T-Roosters – Another Blues To Shout

Another Blues To Shout è composto da tredici splendide canzoni, tredici composizioni dove le note del delta prendono vita, tra il blues classico e lo swing.

Ai lettori della nostra webzine non facciamo mancare niente, partendo dal presupposto che, oltre allo zoccolo duro di metallari dai gusti estremi o classici, ci sia pure (come è nel nostro spirito) chi ama la buona musica a prescindere dagli stili che formano la grande famiglia del rock.

E non può mancare il blues, capostipite di tutto quello che si ascolta ai nostri giorni, specialmente ora che, come negli anni settanta, il rock ha ripreso la strada della frontiera che porta al delta del grande fiume, là dove tutto è nata tra il profumo del tabacco ed il tintinnio delle catene.
Quello che non sapete è che i protagonisti di questo viaggio/sogno tra le rive del Mississippi sono i T-Roosters, band di bluesmen italiani giunti al loro al quarto album in circa un decennio di attività.
Another Blues To Shout è composto da tredici splendide canzoni, tredici composizioni dove le note del delta prendono vita, tra il blues classico e lo swing: poco rock dunque, ma un affascinate percorso musicale nel blues delle origini, dove l’armonica diventa a tratti l’assoluta protagonista di sanguigne e ribelli boogie woogie songs e il ritmo instancabile ricorda le lunghe serate fuori dalle povere case degli schiavi, che esorcizzavano la fatica di lunghe giornate nei campi con interminabili e straordinarie jam.
Scritto a due mani da Paolo Cagnoni e Tiziano Galli (testi, musiche e produzione), Another Blues To Shout conferma l’ottima reputazione del gruppo nella scena del genere, non solo nel nostro paese visto l’exploit dello scorso anno quando i T-Rooster hanno strappato una posizione di tutto rispetto al Blues Contest “IBC”, concorso di blues internazionale tenutosi a Memphis.
L’opener Lost And Gone, i brividi suscitati dall’atmosfera accaldata e rustica della splendida Morning’ Rain Blues, lo swing protagonista di Naked Born Blues e il rock’n’roll dei pionieri nella straordinaria Livin’ On Titanic, sono solo una parte del tesoro musicale che scoprirete ascoltando Another Blues To Shout, un album passionale come solo questo genere sa essere.

Tracklist
1 Lost And Gone
2 Morning Rain Blues
3 I Wanna Achieve The Aim
4 On This Life Train
5 Naked Born Blues
6 Sugar Lines
7 Beale Street Bound
8 Livin’On Titanic
9 Black Star Blues
10 Still Walkin’ Down South
11 Missing Bones
12 The Way I Wanna Live
13 I’m Rolling’ Down Again

Line-up
Tiziano “Rooster Tiz” Galli – Voce e Chitarre
Giancarlo “Silver Head” Cova – Batteria e Background Vocal
Luigi “Lillo” Rogati – Basso, Contrabbasso e Background Vocal
Marcus “Bold Sound” Tondo – Armoniche e Background Vocal

T-ROOSTERS – Facebook

Frank Capitanio – The Last Man

Con un livello che rimane alto per appeal e talento melodico, The Last Man risulta una ventata di aria fresca nel panorama del rock/pop dal piglio radiofonico.

Diciamolo francamente: siamo invasi da una moltitudine di gruppi presentati dai canali satellitari come i salvatori del rock, in coma da anni e disteso in un giaciglio aspettando il bacio di un giovane principe armato di chitarra, basso, batteria e buone idee, che possa finalmente risvegliarlo.

A noi che ci occupiamo di altre tipologie di rock, più dure e meno commerciali, fa piacere incontrare sul nostro cammino ottime realtà come Frank Capitanio, trio alternative pop/rock della provincia di Teramo, capitanata appunto dall’omonimo chitarrista e cantante, coadiuvato alla batteria da Edolo Ciampichetti e al basso da Lorenzo Marcozzi.
Quindi moderiamo i toni, lasciamo per un po’ le strade impervie dell’alternative metal o del rock vintage tanto di moda di questi tempi, per immergerci nel mondo di The Last Man, opera che passa con disinvoltura dall’alternative rock al pop con un’accentuata vena cantautorale, ricca di sfumature radiofoniche r dalle trame melodiche ed orecchiabili, ma dal tiro irresistibile.
Un album composto da belle canzoni, questo è The Last Man, a tratti più elettrico, in altri molto melodico e dall’ottimo appeal ma rock nel profondo, così come straordinariamente rock è la voce di Frank, che a molti ricorderà dMiles Kennedy (Alter Bridge) ma che sicuramente non manca di personalità e talento, assecondano quelle che sono le brillanti idee evidenziate da un ottimo songwriting.
Il sound, dunque, si muove nel sound del nuovo millennio, lasciando che le melodie prendano il sopravvento sulle graffianti trame rock che fanno comunque parte dello spartito di brani come il singolo Dena, la Soul Asylum oriented Long Away, la splendida ballad Easy e le trame ritmiche di Loser, tra melodie ed urgenza alternative.
Con un livello che rimane alto per appeal e talento compositivo, The Last Man risulta una ventata di aria fresca nel panorama del rock/pop dal piglio radiofonico.

Tracklist
1.A Reason To Fly
2.All The Time Lost
3.Dema
4.Long Away
5.Loser
6.Misery
7.Easy
8.The Last Man
9.Thank You
10.Choose The day

Line-up
Frank Capitanio – Voce, Chitarra
Lorenzo Marcozzi – Basso Elettrico, Back Vocals
Edolo Ciampichetti – Batteria, Percussioni

FRANK CAPITANIO – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=ZVrlwc1hfTk

Karkaos – Children Of The Void

Con un album di un’altra categoria, i Karkaos emergono da un underground ricco di talenti e si conquistano un posto al sole.

Furioso, bellissimo, devastante, melodico, oscuro ed epico, Children Of The Void è tutto questo e anche di più: una tempesta di note metalliche, un vento che dal nord soffia minaccioso e porta metallo estremo sinfonico di livello altissimo.

Loro sono i canadesi Karkaos, gruppo proveniente da Montreal, attivi dal 2009 con questo monicker ma sulla scena come Sinister Vengeance già dal 2003 e una discografia che si completa con un primo ep, In Burning Skies del 2011, ed il primo full length Empire licenziato tre anni fa, ora sul mercato sempre in regime di autoproduzione con questo bellissimo esempio di death metal melodico e sinfonico, in cui le orchestrazioni sono importantissime nel sound così come una verve battagliera che infonde epiche atmosfere a tutto Children Of The Void.
E’ una bellezza inoltrarsi nei meandri di questo lavoro, tra sinfonie epiche e death metal melodico che valorizzano questi cinquanta minuti tempestosi, in un turbinio di spettacolari fughe ritmiche, solos che squartano membra e voci che si rincorrono, quella splendidamente pulita della singer Viky Boyer ed il growl potentissimo e teatrale del chitarrista Vincent Harnois .
Il singolo Kolossus, la successiva Let The Curtains Fall, la title track e via una fuori l’altra, tutte le tracce che compongono Children Of The Void sono uno spettacolare invito alla battaglia, ispirate dai Bal Sagoth, dagli Amon Amarth e dai primi impareggiabili In Flames.
Con un album di un’altra categoria, i Karkaos emergono da un underground ricco di talenti e si conquistano un posto al sole, almeno sulle nostre pagine.

Tracklist:
1. Babel
2. Skymaster
3. Kolossos
4. Let the Curtains Fall
5. Pale
6. Children of the Void
7. Rêverie
8. Tyrant
9. Where Mushrooms Grow
10. Lightbearer
11. The Beast
12. Bound by Stars

Line-up:
Vincent Harnois – Guitars
Sébastien Belanger-Lapierre – Keyboards
Eddy Levitsky – Bass
Samuel Pelletier – Guitars
Viky Boyer – Vocals
Justine Ethier – Drums

KARKAOS – Facebook

Cunning Mantrap – Hazmat

It’s only rock’ n’ roll, niente di più, niente di meno, ma robusto, graffiante, totalmente stonato, con un sound che penetra sotto una pelle bruciata dalla troppa esposizione al sole.

Ecco un’altra ottima band dai suoni hard rock in arrivo dal centro Europa, da quelle terre germaniche dove il genere ed i suoi derivati splendono di tradizione ed il metal/rock trova la sua patria ideale.

I Cunning Mantrap sono un terzetto di rockers con un solo ep alle spalle (Dull Days), ora seguito da Hazmat, nuovo e notevole lavoro che spazia tra hard rock, grunge e stoner metal, sguaiato, bluesy e psichedelico quanto basta per lasciarlo nel lettore a far danni nelle vostre serate alcoliche.
Licenziato dalla Fastball Music lo scorso anno, MetalEyes IYE lo ripropone ai suoi lettori, che di deserto arso da una palla infuocata e vulcanici riff se ne intendono.
In verità non siamo al cospetto di chissà quale novità: il sound del gruppo tedesco segue le strade polverose di molte hard rock band del momento, ma sfido chiunque a non muovere il fondo schiena e sbattere la capoccia al ritmo di questa dozzina di brani anfetaminici, mentre gli anni settanta ed i suoi eroi ammiccano soddisfatti alle gesta di Phry McDunstan, Tobias Schmidt e Lukas Bönschen da Colonia.
It’s only rock’ n’ roll, niente di più, niente di meno, ma robusto, graffiante, totalmente stonato, con un sound che penetra sotto una pelle bruciata dalla troppa esposizione a un sole che illumina brani come l’opener Red, dal sound creato a Seattle e portato in terra teutonica da Weary, mentre la varia raccolta di tracce porta l’ascoltatore ad assaporare diverse atmosfere tra i cieli dove vola il dirigibile zeppeliniano, il deserto dove corre la macchina Kyuss e le pozzanghere di una piovosa città americana dove bazzicavano Alice In Chains e Soundgarden.
Hazmat è dunque un ottimo lavoro , diretto, senza fronzoli ma ricco di buone canzoni: cercatelo, non ve ne pentirete.

Tracklist
1.Red
2.Company
3.Play The Prophet
4.Uncanny Volley
5.A Light Have Should Have Shined
6.Detox
7.Weary
8.The Past
9.The Future II
10.Orange
11.Straight Outta Hand
12.The Course Of The Leaden Tongue

Line-up
Phry McDunstan – Lead guitars, bass
Tobias Schmidt – Bass
Lukas Bönschen – Drums

CUNNING MANTRAP – Facebook

Thy Art Is Murder – Dear Desolation

Più death metal che core, Dear Desolation è da considerare un buon ritorno per il quintetto australiano, una macchina estrema moderna legata da un filo neanche troppo sottile alla tradizione.

Ormai, con l’uscita di questo ultimo lavoro, la definizione deathcore per descrivere la musica degli australiani Thy Art Is Murder risulta sicuramente forzata, ma andiamo con ordine.

La band di Sydney torna con Dear Desolation quarto album in studio licenziato in Europa dalla Nuclear Blast che segna il ritorno dell’orco CJ McMahon, allontanatosi all’indomani dell’uscita di The Depression Session, split album in compagnia di The Acacia Strain e Fit for an Autopsy, ma rientrato dopo pochi mesi.
Accompagnato da un’inquietante copertina che vede ritratto un famelico lupo allattare un agnellino con l’intenzione di sbranarlo subito dopo, Dear Desolation è un buon esempio di brutal death metal ispirato da soluzioni moderne, efferato e terribile come le fauci del grande predatore.
A tratti l’oscurità pressante ed il continuo massacro vengono stemperate da soluzioni melodiche che rimangono tragiche ed infauste, mentre il vorace lupo prende le sembianze del singer, animalesco e cattivo come pochi.
Nella sua interezza l’album risulta un macigno estremo di death metal brutale e moderno, accentuato da devastanti sfuriate e mid tempo che sono muri di arrembante metallo oscuro, mentre le sei corde questa volta risultano più varie e melodiche nel gestire il proprio lavoro e l’elemento elettronico/atmosferico è presente, senza però mettere in discussione la natura brutal dell’opera.
L’ultimo lavoro dei deathsters australiani non è sicuramente di facile assimilazione, anche se la durata è nella media (una quarantina di minuti), grazie ad una tragica ed oscura anima che aleggia sui brani così da soffocare la title track, Death Dealer, Into Chaos We Climb e le altre tracce in un buio perenne di dannazione e violenza.
Più death metal che core, Dear Desolation è da considerare un buon ritorno per il quintetto australiano, una macchina estrema moderna legata da un filo neanche troppo sottile alla tradizione.

Tracklist
1. Slaves Beyond Death
2. The Son Of Misery
3. Puppet Master
4. Dear Desolation
5. Death Dealer
6. Man Is The Enemy
7. The Skin Of The Serpent
8. Fire In The Sky
9. Into Chaos We Climb
10. The Final Curtain

Line-up
CJ McMahon – vocals
Andy Marsh –
Sean Delander – guitars
Kevin Butler – bass
Lee Stanton – drums

THY ART IS MURDER – Facebook

Firesphere – Requiem

Una proposta fuori dai soliti schemi dettati dalla musica gothic/dark, forse ancora da registrare leggermente per rendere più fluido l’ascolto, ma che a tratti regala ottima musica avvolta dalle ombre di emozioni malinconiche ed intimiste.

I Firesphere sono un progetto, una concept band capitanata dalla cantante e tastierista giapponese Rosemary Butterfly e dal chitarrista e cantante Priest; Requiem è stato ristampato dopo solo un anno dalla Darksign Records che ha messo le mani sul gruppo e, alla luce della buona qualità della proposta, si direbbe che abbia fatto senz’altro bene.

I Firesphere potrebbero facilmente essere scambiati per il classico gruppo gothic di moda in questo periodo, invece tra le trame di questo loro primo album c’è molto di più: un rock alimentato da una vena progressiva e cinematografica, l’ elettronica che fa capolino tra le tracce ed un uso di sfumature teatrali, che si avvicina  al metal/rock d’autore.
Un concept che si alimenta di drammatica tensione mentre i vari generi usati con maestria, variano l’ascolto che si riempie di epiche atmosfere, visionari quadri dark rock e rabbiose parti industrial metal, usate con parsimonia ma presenti ed efficaci nell’economia dell’opera.
Le parti strumentali dal taglio progressivo sono il fiore all’occhiello del sound proposto dai nostri (Fate), mentre i due vocalist si scambiano il microfono e l’aria si fa pesante, operistica e magniloquente in tracce sinfoniche come In The Silence.
Immaginatevi i primi Savior Machine potenziati da dosi industriali, aperture prog metal alla Queensryche, dark rock e musica dal taglio cinematografico ed avrete idea del sound offerto dal gruppo proveniente da Orlando.
Una proposta fuori dai soliti schemi dettati dalla musica gothic/dark, forse ancora da registrare leggermente per rendere più fluido l’ascolto, ma che a tratti regala ottima musica avvolta dalle ombre di emozioni malinconiche ed intimiste.

Tracklist
1. Requiem
2. Behind These Eyes
3. Silent Darkness
4. In The Silence
5. Tonight
6. I See You
7. Release Me
8. Into My Heart
9. Calling Me
10. Fate (instrumental)
11. Come With Me
12. Bringing You Here

Line-up
Priest (Ken Pike)- vocals
Rosemary Butterfly (Ryo Utasato-Pike) – vocals
Blacksmith (Ed Dumas) – guitar
Roadblock (Tyler Colick) – guitar
Tsukime (Robert Adams) – keyboards
Asmodeus Stone (Chris Falwell) – bass
Mason (Anthony Marou) – drums

FIRESPHERE – Facebook

Inanimate Existence – Underneath A Melting Sky

Dopo le ultime prove deludenti da parte di gruppi anche più conosciuti della band californiana, Underneath A Melting Sky risulta una piccola ventata di aria fresca in un genere che ultimamente appariva sempre più asfittico.

Finalmente una band di technical death metal che, oltre a sfoggiare una tecnica invidiabile, ci riserva un concentrato di digressioni progressive ricamate da melodie sufficienti quanto basta, almeno, per non far perdere l’attenzione a chi ascolta.

Attivi dal 2010 nella zona della famosa Bay Area californiana, giungono al quarto album i deathsters Inanimate Existence, addirittura a meno di un anno dal precedente lavoro intitolato Calling For A Dream.
Archiviata la copertina fantasy che poco ha a che fare con la musica del quartetto, ma più utile forse al nuovo album di una qualsiasi band power metal, Underneath A Melting Sky ci investe con la sua intricata forza estrema, valorizzata da buone melodie ed un gusto progressivo evidenziato dalle sfumature orchestrali che attraversano molti dei brani che compongono l’album.
Niente di nuovo o clamoroso, ormai il genere non fa più notizia e i gruppi formati da talentuosi musicisti estremi spuntano come funghi, ma alla base dell’ultimo disco del gruppo statunitense c’è la voglia di non andare oltre le regole di uno spartito completamente avulso da tecnicismi fine a sé stessi di molti loro colleghi.
In Moonlight I Am Reborn, Blood of the Beggar o The Djinn, gli Inanimate Existence valorizzano l’ottima tecnica strumentale con un songwriting ben calibrato, offrendo un prodotto estremo comunque assimilabile anche da chi preferisce il death metal classico e tenendo nel dovuto conto l’essenziale forma canzone.
Dopo le ultime prove deludenti da parte di gruppi anche più conosciuti della band californiana, Underneath A Melting Sky risulta una piccola ventata di aria fresca in un genere che ultimamente appariva sempre più asfittico.

Tracklist
1.Forever to Burn
2.Underneath a Melting Sky
3.In Moonlight I Am Reborn
4.Blood of the Beggar
5.The Old Man in the Meadow
6.The Djinn
7.The Unseen Self
8.Formula of Spores

Line-up
Cameron Porras – Guitar, Vocals
Scott Bradley – Bass, Vocals
Ron Casey – Drums

INANIMATE EXISTENCE – Facebook

Secret Sight – Shared Loneliness

Un album intenso, melodico e tragicamente vitale, privo di intoppi come il fluido scorrere dell’acqua in un torrente.

Quando la new wave ed il post punk si uniscono al dark progressivo tanto in voga negli ultimi tempi, ecco che prende forma un rock emozionale nel quale trame malinconiche accompagnano l’ incedere di brani in cui si respira un epicità scovata nella vita di tutti i giorni.

Parlando di new wave non ci si può dimenticare degli anni ottanta e dei gruppi cardine del genere, ma senza fare nomi e cognomi ci crogioliamo nelle linee melodiche della voce o degli arpeggi elettrici di una chitarra vestita di nero e truccata con il mascara, leggero ma presente.
I Secret Sight da Ancona, nati dalle ceneri del progetto Coldwave e subito in pista con il debutto Day.Night.Life, tornano con questo bellissimo album , maturo, coinvolgente e armonicamente sopra le righe, una raccolta di tracce che dei generi descritti prendono il meglio e lo riassumono in un rock che vive di una grande malinconia ma che si apre anche alla speranza, mentre i più vecchi tra voi gusteranno passaggi che risulteranno familiari, ma perfettamente incastonati in un sound personale e coinvolgente.
Shared Loneliness vi ipnotizzerà, seducente e bello mentre le sue spire si avvolgeranno sempre più ad ogni brano, dall’opener Lowest Point per arrivare all’ultima nota della conclusiva Sometimes, passando tra le note che si fanno diaboliche e pregne di lucide melodie decadenti in Blindmind o nella bellissima Over, senza perdere un solo attimo dell’urgenza post punk (Stage Lights).
Un album intenso, melodico e tragicamente vitale, privo di intoppi come il fluido scorrere dell’acqua in un torrente.

Tracklist
1.Lowest Point
2.Stage Lights
3.Blindmind
4.Fallen
5.Flowers
6.Swan’s Smile
7.Over
8.Surprising Lord
9.Sometimes

Line-up
Cristiano Poli – vocals, guitar
Lucio Cristino – vocals, bass
Enrico Bartolini – drums

SECRET SIGHT – Facebook

One Eyed Jack – What’m I Getting High On?

Il trio lombardo non si nasconde certo dietro ad un dito, ti sbatte in faccia le proprie influenze e come se fossimo tutti trasportati in un locale della Seattle sfatta di rock ed eroina, ci consegna un valido tributo ad una delle scene musicali più importanti del secolo scorso.

Echi di Bleach e Nevermind, lasciati al caldo sole del deserto della Sky Valley, formano un sound massiccio e profondo, mentre il tempo si ferma e con una brusca inversione a U ci riporta ai primi anni novanta e alle perturbazioni musicali che, come la pioggia, fanno di Seattle una delle città più cupe del mondo.

Ma siamo nel 2017 e nel Nord Italia, precisamente nel bresciano dove si aggirano da qualche anno gli One Eyed Jack, tornati dopo un primo album autoprodotto con questo macigno di hard rock americano dalle ispirazioni grunge/stoner intitolato What’m I Getting High On?, licenziato dalla Fontana Indie Label 1933.
Il trio lombardo non si nasconde certo dietro ad un dito, ti sbatte in faccia le proprie influenze e come se fossimo tutti trasportati in un locale della Seattle sfatta di rock ed eroina, ci consegna un valido tributo ad una delle scene musicali più importanti del secolo scorso.
Ovviamente gli One Eyed Jack ci mettono del loro, che consiste nello stonerizzare il tutto con un basso grasso che al calore cola di liquido vischioso, presente come i riff potenti della sei corde ed il cantato malato, nervoso ma a tratti rilassato prima di esplodere in rabbiosi chorus di scuola Cobain.
Primetime, The Edge Of The Soul, l’atmosfera tirata dal basso che pulsa di Washyall, l’urgenza punk di Shitting Blood, e una presa live che non mancherà di fare vittime dall’alto di un palco fanno di What’m I Getting High On? un lavoro diretto e che ben fotografa l’influenza dei gruppi di Seattle sul rock del nuovo millennio.
L’album potrà risultare magari poco originale ma non ci sono certamente dubbi sul suo impatto.

Tracklist
1. Primetime
2. Little Junior Finally Grew A Beard
3. Soon Back Home
4. Shitting Blood
5. Sgrunt
6. The Edge of the Soul
7. Daily Abuse
8. Drama Shit
9. Washyall
10. Dog Fight

Line-up
Daniele – chitarre e voci
Giampietro – bassi
Dariored – batterie

ONE EYED JACK – Facebook

Striker – Striker

Ritmiche dure come la roccia, scalfite da improvvise accelerazioni power, riff taglienti come rasoi e melodie dall’appeal elevato, sono le qualità che il gruppo mette sul tavolo.

Se siete degli amanti dell’heavy metal di lungo corso, allora l’omonimo quinto album dei canadesi Striker è l’ opera che vi mancava per rinverdire i fasti e le gesta dei gruppi storici che fecero meraviglie nei primi anni ottanta, specialmente sul territorio britannico.

Il quartetto, attivo da una decina d’anni e dallo scorso Stand In The Fire finito sulla bocca di fans e addetti ai lavori, viene descritto come uno degli eredi più credibili del sound classico creato da mostri sacri come Iron Maiden e Judas Priest, su cui la band inietta dosi letali di thrash metal e tanta melodia per un risultato altamente esplosivo.
In anni in cui la crisi del mercato e quella dei live, che nel genere sono praticamente ignorati (a parte i festival estivi ed i concerti evento), gli Striker potrebbero portare una nuova ventata di entusiasmo in una frangia del metal che, passata la tempesta di fine secolo scorso, è tornata ad arrancare per mancanza soprattutto di un importante supporto dai media.
Si cerca la new sensation che possa incendiare di passione i giovani, e gli Striker, dall’alto di un lavoro davvero bello a far coppia con il suo acclamato predecessore, si candidano come una delle realtà più agguerrite in tal senso.
Ritmiche dure come la roccia, scalfite da improvvise accelerazioni power, riff taglienti come rasoi e melodie dall’appeal elevato, sono le qualità che il gruppo mette sul tavolo, con i pugni al cielo a cantare refrain irresistibili, sperando che il dio del metal questa volta non sia distratto.
E Striker le carte in regola per fare colpo in terra ed in cielo le ha eccome, a partire dall’opener Former Glory, passando per una serie di tracce dirette e splendidamente metalliche, per finire con la cover di Desire dello zio Ozzy, che benedice la band giunta da Edmonton per risvegliare l’orgoglio sopito dei true defenders.
Un album che nella sua prevedibile natura porta con sé quello spirito che fece innamorare i rockers di quarant’anni fa, trasformati dopo l’ascolto di The Number Of The Beast, Pyromania, Unleashed in The East o Crazy Night in guerrieri metallici dal chiodo luccicante.
Saranno benedetti dal signore del metallo o rimarranno esclusiva degli amanti del genere molto attenti alle vicende del troppo spesso dimenticato underground? Nel dubbio non perdetevi questa cascata di acciaio fuso chiamata Striker, c’è esaltarsi non poco.

Tracklist
1. Former Glory
2. Pass Me By
3. Born to Lose
4. Cheating Death
5. Shadows in the Light
6. Rock the Night
7. Over the Top
8. Freedom’s Call
9. Curse of the Dead
10. Desire (cover)

Line-up
Dan Cleary – Vocals
Adam Brown – Drums
Timothy Brown – Guitars
Wild Bill – Bass

STRIKER – Facebook

Incantation – Profane Nexus

Un’apoteosi di scorribande in doppia cassa, lentissimi e claustrofobici passaggi doom ed atmosfere malvagie: Profane Nexus ribadisce l’assoluta qualità della proposta degli Incantation, band che risulta una garanzia ed una delle poche dal sound personale.

Il 2017 verrà sicuramente ricordato dai fans del metal estremo per il ritorno di molte bands storiche del panorama death metal mondiale, con album che non andranno sicuramente ad intaccare la loro reputazione, degni successori delle opere uscite negli anni di maggior fama per il genere.

Si aggiungono a questa invasione di vecchie glorie gli statunitensi Incantation, gruppo proveniente dalla Pensylvania che John McEntee ha tenuto attivo dal 1989 con undici album licenziati ed una marea di lavori minori, sempre all’insegna di un blasfemo death metal dalla forte componente doom.
Anche in questo nuovo lavoro intitolato Profane Nexus la formula non cambia, con il gruppo che continua imperterrito ad alternare, amalgamare e modellare death metal old school e doom funereo, come da tradizione.
Niente di nuovo direte voi, vero è che anche questo oscuro e diabolico album non mancherà di crogiolare le anime possedute dal verbo Incantation, tra devastanti ripartenze e lunghe cadute nell’abisso dove le anime soffrono di una infinita e tragica disperazione, seviziate e torturate dalla lava che lenta scorre ai loro piedi.
McEntee, con il suo satanico growl, detta i tempi di questa macchina infernale, assecondato da Sonny Lombardozzi alla sei corde, Chuck Sherwood al basso e Kyle Severn alle pelli, con il valore aggiunto del lavoro in studio di Dan Swanö e la “benedizione” della Relapse.
E’ un’apoteosi di scorribande in doppia cassa, lentissimi e claustrofobici passaggi doom ed atmosfere malvagie: Profane Nexus ribadisce l’assoluta qualità della proposta di una band che risulta una garanzia ed una delle poche dal sound personale.
Gli Incantation da anni suonano come … gli Incantation, se sia difetto o virtù dipende dai punti di vista, l’importante è che brani come Visceral Hexahedron, Incorporeal Despair, Lus Sepulcri continuino a dispensare metal estremo oscuro e blasfemo suonato da uno schiacciasassi.

Tracklist
01. Muse
02. Rites of the Locust
03. Visceral Hexahedron
04. The Horns of Gefrin
05. Incorporeal Despair
06. Xipe Totec
07. Lus Sepulcri
08. Stormgate Convulsions from the Thunderous Shores of Infernal Realms Beyond the Grace of God
09. Messiah Nostrum
10. Omens to the Altar of Onyx
11. Ancients Arise

Line-up
John McEntee – Guitar, Vocals
Sonny Lombardozzi- Lead Guitar
Chuck Sherwood – Bass
Kyle Severn – Drums

INCANTATION – Facebook

Paralysis – Life Sentence

Tutto funziona esattamente come deve essere un album di genere, la voce cartavetrata e l’alternanza tra potentissimi mid tempo ed accelerazioni sono il pane dei Paralysis che non fanno nulla, però, per uscire dai binari del genere.

Il thrash meta è più che mai vivo e vegeto: Europa e Stati Uniti, ma pure la nuova frontiera rappresentata dai paesi asiatici, continuano a proporre band capaci di offrire album di genere molto interessanti, e Life Sentence degli americani Paralysis è uno di questi.

La band del New Jersey licenzia il primo full length dopo che nei tre anni precedenti sono usciti tre diversi ep, dunque un momento prolifico per il quartetto composto da Jon Plemenik (chitarra e voce), Patrick Harte (basso), Ron Iglesias (chitarra) e Matt Pavlik (batteria).
Life Sentence risulta un bel macigno thrash metal, di matrice old school ovviamente, senza il minimo compromesso, rabbioso, graffiante e di scuola americana.
Non ci sono alternative, tutto funziona esattamente come deve essere un album di genere, la voce cartavetrata e l’alternanza tra potentissimi mid tempo ed accelerazioni sono il pane dei Paralysis, che non fanno niente per uscire dai binari del genere.
Dieci brani che urlano l’ urgenza di far male, senza preamboli, cercando di abbatterci mentre riff e ripartenze segnano il sound del gruppo e delle varie Ignorance, Misery e Nothing But Death.
Un lavoro dedicato ai fans del thrash metal più incazzoso e dal taglio punk e di gruppi come Whiplash, Municipal Waste e Nuclear Assault.

Tracklist
1.Ignorance
2.Your Will
3.Life Sentence
4.Misery
5.Think It’s Right
6.Deepest Void
7.All Your Lies
8.Nothing but Death
9.Cut Deep
10.Karma

Line-up
Matt Pavlik – Drums
Ron Iglesias – Guitars (lead), Vocals (backing)
Jon Plemenik – Vocals (lead), Guitars (rhythm)
Patrick Harte – Vocals (backing), Bass

PARALYSIS – Facebook

Motograter – Desolation

Desolation, pur non arrivando alle vette artistiche degli album storici del genere, risulta un’oasi di metal moderno in mezzo al deserto di proposte metalcore che inondano il mercato discografico odierno. 

Gli americani non solo hanno inventato il metal moderno ma lo sanno suonare dannatamente bene, anche se il nu metal ormai non è più cosa per il mercato mondiale ed album come Desolation rischiano di non avere più i riscontri di una quindicina di anni fa.

Eppure i Motograter non sono un nome così famoso, almeno per chi, gli anni d’oro del genere li ha vissuti superficialmente: attivi dalla metà degli anni novanta, non sono mai stati prolifici per quanto riguarda le uscite che si fermano a tre ep ed un full length prima di questo nuovo lavoro.
Un’autentica tribù di musicisti si sono dati il cambio tra le fila del gruppo proveniente da Santa Barbara (California), forse anche per questo che la band non ha mai trovato quella stabilità utile per definire sound ed impegni, ma ci riprova con una formazione nuova di zecca ed un lavoro che, di fatto, non delude, risultando melodico e metallico, moderno ma radicato nella scuola nu metal.
Quindi dimenticate suoni e ritmi core e concentratevi su quello che suonavano nella scena statunitense a cavallo del millennio, aggiungendo reminiscenze alternative rock che si muovono come fantasmi tra le sfuriate di Desolation, album che si fa ascoltare, melodicamente sopra le righe, magari non d’impatto come le uscite a cui siamo abituato oggi, ma duro quanto basta per non mollare la presa sui genitali di chi ama il sound che rese famosi gente come i Korn, gli Spineshank, i P.O.D. e i Papa Roach.
Un buon lavoro, dunque, che utilizza le caratteristiche peculiari del genere, ci aggiunge alternative rock e post grunge a piccole dosi ed ogni tanto ci va giù duro, accontentando un po’ tutti i gusti.
Bisogna essere capaci a rendere la propria proposta varia senza lasciare che la tensione scenda, e questo succede in brani come l’opener Parasite, la potente Victim eLa notevole Misanthropical, traccia che sembra uscita dalle session del discusso The Burning Red dei Machine Head.
Prodotto da Ahrue Luster (Ill Nino/Ex-Machine Head), Desolation, pur non arrivando alle vette artistiche degli album storici del genere, risulta un’oasi di metal moderno in mezzo al deserto di proposte metalcore che inondano il mercato discografico odierno.

Tracklist
1.Parasite
2.Dorian
3.Victim
4.Paragon
5.Bleeding Through
6.Misanthropical
7.Daggers
8.Portrait of Decay
9.Locust
10.Rise (There Will Be Blood)
11.Shadows

Line-up
Matt “Nuke” Nunes – Guitar
James Anthony “Legion” – Vocals
Mylon Guy – Bass
Noah “The Shark” Robertson – Drums
Joey “Vice” – Back Vocals, Percussions, Programming

MOTOGRATER – Facebook

Impalers – The Celestial Dictator

Ovviamente siamo nel mondo del thrash metal e di qui non ci si schioda, ma se siete amanti della scuola tedesca The Celestial Dictator è un album da non perdere.

Se credete ancora che nel 2017 non si possa suonare thrash metal old school tripallico, violentissimo e senza compromessi, ma attraversato da una vena melodica sopra le righe, allora senza indugi fate vostro The Celestial Dictator, nuovo lavoro dei thrashers danesi Impalers.

Terzo album e squadra di musicisti al proprio posto ed in assetto di guerra per la nuova avventura del quartetto di Haderslev, che quest’anno festeggia il decimo anno dalla nascita con un esplosivo full length  di thrash/speed metal influenzato dalla scena teutonica ma fatto proprio con una prova convincente.
Già all’epoca del precedente God From The Machine, Søren Crawack e compagni avevano dimostrato buone potenzialità e, passati due anni ed un ep, possiamo senz’altro affermare che gli Impalers non hanno tradito le attese confermando le buone impressioni suscitate.
Ovviamente siamo nel mondo del thrash metal e di qui non ci si schioda, ma se siete amanti della scuola tedesca The Celestial Dictator è un album da non perdere.
Il padre, il figlio e lo spirito santo del thrash metal teutonico guidano gruppo danese, inferocito alla partenza con una doppietta (Terrestrial Demise e Terrorborn) da far impallidire il giovane Petrozza, per poi placarsi (Into Doom) e tornare più violenti che mai con What Is One.
E’ ottima Believe, maligna e diretta, una vera thrash speed song con la voce cartavetrata che nel chorus torna melodica, mentre il gruppo non leva il piede dal pedale dell’acceleratore con il contachilometri inchiodato sui 200.
La title track, varia nelle atmosfere, funge da sunto di tutto l’album che alterna metal estremo e cattivissimo, ottime soluzioni melodiche e chorus riusciti, mentre in un attimo siamo già ad Antithesis, brano che chiude le ostilità.
Gli Impalers si confermano come ottima band underground, in un genere che ha trovato nuova verve in questi ultimi tempi, sia per le ultime buone prove dei gruppi storici e, soprattutto, per le ottime proposte in arrivo dal sottosuolo metallico internazionale.

Tracklist
1.Intro
2.Terrestrial Demise
3.Terrorborn
4.Color Me White
5.Into Doom
6.What Is One
7.Sun
8.Believe
9.Celestial Dictator
10.Antithesis

Line-up
Søren Crawack – Rhythm Guitar & Vocals
Kenneth Frandsen – Bass Guitar
Rasmus Kjær – Drums
Thomas Carnell – Lead Guitar

IMPALERS – Facebook

Zarthas – Reflections

Un album piacevole, un lotto di canzoni facili da memorizzare, dalle buone melodie e ben strutturate, dove le chitarre premono contro un tappeto melodico, le ritmiche mantengono uno sguardo cattivo e l’elettronica a tratti accende momenti di nostalgico dark rock.

Se cerchiamo bene tra le valli ed i laghi finlandesi non troveremo solo metal estremo, ma come da tradizione dei paesi dell’estremo Nordeuropa anche tanto hard rock.

E’ un tradizione consolidata quella del rock duro a quelle latitudini, ora non più ad appannaggio esclusivo del rock melodico, ma pure territorio fertile per quello moderno.
Gli Zarthas, da Oulu, hanno imparato bene la lezione che in questi ultimi anni le legioni del rock alternativo statunitense hanno impartito al mondo musicale, ed ecco che, tramite la Wormholedeath, licenziano Reflections, album composto da una dozzina di brani che spostano il tiro tra il rock alternativo, l’hard rock dalle venature post grunge e quel malinconico tocco dark che risulta innato nei rockers passati dagli ascolti di Crimson, dei mai troppo osannati Sentenced, al rock moderno dal groove obbligatorio ed il chorus facile.
Ne esce un album piacevole, un lotto di canzoni facili da memorizzare, dalle buone melodie e ben strutturate, dove le chitarre premono contro un tappeto melodico, le ritmiche mantengono uno sguardo cattivo e l’elettronica a tratti accende momenti di nostalgico dark rock.
Buona la voce (Lauri Huovinen) che corre dietro il sound alternando parti graffianti ad altre più sofferte, mentre si fanno ricordare con piacere l’opener Riot Now!, Back To A Black Hole e le orchestrazioni dalle reminiscenze gothic di Outside.
In conclusione, un album godibile e vario nel suo alternare le sfumature di generi in apparenza lontani tra loro, ma ben affiatati sotto la bandiera degli Zarthas.

Tracklist
1.Riot Now
2.The Green and the Red Light
3.Bad Wannabe 4.Back to a Black Hole
5.Pulse!
6.First Night of Forever
7.Outside 8.Isolate
9.Ever After (Isolate Reprise)
10.Illusion of Immortality
11.Where the Heart is
12.Reflection

Line-up
Sanni Luttinen – Keyboards
Lauri Huovinen – Vocals / Guitars
Jani Vahera – Drums
Pekka Junttila – Bass
Jarmo Luttinen – Guitars

ZARTHAS – Facebook

Hitwood – Detriti

Il viaggio di Hitwood continua e ad ogni passo la sua musica si trasforma, completandosi senza perdere la sua personale visione di un metal moderno che si fa estremo, pur lasciando alle melodie la loro fondamentale importanza.

A distanza di un mese circa , torniamo a parlarvi di una nuova uscita targata Hitwood, la creatura musicale creata dalla mente del polistrumentista Antonio Boccellari.

Archiviato il primo full length When Youngness … Fly Away … uscito lo scorso anno ed il precedente ep di cui ci siamo occupati (As A Season Bloom), Hitwood torna a descrivere in musica i suoi sogni che prima di Detriti erano lasciati alla sola musica.
Questa volta l’influenza melodic death di estrazione scandinava è ancora più marcata rispetto ai suoi predecessori, soprattutto per l’ausilio delle voci che sono le protagoniste della musica creata per l’occasione dal bravissimo musicista lombardo.
Dietro al microfono troviamo dunque due ottimi singer. Carlos Timaure al growl ed Eveline Schmidiger, protagonista con growl e clean vocals.
Inutile negare che, con l’inserimento delle voci la musica di Hitwood lascia il mondo della musica strumentale, bellissima ma molto limitata nelle preferenze degli ascoltatori, per raggiungere sicuramente un’audience più ampia.
Rimane un death metal melodico sui generis quello di Boccellari, sempre molto intimista ed atmosferico, ma indubbiamente più completo ed estremo ora che il growl fa il bello e cattivo tempo sulla maggioranza dei brani.
A parte l’intro As Far As I Can Remember e lo strumentale More Winters To Face…, vicino al precedente lavoro come atmosfere e sound, i brani di Detriti risultano sempre molto melodici ma anche più diretti, come la splendida My Path To Nowhere, canzone che ci riporta in pieni anni novanta ed ai lavori di In Flames (padrini del sound Hitwood), Dark Tranquillity ed ai paladini del suono melodico nel metal estremo.
Years Of Sadness conferma l’ottima scelta di Boccellari, dall’alto di un brano robusto valorizzato da un tappeto di cori, che enfatizza la componente sognante del concept degli Hitwood, mentre Chromatic lascia campo al lato più estremo del sound e Venus Of My Dreams ci porta alla fine di questo ottimo lavoro, lasciandoci con le trame epico melodiche classiche dei gruppi provenienti dal profondo nord.
Il viaggio di Hitwood continua e ad ogni passo la sua musica si trasforma, completandosi senza perdere la sua personale visione di un metal moderno che si fa estremo, pur lasciando alle melodie la loro fondamentale importanza.

Tracklist
1.As Far As I Can Remember
2.My Path To Nowhere
3.Years Of Sadness
4.More Winters To Face…
5.Chromatic
6.Venus Of My Dreams

Line-up
Antonio Boccellari – guitars, bass, drums

Guest :
Carlos Timaure – growl vocals
Eveline Schmidiger – growl/clean vocals

HITWOOD – Facebook

Alpha Tiger – Alpha Tiger

Un album che alla lunga non riesce a decollare, facendo perdere un po’ d’attenzione all’ascoltatore, in affanno verso il traguardo dell’ultimo brano: da un gruppo al terzo album per una label così importante ci si aspetta sicuramente di più.

Nuovo album e nuovo cantante (Benjamin Jaino al posto di Stephan Dietrich) per i giovani metallers tedeschi Alpha Tiger, gruppo su cui punta non poco la Steamhammer/SPV.

Il sound proposto dal quintetto si allontana non poco dal classico heavy/power dei gruppi connazionali per un approccio più classico e old school.
Heavy metal quindi, potenziato ma non distante dai gruppi ottantiani, con un uso invece settantiano dei tasti d’avorio, chitarre che si rincorrono in solos taglienti ed una sezione ritmica presente ma non invadente, puntuale ma che rimane stabilmente su tempi medi.
Manca il classico brano che alza le antenne all’ascoltatore e Alpha Tiger come i suoi predecessori (Man Or Machine del 2011 e Beneath The Surface uscito nel 2013) risulta un buon lavoro, pur non avendo quei due o tre brani che fanno la differenza ed alzano l’adrenalina, rimanendo livellato su una qualità sufficiente per non sfigurare nell’immenso mondo dell’heavy metal ma nulla più.
L’album parte bene, Comatose e Feather In The Wind rompono gli indugi e ci introducono nel cuore del lavoro, che perde qualche colpo con il passare dei minuti, per tornare a far male con l’ottimo hard & heavy di Vice e soprattutto con Welcome To The Devil’s Town.
Il nuovo singer si conferma come un buon acquisto per il gruppo, mentre si continua a salire e scendere tra tracce più riuscite ad altre che prendono la strada della monotonia.
E questo è il difetto più grosso di Alpha Tiger, quello d’essere un album che alla lunga non riesce a decollare, facendo perdere un po’ d’attenzione all’ascoltatore, in affanno verso il traguardo dell’ultimo brano: da un gruppo al terzo album per una label così importante ci si aspetta sicuramente di più.

Tracklist
1. Road To Vega
2. Comatose
3. Feather In The Wind
4. Singularity
5. Aurora
6. To Wear A Crown
7. Vice
8. Welcome To Devil’s Town
9. My Dear Old Friend
10. If The Sun Refused To Shine
11. The Last Encore

Line-up
Peter Langforth – guitars
Benjamin Jaino – vocals
Alexander Backasch – guitars
Dirk Frei – bass
David Schleif – drums

ALPHA TIGER – Facebook

Taberah – Sinner’s Lament

Sinner’s Lament è un album riuscito che non mancherà di soddisfare gli appetiti metallici dei defenders di lunga data, ai quali va l’ invito di non perdersi questa nuova fatica dei Taberah.

Suoni classici ed old school a tutta birra con gli heavy/power metallers Taberah, quartetto di diavoli provenienti dalla Tasmania.

E proprio come il famoso ed agguerrito animaletto, la band australiana ci travolge con il suo heavy metal d’assalto, infarcito di melodie e reso portentoso da ritmiche ed accelerazioni power.
Attivi da ormai una dozzina d’anni, i Taberah tagliano il traguardo del terzo full length: Sinner’s Lament è un buon lavoro, sicuramente da non sottovalutare se siete defenders incalliti, con una manciata di brani interessanti e metallici il giusto per inorgoglire anche il più pacato dei fans.
Della cover in versione power della storica Hotel California degli Eagles posta in chiusura, lascio a voi ogni commento, mentre il resto dei brani si mantiene su una buona qualità aiutato da una produzione che, senza far gridare al miracolo, rende giustizia alla title track, alla maideniana Harlot, al singolo Child Of Storm, alla semi ballad The Dance Of The Damned ed alla power oriented The Final March of Man.
I Taberah danno l’impressione d’essere un gruppo con buone potenzialità, i brani funzionano con chorus che entrano in testa al primo giro, solos ricchi di pathos metallico ed una neanche troppo velata strizzatina d’occhio ad Iron Maiden, Helloween, Hammerfall e Sinner.
In conclusione, un album riuscito che non mancherà di soddisfare gli appetiti metallici dei defenders di lunga data, ai quali va l’ invito di non perdersi questa nuova fatica dei Taberah.

Tracklist
1.Sinner’s Lament
2.Wicked Way
3.Harlott
4.Horizon
5.Child of Storm
6.The Dance of the Damned
7.Crypt
8.The Final March of Man
9.Heal Me
10.Hotel California (The Eagles cover)

Line-up
Dave Walsh – Bass, Vocals
Tom Brockman – Drums, Percussion, Vocals
Myles “Flash” Flood – Guitars, Vocals
Jonathon Barwick – Guitars, Vocals

TABERAH – Facebook

The Lurking Fear – Out Of The Voiceless Grave

Out Of The Voiceless Grave è un gradito ritorno, che si spera possa diventare una nuova partenza, per i musicisti riuniti sotto il monicker The Lurking Fear.

Un’icona del metal estremo scandinavo come Tomas Lindberg, che torna sul mercato insieme ad altri musicisti storici della scena, cosa ci può presentare se non l’ennesima devastante realtà dedita a quelle sonorità che ne hanno decretato la fama?

Ed infatti il buon Tompa, insieme a Adrian Erlandsson, Fredrik Wallenberg, Andreas Axelsson e Jonas Stalhammar, licenzia questo devastante album di death metal crudo ed essenziale sotto il monicker The Lurking Fear, titolo di uno dei più noti racconti di H.P. Lovercraft.
Chi si aspettava un lavoro melodico e più orientato su sonorità gotiche rimarrà deluso perché Out Of The Voiceless Grave non è altro che assalto sonoro di scuola classicamente nordica, turbolento e aggressivo, dove la bravura e l’esperienza dei protagonisti è messa al servizio di un lotto di brani a tratti esaltanti.
La storia del genere passa inequivocabilmente dalle cavalcate estreme di cui l’album è composto, sfuriate death/thrash dove tutto funziona come un orologio, zeppe di ritmiche inossidabili, solos perfetti e chorus che staccano la materia cerebrale dal cranio, mentre il tempo passa per tutti ma non per Lindberg, ancora all’altezza di procurare violenti spasmi ai propri fans.
Vortex Spawn, The Starving Gods Of Old e Winged Death equivalgono ad un vento cimiteriale, un olezzo fetido di morte che aleggia tra la carta ormai putrida sulla quale i The Lurking Fear hanno fermato con l’inchiostro le note di questo lavoro, ispirato dal passato dei musicisti coinvolti, con un passato in band come At The Gates, The Crown, Marduk, Edge Of Sanity, God Macabre e compagnia di zombie.
Prodotto perfettamente e licenziato dalla Century Media, Out Of The Voiceless Grave è un gradito ritorno, che si spera possa diventare una nuova partenza per i The Lurking Fear.

Tracklist
01. Out Of The Voiceless Grave
02. Vortex Spawn
03. The Starving Gods Of Old
04. The Infernal Dread
05. With Death Engraved In Their Bones
06. Upon Black Winds
07. Teeth Of The Dark Plains
08. The Cold Jaws Of Death
09. Tongued With Foul Flames
10. Winged Death
11. Tentacles Of Blackened Horror
12. Beneath Menacing Sands

Line-up
Tomas Lindberg – vocals
Jonas Stålhammar – guitar
Fredrik Wallenberg – guitar
Andreas Axelson – bass
Adrian Erlandsson – drums

THE LURKING FEAR – Facebook

High Spirits – Escape!

Il progetto High Spirits nasce per tributare l’hard rock classico, quindi UFO e Thin Lizzy sono ancora le maggiori fonti di ispirazione di Black che ci regala un piccolo gioiellino, in attesa del ritorno sulla lunga distanza.

Torna Chris Black, musicista americano impegnato in molti progetti tra cui Pharaoh e Nachtmystium, con il gruppo attraverso il quale dà sfogo alla sua anima rock, gli High Spirits.

Fino al precedente Motivator il gruppo era di fatto in mano al solo Black, il quale suonava tutti gli strumenti, ora invece è stato raggiunto da altri quattro musicisti (Scott, Mike, Bob, Ian) per quella che sembrerebbe una rock band a tutti gli effetti.
Escape! è il secondo mini cd uscito quest’anno e segue Night Rock, risalente a qualche mese fa.  tornando a far parlare di questa ottima rock band di Chicago, dedita all’hard rock tradizionale, influenzato dall’ala britannica negli anni a cavallo tra il decennio settantiano e quello successivo.
Il gruppo si disimpegna al meglio sulle ali di una title track che parte veloce, serrata e senza freni, mentre è già ora del chorus da cantare sotto al palco, a muso duro rivendicando l’appartenenza alla grande famiglia del rock.
Melodie e watt, con un hard rock che si fregia di un ottimo lavoro chitarristico nella superba Stagefright, mentre in poco più di due minuti Fells Like Rock And Roll ci scaraventa al muro con una forza dirompente presa in prestito da Motorhead ed UFO.
Le influenze rimangono classiche, d’altronde il progetto nasce per tributare l’hard rock classico, quindi UFO e Thin Lizzy sono ancora le maggiori fonti di ispirazione di Black (Lonely Nights, ultimo ruggito per questo lavoro) che ci regala un piccolo gioiellino in attesa del ritorno sulla lunga distanza.

Tracklist
1.Escape!
2.Stagefright
3.Fells Like Rock And Roll
4.Lonely Nights

Line-up
Chris
Scott
Mike
Bob
Ian

HIGH SPIRITS – Facebook