Wormfood – L’Envers

Anche se l’ombra dei Type O Negative aleggia in maniera percepibile, se c’è un qualcosa che non fa difetto ai Wormfood è proprio la personalità, che è ben delineata dalla prima all’ultima nota di un lavoro che va in crescendo dopo ogni ascolto.

I francesi Wormfood agitano la scena musicale del loro paese fin all’inizio del millennio è hanno già all’attivo cinque album sulla lunga distanza, incluso quest’ultimo parto intitolato L’Envers.

Nati con basi estreme, come molte altre realtà transalpine si sono poi evoluti lentamente verso forme avanguardiste ma, rispetto ad altri, i Wormfood riescono a focalizzare meglio le loro pulsioni innovative senza mostrarsi mai troppo cervellotici.
Questo avviene anche grazie ad una particolare assonanze sonora ai grandi Type O Negative: tale vicinanza alla storica band statunitense non deriva soltanto dal il tono di voce profondo che il leader Emmanuel Lévy ha in comune con il compianto Peter Steele, ma anche per un sound che si sposta sovente verso quella particolare forma di gothic doom capace di ammantare i brani di un’oscurità soffusa ed inquieta.
Del resto, la presenza in qualità di ospite di Paul Bento, già sodale di Steele ai tempi dei Carnivore e capace di valorizzare con il suo sitar un capolavoro come Bloody Kisses e non solo, fornisce una sorta di imprimatur alla band francese in qualità di degna e credibile portatrice del verbo dei TON.
Infine, ad accomunare ulteriormente le due band c’è anche la presenza di un leader dalla personalità geniale quanto tormentata, al netto delle differenze costituite dal differente background culturale: un aspetto questo, che nei Wormfood caratterizza in maniera decisiva il sound, enfatizzandone la teatralità attraverso l’interpretazione istrionica di Lévy .
Un teatro che, alla fine, è il tema conduttore dell’album, anche se qui si parla di una rappresentazione artistica macabra e grottesca, in ossequio all’umore sardonico che alleggia sull’intero lavoro: tutto ciò che ne scaturisce potrebbe anche risultare indigesto a chi non apprezza più di tanto né tali sfumature né, soprattutto, l’idioma francese che, d’altronde, è assolutamente funzionale alla resa finale costituendo, nel contempo, un fondamentale fattore distintivo
In L’Envers si susseguono brani di ottimo livello: al netto della lunga introduzione recitata, si procede in maniera sempre efficace tra sonorità avanguardiste e magnifiche aperture melodiche nelle quali, spesso, sono le tastiere a tenere banco assieme, ovviamente, all’eclettica e profonda vocalità di Lévy .
Il riferimento alla band newyorchese diviene esplicito in quello che pare quasi un esperimento medianico, ovvero l’unico brano cantato in inglese, Gone On The Hoist (G.O.T.H.), nel quale Steele viene riportato letteralmente in vita dal singer francese, con il contributo decisivo del sitar di Bento e dell’hammond “silveriano” suonato produttore dell’album Axel Wursthorn.
Mi redo conto che questi costanti riferimenti potrebbero far pensare di primo acchito ad un derivativo lavoro di scopiazzatura, ma vorrei spazzare il possibile equivoco in maniera netta: se c’è un qualcosa che non fa difetto ai Wormfood è proprio la personalità, che è ben delineata dalla prima all’ultima nota di un lavoro che va, peraltro, in crescendo dopo ogni ascolto, riservando nel finale le cose migliori benché la sua prima parte sia già notevole.
Gehenna, per esempio, è una canzone formidabile, ricca di enfasi drammatica e di repentine aperture melodiche, ovvero il tratto comune di un intero disco da godersi sedendosi in poltrona ed immaginando di trovarsi al cospetto di un palcoscenico sul quale attori inusuali esibiscono la loro arte putrida e perversa.
L’Envers è l’ennesima prova della vitalità di una scena francese fatta di band che prediligono muoversi in maniera obliqua rispetto ai vari generi, e l’atavica rivalità che ci contrappone da sempre ai vicini d’oltralpe non deve mai farci perdere di vista la necessaria obiettività nel giudicarne l’operato, specie in un campo come quello artistico in cui il tifo o lo sciovinismo non hanno alcuna ragion d’essere.

Tracklist:
1. Prologue
2. Serviteur du Roi
3. Ordre de Mobilisation Générale
4. Mangevers
5. Gone On The Hoist (G.O.T.H.)
6. Collectionneur de Poupées
7. Géhenne
8. Poisonne

Line-up:
Emmanuel Lévy : Vocals, guitars, lyrics
Renaud Fauconnier : Guitars
Pierre Le Pape : Keyboards
Vincent Liard : Bass
Thomas Jacquelin : Drums

Guests:
Paul Bento – Sitar on Gone On The Hoist (G.O.T.H.)
Axel Wursthorn – Hammond on Gone On The Hoist (G.O.T.H.)

WORMFOOD – Facebook

Winterhorde – Maestro

Chiunque si professi amante della buona musica deve ritagliarsi, almeno per un po’, un’oretta al giorno per cogliere appieno ogni sfumatura e godersi senza distrazioni un lavoro che difficilmente si schioderà dalla top ten di quest’anno.

Gli israeliani Winterhorde potrebbero esser presi ad emblema di ciò che si intende per progressione artistica: partiti come band dedita ad un symphonic black sulle tracce di Dimmu Borgir et similia (Nebula, 2006) ed approdati poi ad una forma parzialmente più evoluta ed avanguardista, ma ancora legata a tratti di matrice  estrema (Underwatermoon, 2010), giungono infine alla quadratura del cerchio con Maestro, tramite il quale, quasi in ossequio al titolo scelto, impartiscono una spettacolare quanto sorprendente lezione della durata di oltre un’ora a base di musica “progressiva” nel senso più autentico del termine.

Il retaggio sinfonico resta fortemente connesso alla struttura compositiva del gruppo mediorientale ma, in questo caso, costituisce un tessuto che avvolge ed arricchisce il lavoro d’insieme piuttosto che rappresentare la classica la soluzione ad effetto volta solo a mascherare, in molti lavori, ampi vuoti creativi.
Il raggiungimento di un simile risultato non arriva per caso ed una delle chiavi di volta è stato sicuramente un pesante ritocco della line-up che ha visto, in particolare, l’ingresso in formazione del cantante Igor “Khazar” Kungurov, il quale, con le sue splendide tonalità pulite duella incessantemente con lo screaming/growl del vocalist e fondatore Z.Winter, finalizzando il lavoro rutilante di una band capace di spaziare con una disinvoltura disarmante tra diverse sfumature stilistiche senza mai appesantire l’ascolto.
Chi ha avuto la ventura di ascoltare quel capolavoro che risponde al titolo Blessed He with Boils degli americani Xanthochroid troverà non poche affinità, specie nei passaggi più accelerati ed in certe repentine aperture atmosferiche, ma i Winterhorde ci mettono di loro un trademark più classico, riconducibile persino a Savatage/Trans Siberian Orchestra nelle frequenti orchestrazioni e, comunque, meno estremo, con una ricerca costante della melodia che non necessità del ricorso a dissonanze o a colpi ad effetto per attrarre l’attenzione dell’ascoltatore.
Mi rendo conto, scrivendone, quanto sia complesso provare a descrivere a parole questo disco, pertanto mi limiterò a dire che chiunque si professi amante della buona musica deve ritagliarsi, almeno per un po’, un’oretta al giorno per cogliere appieno ogni sfumatura e godersi senza distrazioni un lavoro che difficilmente si schioderà dalla top ten di quest’anno.
Anche citare un brano piuttosto che un altro riesce difficile, in quanto Maestro è un’opera di rara compattezza qualitativa, in cui non viene sprecata una nota che non sia funzionale al risultato finale: obbligato a scegliere tra tanta abbondanza, opto per The Heart of Coryphee, la traccia più lunga del lavoro nonché quella che farei ascoltare a qualcuno che mi chiedesse di proporgli un frammento dell’album per farsene un’idea, mentre tutto sommato la traccia meno brillante è proprio la conclusiva Dancing in Flames, in virtù di certe venature circensi che non sono mai state nelle mie corde.
Maestro è l’album che porta i Winterhorde su livelli inattesi ai più: probabilmente il tempo trascorso dall’ultimo lavoro su lunga distanza è stato sfruttato per focalizzare e finalizzare al meglio gli obiettivi, a dimostrazione del fatto che quasi sempre la fretta è nemica della qualità; non resta che assaporare questa splendida opera con la speranza che sia solo l’inizio di una nuova fase della carriera del gruppo israeliano.

Tracklist:
1. That Night in Prague
2. Antipath
3. Worms of Souls
4. They Came with Eyes of Fire
5. Chronic Death
6. The Heart of Coryphee
7. A Dying Swan
8. Maestro
9. Through the Broken Mirror
10. Cold
11. Dancing in Flames

Line-up:
Z.Winter – Vocals
Igor “Khazar” Kungurov – Vocals, Acoustic Guitar
Dima “Stellar” Stoller – Guitars
Omer “Noir” Naveh – Guitars
Sascha “Celestial” Latman – Bass, Saxophone, Acoustic Guitar
Alexander “Morgenrot” Feldman – Keyboards, Theremin
Maor “Morax” Nesterenko – Drums

WINTERHORDE – Facebook

In Mourning – Afterglow

Gli In Mourning non deludono affatto le aspettative, consegnandoci con Afterglow un lavoro di grade spessore ed oggettivamente ineccepibile sia dal punto di vista compositivo che da quello esecutivo

Gli svedesi In Mourning appartengono a quella categoria di band di ottimo livello che, nonostante una storia ultradecennale ed una discografia già abbastanza significativa per qualità e quantità, non hanno ancora raggiunto i picchi di popolarità che meriterebbero.

Autori di un death che si sviluppa costantemente tra pulsioni progressive, melodiche e doom, i quattro scandinavi pagano probabilmente la loro non semplicissima collocazione all’interno di una specifica frangia del genere: se, infatti, a tratti sembra di ascoltare una versione più moderna degli Opeth d’inizio millennio, gli appropriati rallentamenti pongono il sound verso una cupezza vicina agli October Tide (non cito a caso la band di Norrman, visto che sia l’ottimo vocalist Tobias Netzell che il bassista Pierre Stam ne hanno fatto parte in passato) mentre più di una volta è il trademark melodico tipicamente svedese a caratterizzare il sound, come viene brillantemente esplicitato dall’opener Fire and Ocean.
Il girovagare tra tutte queste pulsioni depone a favore di una certa ecletticità degli In Mourning, anche se permane un umore cupo di fondo, derivante da un trademark doom che non si manifesta più di tanto, però, tramite i caratteristici ed asfissianti rallentamenti.
La band svedese si rende protagonista di un lavoro eccellente nel suo complesso, con una serie di brani ficcanti che potrebbero far breccia un po’ in tutti quelli che amano sonorità robuste intrise nel contempo di melodie tecnica e di una giusta dose di malinconia; personalmente prediligo gli In Mourning quando spiegano le ali verso il death doom melodico, spesso vicino nel suo sentire agli Swallow The Sun (come avviene magistralmente nella conclusiva title track) e un po’ meno, invece, allorché sono gli influssi opethiani a prendere il sopravvento (Ashen Crow, soprattutto) ma, come detto, è solo una questione di gusto soggettivo.
Va detto, peraltro, che queste anime più di una volta si incontrano e la loro convivenza, per nulla forzata, produce frutti notevoli (The Call to Orion su tutte, ma riuscitissima è anche The Lighthouse Keeper) con buona continuità ed una mai scontata padronanza della tecnica strumentale, con menzione d’obbligo, oltre ai musicisti già citati, per i chitarristi Björn Pettersson e Tim Nedergård e per un pezzo da novanta della scena musicale svedese come il drummer Daniel Liljekvist, per oltre un decennio nei Katatonia.
In buona sostanza, questo ritorno dopo quattro anni dal precedente album, da parte degli In Mourning, non delude affatto le aspettative, consegnandoci con Afterglow un lavoro di grade spessore ed oggettivamente ineccepibile sia dal punto di vista compositivo che da quello esecutivo: insomma, da accaparrarsi e goderne pressoché a scatola chiusa …

Tracklist:
1. Fire and Ocean
2. The Grinning Mist
3. Ashen Crown
4. Below Rise to the Above
5. The Lighthouse Keeper
6. The Call to Orion
7. Afterglow

Line-up:
Pierre Stam – Bass
Tobias Netzell – Guitars, Vocals
Björn Pettersson – Guitars
Tim Nedergård – Guitars
Daniel Liljekvist – Drums

IN MOURNING – Facebook

Deathkings – All That Is Beautiful

All That Is Beautiful è senz’altro un buon album, anche se appare difficile che possa conquistare qualcuno che non sia del tutto addentro al genere, restando destinato, quindi, ad ascoltatori disposti a farsi erodere in maniera lenta ma inesorabile.

Quattro lunghe litanie a base di uno sludge doom sfibrante, ma sufficientemente vario per essere apprezzato, è quanto offrono i Deathkings in questo loro secondo full length, All That Is Beautiful.

Difficile capire cosa possa esserci, poi, di bello e consolatorio, nel mondo prefigurato dalla band californiana con un titolo dalle sfumature presumibilmente sarcastiche: una voce grida il suo livore che si placa a tratti, quando il sound, per lo più granitico, pare prendersi una tregua salvo poi riprendere con il suo incedere macinando riff.
Forse proprio questi passaggi costituiscono il punto meno incisivo del lavoro, facendo scemare un’intensità che invece emerge in maniera prepotente quando i Deathkings decidono di aprire al massimo i motori.
E’ anche vero, d’altra parte, che sarebbe impensabile e forse controproducente mantenere per oltre un’ora questo stesso andazzo, per cui, volendo comunque esprimersi su minutaggi di simili fattezze, l’inserimento di passaggi più sperimentali e meno diretti diviene quasi una necessità.
Va anche detto che sono, fondamentalmente, i 18 minuti dell’opener Sol Invictus a risentire maggiormente di questa sorta di dicotomia, mentre già nella successiva The Storm le doti compositive dei Deathkings emergono in forma più focalizzata, dando vita ad un brano aspro ma dal retrogusto malinconico.
Più diretta e rabbiosa si mostra The Road To Awe, mentre i quasi 20 minuti di Dakhma sono un’ulteriore prova di resistenza dalla quale i quattro losangelini escono egregiamente, pur senza cedere ad alcun ammiccamento per condurre in porto il lunghissimo brano, anche se, in qualche modo, si ritorna agli schemi proposti all’inizio del lavoro.
All That Is Beautiful è senz’altro un buon album, anche se appare difficile che possa conquistare qualcuno che non sia del tutto addentro al genere, restando destinato, quindi, ad ascoltatori disposti a farsi erodere in maniera lenta ma inesorabile.

Tracklist:
1.Sol Invictus
2.The Storm
3.The Road To Awe
4.Dakhma

Line-up:
N. Eibon Fiend – Bass, Vocals
Sean Spindler – Drums
Daryl Hernandez – Guitars, Vocals
Mark Luntzel – Guitars, Vocals

DEATHKINGS – Facebook

Vuolla – Blood. Stone. Sun. Down.

I quasi settanta minuti di musica riversata in Blood. Stone. Sun. Down. non stancano affatto, dimostrando l’assoluta bontà della proposta e la brillantezza compositiva dei Vuolla

Dalla sempre prolifica Finlandia arrivano i Vuolla, band che dopo diversi anni di attività arriva al full length d’esordio intitolato Blood. Stone. Sun. Down.

Particolare non da poco, i nostri preovengono da Jyväskylä, città situata a circa 300 km a nord di Helsinki, dalla quale sono partiti anche i Swallow The Sun, il che costituisce un indizio piuttosto forte sul tipo di sound che bisogna attenderci da questo lavoro.
In effetti, i Vuolla si cimentano con un death doom melodico che prende spunto più dai primi lavori dei concittadini che non dagli ultimi, anche se viene connotato dalla voce di Kati Kalinen, che si alterna al growl di Kalle Korhonen.
Diciamo subito che la voce della tastierista (nonché moglie del chitarrista Ilari Kallinen ) non è proprio il punto di forza della band, anche se il suo timbro quasi adolescenziale si integra bene con un sound che fa di un mood malinconico la sua ragion d’essere, sviluppandosi lungo coordinate che spesso toccano le giuste corde, con spunti notevoli e tutt’altro che scontati.
I quasi settanta minuti di musica riversata in Blood. Stone. Sun. Down. non stancano affatto, dimostrando l’assoluta bontà della proposta e la brillantezza compositiva dei Vuolla, i quali si lasciano andare talvolta a digressioni di matrice post metal all’interno di qualche brano senza perdere mai di vista l’obiettivo finale, quello di comporre brani emozionanti e dall’andamento dolente.
Peraltro, l’album gode di un livello qualitativo medio elevato, senza tracce che spicchino in maniera decisa rispetto ad una tracklist omogenea in cui, forse si fanno preferire la swallowiana Emperor e, in generale, i momenti in cui le due voci si alternano creando quella contrapposizione di atmosfere che è il sale del genere.
L’esordio dei Vuolla è, quindi, un ulteriore tassello che si va ad aggiungere ad un mosaico nel quale il movimento finnico la fa sempre da padrona, fin dai tempi dei Thergothon, per restare sui versanti più funerei del doom, e dei Decoryah, band che illuminò con due dischi magnifici la scena dei primi ’90 e alla quale riportano talvolta passaggi ed umori contenuti in Blood. Stone. Sun. Down.

Tracklist:
1. Death Incredible
2. Emperor
3. Chambers To Fill With Longing
4. Rain Garden
5. Shadow Layer
6. Rivers In Me
7. Film
8. Quiet Cold

Line-Up:
Kati Kallinen – vocals and keyboards
Mika Laine – bass
Ilari Kallinen – guitars
Kalle Korhonen – growls
Timo Ruunaniemi – drums

VUOLLA – Facebook

Abstracter / Dark Circles – Split

Uno split album che esibisce due maniere diverse ma ugualmente efficaci nel gestire le pulsioni più oscure, veicolandole splendidamente in forma musicale.

Particolare split album edito da un pool di etichette quello che vede a confronto due band che hanno apparentemente poco in comune, come i californiani Abstracter ed i canadesi Dark Circles.

Se i primi sono esponenti della frangia più estrema ed incompromissoria dello sludge doom, i secondi sparano il loro hardcore che, per atmosfere e ritmiche si avvicina spesso e volentieri al black metal: non parrebbe così scontato, in teoria, trovare un tratto comune a due entità simili, se non ci fosse ad unirle una visione negativa della realtà ed una rabbia che negli Abstracter si esprime con un sound claustrofobico e per lo più ripiegato su sé stesso, mentre nei Dark Circles esplode in una furia iconoclasta che non disdegna ugualmente qualche puntata melodica.
Anche se il numero dei brani premia i Dark Circles (quattro contro due) la durata complessiva della musica contenuta in questo split va a favore degli Abstracter che, con la loro coppia di lunghe tracce (Barathrum e Where All Pain Converges) ne occupano circa i due terzi della durata: normale, se pensiamo ad una band che deve costruire la propria proposta su tempi rallentati volti a costruire una spessa coltre di incomunicabilità fatta di dissonanze e riff distorti all’inverosimile; più essenziale, come da attitudine, il contributo dei canadesi, con due brani brevissimi ma dall’intensità spasmodica (Ashen e Void), uno più composito ma certo non meno oscuro e rabbioso (Isolate), al netto della sorprendente digressione ambient di Epilogue (Quietus) Op. 28.
Uno split album che esibisce due maniere diverse ma ugualmente efficaci nel gestire le pulsioni più oscure, veicolandole splendidamente in forma musicale.

Tracklist:
1.ABSTRACTER – Barathrum
2.ABSTRACTER – Where all pain converges
3.DARK CIRCLES – Ashen
4.DARK CIRCLES – Void
5.DARK CIRCLES – Isolate
6.DARK CIRCLES – Epilogue (Quietus) op. 28 no. 4

Line-up:
Abstracter
Robin Kahn
Mattia Alagna
Emad Dajani
Donovan Kelley

Dark Circles
Marc Tremblay
Chris Goldsmith
Jamie Thomas

ABSTRACTER – Facebook

DARK CIRCLES – Facebook

Svarttjern – Dødsskirk

Un’opera gradevole e che non annoia, ma che non consentirà agli Svarttjern di emergere con decisione nello sterminato gruppone delle band dedite al black metal.

Quarto full length per i norvegesi Svarttjern, autori manco a dirlo di un black metal sicuramente dal buon impatto quanto del tutto aderente agli stilemi del genere.

La band di Oslo è attiva da oltre un decennio e l’esperienza dei musicisti coinvolti si coglie appieno, con una riproposizione del genere impeccabile che dà la misura di quanto i nostri conoscano e manipolino con disinvoltura la materia: se poi aggiungiamo che il vocalist HansFyrste ha prestato anche la sua voce ai più noti Ragnarok, gli ingredienti per proporre un piatto appetibile ci sarebbero tutti.
La portata risulta in effetti sufficientemente sapida, perché il black degli Svarttjern è molto diretto e relativamente catchy, sicché i brani scorrono via in maniera molto fluida senza però, ecco il problema, riuscire davvero a restare impressi e a rendersi in qualche modo indimenticabili.
Dødsskirk è il classico album che ti fa scapocciare che è un piacere, con le sue ritmiche indiavolate che, alla fine, finiscono inevitabilmente per rendere tutti brani piuttosto simili, e non c’è dubbio che i nostri dal vivo possano anche rivelarsi piuttosto coinvolgenti, resta il fatto che oltre all’invocazione (un po’ scontata a livello di intenti) All Hail Satan, alla più avvolgente Blessed Death e alla trascinante Stars And Death, ciò che resta alla fine dell’ascolto è solo la certezza, quantomeno, di non avere sprecato il proprio tempo dedicandolo ad un’opera tediosa o pretenziosa.
Non è poco, certo, ma neppure abbastanza per consentire agli Svarttjern di emergere con decisione nello sterminato gruppone delle band dedite al black metal.

Tracklist:
1. Intro
2. All Hail Satan
3. Admiring Death
4. Blessed Flesh
5. Det river i meg
6. Whispers and Prayers
7. Stars and Death
8. Dødsskrik
9. Hengivelse til døden
10. Acid Dreams

Line-up:
HansFyrste – Vocals
HaaN – Guitars (lead)
Fjellnord – Guitars (rhythm)
Malphas – Bass
Grimmdun – Drums

SVARTTJERN – Facebook

Earthless / Harsh Toke – Acid Crusher / Mount Swan

Quando due band di San Diego dedite al rock psichedelico uniscono le loro forze per dare vita ad uno split album, non può che scaturirne oltre mezz’ora di musica dall’alto tasso lisergico.

Quando due band di San Diego dedite al rock psichedelico uniscono le loro forze per dare vita ad uno split album, non può che scaturirne oltre mezz’ora di musica dall’alto tasso lisergico.

Gli Earthless e gli Harsh Toke presentano un brano ciascuno, che poi altro non sono se non lunghe jam nelle quali i ragazzi californiani danno sfogo alle loro personali ed allucinate visioni musicali.
I primi possiedono un tocco più blues e si fanno preferire, specie se si è alla ricerca di un sound pulito e ricco di sfumature che un’ottima produzione esalta fin nei minimi particolari, mentre i secondi rappresentano il volto più diretto e privo di fronzoli del genere, con una propensione verso sonorità più rallentate e distorte.
Entrambi i brani, alla fine, vivono sulla reiterazione di un giro di basso sul quale poi si vanno ad innestare tutti gli altri interventi strumentali con la struttura tipica delle jam sesssion: diciamo che la soluzione degli Earthless funziona leggermente meglio, intanto perché un po’ più breve e forse anche per il suo essere meno legata alla conditio sine qua non di un ascolto in uno stato di alterazione psicofisica.
Infatti, mi riesce difficile immaginare che il fan ideale di queste due band sia un tizio che vada avanti ad acqua minerale, ma va anche detto che l’effetto dopante è già abbastanza insito nella musica che Earthless ed Harsh Toke propongono, per cui sconsiglierei di ascoltare questo split album in cuffia prima di partecipare ad una competizione sportiva: la positività all’antidoping sarebbe inevitabile …

Tracklist:
1. Acid Crusher (EARTHLESS)
2. Mount Swan (HARSH TOKE)

Line-up:
Earthless
Isaiah Mitchell
Mike Eginton
Mario Rubalcaba

Harsh Toke
Austin Ayub
Richie Belton
Gabe Messer
Justin Figueroa

EARTHLESS – Facebook

HARSH TOKE – Facebook

Quercus – Heart with Bread

Una crescita sorprendente, quella dei Quercus, sia per qualità che per la direzione intrapresa e noi appassionati non possiamo che goderne.

I cechi Quercus erano reduci da un album come Sfumato, all’interno del quale avevano fornito un’interpretazione del funeral doom molto personale e sperimentale, lasciando a tratti qualche interrogativo sulla reale efficacia dell’operazione.

Era normale, quindi, pensare ad un ulteriore innalzamento dell’asticella andando a rovistare in chissà quali altre sfaccettature musicali da sommare ad un genere, che meno di altri, si addice a contaminazioni avanguardistiche.
Quando, però, si manifestano le prime note di organo, lo strumento che dominerà l’intero lavoro, suonato dal nuovo entrato Markko (al secolo Marek Pišl, una sorta di enfant prodige dello strumento), si capisce anche che i Quercus sono tornati indietro per compiere un decisivo passo avanti.
Dici organo, in ambito funeral, e pensi automaticamente agli Skepticism: l’accostamento non fa una piega, anche se l’approccio di Markko è molto meno algido e funesto di quello di Eero Pöyry, esaltandone più l’aspetto liturgico che non quello drammatico.
I Quercus, per indole, non rinunciano certo a metterci qualcosa di loro, cosicché l’album si ammanta di una freschezza che, paradossalmente, viene esaltata dalla drastica riduzione di passaggi che non siano di un’esemplare linearità e emblematica in tal senso è la traccia d’apertura, A Canticle for the Pipe Organ, uno spettacolare manifesto musicale di oltre venti muniti ricco di magnifiche aperture melodiche, nel quale la lezione dei maestri finlandesi viene fatta propria e rielaborata con un gusto del tutto personale.
Non si pensi che la band ceca abbia smarrito del tutto la voglia di battere strade oblique rispetto al genere, infatti un brano come Bread and Locomotive lo testimonia ampiamente, solo che qui le dissonanze e le spigolosità appaiono più funzionali alla resa d’insieme del lavoro.
Illegible Tree Name e Silvery Morning sono altre due tracce ottime che si muovono in questo nuovo solco tracciato dal trio di Plzeň, ma è con la conclusiva My Heart’s in the Highlands che si rinnova ancora la magia di una musica malinconica e solenne, questa volta non tutta farina del sacco dei Quercus, visto che trattasi di una riproposizione in chiave funeral del brano creato dal noto compositore estone Arvo Pärt.
Heart with Bread arriva al cuore in maniera meno tortuosa e anche le melodie chitarristiche di Lukáš Kudrna appaiono sempre finalizzate alla creazione di un impatto emotivo, con il contributo non secondario di un growl che non fa sconti, come quello offerto da Ondřej Klášterka.
Una crescita sorprendente, quella dei Quercus, sia per qualità che per la direzione intrapresa e noi appassionati non possiamo che goderne.

Tracklist:
1. A Canticle for the Pipe Organ
2. Illegible Tree Name
3. Bread and Locomotive
4. Silvery Morning
5. My Heart’s in the Highlands

Line-up:
Markko – Keyboards
Lukáš Kudrna – Unknown
Ondřej Klášterka – Vocals

QUERCUS – Facebook

Funeris – Nocturnes for Grim Orchestra

Funeris è un nome che, pur senza raggiungere i livelli delle band di punta del settore, si propone come approdo sicuro per chi voglia ascoltare queste luttuose sonorità.

Non sono passati neppure due anni dalla recensione di Waning Light ed eccoci nuovamente alle prese con un nuovo full length dei Funeris, progetto solita del musicista argentino Alejandro Nawel Sabransky che, dimostrando una certa prolificità, ha nel frattempo dato alle stampe altri due lavori su lunga distanza, Funereal Symphonies e Act III: Bitterness.

Questo più recente Nocturnes for Grim Orchestra è uscito lo scorso gennaio e mostra il nostro alla prese con un funeral doom dai tratti sempre atmosferici, ma ammantati di una ritualità che, in qualche modo, viene già evocata dalla copertina.
Rispetto ai dischi precedenti cambia anche la formula, con tre brani della durata superiore ai venti minuti che si rivelano altrettante litanie funebri guidate per lo più da un lavoro tastieristico, all’interno del quale trovano spazio rari quanto graditi inserti chitarristici di matrice solista.
E’ inutile ribadire che bisogna prendersi tutto il tempo necessario, ma Nocturnes for Grim Orchestra è un disco che, con la dovuta lentezza, si sviluppa in crescendo, dopo la partenza buona ma non sensazionale di Sempiterna Oscuridad e l’annichilente procedere dell’ottima Tempus Edax Rerum.
Il sound diviene inesorabilmente meno liturgico e più atmosferico, rallentato ai limiti dell’asfissia specialmente nella conclusiva Mouldy Gravestones, consolidando l’interessante livello esibito da Sabransky negli ultimi due anni.
Funeris è un nome che, pur senza raggiungere i livelli delle band di punta del settore, si propone come approdo sicuro per chi voglia ascoltare queste luttuose sonorità.

Tracklist:
1. Sempiterna Oscuridad
2. Tempus Edax Rerum
3. Mouldy Gravestones

Line-up:
Alejandro Nawel Sabransky: All Instruments, Vocals

FUNERIS – Facebook

Algoma / Chronobot – Split 12”

Uno split godibile, stonato e drogato, come da copione di una recita alla quale abbiamo già assistito più volte, ma che continua ugualmente a piacere non poco.

Split album per due band canadesi, Algoma e Chronobot, con i primi già trattati in questa sede in occasione del full length d’esordio Reclaimed by the Forest del 2014.

Questa operazione, oltre a consentirci di ascoltare nuovo materiale, mette in luce le differenze tra due band che, se prese separatamente, potrebbero essere considerate simili tra loro a causa della comune appartenenza alla scena sludge doom.
In effetti tale collocazione si addice maggiormente agli Algoma, molti più aspri, grezzi e distorti, con l’utilizzo prevalente di uno screaming quale soluzione vocale ed il ricorso frequente ad un’effettistica disturbante; i Chronobot, invece, sono maggiormente orientati ad uno stoner ugualmente deformato ma leggermente più tradizionale: qui la voce è più vicina alla timbrica di un Matt Pike e la componente psichedelica si manifesta con una certa continuità.
Diciamo pure che i Chronobot si rivelano senz’altro meno ostici all’ascolto e che i loro tre brani mostrano una versione del genere ugualmente ruvida ma ricca di soluzioni notevoli, inclusa una chitarra solista in puro stile Bevis Frond (per chi se lo ricorda); i due brani degli Algoma mantengono, invece, la band dell’Ontario sul proprio aventino musicale: zero compromessi e nessuna intenzione di scendere a patti con qualsivoglia tentazione melodica, soluzione alla portata di molti giusto per un quarto d’ora, ma tutta da verificare sulla lunghezza di un album intero per gli ascoltatori meno pazienti o poco avvezzi a tali sonorità.
Uno split comunque godibile, stonato e drogato, come da copione di una recita alla quale abbiamo già assistito più volte, ma che continua ugualmente a piacere non poco.

Tracklist:
Side A
1. Algoma – Phthisis
2. Algoma – Electric Fence
Side B
3. Chronobot – Red Nails
4. Chronobot – Jerry Can
5. Chronobot – Sons of Sabbath

Line-up:

Algoma
Kevin Campbell – Bass/Vocals
Boyd Rendell – Guitar/Vocals
JV- Drums

Chronobot
Dafe – Guitars, Vox and Cosmic FX
Quinton – Lead Guitar
Cody – Psych Battery
Scott – Bass
Darius – Keys/FX

ALGOMA – Facebook

CHRONOBOT – Facebook

Deluge – Æther

Prima uscita ufficiale per i francesi Deluge, come altre band trattate di recente appartenenti alla scuderia della Les Acteurs de l’Ombre Productions, anch’essi alle prese con un interessante interpretazione della materia estrema.

Pure in questo caso il sound gravita in territori dove il black metal viene abbondantemente contaminato da pulsioni posthardcore ma, rispetto ai gruppi connazionali recentemente descritti, i Deluge spingono ancor più sul lato drammatico del sound: un senso di tragedia imminente che si esplicita nell’incomunicabilità che non può essere risolta né dall’urlo disperato di Maxime Febvet, né dal parossismo strumentale dei suoi compagni.
Meglio, allora, provare ad evocare una pace effimera e solo apparente, ricorrendo a repentini stacchi in cui il sound pare quasi arrestarsi, facendosi liquido (non solo per il costante scrosciare della pioggia battente in sottofondo) e rarefatto.
Questo artificio, senz’altro funzionale agli standard del genere suonato, talvolta arriva ad interrompere bruscamente passaggi in cui l’intensità spasmodica appare l’ineluttabile atto di ribellione finale alla constatazione di un’umanità allo stremo, sommersa da questo “déluge” (diluvio) musicale.
Dei ragazzi francesi si apprezza comunque il mantenimento di un filo conduttore melodico anche quando lo strazio vocale, il riffing ed i blast beat erigono un muro sonoro di spaventosa compattezza.
Aether è forse anche un pizzico troppo lungo per un sound che, proprio per la sua urgenza, estenua lasciando senza fiato: dopo i dieci minuti magnifici dell’accoppiata Avalanche / Appât si può ragionevolmente pensare che non ci sia più molto da dire o da dare, mentre i nostri invece proseguono ancora a martellare imperterriti per tre quarti d’ora sicuramente notevoli, ma che necessitano di un certo impegno per non soccombere all’evocazione di calamità e stati d’animo ugualmente prostranti …
Nella breve Mélas | Khōlé fa capolino anche Neige ad impartire la propria benedizione al quintetto di Metz, ma l’ospitata è solo la ciliegina su una torta che di dolce ha ben poco, se non la finale attenuazione del diluvio che si trasforma in Bruine (pioggerellina), quando ormai il peggio si è compiuto.
I Deluge sorprendono e convincono in un settore dove magari non c’è più nulla da inventare, ma in cui si può ugualmente fare centro suonando come se non ci fosse davvero un domani: grazie a questo e a un senso melodico che, come detto, ne pervade quasi misteriosamente il suono, Æther si rivela un gran bel disco d’esordio.

Tracklist:
1. Avalanche
2. Appât
3. Mélas | Khōlé
4. Naufrage
5. Houle
6. Klarträumer
7. Vide
8. Hypoxie
9. Bruine

Line-up:
Frédéric Franczak – Bass
Benjamin Marchal – Drums
François-Thibaut Hordé – Guitars
Richard de Mello – Guitars
Maxime Febvet – Vocals

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Primeval Mass – To Empyrean Thrones

To Empyrean Thrones è un disco interessante ma non convince del tutto per la scelta dei suoni e per il suo apparire talvolta un po’ convulso

Primeval Mass è il nome di una band greca attiva da oltre un decennio e che si ripresenta oggi con il proprio terzo full length intitolato To Empyrean Thrones.

Nonostante ne sia stato il fulcro fin dalla sua nascita, il gruppo è oggi anche formalmente un progetto solista di Orth, che in quest’occasione si occupa di tutti gli strumenti e della voce.
Il black metal offerto non si rifà alla comunque rinomata scuola ellenica, ma volge maggiormente lo guardo verso le lande scandinave che al genere hanno dato i natali: To Empyrean Thrones si snoda quindi all’insegna di un’interpretazione piuttosto ortodossa nella quale non mancano, comunque, né spunti melodici né pulsioni sperimentali.
In effetti, il lavoro non è avaro di momenti interessanti che, per assurdo, corrispondono alle sfuriate più dirette (For Astral Triumphs, With the Emblem of the Blackwinged), anche se un brano anomalo nell’economia dell’album come la doomeggiante Behind the Watching Shadows esercita un suo indubbio fascino, e lo stesso accade per la lunghissima The Mansions of Night, che chiude i giochi unendo di fatto queste due anime apparentemente contrapposte.
To Empyrean Thrones è un disco interessante ma non convince del tutto per la scelta dei suoni e per il suo apparire talvolta un po’ convulso; viene da pensare, alla fine, che il detto “chi fa da sé fa per tre” per Orth non valga del tutto: resta da vedere se la soluzione adottata in quest’occasione verrà riproposta oppure sarà oggetto di una rivisitazione.

Tracklist:
1.In Fiery Ascent
2.For Astral Triumphs
3.Their Eyes of the Abyss
4.Behind the Watching Shadows
5.With the Emblem of the Blackwinged
6.The Grand Ordeal
7.Hour of the Stellarnaut
8.The Mansions of Night

Line-up:
Orth – All Instruments, Vocals

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VV.AA. – Thirteeen: An Ethereal Sound Works Compilation

Thirteen è la compilation che celebra i tredici anni di attività della label portoghese Ethereal Sound Works, nel cui roster sono comprese band lusitane dedite ai generi più disparati, ma tutte accomunate da una notevole qualità di fondo e da altrettanta verve creativa.

Thirteen è la compilation che celebra i tredici anni di attività della label portoghese Ethereal Sound Works, nel cui roster sono comprese band lusitane dedite ai generi più disparati, ma tutte accomunate da una notevole qualità di fondo e da altrettanta verve creativa.

Sono ben 19 i brani contenuti in questa raccolta piuttosto esaustiva con la quale il buon Gonçalo esibisce i suoi gioielli, anche quelli più preziosi ma, purtroppo, non più attivi come i Vertigo Steps.
Così, in questo caleidoscopio di suoni ed umori, troviamo il metal con il death dei Rotem e il power/thrash degli Hourswill, il rock alternativo di Secret Symmetry, Painted Black, Dream Circus e Artic Fire, il punk di The Levities, Chapa Zero e Punk Sinatra, il dark di And The We Fall, Rainy Days Factory e My Deception, l’indie dei The Melancholic Youth Of Jesus, il folk dei Xicara , la sperimentazione pura dei Fadomorse e l’ ambient degli Under The Pipe e dei Soundscapism Inc., quest’ultimo fresco progetto di Bruno A., successivo allo split dei Vertigo Steps, qui rappresentati dalla splendida Silentground.
L’eclettismo è il vero marchio di fabbrica della ESW, grazie alla quale abbiamo la possibilità di constatare come in Portogallo si produca tanta musica di qualità, in più di un caso oggetto delle nostre recensioni (che possono essere lette nella sezione sottostante denominata articoli correlati).
Non ci sono solo i Moospell o il fado, quindi, a rappresentare il fatturato musicale lusitano, e questa compilation offre una ghiotta possibilità di farsi un’idea più precisa di quel movimento, portando alla luce diverse realtà oltremodo stimolanti.

Tracklist:
1.Secret Symmetry – Disarray And Silver Skies
2.Vertigo Steps – Silentground
3.Painted Black – Quarto Vazio
4.Hourswill – Atrocity Throne
5.My Deception – Daylight Deception
6.Dream Circus – Ticking
7.Rotem – The Pain
8.The Levities – Split Lip
9.Chapa Zero – Vai Lá Vai
10.Punk Sinatra – Nunca Há Paciência
11.Under The Pipe – No Need Words
12.Artic Fire – Running
13.The Melancholic Youth Of Jesus – Insensivity
14.And Then We Fall – Ancient Ruins
15.Rainy Days Factory – Deep Dive
16.Fadomorse – Deicídio
17.Xícara – Cantiga (Deixa-te Estar na Minha Vida)
18.Dark Wings Syndrome – In My Crystal Cage (2015)
19.Soundscapism Inc. – Planetary Dirt

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