e si arriva in fondo alzando il volume sempre più.
Per chi ha vissuto senza paraocchi gli anni d’oro del dark rock, Sirenen è un ottimo ritorno alle atmosfere che hanno influenzato non poco il gothic metal odierno, ovviamente sotto una forma più liquida dove l’elettronica ha un’importanza fondamentale.
Musica della notte, oscura e melanconica, linfa e sangue per i vampiri da club mitteleuropei, ma ottimo anche per chi normalmente predilige ascolti più cool come appunto il gothic metal.

Tracklist
1. Kinder der Nacht
2. Alphatier
3. Kein Ideal
4. Sternenlicht
5. Ohne dich
6. Sirenen
7. Lied 07
8. Vagabunden
9. Seine Sicht
10. Seid ihr bereit
11. Kellerspiele
12. Lobotomie
13. Du schmeckst so gut
14. Hannahs Song

Remix Edition:
1. Kinder der Nacht (Narcotic Elements Remix)
2. Alphatier (Narcotic Elements Remix)
3. Kein Ideal (Narcotic Elements Remix)
4. Sternenlicht (Narcotic Elements Remix)
5. Sirenen (Narcotic Elements Remix)
6. Kellerspiele (Narcotic Elements Remix)
7. Du schmeckst so gut (Narcotic Elements Remix)

Line-up
Thorsten Eligehausen – All music, lyrics, instruments, vocals
Anni Meier – Backing vocals

Special guest: Marc Vanderberg (guitar solo on Hannahs Song)

CRADLE OF HAZE – Facebook

Bridge Of Diod – Of Sinners And Madman

Dieci brani per quasi cinquanta minuti di metal tripallico, potente diretto e melodico, dalle ritmiche che alternano accelerazioni e potentissimi bombardamenti che non disdegnano quel tocco groove capace di modernizzare la proposta senza scendere a compromessi ma rendendola ancora più massiccia e potente.

Si può suonare heavy/thrash metal old school senza risultare per forza datati o vintage e i Bridge Of Diod ne sono l’esempio con il loro primo album sulla lunga distanza.

Nato ad Acqui Terme sette anni fa, il quartetto ha rilasciato il proprio debutto in formato ep nel 2012 (Creativity in Captivity), per tornare dopo cinque anni sul mercato con questo ottimo lavoro licenziato dalla Sliptrick Records e intitolato Of Sinners And Madman: dieci brani per quasi cinquanta minuti di metal tripallico, potente diretto e melodico, dalle ritmiche che alternano accelerazioni e potentissimi bombardamenti che non disdegnano quel tocco groove capace di modernizzare la proposta senza scendere a compromessi ma rendendola ancora più massiccia e potente.
Il quartetto ci scarica sulla testa una valanga di melodie in un contesto pesante e roccioso come la creatura mitologica raffigurata sulla copertina e che, liberatasi dalle catene, sfoga tutta la sua rabbia sui malcapitati carcerieri.
Thrash ed heavy metal ancora una volta vengono uniti per sfogare grinta e voglia di musica pesante che Stefano Barbero (voce e batteria), Luigi Barbero (chitarra), Davide Leoncino (chitarra) e Sebastiano Riva (basso) valorizzano con un uso perfetto della melodia, con una serie di brani che non scendono dal livello di guardia in quanto a grinta e potenza.
Sua maestà il riff è nobilitato in tracce dall’alto voltaggio come l’opener Story Of A Madman, la semi ballad in crescendo Back From Limbo, la diretta Bullies From Hollywood, la potentissima The Cowboy’s Law, ma è tutto Of Sinners And Madman che funziona e ci regala cinquanta minuti di metallo che sprizza energia da tutti i pori.
Se il ritorno delle sonorità tradizionali nel metal farà parte del trend del futuro prossimo sarà anche grazie alla scena underground e a lavori come questo ottimo debutto dei Bridge Of Diod.

Tracklist
01. Story Of A Madman
02. Drops Of Rain
03. Back From Limbo
04. The Hammer
05. Clown Of The Seasons
06. Bullies From Hollywood
07. Green Fairy
08. Bad Toy
09. The Cowboy’s Law
10. Ignorance

Line-up
Stefano Barbero – Vocals, Drums
Luigi Barbero – Guitars
Davide Leoncino – Guitars
Sebastiano Riva – Bass

BRIDGE OF DIOD – Facebook

Bluestones – Groupie

Grunge, stoner, alternative metal e sferzate hardcore sono le carte giocate dai Bluestones per rendere il loro lavoro il più vario possibile, aggiungendo un tocco di insana psichedelia e poderose frustate noise.

Questo lavoro è dedicato alle muse del rock, insostituibili presenze e prime fans dei gruppi che a queste ancelle della musica del diavolo dedicavano brani od interi album: le groupies, deliziose e procaci ragazze che prima dell’uomo adorano il musicista, un po’ streghe , un po’ angeli, ognuna con la sua storia da raccontare tra bordo, palchi e letti sfatti in stanze di alberghi distrutte in giro per il mondo.
E i Bluestones alle groupies hanno dedicato questo interessante secondo album, che segue di quattro anni Born in a Different Cloud, primo lavoro su lunga distanza rigorosamente autoprodotto.
Il trio proveniente da Reggio Calabria, composto da Roberto Iero (voce e chitarra), Vincenzo Cuzzola (batteria) e Alessandro Romeo (basso), ci fa partecipi di un’opera emozionante, dura e non facile da assimilare in poco tempo, anche per l’ora di durata in tempi in cui sono considerati full lenght album che non superano nemmeno la metà del tempo necessario per lo sviluppo del concept di Groupie.
La musica con cui i Bluestones raccontano il lato rosa ed un po’ malinconico del rock e del suo mondo è un alternative rock dalle mille sfumature, influenzato ed ispirato da generi diversi ma perfettamente maneggiati ed amalgamati tra le note dell’album.
Grunge, stoner, alternative metal e sferzate hardcore sono le carte giocate dai Bluestones per rendere il loro lavoro il più vario possibile, aggiungendo un tocco di insana psichedelia e poderose frustate noise.
Ne esce un album affascinante, una raccolta di brani che attraversano il mondo del rock moderno con una personalità debordante, aiutata da una preparazione tecnica che permette ai tre musicisti di giocare con lo spartito a loro piacimento.
Si passa da canzoni più lineari a lunghe jam, valorizzate da un ottimo songwriting e da una valanga di idee vincenti che ad ogni passaggio appaiono sempre più in evidenza, dallo swing, al rock’n’roll, dal punk a passaggi cadenzati al limite del doom.
Tra le tracce presenti, tutte di livello qualitativamente alto, l’opener Worn-Out Organism, l’hardcore/punk Death By Fire, la psichedelica Mantide ed il bellissimo strumentale C.Mazzone sono i brani che più colpiscono l’ascoltatore che, ad un successivo ascolto, troverà in altre canzoni più di un motivo per innamorarsi di Groupie.

Tracklist
1.Worn-out Organism (To Dance on Fate)
2.Death by Fire
3.Vs (Break the Inertia)
4.My Hurricane
5.Mantide
6.Pre/Scylla (Intro)
7.Scylla
8.Pin-up Groupies
9.C. Mazzone (Instrumental)
10.Slave
11.To Those Who Left Us

Line-up
Roberto Iero – Vocals, Guitars
Vincenzo Cuzzola – Drums
Alessandro Romeo – Bass

BLUESTONES – Facebook

Corpse Garden – IAO 269

Death metal brutale e progressivo, musica estrema ispirata da un innato talento per soluzioni che vanno sempre un passo fuori dai consueti schemi, con una serie di brani devastanti che uniscono in un unico sound, death metal, doom e musica estrema progressiva.

Death metal brutale e progressivo, musica estrema ispirata da un innato talento per soluzioni che vanno sempre un passo fuori dai consueti schemi con una serie di brani devastanti che uniscono in un unico sound, death metal, doom e musica estrema progressiva.

I Corpse Garden sono un gruppo centroamericano attivo da quasi una decina d’anni, ed arrivano al terzo full length tramite Godz Ov War Productions.
Il loro sound prende ispirazioni dal death oscuro e pesantissimo dei Morbid Angel, dal doom di una cult band come i Confessor e dalle trame dissonanti ed alternative progressive dei tedeschi Incubator, altra realtà di culto uscita dai primi anni novanta.
IAO 269 è un pianeta a sé nell’universo estremo attuale, e la band costaricense gioca con lo spartito per rendere la propria musica il più originale e fuori dagli schemi possibile, riuscendoci per merito di un songwriting variegato e soprattutto una tecnica invidiabile.
Dimenticate però le classiche prog death metal band che tanto fanno parlare gli addetti ai lavori, le note che compongono brani tragicamente ed inesorabilmente estremi come Death Heax, Selenomantic Ecstasies o The Elevenfold Vibration, sono quanto di più dissonanti, disturbanti ed assolutamente pericolose possiate trovare in giro nel il panorama musicale odierno.
Un album che al sottoscritto porta alla mente il McGillroy The Housefly degli ormai scomparsi Incubator, ma mentre la band tedesca usava alternative parti grunge ad imbastardire il sound di chiara ispirazione death, i Corpse Garden lo violentano con esplosioni di dissacrante noise e doom progressivo, imponendosi con una buonissima opera rivolta ad un’audience piuttosto selezionata.

Tracklist
1.Aeon of Horus
2.Death Hex
3.Ain Soph Aur
4.Selenomantic Ecstasies
5.La muerte: Principio y redención
6.IAO 269
7.The Elevenfold Vibration
8.Expanding the Vision Call
9.Loathing

Line-up
Erick Mejia – Drums
Federico Gutierrez – Guitars
Esteban Sancho – Guitars
Carlos Venegas – Bass
Felipe Tencio – Vocals

CORPSE GARDEN – Facebook

Fall Has Come – Nowhere

I Fall Has Come continuano ad attraversare in lungo ed in largo l’America, senza scendere troppo a sud come nel primo album, ma riuscendo ad imprimere il loro marchio su una track list che avvicenda hard rock melodico a sferzante metallo alternativo valorizzato da melodie dall’appeal vincente.

I campani Fall Has Come tornano dopo due anni dal debutto con un nuovo lavoro e confermano quanto di buono si era scritto all’epoca dell’uscita di Time To Reborn.

La band guidata dal cantante Enrico Bellotta, dopo l’uscita dell’album precedente non è stata certo a guardare e ha girato per lo stivale e oltre confine suonando e calcando palchi, accumulando esperienze e stringendo amicizie: tutto questo è raccontato su Nowhere, nuovo album in uscita per Sliptrick Records e registrato a Napoli nei Black Eight Studio.
Questa sorta di diario in musica ci presenta una band compatta e affiatata, perfettamente in grado di reggere l’importante prova del secondo album senza deludere chi aveva apprezzato il sound proposto sul precedente lavoro.
E la musica non cambia, Bellotta è sempre il bravissimo cantante apprezzato in passato, il songwriting è ancora una volta di alto livello e l’innata propensione a creare melodie vincenti continua a mietere vittime anche su Nowhere.
Si parlava di rock americano, e infatti i Fall Has Come continuano ad attraversare in lungo ed in largo l’America, senza scendere troppo a sud come nel primo album, ma riuscendo ad imprimere il loro marchio su di una track list che avvicenda hard rock melodico a sferzante metallo alternativo valorizzato da melodie dall’appeal vincente.
Una manciata di hit che farebbero sciogliere le radioline nelle stanze dei college statunitensi, qualche accenno al new alternative metal ed atmosfere che si fanno epiche in un paio di canzoni capolavoro come l’opener Believe (che sa tanto di U2) e la stupenda Breathless, fanno di Nowhere un album dalle potenzialità enormi esaltato da un cantante che (senza sminuire il gran lavoro dei suoi compagni) è fuori categoria per il genere, strappando applausi in ogni sfumatura che caratterizza la sua performance.
Nowhere è un album nato per essere suonato dal vivo, una raccolta di brani memorizzabili e che non faranno prigionieri sotto un palco che brucerà come la fiamma del rock al suono delle varie Last Begin, Our Lives e One Minute To Be Alive.

Tracklist
01. Believe
02. Last Begin
03. Our Lives
04. Awaken
05. Carillon
06. Breathless
07. In Everything
08. It’s Over
09. One Minute To Be Alive
10. The Long Way To Run To Be A Human Again

Line-up
Enrico Bellotta – Vocals
Enrico Pasarella – Guitar
Raffaele Giacobbone – Guitar
Salvatore Laurella – Drums
Alberto Laurella – Bass

FALL HAS COME – Facebook

Consecrator – Image Of Deception

Ristampa curata dalla Roxx records con racchiusi i due demo della thrash metal band texana Consecrator, gruppo da riscoprire se siete amanti sfrenati del genere come veniva suonato negli anni novanta.

I Consecrator sono una thrash metal band proveniente dal Texas e attiva addirittura dal 1989, anche se finora le uscite discografiche si limitano a due demo usciti tra il 1990 ed il 1992, ed una compilation, appunto questa Image Of Deception, uscita originariamente nel 2004 e rimasterizzata dalla Roxx Records.

Ovviamente la raccolta racchiude gli unici due lavori prodotti dal quartetto di Wichita Falls, che risulta ancora in attività benché non abbiano più realizzato nulla di inedito da praticamente venticinque anni, a parte un brano qui presente intitolato Meaningless e scritto nel 2005.
Un vero peccato perché la musica racchiusa in questa raccolta è frutto del lavoro di un gruppo che ben sapeva come intrattenere a colpi di thrash metal, tra vecchia scuola ed il sound che andava sviluppandosi nei primi anni novanta in materia estrema, con il genere che acquistava maggior vigore dagli spunti estremi presi dal death.
E infatti i Consecrator non le mandavano certo a dire, tra vocals che ricordano il Tardy deglo Obituary pre-2000,  un impatto slayerano sempre presente e che mai si assopisce, così come una belligerante occhiata al metal estremo del vecchio continente che non mancava di ricamare il sound di melodie chitarristiche in uso nel sound dei Carcass.
Molto impatto dunque, ma con un buon talento per l’aspetto melodico, specialmente nel secondo demo da cui la raccolta prende il titolo, mentre con il lavoro targato 1990 non ci si muove dal thrash metal vecchia scuola con carta d’identità statunitense.
Tante vicissitudini hanno poi frenato la carriera del gruppo texano, ora con questa ristampa targata Roxx Records il gruppo potrebbe tornare poi a scrivere musica, magari prendendo spunto da brani come Submission, Vision Ignored o Satan Lies, sperando che non sia troppo tardi.

Tracklist
1.Submission
2.Image of Deception
3.Mindlessly Betrayed
4.Vision of Ignored
5.Sayings of the Wise
6.Free from Death
7.Meaningless
8.Make Me Laugh
9.Satan Lies
10.Saving Song
11.Messiah Calls
12.Troubled Years
13.Casted

Line-up
James Chavez-Guitar
Ash Lawhon-Drums
Rob Ojeda-Bass
Glenn Johnson-Vocals

Past Members:
James McWilliams-Guitar
Steve Tidwell-Guitar
Ben Crockett-Guitar
Ray Hillner-Guitar
John Hall-Vocals

CONSECRATOR – Facebook

Verge – The Process Of Self-Becoming

Un suono a tratti scarno, opprimente ed oscuro, ma reso avvincente per gli amanti di queste sonorità da un fascino sinistro e depressivo, per un lavoro notevole ma sicuramente non di facile ascolto.

Un’altra oscura sinfonia estrema presentata dalla I,Voidhanger Records e licenziata in questo inizio autunno battente bandiera finlandese è The Process of Self-Becoming, nuovo album dei Verge.

Il gruppo, attivo da una decina d’anni, arriva al terzo full length, con il quale percorre le vie sinistre del black metal moderno, con lenti passaggi doom, armonie dissonanti, voci pulite che ricordano il prog alternativo suonato negli ultimi anni ed una disperata attitudine, depressiva e misantropica, che aleggia in tutto l’album.
Quindi con i Verge dimenticate l’urlo di battaglia delle truppe sataniste e concentratevi sui risvolti melanconici e filosofici di anime tormentate.
Lo screaming è tragicamente esasperato e la voce pulita accentua la vena depressiva di brani come Aesthetic II – The Futility of It All o la conclusiva Religious II – Grounding in the Unground, mentre il sound alterna lenti e trascinati andamenti che portano inevitabilmente al baratro a momenti in cui la mente si ribella e la musica segue il passo con accelerate di scarno e violento black metal di stampo classico.
L’album è diviso in tre parti, a loro volta divise nei tre capitoli di Aesthetic, i due di Moral e gli altrettanti di Religious, tre modi diversi di interpretare la drammatica condizione mentale, compressa tra depressione e negatività.
Un suono a tratti scarno, opprimente ed oscuro, ma reso avvincente per gli amanti di queste sonorità da un fascino sinistro e depressivo, per un lavoro notevole ma  sicuramente non di facile ascolto.

Tracklist
1. Aesthetic I – The Piety In Hatred
2. Aesthetic II – The Futility Of It All
3. Aesthetic III – The Ridiculous Difficulty Of Acceptance
4. Moral I – The Decision Beyond Calculation
5. Moral II – The Pride In Despair
6. Religious I – The Bedrock Gives Way
7. Religious II – Grounding In The Unground

Line-up
Wrong – Vocals, Bass
Not – Guitars
Never – Drums
Down – Guitars
Sandh – Bass

VERGE – Facebook

Unmask – One Day Closer

Gli Unmask sanno come amalgamare le varie ispirazioni cercando di apparire il più personali possibile e ci riescono, anche grazie ad un’ottima padronanza degli strumenti ed un songwriting che non scade mai troppo nel cerebrale e non esce dai binari di un ascolto che rimane interessante per tutta l’ora di durata dell’album.

Post rock, post metal, post dark, post progressive, la nuova moda che fa tanto cool è piazzare un bel post davanti ai soliti generi per avere qualcosa di nuovo su cui costruire una descrizione di un album o di una band, dicendo tanto o nulla a seconda dei casi.

Parla come sempre la musica, che viene manipolata dagli artisti a loro piacimento per donarla a chi ha la fortuna di poterla ascoltare.
Gli Unmask per esempio fanno rock progressivo, moderno, intimista e dal taglio alternativo ma pur sempre rock, il loro sound li porta a sedersi vicino a chi, nel nuovo millennio si è arricchito dell’eredità musicale dei Tool e dei Porcupine Tree, l’ha manipolata con il metal e l’ha rivestita di stoffa dark.
Nato a Roma più di dieci anni fa e con un primo lavoro (Sophia Told Me) licenziato nel 2010, il gruppo torna con One Day Closer, un album che sposa le varie sfumature del rock alternativo internazionale del nuovo millennio, di questi tempi non più una sorpresa, ma sicuramente un buon modo per fare rock al giorno d’oggi.
L’album è quindi un tuffo nelle sonorità moderne che hanno reso ancora più elaborato ed intimista il genere, e gli Unmask sanno come amalgamare le varie ispirazioni cercando di apparire il più personali possibile e ci riescono, anche grazie ad un’ottima padronanza degli strumenti ed un songwriting che non scade mai troppo nel cerebrale e non esce dai binari di un ascolto che rimane interessante per tutta l’ora di durata dell’album.
Musica che va comunque assimilata, dandole il tempo necessario per rendere affascinante l’ascolto di brani come Far Away, Childhood e soprattutto la splendida Now (l’unica traccia che porta con sé note progressive tradizionali) e  facendosi spazio in chi si lascerà ipnotizzare dai saliscendi umorali della musica degli Unmask.
Ottimo il singolo Memento, mentre la conclusiva Frammenti, unico brano cantato in italiano, chiude il lavoro e mette la parola fine su un album sentito, emozionale e ben suonato, vario negli umori e nelle sensazioni e con quel tocco passionale tutto Made in Italy.

Tracklist
1.Flowing
2.Far Away
3.Midnight Date
4.Childhood
5. Wanted
6. Now
7. Margot
8. Memento
9. Ancièn Regime
10. Frammenti

Line-up
Ignazio Iuppa – Voicals, Piano and Synth
Claudio Virgini – Guitars
Daniele Scarpaleggia – Bass guitar
Dario Santini – Drums

UNMASK – Facebook

Howling Giant – Black Hole Space Wizard: Part 2

L’unione delle due parti dell’album (la prima è uscita lo scorso anno) farebbe di Black Hole Space Wizard un lavoro di culto almeno per gli amanti dei viaggi musicali.

Nashville, Tenneessee, in un anno imprecisato tra il 2010 ed il 2014, tre ragazzi furono invitati sul disco volante apparso vicino alla loro tenda.

Quando tornarono a terra, ancora sbalorditi e sopresi da quell’avventura fondarono una band chiamata Howling Giant, era il 2014 appunto.
Dopo tre anni i tre musicisti americani arrivano al traguardo del terzo ep, la seconda parte del concept Black Hole Space Wizard, un viaggio doom psichedelico tra lo spazio e la mente, ancora probabilmente in trip dopo l’esperienza sull’oggetto volante non indentificato.
Mezz’ora di musica rock traviata da allucinate atmosfere space stoner, l’album si dipana così in una lunga jam divisa in sei capitoli, sei trip, sei acidi trovati sulla nave interstellare che ha portato Tom Polzine, Roger Marks e Zach Wheeler in giro per l’universo.
Ora non si sa bene se i tre abbiano raggiunto una tale pace interiore, magari dovuta al contatto con menti superiori o perché si siano trovati al cospetto di diavolerie chimiche provenienti da un altro pianeta con effetti devastanti sulla mente, fatto sta che brani come l’opener Henry Tate o i sette minuti da viaggio mentale di Visions sono un micidiale cocktail space/psych/stoner rock da urlo di Munch.
L’unione delle due parti dell’album (la prima è uscita lo scorso anno) farebbe di Black Hole Space Wizard un lavoro di culto almeno per gli amanti dei viaggi musicali.

Tracklist
1.Henry Tate
2.The Pioneer
3.Visions
4.The Forest Speaks
5.Circle of Druids
6.Earth Wizard

Line-up
Tom Polzine – Guitar and Vocals
Roger Marks – Bass and Vocals
Zach Wheeler – Drums and Vocals

HOWLING GIANT – Facebook

Almanac – Kingslayer

Suonato e cantato benissimo, valorizzato da un suono potente e cristallino e reso appetibile da ritmiche che non nascondono un tocco groove nella loro folle corsa verso la gloria metallica, Kingslayer è un altro bersaglio centrato dal chitarrista bielorusso e dai suoi Almanac

Gli Almanac, la band fondata dal chitarrista bielorusso Victor Smolski dopo il commiato dai Rage, interpreta alla perfezione quello che dovrebbe essere la band metal di stampo classico nel 2017 e questo secondo album, licenziato a distanza di un anno dall’esordio Tsar, lo conferma in pieno.

Lasciate le molte sfumature barocche che valorizzavano l’album precedente per un approccio più diretto, heavy e groove, pur rimanendo ben saldo nel genere classico, Kingslayer affronta la materia con un’aggressività ed un impatto che non mancherà di piacere anche a chi il metal tradizionale lo consuma a piccole dosi.
Ovviamente rimane forte la componente orchestrale, anche se non più così ispirata dall’anima sinfonica dei Rage (Lingua Mortis Orchestra) ma molto più vicina al power metal tutto impatto ed epicità.
Grande è il lavoro (come ovvio che sia) di Smolski alla sei corde, questa volta impegnato anche con i tasti d’avorio, presente e compatta la sezione ritmica nuova di zecca con Athanasios “Zacky” Tsoukas alle pelli e Tim Rashid al basso e spettacolari le evoluzioni dei tre vocalist che come nel primo album sono Jeannette Marchewka (Lingua Mortis Orchestra), Andy B. Franck (Brainstorm) e David Readman (Pink Cream 69).
Registrato agli HeyDay Studios a Wuppertal in Germania e licenziato dalla Nuclear Blast, l’album parte in quarta con l’opener Regicide, power metal song potente e veloce che da subito mette in chiaro il nuovo trademark targato Almanac, seguita da Children Of The Sacred Path, altro brano da autovelox impazzito con Smolski che con gusto rifila solos neoclassici su bordate power, sostenute da ritmiche mozzafiato e potenti sinfonie.
Kingslayer corre dritto fino alla fine, ci consegna ancora almeno quattro devastanti brani di power metal epico ed orchestrale (il singolo Losing My Mind, Hail To King, Headstrong e la conclusiva, epicissima Red Flag) accomiatandosi tra fuochi d’artificio metallici.
Suonato e cantato benissimo, valorizzato da un suono potente e cristallino e reso appetibile da ritmiche che non nascondono un tocco groove nella loro folle corsa verso la gloria metallica, Kingslayer è un altro bersaglio centrato dal chitarrista bielorusso e dai suoi Almanac, esempio di ottimo metal tradizionale ed orchestrale per i defenders del nuovo millennio.

Tracklist
1. Regicide
2. Children Of The Sacred Path
3. Guilty As Charged
4. Hail To The King
5. Losing My Mind
6. Kingslayer
7. Kingdom Of The Blind
8. Headstrong
9. Last Farewell
10. Red Flag

Line-up
Victor Smolski – guitars, keyboards
Andy B. Franck – vocals
David Readman – vocals
Jeannette Marchewka – vocals
Athanasios “Zacky” Tsoukas – drums
Tim Rashid – bass

ALMANAC – Facebook

Honeymoon Disease – Part Human, Mostly Beast

Un altro album che merita la giusta attenzione: Part Human, Mostly Beast insegue a poca distanza i migliori lavori italiani del genere, risultando un ascolto gradito anche per i rockers più attempati.

Quando si parla di hard rock o classic rock il sottoscritto va in brodo di giuggiole, e i rockers svedesi Honeymoon Disease ce la mettono tutta per non deludere le aspettative create dal loro secondo lavoro, Part Human, Mostly Beast, successore dell’ottimo The Transcendence, debutto sulla lunga distanza uscito un paio di anni fa.

Un quartetto equamente diviso tra maschietti (il bassista Nick, ed il batterista Jimi) e gentil donzelle (la singer Jenna e la chitarrista Acid), un sound coinvolgente che del classic rock si nutre irrobustendolo di watt ed una raccolta di brani piacevolmente retrò o vintage, come usa dirsi di questi tempi, ma alla fine è solo rock ‘n’ roll, o meglio hard rock pregno di blues come si usava negli anni settanta e che oggi è tornato a fare la voce grossa sul mercato musicale grazie anche alle molte realtà scandinave.
Il gruppo ha nei Thin Lizzy i suoi padrini, ed ovviamente il sound si sposta sul classic rock di matrice britannica per poi spingersi tra le strade impervie del rock e finire sperduto tra le praterie americane degli anni cinquanta, quando il rock’n’roll era valvola di sfogo del popolo di colore e Chuck Berry faceva meraviglie con Johnny B.Goode (Fly Bird, Fly High e splendida in questo senso) e Suzi Quatro e le Girlschool sono state, in epoche diverse, le riot girl, dal rock all’hard & heavy.
Rymdvals è la perla blues di un lavoro che ha non poche frecce al proprio arco: chorus azzeccati, ottimi riff ed una buona alternanza tra atmosfere più dirette e rock ed altre più vicine al metal dei primissimi anni ottanta.
Un altro album che merita la giusta attenzione: Part Human, Mostly Beast insegue a poca distanza i migliori lavori italiani del genere, risultando un ascolto gradito anche per i rockers più attempati.

Tracklist
1 – Doin’ it Again
2 – Only Thing Alive
3 – Tail Twister
4 – Rymdvals
5 – Needle In Your Eye
6 – Fly Bird, Fly High
7 – Calling You
8 – Four Stroke Woman
9 – Night By Night
10 – It’s Alright
11 – Coal Burnin’
12 – Electric Eel

Line-up
Jenna – Vocals & Guitar
Acid – Guitar
Cedric – Bass
Jimi – Drums

HONEYMOON DISEASE – Facebook

Blowout – Buried Strength

Un album potentissimo e dall’impatto devastante, assolutamente in grado di tenere legati allo stereo prima che le cuffie si trasformino in un ammasso di plastica e fili, fusi dall’inferno di lava bollente che improvvisamente scende tra le note dall’album.

Continua senza sosta l’ottima forma della scena alternativa made in Italy, da un po’ di anni ben assestata nei piani alti dell’underground nazionale ed internazionale e che ci fa partecipi di ottime realtà e tanta buona musica.

L’alternative metal dai rimandi stoner e soprattutto doom è il sound offerto dai Blowout, band trentina con nel sangue la sabbia del deserto e non la neve delle loro bellissime montagne.
I Blowout hanno dato inizio al loro viaggio tra pianure assolate e vulcani addormentati nel 2013, hanno trovato rimedio a diverse defezioni nella line up e un paio di anni fa hanno licenziato il loro primo ep.
E’ giunto il momento per la band del meritato esordio sulla lunga distanza che arriva quest’anno con Buried Strength, album di otto brani che vede la partecipazione in veste di ospite dello storico chitarrista Dario Cappanera (Strana Officina, Rebeldevil) sul brano Stomp On Fire.
Buried Strength è un vulcano in eruzione, un potentissimo calcio nei denti che farà tremare le pareti di casa vostra come il terremoto che precede l’esplosione di lava, un pesante album di metallo alternativo che amalgama impatto ed attitudine stoner metal a più tradizionali bordate di doom, il tutto perfettamente legato da sfumature southern e grunge che modernizzano e rendono molto americano il tutto.
Ed è proprio la traccia che vede come ospite il Kappa, l’esempio perfetto del sound lavico del gruppo, dove i Cathedral di Lee Dorian jammano con i Kyuss, i Black Sabbath e i Down, in un’atmosfera catacombale.
Ma non ci si ferma qui e i Blowout hanno diverse frecce da scagliare,  e l’atmosfera settantiana ritual e cadenzata (ancora la bellissima title track) è alternata a passeggiate nella Sky Valley (l’opener Cheers In Hell e Slum) prima che tutto si tramuti in cenere che lenta cade sul nostro stereo al ritmo della sabbathiana Scars On The Road.
Un album potentissimo e dall’impatto devastante, assolutamente in grado di tenere legati allo stereo prima che le cuffie si trasformino in un ammasso di plastica e fili, fusi dall’inferno di lava bollente che improvvisamente scende tra le note dall’album.

Tracklist
1. Cheers in hell
2. Slum
3. Feel The Phantom Pain
4. Be Divided Be Ruled
5. Stomp On Fire
6. Ghost Shadow
7. Buried Strength
8. Scars of the Road

Line-up
Lorenzo Helfer – Bass
Giuseppe Fontanari – Guitars
Igor Rossi – Vocals
Michele Matuella – Drums
Andrea Avancini – Guitars

BLOWOUT – Facebook

Worstenemy – Deception

E’ giunta l’ora in cui la seconda apocalisse targata Worstenemy si abbatta su di voi senza lasciarvi scampo.

E’ giunta l’ora in cui la seconda apocalisse targata Worstenemy si abbatta su di voi senza lasciarvi scampo.

Il gruppo sardo torna con un nuovo lavoro, il devastante parto estremo intitolato Deception, a quattro anni di distanza dal notevole Revelation, album che lo aveva fatto conoscere ad una più ampia fetta di amanti del death metal tramite la Wormholedeath.
I nuovi Worstenemy sono formati dall’ormai storico chitarrista e cantante Mario Pulisci, accompagnato questa volta dall’ex Hour Of Penance Simone “Arconda” Piras alla batteria e Luigi Cara (Deathcrush / Malignant Defecation) alle prese con basso e voce.
Di death metal si tratta, chiamatelo old school o come volete, rimane il fatto che Deception è un martello pneumatico che penetra inesorabile sulla vostra testa, seminando materia cerebrale nella stanza dove senza cautela alcuna avrete schiacciato il tasto play.
Una sezione ritmica devastante, un sound pieno, mastodontico e pesantissimo, una prova notevole a livello tecnico al servizio di un lotto di brani debordanti, fanno di Deception uno degli album più riusciti degli ultimi tempi, ovviamente parlando di death metal.
La title track è un inizio fulminante e i brani da macello metallico alternano a tratti rallentamenti doom/death da copione per poi ripartire più minacciosi e cattivi di prima; le band storiche del panorama estremo statunitense sono ancora ben presenti nel sound degli Worstenemy i quali, dalla loro, possono vantare un songwriting ispirato e tanta personalità.
Conquer The Illusion, Blood And Dust, Seasons Of War, in odore di Bolt Thrower ed unica concessione “europea” al sound di Deception, e la magnifica cover di Grind (brano degli Alice In Chains dall’omonimo terzo lavoro), prendono per mano l’intera tracklist formando un muro sonoro invalicabile; mastodontico e penetrante, l’album non concede tregua, e le macerie su cui passeggiano i tre musicisti nostrani dopo il micidiale passaggio di questi inesorabili undici schiacciasassi estremi confermano il tiro di un’altra categoria del combo sardo.

Tracklist
1.Deception
2.Solis
3.Conquer the Illusions
4.Fog or Shine
5.Blood and Dust
6.A Mortal God
7.5th Level of Suffering
8.Seasons of War
9.New Era of Terror
10.Grind (Alice in Chains cover)
11.I

Line-up
Mario Pulisci – Vocals, Guitars
Luigi Cara – Bass, Vocals
Simone “Arconda” Piras – Drums

WORSTENEMY – Facebook

Deos – In Nomine Romae

In Nomine Romae è consigliato sia ai fans del black metal sinfonico che a quelli del death epico e guerresco.

L’impero romano glorificato a colpi di blackened death metal, orchestrale e melodico, epico e suggestivo, questo è In Nomine Romae secondo album dei francesi Deos.

Attiva da soli tre anni e con il precedente album licenziato due anni fa (Ghosts Of The Empire), la legione romana trapiantata in Francia strappa la firma con Buil2Kill Records e ci scaraventa in pieno impero, alla conquista del mondo all’epoca conosciuto, celebrando la sua grandezza ad ogni nota che compone l’opera divisa in tredici brani più intro.
Ovviamente epico, il sound dei Deos, a tratti davvero suggestivo, prende forza dal black metal, lo potenzia con il death che fa da fedele centurione e lo armonizza con tappeti orchestrali che tanto sanno di Emperor.
Dopo l’intro “italiana” L’armata Dei Coraggiosi, l’opera prende il via tra ritmiche veloci, orchestrazioni oscure ed un scream/growl che riempie di epica e guerresca cattiveria le atmosfere di brani come Caput Mundi, mentre le sfumature si fanno sempre più oscure e l’odore di morte più intenso all’ascolto di Memento Mori e Laudatio Funebris, un mid tempo funereo e molto suggestivo.
L’atmosfera dell’album non accenna a lasciare territori oscuri, mentre le conquiste si moltiplicano e così le lodi all’impero; le trame epiche si avvicinano agli Amon Amarth, ma sono le band fedeli alla storia dell’Urbe che tornano prepotentemente in auge all’ascolto dell’opera (Ex Deo ed i nostrani Ade, coi quali il gruppo partirà per un tour).
Più vicini al black metal, i Deos risultano sicuramente più oscuri e maligni: In Nomine Romae è quindi consigliato sia ai fans del black metal sinfonico che a quelli del death epico e guerresco, che troveranno di che esaltarsi tra le trame delle varie Cunctator e Delenda Carthago.

Tracklist
1.L’armatura dei coraggiosi
2.Pro Iovis Pro Mars
3.Caput Mundi
4.Sapere Aude
5.Oderint Dum Metuant
6.Memento Mori
7.Cincinnatus
8.Laudatio Funebris
9.Mylae
10.Post Tenebras Lux
11.Cunctator
12.Aut Vincere Aut Mori
13.Delenda Carthago

Line-up
Jack Graved – Bass, Vocals
Loïc Depauwe – Drums
François Giraud – Guitars
Fabio Battistella – Guitars
Harsh Wave – Keyboards

DEOS – Facebook

A Devil’s Din – One Hallucination Under God

Il terzo album dei rockers canadesi A Devil’s Din è un’ opera che si destreggia tra il rock psichedelico a cavallo tra gli anni sessanta ed il decennio successivo.

Quest’anno verrà ricordato dagli amanti del rock (oltre che per una serie di reunion più o meno riuscite) per il giusto tributo ad un album che è stato uno dei più influenti della storia della musica, SGT Pepper’s Lonely Hearts Club Band, capolavoro dei The Beatles.

Partiamo da qui per raccontarvi in due parole One Hallucination Under God, terzo lavoro sulla lunga distanza del trio canadese denominato A Devil’s Din, opera che si destreggia tra il rock psichedelico a cavallo tra gli anni sessanta ed il decennio successivo.
Il trio canadese formato da David Lines (voce, chitarra e tastiere), Tom G. Stout (basso e chitarra) e Dominique Salameh (batteria) dà un seguito al primo album uscito nel 2011 (One Day All This Will Be Yours) e a Skylight, uscito lo scorso anno, con questo buon lavoro di rock vintage che qualche tempo fa avremmo probabilmente definito nostalgico, ma che in tempi di rivalutazione delle radici della nostra musica preferita fa bella mostra di sé seguendo i deliri consumati tra erba e LSD dei quattro geni inglesi.
Ovviamente sono passati cinque decenni di rock e gli A Devil’s Din la storia la conoscono a menadito, così che il confine del loro spartito si allarga per abbracciare altre icone e la loro musica si espande, viaggiando su una nuvola di space rock progressivo.
Quaranta minuti in contemplazione, nel giardino dalle siepi formate da piante illegali, abbandonati a sogni dove si incontrano Marc Bolan, Pink Floyd (era Syd Barret) e Hawkwind, il tutto rimaneggiato a creare un cocktail letale di musica psichedelica, rock che trascende per arrivare alla mente dell’ascoltatore in mille e più forme.
Un buon lavoro di musica vintage, consigliato a vecchi rockers dai sogni flower power, o semplicemente agli amanti del rock classico. 2017 s Psychedelic Rock 7.20

Tracklist
1. Eternal Now
2. Brave New World
3. Nearly Normal
4. Home
5. Who You Are
6. Where Do We Go
7. One Hallucination Under God
8. Sea of Time
9. Evolution

Line-up
Dave Lines – Guitar/Keyboards/Vocals
Tom G. Stout – Bass/Guitar/Vocals
Dom Salameh – Drums/Perc/Vocals

A DEVIL’S DIN – Facebook

Descrizione Breve

Autore
Alberto Centenari

Voto
72