LE INTERVISTE DI OVERTHEWALL: DEATH WALTZ

Grazie alla reciproca collaborazione con la conduttrice radiofonica Mirella Catena, abbiamo la gradita opportunità di pubblicare la versione scritta delle interviste effettuate nel corso del suo programma Overthewall, in onda ogni domenica alle 21.30 su Witch Web Radio.
Questa volta Mirella ha intervistato Mirko, fondatore della metal band bresciana Death Waltz.

MC Il vostro progetto musicale si forma nel 2014, quali sono state le vostre precedenti esperienze musicali?

Le nostre precedenti esperienze sono state per me i BigNamy’s Knowledge (Inediti Stoner), per Diego e Jacopo i Bound To Bleed (Inediti Hardcore), per Alberto i Damn (Inediti Hard Rock) e per Stefano tributi metal vari.

MC Vogliamo citare la line up completa attuale?

Jacopo Polonioli (Batteria), Diego Dangolini (Basso), Stefano Comensoli e Mirko Scarpellini (Chitarre) e Alberto Scolari (Voce).

MC Chi scrive musica e testi e quali sono gli argomenti da cui traete maggior ispirazione?

La musica di questo disco è stata scritta da tutti, o partendo da un riff creato in sala prove, poi successivamente lavorato oppure partendo da bozze pre-registrate da me, mentre per quanto riguarda i testi sono tutti opera di Alberto.

MC Nel giugno del 2018 è uscito ufficialmente sia in formato fisico che digitale Born to Burn. Ci parli di questo disco?

Questo disco parla di ribellione e protesta, nel senso che “oggi” con questa vita frenetica si è portati a pensare o peggio a lasciarsi andare, mentre il nostro messaggio è Born to Burn (nati per bruciare), quindi “lasciati scivolare un po’ tutto addosso e combatti, affronta le difficoltà e vivila fino alla fine!”

MC Ai giorni nostri è abbastanza facile avere visibilità, soprattutto per le band underground, tramite i social e le varie piattaforme musicali. Secondo la vostra esperienza è un’opportunità in più rispetto al passato o per certi versi il web può penalizzare?

Ci sono vari pensieri al riguardo: nel nostro caso specifico diciamo che ci stanno aiutando e non poco, infatti dall’uscita del video ufficiale (https://www.youtube.com/watch?v=X-LOB3ZzCPk) abbiamo avuto un picco di follower e ci sono arrivati messaggi da tante parti del mondo (Giappone, Germania, Ungheria, USA). Però non a tutti va bene, diciamo che come per tutte le cose, se ci lavori funziona se non fai nulla diventa complicato; noi, per fare un altro esempio, tramite i social abbiamo trovato Ad Noctem Records di Muriel Saracino che ci sta aiutando molto nella promozione di questo disco!

MC Dove possono seguirvi i nostri ascoltatori?

Su Facebook https://www.facebook.com/deathwaltz.band, su Instagram https://www.instagram.com/deathwaltzband/?hl=it, su YouTube https://www.youtube.com/channel/UC_s4eYbIB-Ei4Nr0WyQtW2A … e in giro per locali.

MC Grazie di essere stati su Overthewall! A voi l’ultima parola!

Grazie mille per lo spazio che ci avete dedicato, continuate a seguirci se lo fate già sui social, altrimenti iniziate a farlo!
Stay Metal, Stay Death Waltz \m/

Trent’anni dopo: ricordando Vincent Crane e gli Atomic Rooster

Il giorno di San Valentino del 1989, moriva suicida, a Londra, dopo una vita di problemi, disturbi e dipendenze, il grande Vincent Crane. Quanto da lui realizzato con gli Atomic Rooster, al principio degli anni Settanta, rimane nella storia. Ma la sua è una vita da raccontare, viste anche le moltissime e interessanti collaborazioni musicali. Per ricordare adeguatamente, a tre decenni dalla scomparsa, il grande keyboards-player, tra coloro che hanno avuto il fondamentale ed indiscusso merito di avere portato le tastiere nel mondo dell’hard rock.

Nel 1969, Vincent Crane (tastiere) e Carl Palmer (batteria) si incontrano, nella capitale inglese, alla corte del funambolico e teatrale Arthur Crown, istrionico campione del free rock più sperimentale e anti-conformista. Trovato il bassista e cantante in Nick Graham e rinunciando intenzionalmente alla chitarra, in favore di una formazione a tre tastiere-basso-batteria (un po’ come i coevi Quatermass), gli Atomic Rooster realizzano il loro esordio eponimo, un magnifico affresco di prog imperniato sul fantasioso e potente lavoro del tastierista, con tracce cucite, su misura, per lui. Lo stile ricordava, a tratti, quello di Brian Auger e dei suoi Oblivion e tendeva a saturare il suono. Friday the 13th fu e rimase un brano simbolo, Before Tomorrow una incalzante progressione strumentale, Winter invece una melodica ballata di stampo folk per piano e flauto, lirica e commovente, Broken Wings una tesa e fosca rivisitazione di John Mayall. Il drumming di Palmer era ritmicamente martellante e sempre puntuale, la voce di Graham appropriata al sound. Una vera e pionieristica lezione di art rock, di cui ELP avrebbero tratto presto i frutti in termini più enfatici e magniloquenti, oltre che remunerativi e con una notorietà su scala via via più vasta.

Nonostante l’ottimo livello del debutto e i primi riscontri di critica, alla fine dell’anno Crane si vide costretto a reinventare la line-up: Palmer ha infatti raggiunto Emerson e Lake, per formare gli ELP, mentre Graham ha scelto di unirsi ai connazionali Skin Alley, con i quali realizzerà il classico di jazz rock To Pagham and Beyond (CBS, 1970), sulla scia dei danesi Burning Red Ivanhoe. Crane quindi recluta (rinunciando al bassista, in favore di un suono più hard) il chitarrista John Du Cann (il quale aveva fatto meraviglie con Attack, Five Day Week Straw People e, soprattutto, Andromeda) e Paul Hammond, alla batteria. Alla fine del 1970, esce così il capolavoro Death Walks Behind You, vertice dell’hard prog, intarsiato di atmosfere gotiche e dark, a partire dalla copertina raffigurante il celebre Nabuccodonosor di William Blake (1757-1827). Il disco, che sfiora la top ten britannica, riesce nel tentativo di fare incontrare l’hard dei Deep Purple e il prog tastieristico di ELP: una autentica pietra angolare dell’hard prog albionico più tetro ed evocativo, suggestivo e oscuro. Le sonorità sono oggi ancora inquietanti e sepolcrali, sinistre e misticheggianti, spettrali e malinconiche. Tomorrow Night salì sino al numero undici delle charts in Inghilterra, ma di pari livello sono la mini suite Streets, la ballad pianistica Nobody Else e il grintoso pomp rock ante litteram VUG.

Tra il 1970 ed il 1971, gli Atomic Rooster suonano spessissimo da vivo. Il compact Live and Raw, oggi, documenta degnamente quelle infuocate esibizioni. Nel 1971, Crane suona anche il piano nel bellissimo e intenso disco d’esordio omonimo dell’ex-Taste Rory Gallagher. In quel medesimo anno, esce anche il terzo disco degli Atomic Rooster, intitolato In Hearing of, con la copertina di Roger Dean. Si tratta di un lavoro più classicamente legato agli stilemi dell’hard inglese, allora all’apogeo, che vede in grande spolvero la voce del nuovo cantante Peter French (dai leggendari Leaf Hound di Growers of Mushroom, uscito per la Decca, nel 1970) e non lesina momenti melodici ed intimistici, come in Decision / Indecision, accanto ai frangenti più duri e sferzanti di Head in the Sky. Un terzo grande classico, anche riascoltandolo ora.
Il 1972 vede altri concerti dei galletti atomici – documentati, in seguito, su CD, dalle sessions alla BBC Live in Concert e dal mini Little Red Rooster – ma soprattutto una svolta in direzione funky e soul (Crane, che ha introdotto il sintetizzatore, se ne dichiara in quel periodo grande appassionato), nonché un parziale ricupero della tradizione rimontante al British Blues anni Sessanta. Il risultato è la pubblicazione, con il grande Chris Farlowe alla voce, di Made in England, con Steve Bolton alla chitarra e una stupenda veste grafica. Crane, con questo LP, cerca altresì di ricuperare qualcosa della vecchia ispirazione di impronta dark, sia pure solo a livello lirico e testuale. Un album comunque da rivalutare, insieme al successivo Nice and Greasy (Dawn, 1973), che vede il nuovo chitarrista John Goodsall – accreditato come Johnny Mandala (ormai gli avvicendamenti nella formazione degli AR sono una costante) – e tracce assai valide, tra le quali l’epica Voodoo in You e lo strumentale per solo piano Moods. Un altro vinile ingiustamente sottostimato.

Nel 1974, gli Atomic Rooster pubblicano il singolo Tell Your Story / OD e nel 1975 si imbarcano in una disastrosa tournée italiana. Crane, sempre più scontroso e imprevedibile, segnato da problemi di natura psichica e dall’abuso di stupefacenti, fugge, in quella circostanza, con gli incassi, sciogliendo di fatto il suo gruppo, con questo gesto sconcertante e senza ritorno. Il talentuoso Goodsall si orienta verso la fusion progressiva, prima con i Brand X e poi con i notevoli e purtroppo misconosciuti Fire Merchants.
Nel 1977, con materiale tratto dai primi tre dischi, la Mooncrest ricorda gli Atomic Rooster e Crane pubblicando la raccolta Home to Roost. In quello stesso anno, Crane ritrova il vecchio amico Arthur Brown e partecipa al suo Chisholm in My Boson (1977). I due, firmandolo con il nome di entrambi, danno altresì alle stampe nel 1979 l’interessante Faster Than the Speed of Light, a mezza strada tra prog sinfonico inglese e pomp rock americano, con belle parti orchestrali e grande uso del Moog. I due artisti collaborano anche, sempre nel 1979, al primo capitolo del progetto Richard Wahnfried: il disco Time Actor si muove in maniera notevolissima fra kraut rock ed elettronica tedesca. Una vera all-star band, composta – oltre che da Crane e Brown – anche dall’ex Santana Micheal Shrieve e dal mitico Klaus Schulze (Brown e Schulze collaborarono quello stesso anno anche a Dune, del primo): è evidente che, passati i suoi guai, Crane ha ritrovato la stabilità e la vena. Appare giunto quindi il momento, complice anche la montante NWOBHM, di dimenticare il passato e riformare gli Atomic Rooster. Nel 1980 – dopo che per poche settimane, prima di unirsi agli Hawkwind di Levitation, ha transitato nella rinata band anche Ginger Baker – vede la luce Atomic Rooster, aggiornamento in una chiave più metal delle sonorità di Death Walks Behind You. Sempre nel 1980, i galletti si presentano al Marquee di Londra in piena forma: con Crane ci sono i fedeli Du Cann e Hammond. Performance che uscirà tempo dopo anche su compact disc. Il successo di inizio carriera però non arriva. Crane – che è molto curioso verso il nuovo rock inglese e non teme mai confronti – vira pertanto col nuovo disco degli Atomic Rooster, Headline News (1983), verso un bel mix di prog rock elettronico e new wave inglese. Il disco è riuscito, ma in tempo di purismo imperante scontenta tutti. A nulla vale una serie di concerti tedeschi, sul finire di quel medesimo 1983, editi poi come Live in Germany. Per gli Atomic Rooster è nuovamente la fine, questa volta definitiva e non senza rammarichi.

Crane, comunque, resta molto attivo e volenteroso. Suona con i Katmandu, dell’ex Fleetwood Mac Peter Green (A Case for the Blues, 1984), con i folk-rockers Dexys Midnight Runners (Don’t Stand Me Down, 1985) e sogna nuovi progetti, tutti però infranti il 14 febbraio del 1989. L’ex-moglie Jean – la sola che, fra le tante avventure che Crane ebbe nella sua non lunga vita, davvero lo amò più di ogni altra – contribuì a scegliere i pezzi che andarono a comporre le due antologie, pubblicate alla fine del 1989, per celebrare gli anni di Vincent con gli Atomic Rooster: Lose Your Mind e The Devil Hits Back contengono, oltre ai classici in studio, anche brani dal vivo, nonché versioni alternative o con un titolo leggermente differente rispetto a quelli noti. I collezionisti sono pertanto avvisati.
Chi desidera oggi approfondire l’operato di Crane con gli Atomic Rooster può rifarsi al cofanetto in quattro CD, edito dalla Esoteric, con il titolo Sleeping For Years, che racchiude tutte le registrazioni del gruppo dal 1970 al 1974, oppure al doppio A Classic History (uscito a maggio del 2018), oppure ancora ai due volumi (specie il primo) di The First 10 Explosive Years (apparso nel 1999, per mano della Angel Air). Quanto alla serie completa degli incisioni radiofoniche, realizzate dai galletti, alla BBC con John Peel, tra il 1970 e il 1981, sono state pubblicate nel 1998 con il titolo Devil’s Answer, in omaggio a quella che resta forse la canzone più famosa di Crane e compagni. Un discorso a parte merita invece Homework, compilation di demo risalenti al triennio 1979-1981, incisi, senza Crane, da Du Cann (chitarra e voce) e Hammond (drum machine). Malgrado si tratti soltanto di nastri non rifiniti, rimane interessante questo singolare e particolarissimo esperimento di hard rock sintetico e vagamente futuristico. Sempre a proposito di Du Cann, rammentiamo infine che, uscito dagli AR, aveva suonato con Daemon (1970-1971), Bullet (1972), Hard Stuff (1973) e Thin Lizzy (1974). Per una panoramica su di lui si può ricorrere a Many Sides of John Du Cann, utile antologia della Angel Air, che ha finalmente ristampato anche tutto quanto fatto (all’epoca non uscì nulla) dai Bullet (nel caso dei Daemon una operazione analoga è stata intrapresa, diverso tempo fa, dalla estinta Kissing Spell). Un grande chitarrista, che, insieme ad un grande tastierista, ha scritto pagine immortali del rock inglese anni Settanta.

METEORE: AFFLICTED

Uno delle band culto del Death Metal svedese. Siamo negli anni ’90, quando tutto cominciò. Accaniti sperimentatori delle sonorità più prog, debuttarono con un album “Prodigal Sun” ad oggi ancora considerato pietra miliare del genere.

Nati nel lontano 1990 dalle ceneri degli Afflicted Convulsion, i ragazzi di Stoccolma ovviamente non possono mancare qualora si citino le principali band mainstream della scena svedese anni novanta.

Insieme a gruppi del livello di Entombed, Unleashed, Hypocrisy e Dismember (e così via), diedero un decisa spinta allo stile, oramai consacrato a culto per tutti gli amanti del Death Metal, definito oggi appunto Swedish Old School. A differenza però dei citati connazionali, gli Afflicted si spinsero oltre (e forse un po’ troppo oltre), avventurandosi per sentieri pericolosi, immergendo a caldo uno dei più classici sottogeneri del Metal in crogiuoli più prog, riuscendo comunque ad ammaliare anche i deathsters più incalliti. L’uscita del demo The Odious Reflection destabilizzò un po’ i fan, ma ben presto li conquistò, grazie anche ad una tecnica strumentale sopraffina, rara a quei tempi. Ciò convinse i Nostri a proseguire per quella strada, sperimentando sonorità sempre più inusuali, sino all’arrivo del capolavoro con la C maiuscola: Prodigal Sun; l’album – uscito per un’allora giovanissima Nuclear Blast, riscosse fin da subito un clamoroso successo. Purtroppo però, si sa, spesso, il successo da un po’ alla testa. Così, i 5 ragazzi, ossessionati dalla ricerca e dalla sperimentazione, finirono presto per perdersi per strada. La loro (un po’ folle) insistente indagine su nuove sonorità e l’assillante screening su sempre più articolate investigazioni musicali, li portarono presto a perdere gran parte dei fan, che si sentirono totalmente traditi, soprattutto dopo l’uscita dell’album del 1995 – Dawn Of Glory – che nulla aveva a che fare con il Death Svedese, ma che si avvicinava di più a suoni power metal (vi ricordo che lo stesso anno, solo in Svezia, uscirono capolavori quali : Massive Killing Capacity dei Dismember, Victory degli Unleashed e, in campo più melodic, Subterranean – il mini degli In Flames – e The Gallery dei Dark Tranquillity) e che quindi non lasciò scampo al combo di Stoccolma che, oramai preso dallo sconforto, lo stesso anno, si sciolse definitivamente.

Discography:
Promo Rehearsal – Demo – 1990
Promo Tape 1990 – Demo – 1990
The Odious Reflection – Demo – 199
Ingrained – Single – 1990
Wanderland – Demo – 1991
Rising to the Sun – Single – 1992
Promo EP I – Split – 1992
Wanderland – Single – 19922
Prodigal Sun – Full-length – 1992
Promo 1993 – Demo – 1993
Dawn of Glory – Full-length – 1995
Relapse Singles Series Vol. 5 – Split – 2005 (postumo)

Line-up
Yasin Hillborg – Drums
Joacim Carlsson – Guitars
Jesper Thorsson – Guitars
Philip von Segebaden – Bass
Michael van der Graaf – Vocals

METEORE: NUCLEAR SIMPHONY

Meteora del thrash italiano e disco storico, nello stesso tempo, da parte di una grande e sfortunata band siciliana che fu tra le prime a suonare metal estremo in Italia.

Nuclear SimphonyLost in Wonderland

Il gruppo di Agrigento si costituì nel lontano 1982 innamorato del pomp-prog di Yes e Genesis.
Virò in breve verso lidi di matrice hard & heavy. Una serie di ottimi demo aprì ai Nuclear Simphony le porte dei Music Lab Studios di Berlino, dove registrarono il loro primo ed unico disco, uscito poi per la Metal Master, nel 1989, con il titolo di Lost in Wonderland. Pezzi del calibro di Mimmo the Bull, Lustful For Desaster e Rhapsody of Sadness mettevano in bella mostra un crossover-thrash in linea con la scuola newyorkese degli Anthrax e Nuclear Assault, anche se con una vena più funky e sperimentale. Come altre volte in casi simili, purtroppo non fu sufficiente e la band si inabissò. Non ostante ciò, questa meteora brilla ancora oggi con tutta la sua luce e la ristampa pubblicata nel 2009, sempre dalla Metal Master, è imperdibile: la testimonianza di chi cercava di portare nel nostro paese le sonorità più estreme della Grande Mela di allora, non rimanendo oltretutto molto distante da quei modelli. Veri prime movers, i Nuclear Simphony: di questo ogni metallaro di casa nostra deve esser loro grato e riconoscente.

Tracklist
– Mister IDGAF
– Lustful For Desaster
– Cry
– Evil Spray
– Mimmo the Bull
– Where Eagles Reign
– Rhapsody of Sadness
– Create Your Destiny
– Die For Your Flag

Line up
Ciro – Basso / Guitars
Gino – Guitars / Vocals
Giovanni – Drums

1989 – Metal Master Records

METEORE: DISSECT

Grande band dall’Olanda che, seppur con un solo album all’attivo, riuscì comunque ad entrare nell’Olimpo Underground del Death Metal europeo degli anni ‘90. Alcune ristampe ci permettono, ancora oggi, di poterne entrare in possesso.

Tra i prime-movers della scena Death olandese, i Dissect non ebbero le medesime fortune di connazionali del calibro di God Dethroned o Asphyx.

Peccato perché, dopo un paio di ottimi demo, uscirono nel 1993 con l’album (oramai culto per gli adepti del Death europeo) Swallow Swouming Mass per la storica olandese Cyber Music; etichetta, oggi tristemente chiusa, capace di sfornare gioielli quali Theatric Symbolysation Of Life (Agathocles), Immense Intense Suspense (Phlebotomized), ma soprattutto His Majesty At The Swamp (Varathron). Pertanto, pare incomprensibile come un album così importante non riscosse il successo dovuto, e non permise ai ragazzi di Alphen Aan Den Rijn di proseguire con la propria attività di musicisti (solo il bassista Tim Roeper pare sia ancora sulla cresta dell’onda, con gli storici Eternal Solstice e con i bravissimi Dauthuz), soprattutto pensando alla qualità delle produzioni e alla grande capacità promozionale dell’etichetta di Arnhem. Ad ogni modo, quello che ci lasciarono i quattro ragazzotti fu qualcosa di davvero importante per tutta la scena europea. L’unico album si dipana su circa 50 minuti di ottimo Death Metal, sviluppato su nove tracce brutali, d’un impatto sonoro unico, genuino, diretto come un Pendolino, che non lascia scampo. Un sound mai ostico all’ascolto, semplice si, ma mai eccessivamente banale, che solo gli anni novanta hanno – ahimè – saputo dare. Zombies, gore, sangue, guerra, morte ovunque, crogiolano dai solchi dell’album, oggi fortunatamente di nuovo reperibile grazie ad alcune ristampe, tra cui quella della famosa Xtreem.
Dopo, una pseudo-reunion ed un demo, passato del tutto inosservato (Fragments del 1997) e nulla più. C’è chi parla ancora di una possibile attività o di un insperato ritorno: chi vivrà vedrà… come ci direbbe oggi Jimmy Fontana.

Discography:
Demo 1 – Demo – 1991
Presage to the Eternity – Demo – 1992
Swallow Swouming Mass – Full-length – 1993
Fragments – Demo – 1997

Line-up
Vincent Scheerman – Guitars, Vocals
Tim Roeper – Bass
Ed van Wijngaarden – Drums
C.W. Zwart – Guitars

https://www.youtube.com/watch?v=7IBnCb5nYrw

METEORE: ASGARD

Ottima e coraggiosa band di speed metal progressivo proveniente dalla Germania di fine anni ’80, autrice di un unico classico ingiustamente dimenticato.

Nel 1987, a Giessen, in Germania Ovest, si formarono gli Exray, che presto diventarono gli Asgard, un fantastico e promettente quintetto, che spingeva in una direzione nuova e progressiva la classica tradizione dello speed e del metal teutonico anni Ottanta.

Doti compositive ed esecutive non comuni portarono presto il gruppo al debutto sulla lunga distanza. Malgrado le qualità indiscutibili di Dark Horizons, i riscontri furono però minimi e solo da parte della critica più attenta. Gli Asgard, che si segnalavano anche per la bellezza dei testi (ispirati alla storia europea ed alle saghe vichinghe), furono costretti a sciogliersi e la loro rimase, quindi, una splendida meteora, a cui soltanto alcuni anni la Karthago ha reso giustizia con una doverosa ristampa laser, divenuta purtroppo anch’essa rara come il disco della band germanica. Dei membri di quest’ultima, solo il bassista Tomi Gottlich è rimasto nel giro della musica, entrando poi nei Grave Digger.

Tracklist
1- Rainbow Bridge
2- Hero’s Tears
3- Fighting ‘Em Back
4- Dark Horizons
5- Soldier’s Waltz
6- Back To You
7- Hungry Hearts
8- Riders of the Storm
9- The River

Line up
Olaf Dietzel – Vocals
Martin Winter – Drums
Tomi Gottlich – Bass
Jorg Gehlaar – Guitars
Andreas Puschel – Guitars

1988 – Metal Enterprises Records

METEORE: VIOLENT FORCE

Unico disco, di una band storica. Per chi ama Sodom, Assassin, Darkness, Living Death, Tankard, Possessed, Razor, Slayer, Vendetta e Dark Angel.

Tra il 1984 ed il 1985, nella città tedesca di Velbert, sorsero i Violent Force.

Nel 1985 la formazione finalmente si stabilizzò e il gruppo apparve sulla compilation Teutonic Invasion. Il thrash dei quattro ragazzi tedeschi cominciò a mietere consensi in patria. Dopo ben cinque demo, nel 1987 uscì infine Malevolent Assault of Tomorrow, esordio ed unico lavoro dell’act germanico, per la Roadrunner. Le speranze riposte dal quartetto si tramutarono presto in delusione: il disco, benché valido ed ottima espressione del più puro ed incontrastato speed-thrash made in Germany, non riuscì a farsi notare e si perse tra le molte altre produzioni dello stesso genere, in Europa centrale. Anche i testi, malgrado in apparenza ingenui, non erano da poco e trattavano problemi sociali e rischi legati al nucleare. Ma non fu abbastanza e giunse, immeritato, lo split. Oggi, possiamo riapprezzare questa meteora grazie alla ristampa della HR, sempre attivissima e da seguire.

Tracklist
1- Dead City
2- Soulbursting
3- Vengeance and Venom
4- MAOT
5- What About the Time After
6- Sign of Evil
7- Violent Force
8- The Night
9- Destructed Life
10- SDI

Line up
Lemmy – Vocals / Guitars
Stachel – Guitars
Hille – Drums
Waldy – Bass

Costruendo il sepolcro: il Doom prima del Doom

Sul fatto che i Black Sabbath siano stati i creatori del doom nessuno può avanzare dubbi. Anche sul fatto che il genere si sia sempre più imposto, specie nei paesi anglofoni ed in Svezia, a partire dagli anni Ottanta – complice anche la NWOBHM (Legend, Ritual, Witchfinder General) – in pochissimi potranno avanzare riserve.

Il doom – oggi coltivato specialmente nei paesi nordici, nel Maryland, nell’Oregon e nella Columbia britannica – ha dato origine a generi e filoni importanti ed amatissimi, come Drone, Funeral, Gothic Metal, Black Doom, Ambient Doom e Avantgarde Doom, ovviamente senza dimenticare lo Stoner della scena di Palm Desert e lo Sludge della Louisiana. Dagli anni ’90, sino ad oggi, rilevanza estrema e meritata ha avuto il Death Doom, inventato dal cosiddetto trittico inglese, ossia Paradise Lost, Anathema e My Dying Bride (a cui va aggiunta – lo si faccia, una volta tanto – la luminosa meteora Enchantment).
Tuttavia, esiste anche una preistoria del genere, quando ancora non si chiamava così. Prima, infatti, che si incominciasse a parlare di doom metal, l’hard rock e il blues già avevano iniziato ad edificare muri sonori con rallentamenti, tempi cadenzati e solenni, arcane malinconie e ancestrale maestosità, distorsioni e dissonanze, scale minori e squarci epico-ossianici, giochi di riverberi e colti riferimenti di natura esoterico-letteraria ed occultistica.
Se vi riflettiamo, scopriamo che già i Blue Cheer – in particolare quelli di Vincebus Eruptum, vale a dire con alla chitarra Leigh Stephens (poi nei durissimi Silver Metre) – avevano aperto le porte a un nuovo genere musicale ed alla sua codificazione artistico-culturale. In tale senso, il proto-doom può essere cercato e felicemente rintracciato, tra la fine degli anni Sessanta e i primissimi Settanta, negli inglesi Leaf Hound (una costola degli Atomic Rooster), nei gallesi Budgie, negli americani Sir Lord Baltimore (gli iniziatori, tra il 1970 ed il 1972, della scena di Washington DC), nei primi album dei tedeschi Lucifer’s Friend, negli australiani Buffalo, nella giapponese Flower Travellin’ Band (Satori, il loro capolavoro targato 1971, che tanto anticipa i Rush delle suite).

I seminali Pentagram, anche sotto il nome di Bedemon, nacquero e furono attivi in Virginia a partire dal lontano 1971. I britannici Pagan Altar incisero il loro disco d’esordio – pubblicato, poi, solo nel 1984 – già nel 1978. Altre entità solo a torto (ed ingiustamente) etichettabili come ‘minori’, sia pure senza mai pubblicare in vita le loro registrazioni, hanno dato un forte e significativo contributo alla causa. Si pensi solo (riscoperti oltre vent’anni fa, dalla purtroppo defunta Kissing Spell) ai britannici Wicked Lady, Ice, Stone Angel, Daemon, Irmin’s Way, Dark ed in parte Dragon Milk, tutti attivi a metà circa degli anni ’70. Musiche bellissime, senza tempo.
Né vanno certo dimenticati, ai fini della nostra ricostruzione storica e del discorso che andiamo qui svolgendo, i Night Angel (poi evolutisi nella EF Band, nel 1979), gli scozzesi Iron Claw (attivi tra il 1969 e il 1974, senza purtroppo mai arrivare al traguardo del debutto su vinile), gli Egor del singolo Street (1971), gli Stallion inglesi (vissuti tra il 1974 e il 1976 e responsabili d’un entusiasmante hard prog, con Moog), gli eterei e cupi Wooden Lion (nero space prog hawkwindiano, durati dal 1973 al 1976). Una menzione particolare merita quindi la Flying Hat Band, fondata a Birmingham nel 1971 dal chitarrista Glenn Tipton, in seguito una delle due asce (insieme a KK Downing) dei Judas Priest (autori di un classico del doom settantiano, con lo storico ed imprescindibile Sad Wings of Destiny, uscito per la Gull nel 1976).
I gruppi di cui in questa sede stiamo trattando non erano ovviamente di puro doom (non aspettatevi i Candlemass, dunque), ma al genere di fatto arrivavano mescolando sapientemente hard rock, prog, blues, folk anglo-britannico alla Stackridge e dark di matrice Black Widow (la band di Leicester era in pista dal 1969: autentici modelli e prime-movers).

Occulti e cosmici furono acts di proto-doom come gli Zior. Il loro primo album omonimo apparve, nel 1971, per la piccola Nepentha. Univa hard progressive ed atmosfere gothic dark plumbee, molto ossessive e tetre, in anticipo sullo shock rock di Alice Cooper e Ozzy Osbourne. Vera demonologia in musica, con richiami alla magia e un’ottima reputazione concertistica. Gli Zior combinavano nel modo migliore effetti elettronici, ricerca sperimentale e gusto per la distorsione, con una voce molto alla Arthur Brown, quindi enfatica e teatrale. Prodotti da Larry Page dei Kinks, realizzarono, giusto due anni dopo, un secondo lavoro, rimasto inedito all’epoca e ristampato su CD assieme al primo. Il rock blues stravolto dei Blue Cheer veniva, in questo secondo capitolo, da loro appesantito ancor di più, reso travolgente, ma altresì capace di lasciare spazio a ballate dark e pagine trasognate. Un altro gioiello, dal punto di vista sia timbrico sia iconografico.
Altra pietra miliare del proto-doom rimane l’unico album omonimo degli Horse. Hendrixiani, con in cabina di regia l’ingegnere del suono di Led Zeppelin e Hawkwind, gli Horse debuttarono nel 1970, per la RCA. Influenzati dai Black Widow nella costruzione dei brani (e dagli Yes in certe armonie vocali), allo scioglimento si trasformarono in Saturnalia (un solo rarissimo LP, di tarda psichedelia, forse più bello per la veste grafica che per le composizioni), mentre il drummer Rick Parnell entrò negli Atomic Rooster del quarto e quinto disco (periodo pertanto 1972-1973).
Gli Horse, a tutti gli effetti, osarono molto, preceduti soltanto dai connazionali Harsh Reality (1969, interessante e pionieristico hard prog dalle tinte fosche) e Plus (il masterpiece Seven Deadly Sins, anch’esso del 1969, combinava in maniera straordinaria nascente rock sinfonico e proto-doom). Nel 1971, sempre in Inghilterra, uscì per la Vertigo Three Parts of My Soul, dei misteriosi e assai lugubri Dr. Z: un eccellente rock progressivo, dominato dalle tastiere di Keith Keyes, con ritmiche spartane e originali suggestioni misticheggianti, dalla multiforme vena interpretativa, fra disperazione e ansie pessimistiche. Quattro anni dopo vide la luce Green Eyed God (Penny Farthing, 1975) dei londinesi Steel Mill, quintetto influenzato da Black Widow e Van der Graaf (per l’uso dei fiati) e naturalmente dai Black Sabbath per le sezioni chitarristiche. Hard prog, folk celtico e rimandi floydiani possiamo rinvenire in questa perla rara dell’underground britannico, pubblicata inizialmente solo in Germania Ovest dalla Bellaphon (nel 1972) e ancora una volta prodotta da Larry Page degli Zior.

Un validissimo gruppo britannico, che non giunse però mai a pubblicare il proprio disco, fu quello dei Three-Headed Dog. Ispirati dalla figura mitologica di Cerbero, appunto il cane a tre teste scelto come monicker, i Three-Headed Dog registrarono sei brani nel 1972 e altri cinque l’anno seguente: tutti e undici sono stati finalmente pubblicati, solo moltissimo tempo dopo, nel 2006, dalla volitiva e benemerita Audio Archives (specializzata in questo tipo di operazioni di recupero musicale, si pensi al secondo disco dei Fantasy). Una edizione laser che ci permette, ora, di apprezzare tutta l’arte della band, antesignana di un hard-doom primordiale ed oltremodo evocativo.

E veniamo finalmente a un gruppo di illustri sconosciuti: gli Iron Maiden. No, non è uno scherzo ai danni del lettore. Quelli ai quali ci riferiamo adesso sono gli Iron Maiden di Bolton, nati nel 1968 ed attivissimi dal vivo, tra il 1970 e il 1975, pure di spalla a UFO, Procol Harum e Thin Lizzy. Nulla ci rimane del loro mix dalle mille sfumature di proto-doom e hard prog metallizzato, se non i nastri di Maiden Flight, pubblicati postumi dalla Perfect Pitch, nel 2005. Paradossalmente e incredibilmente, ancora più prossimi al doom furono gli Iron Maiden di Basildon nell’Essex – no, neanche loro sono quelli famosi di Paul Di Anno e Bruce Dickinson – autori nel 1969 del 45 giri God of Darkness, con sul Lato B Ballad of Martha Kent. La sfortunata band, che firmò anche per la Gemini senza arrivare tuttavia a nulla, meritava davvero altra sorte. A renderle in parte giustizia, pure in questo caso grazie alla Audio Archives, la stampa postuma del 1998, dal titolo Maiden Voyage, con ottimi riff e lunghe composizioni, dai sette minuti di media. Piccola postilla per i curiosi: questi Iron Maiden aprirono, a volte, anche per i loro idoli Black Sabbath. Alcuni di loro, successivamente, suonarono con Spirit of John Morgan (un mito dell’underground UK), Zior, Poco, Venom, Nik Turner ed Hawkwind. Senza dubbio, un curriculum di tutto rispetto.
Un altro nome di culto, quello dei Warlord, può far pensare ai grandi colleghi statunitensi.

Tuttavia, questi Warlord sono inglesi, nati a Londra nel 1974, particolarmente attivi tra il 1976 e il 1977, con un tastierista ospite. Il loro unico disco, un bel concentrato di hard rock tradizionale e proto-doom, è apparso infine omonimo, solo nel 2002, nuovamente per la Audio Archive. Li si può ascoltare anche sulla compilation Necrocopia – Original UK Doom in memoriam, altro CD della Audio Archive che copre tutto il periodo 1968-1977, nel Regno Unito, con pezzi di Night Angel, Horse, Wooden Lion, Iron Claw, Three-Headed Dog, Zior, Iron Maiden (quelli di cui sopra), Stallion, Necromandus, Egor e Flying Hat Band. Un prodotto assolutamente essenziale e irrinunciabile: un pezzo di storia, e non solo per collezionisti ed amanti di rarità storiche sepolte tra la polvere del passato.
Quest’ultima ha finito per avvolgere anche altre band, da riscoprire. Ad esempio, non si possono né devono fare passare sotto silenzio gli Electric Funeral. Svizzeri – come Cardeilhac, Country Lane e Spot – gli Electric Funeral proponevano un heavy sabbathiano ed oscuro, ruvido e selvaggio. Erano di Neuchatel e le loro incisioni di distorto proto-doom, risalenti ad un nastro del 1970-71, sono state rese pubbliche con il titolo The Wild Performance solamente nel 1991, per mano della Vandisk. La band aveva doti tecniche e qualità di scrittura superiori alla media e avrebbe meritato certo migliore destino. Tuttavia, come si è visto e si sta vedendo, pochi del gruppi esaminati qui hanno potuto poi dare alle stampe un album. Se lo avessero fatto, con buona probabilità, oggi si direbbe, apertamente, che la nascita effettiva del doom metal va collocata nei Seventies e non nella decade successiva.
Non raggiunsero l’altrimenti meritato traguardo dell’album neanche i Sudden Death, oscura band di Los Angeles, sorta nel 1970. Un gruppo di valore, come confermarono a quell’epoca i concerti con i Blue Cheer, i Seeds e le prime Runaways. Nel 1972, i Sudden Death registrarono un demo live, fra proto-doom e complesse trame hard. La Rockadelic lo ha pubblicato infine nel 1995, intitolandolo per l’occasione Suddenly. Un bel coacervo di rimpianti e storia infranta.

I Warpig erano, invece, canadesi e riuscirono nell’impresa di pubblicare il loro (unico) LP, registrato nel 1970 e stampato nel 1972 dalla Fonthill. Il quartetto dell’Ontario poteva contare su un axeman di eccezione, l’insegnante di chitarra Rick Donmoyer. Purtroppo, il debut dei Warpig, sabbathiano fin dal nome scelto, non ebbe quasi riscontro, malgrado gli aiuti e l’amicizia di Terry Brown, dei Rush: un vero peccato, dato che il proto Doom Metal dei quattro era a dire poco straordinario, con echi di Uriah Heep e Deep Purple, ed eccellenti parti di tastiera. Si sciolsero nell’indifferenza generale, nel 1975. La ristampa della Relapse ce li ha, se non altro, restituiti in tutto il loro incandescente e tetro splendore.
Parliamo ora di tre band che riuscirono, per quanto privatamente, a pubblicare i loro dischi, ma che restano, oggi, rarissime chimere per collezionisti, dato che una riedizione su compact – né ufficiale, né in formato bootleg – non è mai stata approntata. Si tratta di tre gruppi tutti americani. I Sorcery, rispettivamente nel 1978 e nel 1980, pubblicarono il debutto Sinister Soldier e il doppio Till Death Do We Part: fantastici esempi di hard-doom sabbathiano e astrale, che affonda le radici nel sound di marca Seventies. Molto belli anche i Lodestone (un album omonimo nel 1982): tra doom e nascente US metal, coi sintetizzatori che spingono le sonorità di ascendenza Black Sabbath in una direzione talora quasi futuristica e vagamente fantascientifico-siderale. La strada percorsa poi dallo stoner, in America e non soltanto. Infine, segnaliamo i leggendari – davvero, l’aggettivo calza qui a pennello – Laudanum: due LP per la Byron Records – di proprietà del leader, e così denominata in omaggio al grande poeta del Romanticismo inglese – a spasso tra Black Sabbath, ELP, Atomic Rooster, Mozart, con aperture che spaziavano dal proto-doom settantiamo (che ormai abbiamo imparato a conoscere) a porzioni tanto massicce quanto barocche e spaziali, epiche e sinfoniche. Il cantante era innamorato perso della musica e della cultura del Settecento, del resto. Il che è molto in carattere.
Chiudiamo con i Necromandus, che incisero anche loro un disco mai stampato all’epoca. Registrato nel 1973, da un quartetto amico nientemeno che di Tony Iommi, Orexis of Death fu pubblicato solo nel 1991, su vinile (dalla Reflection) e ancora più tardi su compact dalla Rise Above di Lee Dorrian: l’occasione imperdibile, finalmente, per apprezzare la musica dei Necromandus, un heavy prog dalle pieghe notevolmente doomeggianti e dagli stacchi a tratti quasi fusion. Membri del gruppo hanno in seguito suonato con ELO e Hammerhead.

Per Max

Bibliografia

– Alberto Bia, The Bible of the Devil. The Essential Obscure Hard Rock Encyclopedia (2015)
– Antonello Cresti, Come to the Sabbath. I suoni e le idee della Britannia esoterica (2011)
– Cesare Rizzi, Progressive & Underground (2003)

LE INTERVISTE DI OVERTHEWALL – THE MAGIK WAY

Grazie alla reciproca collaborazione con la conduttrice radiofonica Mirella Catena, abbiamo la gradita opportunità di pubblicare la versione scritta delle interviste effettuate nel corso del suo programma Overthewall, in onda ogni domenica alle 21.30 su Witch Web Radio.
Questa volta Mirella ha intervistato Nequam, mente dell’esoterico progetto musicale The Magik Way.

MIRELLA Il progetto The Magik Way nasce nel 1996 ad Alessandria da un’idea di alcuni componenti dei Mortuary Drape, black metal band attiva già dal 1986; ci racconti com’è sorto l’intento di esplorare ancora più a fondo il lato esoterico della musica?

NEQUAM A quell’epoca avevamo dai 20 ai 24 anni di età e già da un po’ di tempo frequentavamo gli ambienti esoterici alessandrini. Ci sembrava arrivato il momento di esplorare nuovi territori musicali e a partire dal 1997, anno in cui abbiamo musicato il “Dracula” del regista teatrale Hermes Beltrame, non abbiamo più abbandonato l’idea di adottare un approccio alla scrittura non dissimile da quello dei compositori di musica applicata. Noi abbiamo maturato l’idea, al netto di 22 anni di attività, che le tematiche esoteriche necessitino di un ventaglio di suoni il più variegato possibile. Ad ogni storia, ad ogni tema, corrisponde il tentativo di trovare i suoni giusti, come se dovessero essi stessi tradurre dei colori o degli odori. Così è nata l’esigenza di creare concept album, ma anche di servirci di altre forme d’arte per il raggiungimento dell’obiettivo. Osservare i metodi di applicazione della musica nel mondo del teatro o dell’arte contemporanea ci ha aiutati molto.

MC Subito dopo la formazione, come ad affermare che The Magik Way non è solo musica ma qualcosa di più ampio e complesso, create “L’Ordine della Terra”, una fondazione che aggrega cultori dell’esoterismo che si confrontano su vari temi in totale anonimato. Potresti spiegare di cosa si tratta?

Risponde la dott.sa Roberta Rossignoli (L’Ordine della Terra):
Accomuna i membri dell’Ordine un regime psichico notturno. Ci guida, inconsciamente, da sempre, un pensiero mitico primordiale il quale ci insegna che la Natura, regolata dalla legge inesorabile della Necessità, è il regno della Morte. Ad ispirarci e condurci verso il suo grembo oscuro è l’ancestrale e archetipica spiritualità della Grande Madre, la Terra, che presiede al ciclo naturale di morte e rinascita: rifugio e nutrimento, sepolcro e culla, elemento primordiale da penetrare e scavare, materia primitiva, luogo del mistero, cavità ed anfratto, grembo abissale negli antichi culti misterici. In questa prospettiva, i misteri eleusini, l’orfismo, il pitagorismo, l’esoterismo sono percorsi di conoscenza e riflessione imprescindibili dove l’iniziazione è di per sè una morte simbolica, mimetica della catabasi di Demetra, della discesa nelle profondità ctonie della Grande Madre. Conoscere e riconoscere uno stato di coscienza originario, la cui realtà è eterno divenire, crescere e sfiorire, splendere per spegnersi, è un’indagine conoscitiva a circuito chiuso; è il nostro alambicco per un’alchimia interiore. Nella nostra claustrofilia, cultori di una religione della morte, intesa come ritorno al sè, come restituzione intima e profonda in un dialogo incessante con le leggi della natura, ci rivoltiamo contro maschere e menzogne per ritrovarci.

MC La band muove i primi passi nel mondo underground in maniera schiva, misteriosa, come a non volersi immediatamente rivelare al pubblico. Una sorta di rifiuto a concedersi totalmente? Come si svolgevano le prime esibizioni dei The Magik Way?

NEQUAM  Le performance, specie nel periodo 2000-2010 non erano pubblicizzate ma rientravano in un’idea di happening improvvisato… i nostri punti di riferimento in quegli anni erano il Living Theatre, La Fura dels Baus, la più radicale Marina Abramovic del periodo pre-Ulai e un certo metodo “anarchico casuale”, per dirla alla John Cage. Non eravamo interessati a mostrarci, se non nell’atto creativo. Questo atteggiamento, molto lontano dall’idea classica di band (che fa concerti, realizza dischi, si mostra) ha comportato un sostanziale allontanamento dalle “scene”, se intese nell’accezione più tradizionale appunto. In realtà abbiamo prodotto tantissimo: in campo musicale (performance improvvisate, rumorismo, commenti sonori per mostre), pittorico (leggendarie le opere realizzate da Azàch, con sangue e bile di pollo, commentati da suoni disturbanti), numerose video-installazioni, performance sul limite umano, alla stregua della body art e i linguaggi post-human, ma sempre in chiave esoterica. Ogni nostro lavoro, musicale e non, ha sempre evidenziato il nostro desiderio e la nostra necessità di creare habitat, luoghi contenitore dove creare. Famigerati sono i siti dove siamo stati stanziali, in aree dismesse o sotterranee, vere e proprie scatole cosmiche, macchine teatrali dove agire indisturbati. Chiunque li abbia visti li ricorda come luoghi particolari, energetici, densi. La sperimentazione è continuata in quella chiave per circa 10 anni, sino al 2012 anno in cui Marco Cavallini (Sad Sun Music) e Francesco Palumbo (My Kingdom Music) non ci hanno contattati per riportarci alla produzione discografica, nel senso più o meno canonico.

MC Nel 2017 la grande svolt: in un Auditorium presentate il DVD Ananke, mostrandovi finalmente dopo vent’anni di mistero. Come mai questa decisione?

NEQUAM  Ananke è un’opera importante. Intanto perché vede la partecipazione della dott. sa Alexandra Rendhell, medium e antropologa portatrice di un’energia positiva e potentissima. La sua presenza non è casuale, ma accade per i festeggiamenti durante il Ventennale dell’Ordine della Terra. Il suo lavoro, così come quello dell’illustre padre Magister Fulvio Rendhell, è stato di fondamentale importanza nella creazione dei The Magik Way. Sul DVD appare in qualità di voce monitante, impegnata nelle letture e citazioni selezionate dalla dott.sa Rossignoli. Inoltre presentiamo al pubblico una nostra nuova concezione, antitetica rispetto al passato dove ogni cosa era celata… e cioè mostrarsi in toto, manifestando la necessità di aprire il sipario, con l’obiettivo di essere visti. Il DVD è infondo una grande installazione a forma di quadrato, centripeta e avvolgente. Risente della perentorietà del titolo, laddove Ananke in greco indicava la forza esercitata dalla Natura nell’autodeterminarsi degli eventi.

MC Da allora cos’è cambiato nella band?

NEQUAM La nostra band è un organismo vivente in continua mutazione. In 22 anni nessun membro ha abbandonato sbattendo la porta, ma talvolta sospendendo per esigenze personali. Ad oggi comunque, ogni membro partecipa, anche a distanza, ad ogni lavoro. Uniti da una grande amicizia e vivo desiderio di sperimentazione, siamo disposti a trasformarci, mutando strumenti, talvolta persino costruendoceli e in definitiva costruendo noi stessi. L’obiettivo è solo e sempre la resa finale. Da quando nel 2012 abbiamo ripreso l’attività discografica indubbiamente c’è più lavoro, anche di comunicazione. Non ci spaventa, lo facciamo (io in prima persona) con entusiasmo e ben consapevoli della fortuna che abbiamo ad avere un seguito di veri appassionati dai quali riceviamo rispetto e stima. Non smetteremo mai di ringraziarli per questo.

MC Come nascono i brani dei The Magik Way? C’è una fonte d’ispirazione costante per le vostre opere?

NEQUAM A seconda dell’opera. Il regno animale, la natura, l’introspezione: qualunque cosa possa risvegliare il nostro “daimon”. Attraverso le nostre opere noi poniamo domande a noi stessi. Creiamo scenari nel tentativo di descrivere le forze che ci circondano e che di tanto in tanto ci compenetrano.

MC Chi scrive la musica e i testi?

NEQUAM La musica la scrivo io (salvo alcune eccezioni, ad esempio l’uso dell’improvvisazione). Ho un approccio, specie ultimamente, molto essenziale. In casa ho uno studiolo dove compongo, dove realizzo sostanzialmente la pre-produzione. Il mio rapporto con la musica è a dir poco maniacale. Nonostante io abbia un lavoro, degli affetti, una vita come chiunque altro, quando sono in fase ideativa vivo in una dimensione alterata (o chissà, forse l’unica dimensione reale che io possa provare). Giorno, notte, ogni momento è buono per rimuginare. Potrei forse definirmi così: un rimuginatore di musiche, più che un autore! I testi invece possono provenire da me, come dall’Ordine della Terra (vedi nel caso dello Split-cd con i Malvento uscito il 23 dicembre) dove sono stati scritti da Roberta Rossignoli in prima persona. Credo sia pensiero comune in noi, il desiderio di utilizzare la lingua italiana in una chiave evocativa. Come i greci usavano le gutturali per descrivere qualcosa che sfuggisse al controllo dell’uomo, anche la lingua italiana è ribollente di termini possenti e schioccanti. Proviamo ad usarli, a tramarli, così da sempre.

MC Quali sono i progetti futuri della band? So che ci saranno parecchie novità.

NEQUAM Il 23 dicembre è uscito lo split-cd con i Malvento dal titolo Ars Regalis, un bellissimo esperimento di fusione tra due band che hanno in comune la voglia di sperimentare… e a tal proposito vorrei ringraziare Zin e i Malvento così come Roberto Mura dell’etichetta Third I Rex, tutte persone molto in gamba con le quali è stato bello creare! Un lavoro a quattro mani incentrato sul tema del Mercurio Alchemico. Poi ci sarà, verso febbraio/marzo circa, un’altra sorpresa che però non posso proprio svelare, un altro esperimento che ci ha permesso di collaborare con un grande nome della musica oscura. E poi avremo i restanti mesi del 2019, dove saremo impegnati nella registrazione del disco nuovo. Insomma, ne vedrete e sentirete delle belle!

MC C’è un sogno, o forse è meglio dire un obiettivo che vi siete prefissi e che vorreste si realizzasse con la musica?

NEQUAM Il nostro unico sogno è sempre stato di poter fare al meglio quello che stiamo facendo ora. Speriamo di poter continuare così, con qualcuno disposto ad emozionarsi ascoltando la nostra musica. Sinceramente non chiediamo di meglio.

MC Grazie di essere stato con noi

NEQUAM Grazie a voi per lo spazio concessoci, un saluto e un abbraccio a tutti quelli che ci seguono.

IL 2018 DI METALEYES

Come sempre, negli ultimi giorni dicembre proviamo a fare un consuntivo su quello che è stato l’anno che sta per finire.

Il lavoro non è mancato e crediamo di aver soddisfatto chi ci segue proponendo in media quattro recensioni giornaliere, per un totale che al 31 dicembre 2018 supererà abbondantemente le 1500 unità; questo oltre alle retrospettive, il video del giorno, le interviste di Overthewall (programma radiofonico su Witch Web Radio con il quale collaboriamo segnalando le migliori uscite settimanali) e le diverse rubriche con le quali abbiamo provato ad ampliare l’offerta (I Dischi Fondamentali, Meteore, Demo di Culto).
Infine abbiamo cercato di dare visibilità agli eventi live aggiornando ogni settimana l’elenco delle locandine presenti in Home Page.
Per quest’anno abbiamo preferito che ogni collaboratore stilasse una sua classifica dei dieci migliori album recensiti dalla nostra webzine, in modo che ognuno in base alle proprie inclinazioni musicali possa cogliere degli spunti per andarsi ad ascoltare qualcosa di meritevole, magari sfuggito all’epoca della pubblicazione (cliccando su nome band/titolo c’è la possibilità di andarsi a rileggere la recensione).
Come sempre è bene chiarire che questo è più un gioco che non un qualcosa che abbia una pretesa di veridicità, tanto più che vi sono senz’altro diversi dischi usciti negli ultimi mesi del 2018 che, non essendo ancora stati recensiti, sono rimasti fuori dalle graduatorie nonostante il loro oggettivo valore (per quanto mi riguarda, per esempio, sia L’Incanto dello Zero de Il Segno Del Comando, sia Evangelium Nihil dei Comatose Vigil A.K. sarebbero probabilmente entrati nella top ten).
In ogni caso, buona musica nel corso di quest’anno (come in quelli passati, peraltro) ne è uscita in abbondanza: semplicemente, non bisogna dare retta alle cassandre che si aggirano in rete o ai disfattisti che durante i concerti stanno al bar a sparlare di tutto e di tutti: ci sono grandi gruppi e magnifici musicisti che attendono solo di essere scoperti, sia acquistando i loro lavori sia andandoli a supportare dal vivo.
La musica è una delle poche certezze che abbiamo nella vita, teniamolo sempre presente.

Stefano

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ALBERTO CENTENARI


1.WITHERFALL – A PRELUDE TO SORROW


2.CORROSION OF CONFORMITY – NO CROSS NO CROWN


3.BARREN EARTH – A COMPLEX OF CAGES

4.THE DEAD DAISIES – BURN IT DOWN

5.BEHEMOTH – I LOVED YOU AT YOUR DARKEST

6.BLOOD OF THE SUN – BLOOD’S THICKER THAN LOVE

7.MATERDEA – PYANETA

8. HEADS FOR THE DEAD – SERPENT’S CURSE

9.HOLY SHIRE – THE LEGENDARY SHEPHERDS OF THE FOREST

10.OCEANS OF SLUMBER – THE BANISHED HEART

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DAZAGTHOT


1.IMMORTAL – NORTHERN CHAOS GODS


2.AKROTERION – DECAY OF CIVILIZATION


3.DEMETRA SINE DIE – PAST GLACIAL REBOUND

4.VREID – LIFEHUNGER

5.HATE ETERNAL – UPON DESOLATE SANDS

6.DEICIDE – OVERTURES OF BLASPHEMY

7.SINSAENUM – REPULSION FOR HUMANITY

8.SIEGE OF POWER – WARNING BLAST

9.SICK OF IT ALL – WAKE THE SLEEPING DRAGON

10.OPERA OSCURA – DISINCANTO

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MASSIMO ARGO


1.RISE OF THE NORTHSTAR – THE LEGACY OF SHI


2.LEONOV – WAKE


3.INFECTION CODE – DISSENSO

4.LOU QUINSE – LO SABBAT

5.HELL OBELISCO – SWAMP WIZARD RISES

6.ZARDONIC – BECOME

7.ASTORVOLTAIRES – LA QUINTAESENCIA DE JÚPITER

8.SELVANS – FAUNALIA

9.DOPETHRONE – TRANSCANADIAN ANGER

10.KING DUDE – MUSIC TO MAKE WAR TO

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MASSIMO PAGLIARO


1.HAMFERÐ – TÁMSINS LIKAM


2.YOB – OUR RAW HEART


3.EVOKEN – HYPNAGOGIA

4.ULTHA – THE INEXTRICABLE WANDERING

5.MARE – EBONY TOWER

6.THOU – MAGUS

7.PANTHEIST – SEEKING INFINITY

8.IMMORTAL – NORTHERN CHAOS GODS

9.WITHERFALL – A PRELUDE TO SORROW

10.DESOLATION ANGELS – KING

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MICHELE MASSARI


1.IMMORTAL – NORTHERN CHAOS GODS


2.FUNERAL MIST – HEKATOMB


3.BLACK HOWLING – RETURN OF PRIMORDIAL STILLNESS

4.BEHEMOTH – I LOVED YOU AT YOUR DARKEST

5.VERATRUM – VISIONI

6.MOONREICH – FUGUE

7.MARE – EBONY TOWER

8.VREID – LIFEHUNGER

9.PUNGENT STENCH – SMUT KINGDOM

10.DEICIDE – OVERTURES OF BLASPHEMY

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STEFANO CAVANNA


1.CLOUDS – DOR


2.MOURNFUL CONGREGATION – THE INCUBUS OF KARMA


3.ATARAXIA – SYNCHRONICITY EMBRACED

4.VOID OF SILENCE – THE SKY OVER

5.EVOKEN – HYPNAGOGIA

6.IMBER LUMINIS – CONTRASTS

7.HAMFERÐ – TÁMSINS LIKAM

8.CARPE NOCTEM – VITRUN

9.EYE OF SOLITUDE – SLAVES TO SOLITUDE

10.AEONIAN SORROW – INTO THE ETERNITY A MOMENT WE ARE

NECRODEATH

Tutti i colori del buio: intervista ai Necrodeath

Di recente, abbiamo avuto la bella possibilità di scambiare quattro chiacchere con Peso, il drummer dei Necrodeath: un pezzo di Storia dell’heavy italiano. E ne sono venute cose molto interessanti.

Dire Necrodeath è dire storia del metal italiano, non solo black: volete ripercorrerla dagli inizi?

Rientrammo nel febbraio del 1984 dal concerto dei Venom (con Special guest i Metallica) e durante il tragitto decidemmo che anche noi dovevamo avere una band e fare tutto quel casino! Nacquero cosi i Ghostrider, con i quali registrammo un demo-tape. L’anno dopo iniziammo ad avere le idee più chiare su cosa volevamo comporre e cosa volevamo esprimere: decidemmo così di cambiare nome in Necrodeath, per mostrare tutta la nostra rabbia attraverso la musica estrema, prendendo spunto dalle ondate Black e Thrash che arrivavano dall’estero, e con il primo demo tape ufficiale The Shining Pentagram ricevemmo la prima recensione positiva su Rockerilla, l’unica testata nazionale che in quel tempo trattava il metal. All’estero fummo parzialmente stroncati, come i nostri colleghi italiani Bulldozer e Schizo, ma alla fine riuscimmo a imporre nel metal underground internazionale anche la nostra personalità.

Quale è la vostra formazione musicale e da quali ascolti provenite?

Tutti i componenti dei Necrodeath, sia i vecchi che quelli che hanno seguito poi la formazione negli anni, hanno tutti una formazione prevalentemente rock-metal, nessuno viene dal jazz o dal rap. Io personalmente nasco come fan degli AC-DC, degli Iron Maiden, dei Kiss e poi, piano piano, mi sono avvicinato a sonorità più veloci ed oscure, partendo dai Raven, dai Motorhead, per poi innamorarmi dei mitici Venom! Avere avuto Mantas nei nostri studi di Rapallo, qualche anno fa, a registrare con noi un singolo, è stato per me molto emozionante: mentre pranzavamo, gli ho detto che quel 4 febbraio del 1984, mentre andavo a vederli all’allora Palatenda di Milano, mi ha cambiato la vita e lui mi ha risposto che la stessa cosa l’ha provata andando da ragazzo a vedere i Judas Priest. Comunque, ritornando alla tua domanda, sì: siamo tutti dei rockettari incalliti…

L’oscurità in musica: quali sono, secondo voi, i capisaldi assolutamente da avere del dark sound?

Beh, innanzitutto l’oscurità nella musica la trovi nelle atmosfere, ma anche nelle note che vai a utilizzare: le dissonanze, gli accordi minori, ma soprattutto per quanto ci riguarda il tritono, sono chiaramente le armi migliori che puoi utilizzare se vuoi proporre un sound del genere; ma i Necrodeath non sono fatti solo di queste prerogative, perché anche la velocità dei riff in contropennata è sempre stata una nostra caratteristica. Chi ha fatto partire queste idee, magari senza eccedere nella velocità – ma, da lì in poi, una volta imparata la lezione, si sarebbe iniziato a correre – sono i Black Sabbath, di sicuro i capisaldi del genere Heavy Metal in generale.

Cosa pensate della scena black italiana di oggi (ligure, italiana e mondiale)?

Beh, non seguo più molto la scena, se devo essere sincero; le mie preferenze rimangono ancorate ai gruppi degli anni ’80, in particolare del thrash, come Slayer, Exodus, Destruction, Voivod, Kreator, Celtic Frost, Possessed, senza dimenticare comunque i già citati Venom e i primi Metallica. A livello ligure ti posso citare però i Damnation Gallery di Chiavari, che hanno sicuramente sonorità molto scure e, invece, il ritorno degli amici Hate di Genova, per quanto riguarda un sound piu hard rock / metal.

Quali ricordi della Brignole anni Ottanta portate con voi?

Ecco, proprio i ricordi che ho li condivido con gli Hate: allora loro erano i caposcuola del metal e con loro abbiamo appunto debuttato nel 1986 al Teatro Verdi di Sestri Ponente, facendo ben 700 paganti, cose impensabili oggigiorno. Comunque, la cosa che ricordo più volentieri era proprio il rituale del sabato pomeriggio, dove ci si ritrovava per acquistare il disco che sapevi era uscito: vi era una cultura musicale molto spessa e ognuno sapeva bene di cosa parlare, se ci si inoltrava in un discorso. Purtroppo la stessa cultura musicale di allora non puoi paragonarla, oggi, alle nuove generazioni, che, nonostante abbiano la potenzialità di sapere tutto con un clic (cosa per noi allora impossibile, ma era forse la ricerca la nostra forze) alla fine non sanno un cazzo, e i risultati si vedono…

The Dark Side of the Moon: che cosa rappresenta per voi?

Un grande disco: insieme a Pier (Gonella) dei Necrodeath abbiamo progettato, tempo fa, una rivisitazione, ribattezzata The Black Side of the Moon, la parte oscura di ognuno di noi. Dovremmo esporla al sole di più sinceramente, invece di nasconderla sempre di fronte a tutti e tutto

Quali sono i vostri progetti futuri?

Attualmente finire le date del tour di The Age of Dead Christ, il nostro album uscito quest’anno, e poi a febbraio daremo una simpatica news che svelerà i nostri planning.

Grazie e a presto!

Grazie a te e per chiunque volesse seguirci il nostro sito è: www.necrodeath.net.

Un mito di Francia: i Massacra dal thrash al death

I transalpini Massacra, per quanto grandi e fondamentali, non vengono mai adeguatamente ricordati dalla storiografia metal. Eppure, si tratta di una band storica e di livello assoluto. Sono stati i primi in Francia e tra i primissimi in Europa a traghettare il thrash nella direzione del death metal, insieme ai più longevi connazionali Loudblast.

Il gruppo si costituì nel 1986 a Franconville, nell’Ile-de-France, attorno al leader Fred Duval (voce e chitarra, dopo un inizio come batterista), con Pascal Jorgensen (basso), Jean-Marc Tristani (chitarra) e Chris Palengat (batteria), tutti appassionatissimi di heavy classico e di speed metal. Tra il 1987 e il 1989, i Massacra registrarono tre demo tapes e nel 1990, per la tedesca Shark, apparve finalmente il disco di debutto, lo straordinario e pionieristico Final Holocaust, dal titolo del loro secondo nastro, inciso nel 1988. Fu un esordio davvero fenomenale, che rileggeva in termini personali e originali la lezione europea di Protector, Kreator, Coroner, Pestilence, Merciless, Cancer e Messiah, guardando anche a quanto giungeva allora dagli USA (Possessed, Sadus, Morbid Angel, Master, Morbid Saint) e dal Sud America (Sepultura).
La fanfara annuncia Apocalyptic Warriors un brano essenziale (tratto dal demo culto Nearer from Death), che racchiude nei suoi cinque minuti di puro orgasmo sonoro, quanto di meglio abbia potuto offrire – in quegli anni – il combo francese. Un Death Metal veloce, impreziosito dai classici mid-tempo thrash che, nei primi anni novanta, rappresentavano il core di un qualsiasi brano death. Si arrivava dal thrash ottantiano, e nessuno poteva (e riusciva, anche volendo) esimersi dal reinterpretare il genere di Destruction, Kreator, e Sodom, qualora avesse voluto approcciarsi all’emergente Death Metal (almeno per quanto riguarda l’Europa). Accelerazioni improvvise (ma mai casuali) calate in una caldaia di thrash ribollente, in una fusione perfetta, tra due generi simili per tanti versi, in un connubio matrimoniale quasi perfetto. Suoni sporchi di fango e grezzi come il marmo ancora da scolpire si, come nel secondo brano Researchers of Tortures, fondamento di tale amalgama, ma lindi e candidi nella loro purezza primeva . Certo, la corsa perdifiato di Sentenced For Life (anch’esso dal demo del 1989), faceva già desumere che i Massacra fossero più propensi a ritmi veloci ed accelerazioni , in una ricerca della velocità più tipica dei un Death Metal emergente, che del consolidato thrash europeo – siamo nel 1990 – già allora realtà imprescindibile. Ma lo spedito drumming di Chris Palengat non è mai violenza fine a se stessa; come in War Of Attrition (uno dei brani più famosi del combo francese), che risulta essere un meraviglioso ed ordinato cagliostrico miscuglio di mid-tempo thrash e scale Death. La sapiente bravura del drummer emerge in tutto il suo splendore nel brano successivo – Trained to Kill – vera ovazione per i tedeschi Kreator (ad onor del vero il compianto Fred “Death” Duval canta proprio “alla Petrozza” impreziosendo ulteriormente il brano).
Rivista ma non troppo, la famosa title track del citato “cult” del 1989. Nearer from death è un’ulteriore conferma di quanto i Nostri sapessero il fatto loro. Un capolavoro assoluto che ha ispirato centinaia di band dal 1990 ad oggi. Insegnare si sa, diventa facile solo quando si è imparato bene. E i Massacra hanno saputo trarre dall’esperienza di band primeve tutto l’essenziale, per trasmettere il loro sound originale (per quegli anni) e soprattutto sono riusciti a debuttare con un album che non conosce down ma solo up; mai cadute, in un’iperbole di favolosi brani, come nei successivi – meno famosi ma non per questo meno affascinanti – Final Holocaust ed Eternal Hate, che insieme alla finale The Day Of Massacra (auto celebrazione ed elogio a violenza e distruzione) ci accompagnano alla fine di un album che era già storia nel 1991, e che ora è oramai leggenda.

Lungi dal cullarsi sugli allori e incuranti della crisi che iniziava ad innescarsi nel movimento thrash, i Massacra proseguirono lungo la propria strada, continuando a perfezionare il loro perfetto mix di thrash e di death primevo, con i successivi Enjoy the Violence (1991) e Signs of the Decline (1992), altri due dischi stupendi, creativi e violenti, tecnici ed ottimamente suonati, sorretti da una scrittura musicale sempre più matura, con testi solo in apparenza banali e capacità non comuni.
Ripetere il successo di un debutto/capolavoro è per pochi – se non per quasi pochissimi – ed in effetti, Enjoy The Violence – uscito l’anno successivo di Final Holocaust, nel 1991 – è un album che perde un po’ del primitivo pathos che il combo aveva trasmesso alle moltitudini, donandoci però in cambio un album maturo, adulto, completo sotto ogni punto di vista. Una struttura studiata nei minimi dettagli, senza mai sbavature o eccessive cadute, che consacra i francesi a veri Prime Mover del genere, elargendo sapienti “consigli” a cui hanno attinto centinaia di band, nel mondo di allora, sino ai giorni nostri. E così Enjoy The Violence scivola via gradevole (grazie anche ad una produzione di gran lunga superiore a quella del debutto) come sabbia tra le dita, ma non senza lasciarci granelli di erudita musica, da cui raccogliere l’essenziale. Brani come la title-track o Gods of Hate e ancora Atrocious Crime ci colpiscono come un pugno nello sterno, facendoci barcollare, ma non arretrare, coraggiosamente spavaldi, “petto in fuori”, pronti ad accogliere nuove percosse. L’incontro con l’Obituariana Full Of Hatred, rinnova la nostra consapevolezza della capacità dei Massacra, di sapere attingere dal passato, rieditare e rinnovare, interpretando soggettivamente quanto il “mercato” di allora proponeva. Brano splendido, lento quanto basta, dopo tanta furia sonora, che però non tarda ad arrivare, nella cortissima Seas Of Blood, semplice nella sua struttura di alternanze mid and up, che sciorina, in soli due minuti (!) una serie impressionante di cambi, in un lasco di tempo davvero breve, mostrando bravura e capacità uniche, come nell’ultima Agonizing World, il loro pezzo più floridiano (pare uscito da un album dei Morbid Angel di allora).
Anche nei brani un po’ più minimalisti ed essenziali dell’album quali Near Death Experience e Sublime Extermination, i Massacra sono capaci di trasmettere all’ascoltatore un’energia unica, che ci assorbe totalmente, proiettandoci con la mente ai primi novanta quando, ciò che oggi appare semplice e scontato, allora era novità, coraggiosa sperimentazione e – soprattutto – difficile creazione, poiché, quando sei un Prime Mover, non puoi certo copiare, quello che nessuno, prima di te, ha mai realizzato.

Signs Of The Decline, forse è stato solo un album sfortunato, o forse (visto il titolo) si è un po’ portato sfortuna da solo. Fatto sta che nel 1992, i Massacra avevano – purtroppo – già perso l’appeal degli esordi; molto più di quanto ci si aspettasse.
Intendiamoci, l’album è il risultato di finimenti artistici, dovuti principalmente all’improvement degli strumentisti. Qui, il frontman Tristani da il meglio di se stesso con riff sapienti, potenti e curati. Il nuovo drummer Limmer è una vera macchina da guerra e le parti vocali di Jorgensen – oramai totalmente growl – sono impressionanti. Il Death oramai la fa padrone, dimenticando quasi totalmente le fasi thrash, che tanto hanno caratterizzato gli esordi. Brani come Evidence of Abominations o Mortify Their Flesh sono veri calci in bocca, traumatici nella potenza e scioccanti nella velocità; ma quando ti accorgi che Excruciating Commands risulta molto simile alla precedente Traumatic Paralyzed Mind, forse realizzi che qualcosa è cambiato. Quando hai la consapevolezza che stai ascoltando qualcosa di bello ma di già sentito, alla fine, un ottimo album – quale è Signs Of The Decline – lascia un po’ di amaro in bocca; e non basta l’ultima (perfetta) track – Full Frontal Assault – a farti cambiare opinione. Un brano Morbid Angel style, direttamente (forse troppo) da Blessed Are The Sick, ma strutturata nel corpo del mid-tempo centrale, come un brano dei Pantera, anzi, forse, troppo Pantera, quasi un preludio al definitivo (e triste) cambiamento del 1994.

Dopo tre album, purtroppo, l’etichetta non rinnovò loro il contratto e i Massacra approdarono così in casa Vertigo, distribuita dalla Phonogram. Quando, dopo un anno di pausa, nel 1994, uscì il nuovo disco in studio, intitolato Sick, si intuì subito che molta magia si era persa: di fronte a nuove mode e tendenze musicali, con il nuovo batterista Matthias Limmer, i Massacra provarono senza successo a cercare rinnovate ed ulteriori direzioni sonore, guardando da un lato ai Metallica ed ai Demolition Hammer, dall’altro al nascente groove metal. Intendiamoci: Sick non era certo spregevole, anzi, però non era sincero nel suo cambiamento e in molti, tra fans e critici, provarono nostalgia per i primi tre capolavori del combo francese. La nuova strada intrapresa dai Massacra fu tuttavia confermata, nel 1995, da Humanize Human, pubblicato dall’inglese Rough Trade con un nuovo avvicendamento alle percussioni (ora dietro le pelli sedeva Bjorn Crugger) ed una tendenza al groove ancor più marcata e insistita. Il riscontro, peraltro, fu minimo. Intanto Fred Duval iniziò a avere gravi problemi di salute e, quando un brutto male se lo portò via – il 6 giugno 1997, all’età di soli ventinove anni –, il gruppo si sciolse. Alcuni membri dei Massacra confluirono nel progetto industrial metal Zero Tolerance, i quali realizzarono per la Active Records un disco, passato sotto silenzio. In poco più di dieci anni – come una candela che brucia da ambo le parti – tutto era finito ed uno dei più grandi gruppi francesi di sempre si era infine consegnato alla storia. Postume sono apparse, in seguito, le due compilation Apocalyptic Warriors Part 1 (2002) e Day of the Massacra (2013). I primi tre indimenticabili dischi della band, nel 2014, sono stati finalmente ristampati dalla Century Media ed ancora risplendono in tutta la loro luce. Vi è non poca nostalgia nelle parole di chi scrive, anche per l’irripetibile stagione di cui i Massacra sono stati alfieri e protagonisti di assoluto primo piano a livello internazionale.

(a cura di Dazagthot e Michele Massari)

Australia: alla scoperta musicale di un’isola

Il rock australiano è stato e rimane un caso a sé stante nel quadro musicale internazionale.

Se da una parte è nato, anche e soprattutto, importando quanto si andava facendo nel mondo anglofono, per un altro verso, ciò ha messo capo molto spesso ad una attenta e personale opera di rielaborazione e di trasformazione artistica di codici e veicoli espressivi, nati altrove e rimodellati in maniera creativa e originale.
Va altresì detto che numerosi solisti o gruppi aussie hanno dovuto prima o poi, per potere emergere e farsi strada, attraverso platee più vaste, emigrare, per ovvie ragioni principalmente nella Gran Bretagna (qualcuno pure in America). A Canterbury, sul finire degli anni Sessanta, finì Daevid Allen, fondatore come noto dei Gong, solo per fare qui un probante ed illustre esempio.

Quando si parla di Australia, giustamente, i primi nomi a venire in mente sono quelli dei Bee Gees e degli AC/DC. Tuttavia, anche di altri si deve parlare. Gli anni Settanta hanno visto nascere i Jet (fra glam rock e AOR), gli hard-doomsters Buffalo (i Black Sabbath australiani), i Rose Tattoo (emuli di Angus Young e compagni, attivi anche in Inghilterra, all’inizio con il nome di Tatts), la Little River Band (che nell’arco della sua sterminata discografia – ben 28 titoli! – ha saputo passare dal pop-soft rock più di maniera ad un ottimo AOR pomp sulla scia di Styx, Yes e Foreigner), i Cold Chisel (con nove album di r ‘n’ b in carniere tra il 1974 e il 1989, da Adelaide).
In realtà, fin dagli anni Sessanta, il rock è stato presente in Australia. Il beat è stato importato dagli Easybeats e dai Master’s Apprentices. Grande prog è quindi venuto, nella decade successiva, con i romantici Aleph (1977: tra Yes e Starcastle, con belle melodie, americaneggianti), fusion-progsters quali Sebastian Hardie e Windchase (tre grandi dischi, tra il 1975 e il 1979, fra Camel e Santana), gli Spectrum (passati dal singolare country psichedelico-avanguardistico degli esordi al progressive con Moog della maturità), i Galadriel (un solo e raro vinile, nel 1971, di psych-blues leggero), gli Headband (anche loro del 1971 ed analoghi a tanti gruppi West Coast), i Rainbow Theatre (molto ridondanti, quasi musical, per via degli eccessi di archi e fiati), i Bakery (1971: jazz rock, difficile da reperire), i Chetarca (più orientati sul rock & roll, con momenti anche alla Tom Jones), l’unico long playing del polistrumentista Chris Neal (1974: un bel prog classicheggiante e tastieristico, alla Mike Oldfield, con drum machine), i Mackenzie Theory (due interessanti lavori di jazz rock molto sinfonico tra il 1973 e il 1974, entrambi per la Mushroom, con una viola elettrica impegnata a citare John Cale dei Velvet Underground) ed i Kahvas Jute del grande Bob Daisley – destinato alla fama con Ozzy Osbourne, Gary Moore, Uriah Heep e Rainbow – sospesi tra l’eredità dei Black Sabbath e quella degli Atomic Rooster, riscritta in una chiave più underground: per loro un solo album, Wide Open, uscito per la Infinity nel 1971, con intriganti frangenti hard-blues e proto-fusion.
Fondamentale, in Australia, anche la scena elettronica. Gruppo di punta sono stati i Cybotron, nati nel 1975, per iniziativa di Steve Maxwell Von Braund. I primi due album erano ancora acerbi, nella loro un po’ ingenua e derivativa psichedelia (Cybotron del 1976 e Colossus del 1978). Dopo il live Saturday Night (1979), il gruppo realizzò il proprio capolavoro con il penultimo disco, Implosion, letteralmente dominato da un coinvolgente space rock elettronico, in cui gli echi cosmici di matrice teutonico-kraut rock si combinavano con l’amore per i paesaggi sonori delineati da Klaus Schulze, primi Ash Ra Tempel e Tangerine Dream. Ancora un disco, il sintetico e new wave oriented Abbey Moor (1981) e quindi un immeritato scioglimento. L’eredità dei Cybotron è stata raccolta, in tempi a noi più recenti, dai Brainstorm (da non confondersi con quelli tedeschi degli anni Settanta): gruppo di space rock elettronico innamorato dell’astronomia e della sua storia (Keplero in particolare). Tra i loro non pochi lavori, il migliore resta forse il terzo Tales of the Future (1997). I Brainstorm inoltre hanno contribuito al tributo collettivo agli Hawkwind di Daze of the Underground (2003).
Tuttavia, il più celebre ed importante gruppo di prog rock australiano rimangono gli Aragon, i quali incisero per la piccola Ugum – volenterosa e piccola label inglese, responsabile anche di ristampe dei Twelfth Night – il loro capolavoro, nel 1988: Don’t Bring the Rain, intarsiato di belle atmosfere marillioniane. Più moderno e neo-prog il sound dei tre lavori successivi, pubblicati dalla purtroppo disciolta olandese SI Music – Rocking Horse (1990), il mini Mouse (1991) e The Meeting (1992) – e il malinconico epitaffio The Angel’s Tear, registrato anch’esso nel 1990 ed edito, in seguito, per la Labra d’Or.

Dal 1974 al 1978 furono attivi a Sidney gli storici Radio Birdman, gli Stooges d’Australia: due LP per la Sire e poi sporadiche riformazioni da parte di questo gruppo seminale, che ha lasciato segni e profondi e indelebili nel punk australiano (gli X e i Saints, anche se questi secondi si trasferirono in Inghilterra e punk lo furono davvero per poco) e nel post-punk. Autentici maestri in questo secondo filone furono, sorti dalle ceneri dei Boys Next Door, i Birthday Party di Nick Cave. Trasferitosi in Gran Bretagna anche lui, il cantautore australiano ha in seguito avviato, si sa, una notevole carriera mainstream, prima di fondare pochi anni fa i Grinderman, esponenti del rock alternativo di marca aussie sulla scorta dei connazionali Died Pretty e Go Betweens. Indimenticabili, citati anche nella enciclopedia di Dennis Meyer, gli storici Midnight Oil, vero e proprio trait-d’union fra UK punk e US hard. Una band longeva ed importante, da riascoltare con la dovuta attenzione.
Fenomenali, in linea con i Birthday Party, sono stati poi i Crime and the City Solution, formidabili nel proporre un post-punk sperimentale ed intriso di dark, dissonante e debitore tanto verso Captain Beefheart quanto nei riguardi dei Père Ubu. Più morbide, ammalianti e dai risvolti talvolta cosmici, le atmosfere sognanti di grandi band della Australia anni ’80, come Church, Stems e Scientist. Nel caso di questi ultimi troviamo ancora una volta l’eredità dell’Iggy Pop meno addomesticato. Quanto ai Church, rispetto ai primi lavori risulta forse preferibile il più maturo e completo Forget Yourself (2003), quasi progressivo nei suoi rimandi a Robert Fripp, Adrian Belew, U2 e Eno, disco di space-dark atmosferico e moderatamente sintetico, con fascinosi pad ambientali.
Se Hoodoo Gurus ed Hard Ons sono stati in quel decennio l’equivalente del Paisley Underground, ancora meglio hanno fatto i Dead Can Dance, di Lisa Gerrard e Brendan Perry, tra gothic dark stile prima Siouxie-Cocteau Twins e tastiere ambient, dai tocchi medievaleggianti e rinascimentali, non senza opportune ed azzeccatissime incursioni in territori afro (prima di perdersi nella world music, il cui successo ha veramente inghiottito fior fiore di artisti altrimenti preparati).

Molto popolari nel corso degli anni Ottanta sono stati in Australia gli INXS (nel periodo 1980-1984 synth-rock alla Ultravox, successivamente hard pop di spessore), i gradevolissimi Icehouse e Flash and the Pan (ambedue padrini del techno-pop nell’emisfero australe), i Men at Work (in bilico tra new wave e AOR alla Cristopher Cross) e i Real Life dell’indimenticato singolo Send Me an Angel, con uno dei giri di sintetizzatore più belli e famosi della storia.
Oggi, la scena metal e rock australiana è più viva che mai, in linea con la sua grande tradizione. In ambito sleazy-street, abbiamo i Dead Daisies (che in Australia fanno base), i Wolfmother (alfieri del ritorno al più grintoso e sanguigno hard settantiano), i meravigliosi Night Terrors (tra i migliori esponenti odierni dello space rock hawkwindiano: futuristici, siderali ed oscuri), Red Shore e Thy Art Is Murder (campioni del death-core), i Tame Impala (in vero alquanto sopravvalutati ed assai commerciali nel settore del pop neo-psichedelico, di Perth), i grandiosi Vanishing Point (tra AOR e prog metal sinfonico), i Mournful Congregation (signori del funeral doom), i Foetus (i Nine Inch Nails australiani, sorti nel lontano 1981), i Dirty Three (post rock strumentale, da Melbourne) ed i Pirate, realmente entusiasmanti, nel loro inimitabile mix di Rush e Voivod, King Crimson e primi Pink Floyd.
Particolarissimo il caso dei validi Mortification, una band cristiana, che si muove abilmente fra le scuole thrash e death statunitensi, il groove metal dei Pantera e il grindcore dei Napalm Death. Sono nati nel 1987, vicino a Victoria, e tuttora attivi. Altri nomi storici nel dominio del thrash – e a livelli di statura mondiale – sono stati i pionieristici Armoured Angel, Mortal Sin ed Hobbs Angels of Death. A loro deve molto l’ottima scena thrash australiana di oggi: i fenomenali (anche sul piano del songwriting) e tecnicissimi Meshiaak, gli speed-metallers Harlott ed il trittico di band scoperte da Punishment 18 Records, ossia Envenomed, In Malice’s Wake e Hidden Intent, testimonianza di una grande e promettente vitalità espressiva. Si sono purtroppo sciolti – ma hanno fatto la storia – i fantastici The Berzerker, in assoluto tra gli inventori del cyber-grind e dello speed-core industriale, mentre restano sulla breccia invece i Destroyer 666, perfetti nella loro capacità di sapere incrociare il black con il thrash, i Sodom con gli Aura Noir, i Destruction con gli Slayer. Grande black, invece, con gli estremamente prolifici Drowning the Light: occulti, lovecraftiani e vampireschi, certo non distanti dalle atmosfere dei connazionali Striborg e degli americani Xasthur. Membri dei Drowning the Light hanno inoltre operato pure sotto altre single, tra cui quella dei Black Funeral.

METEORE: ASTAROTH

Tra le più oscure entità musicali di una Polonia appena uscita dagli anni della Guerra fredda: quattro musicisti ottimamente preparati che hanno lasciato un solo leggendario disco

Formatisi nel 1988, a Bielsko-Biala, i polacchi Astharoth si fecero notare ai festival Metal Battle e Metalmania, l’anno seguente.

Nel 1990, uscì il loro unico disco: un concentrato di thrash, sia tecnico sia violento, che non aveva veramente nulla da invidiare ai più quotati colleghi europei e americani, con liriche interessanti dedicate a sogni ed incubi degli esseri umani, differenti pertanto da quanto si proponeva, allora, a livello testuale. Gloomy Experiments – oggi finalmente ristampato, dalla Metal Mind, in tiratura limitata, a duemila copie (l’originale era andato presto esaurito e si era trasformato in una vera e propria chicca, per collezionisti) – rimase purtroppo una meteora. Il fatto di provenire geograficamente da un paese arretrato, che iniziava solo allora a rialzarsi, e la crisi che dal 1991 finì per investire tutto il movimento thrash a livello mondiale fecero cadere gli Astharoth nell’oblio. Non bastarono quattro demo, passati di fatto del tutto inosservati. La band si divise nel 1994: altri suoni andavano ormai per la maggiore. Ma fu una fine ingiusta e non meritata. Da rivalutare senza remore o dubbi.

Track list
1- Gloomy Experiments
2- Speed of Light
3- Obsession
4- Tool of Crime
5- Amnesia
6- Mirror’s World
7- Good Night My Dear
8- Insomnia
9- My Difference

Line up
Jarek Tatarek – Vocals, Guitars
Dorota Homme – Guitars
Witold Wirth – Bass
Dariusz Malysiak – Drums

Rock e Africa: storia e protagonisti di un incontro

Quando si pensa all’incontro fra la tradizione occidentale della musica rock e la cultura africana, la mente va, non a torto, a dischi come Graceland (1986) di Paul Simon, oppure al successo avuto dal giamaicano Linton Kwesi Johnson. Altri ancora, scavando più indietro nel tempo, fanno magari il nome degli Osibisa, che nella prima metà degli anni Settanta proposero un blando mix di atmosfere progressive anglosassoni e melodie subsahariane, in svariati e leggeri dischi, in taluni casi anche di un certo successo. Un certo riscontro commerciale ha avuto pure la serie Realworld inaugurata negli anni Ottanta da Peter Gabriel, che ha lanciato la moda etnica della world music. Ma il vero nocciolo della questione riposa altrove. Proviamo a indagare e a vedere la cosa più in dettaglio.

Il primo, serio e felice tentativo di fare incontrare rock anglo-americano e ritmi africani venne fatto dal grande Dr. John. Nel suo terzo album, Remedies (1970), l’intera seconda facciata era occupata da Angola, una suite di venti minuti che costituiva un interessante e meraviglioso ponte fra il blues e le ritmiche di matrice afro. Una composizione davvero pionieristica, destinata a far registrare con il tempo notevoli sviluppi a più latitudini.
In quello stesso, anno uscì anche lo stupendo e coraggioso LP di debutto di Peter Green. Il grande chitarrista aveva appena lasciato i Fleetwood Mac, dopo cinque storici lavori di British Blues. Prima di scomparire dalle scene, per quasi un decennio – sarebbe ritornato a calcare i palchi della musica, grazie all’aiuto di Peter Bardens (tastierista dei primi Camel), solo nel 1979, con il santaniano In the Skies – pubblicò nel 1970 l’opera magna End of the Game: un album difficile e complesso, all’epoca poco capito, in ragione appunto della sua estrema innovatività, ma divenuto con il tempo un vero e proprio cult-album. Molto sperimentale ed allora con poche pietre di paragone, End of the Game – con, in copertina, la famosa tigre della savana – metteva in scena uno riuscito, eterogeneo connubio di retaggio hard-blues inglese (comunque, a quell’epoca, neonato) e di costruzioni musicali dalla ascendenza africana.
Altro personaggio di gran spicco per il nostro discorso fu Ginger Baker. L’ex-batterista dei Cream – che aveva suonato, anche, con i Blues Incorporated di Alexis Korner (1962), gli Organisation di Graham Bond (1963-1966) ed i Blind Fate di Eric Clapton e Steve Winwood (1969) – già con i suoi Airforce – due album nel 1970, entrambi doppi: dal vivo il primo ed in studio il secondo – unì jazz-rock e sonorità afro. Non certo casualmente, pure lui veniva dal blues, che fu il trait-d’union per la convergenza di rock europeo ed Africa. La matrice storica e culturale era, del resto, la medesima. Il 1971 vide Baker trasferirsi in Nigeria, dove comprò un appezzamento di terra a Akeja. Vi inaugurò, nel gennaio di solo due anni dopo, uno studio di registrazione, pensato per farvi registrare musicisti locali, valorizzandone e creatività e messaggio, e si interessò, sempre di più, alla musica africana, specie sul piano delle ricerche ritmiche.

Quello di Ginger Baker, beninteso, non fu un amore estemporaneo e fuggevole. Nel 1971, pubblicò, con il nigeriano Fela Kuti, un famoso Live e, nel 1972, uscì il suo Stratavarius, lavoro percussivo, impregnato di aromi africani, scambiato dalla critica di allora per un mero esercizio di stile. Ancora nel 1978, il grande batterista britannico tenne un celebre concerto a Berlino con gli African Friends, uscito poi pochi anni fa, per la Voiceprint. Baker portò altresì con sé tracce di questo background in occasione di Album, il capolavoro dei Public Image Limited di John Lydon, che apparve – trainato dal singolo Rise – nel 1986, per la Virgin: nel disco – oltre a Steve Vai alla chitarra, Tony Williams alla seconda batteria, Sakamoto alle tastiere e Bill Laswell al basso – erano presenti inoltre Malachi Favours dell’Art Ensemble of Chicago alle percussioni e Ravi Shankar, al violino. Nel 1987, quindi solo un anno dopo, Baker si esibì in tournée con i suoi African Force, che portarono ancora avanti il discorso legato all’afro-rock, calandolo nel contesto musicale della nuova decade.

Quando Ginger Baker si esibiva con i suoi colleghi africani, erano già apparsi dischi come Ambient 3: Day of Radiance di Laraaji (1981) – caratterizzato in prevalenza da pattern ritmici di dulcimer e zither, con un’impronta fortemente new age – My Life in the Bush of Ghosts (1981) di David Byrne, entrambi prodotti dal vulcanico Brian Eno, di fatto l’invenzione della world music. In questi lavori, tutto sommato, poca Africa: o meglio, un’Africa che perdeva la sua orgogliosa identità – predicata, già durante gli anni Sessanta, da tanti grandi del free jazz, a partire da John Coltrane – proprio nel suo incontro con le altre tradizioni musicali, provenienti da ogni parte del mondo. Stesso discorso si può fare pure per i diversi lavori realizzati da Jon Hassell, trombettista peraltro geniale, ancora con Eno in cabina di regia. Quest’ultimo produsse anche gli artisti ghanesi Edifanko, facendoli in tale maniera conoscere in Occidente. Un’opportunità non indifferente.

Nel 1982, vide la luce il capolavoro IV quarto capitolo della carriera solista di Peter Gabriel, dopo l’uscita dai Genesis, nel 1975. Un disco epocale e strepitoso, registrato interamente in digitale, con un massiccio uso di campionamenti (grazie al famoso sintetizzatore Fairlight CMI). La canzone The Rhythm of the Heat venne costruita attraverso le più moderne tecnologie elettroniche, sulla base dell’esperienza di Carl Gustav Jung, mentre osservava un gruppo di percussionisti africani. Eccolo, dunque, l’incontro cruciale di rock (in questo caso freddo e tagliente) e ritmiche afro (calde, rituali, evocative e dense di suggestione ipnotica). La combinazione gabrieliana di freddezza digitale, data dai synth, ed aromi percussivi avvolgenti fece letteralmente sensazione. In Italia, pure scuola: Ivano Fossati ne trasse gran frutto per l’incipit della sua indimenticabile Una notte in Italia, dal gioiello I 700 giorni (CBS, 1986).

Altro grande musicista inglese che si innamorò, musicalmente e non solo, dell’Africa fu l’ex Police – e Curved Air, almeno una volta lo si rammenti – Stewart Copeland. Intanto, egli vi visse – per la precisione in medio-oriente, a Beirut – al seguito della famiglia (per esigenze di lavoro del padre), studiandovi e suonando jazz. Dopo lo scioglimento dei Police, Copeland compose la colonna sonora di Rusty il selvaggio (1983, per Francis Ford Coppola), collaborò quindi con Stan Ridgway dei Wall of Voodoo e con Stanley Clarke, ma soprattutto incise nel 1985 The Rhythmatist, perfetto punto di incrocio fra la strada aperta da Peter Green e Ginger Baker nei primissimi ’70 e gli apporti forniti da Gabriel nel decennio successivo. Un disco formidabile e innovativo, che riscriveva e trasformava in chiave rock la tradizione musicale di area africana: un vero punto di approdo, a quindici anni dalle prime ricerche compiute negli Stati Uniti da Dr. John.
A metà degli anni ’80, rock e Africa dialogano ormai in maniera pressoché regolare. Nel film OC & Stiggs di Robert Altman (1985, da noi Non giocate con il cactus), divertente e grottesco come nello stile del regista, viene filmato un concerto eseguito allora negli USA da King Sunny Ade: piacevole intrusione di ritmiche africane nell’altrimenti monotona vita americana di provincia.

Per Alice

METEORE: ABHORER

Da Singapore, una delle band culto che più ha influenzato gran parte della scena Black Death dell’Estremo Oriente. Un solo album all’attivo, nel lontano 1996, ma accessibili oggi, grazie anche a diverse produzioni postume.

Singapore certo non è la Scandinavia o gli Stati Uniti e neanche la Germania o il Regno Unito, e nemmeno appartiene alla cosiddetta Fascia Estrema Mediterranea, ma annovera comunque, nella sua storia musicale, insieme al Giappone, alcune tra le band – in ambito Death e Black – più “influencer” della scena mondiale.

Sicuramente non ricca quanto le succitate storiche terre natie del genere estremo, ci ha comunque “donato” band del calibro di Mutation, Hellghast (in ambito Death Metal), Demisor, Cardiac Necropsy e Vrykolakas (in ambito Brutal Death) Impiety, Nuctemeron e soprattutto Abhorer (in ambito Black Thrash).
Nati nel lontano 1987 come Tombcrusher, cambiarono nome solo l’anno successivo, divenendo appunto Abhorer. Con questo monicker uscirono con il demo Rumpus of the undead; cinque occulte tracce di Black Death/Thrash di stampo abbastanza europeo.
Ma il vero successo venne con l’uscita dello split album – oramai di culto – con i giapponesi Necrophile, partorito dalla altrettanto famosa Decapitated Records (l’autrice – per capirci – di Into the Drape dei Mortuary Drape e Passage To Arcturo dei Rotting Christ).
Dopo però un misterioso silenzio di ben tre anni escono con un ep ,Upheaval of Blasphemy, di due pezzi, la cui cover (un demonio che copula con una donna sopra un pentacolo) letteralmente, li estromette dalla scena locale; il governo di Singapore non permetterà mai più loro di esibirsi dal vivo in terra natia, etichettandoli come adoratori di Satana e condannandoli al Fuoco Eterno (che era poi quello che i quattro ragazzacci desideravano…).
Quindi, per niente scoraggiati, nel 1996 fanno uscire Zygotical Sabbatory Anabapt per l’olandese
Shivadarshana Records (Impiety, Liar Of Golgotha, Order From Chaos), che rimarrà purtroppo l’unico vero loro full-length. Quasi 35 minuti di puro Black Death Thrash senza compromessi, furia cieca, grezza e sporca fino al midollo.
Dopo più nulla (si sciolsero nel 1997), se non una serie di split postumi e compilation, più o meno autorizzate dalla band stessa, tra cui una molto discussa Unholy Blasphemer, uscita per Xtreem, di cui in realtà la band non ne sapeva assolutamente nulla. La label pare sia stata ingannata da un presunto ex componente della band che voleva spillare qualche dollaro…

Discography:
Rumpus of the Undead – Demo – 1989
Deride the Remedied / Rumpus of the Undead – Split – 1991
Upheaval of Blasphemy – EP – 1994
Zygotical Sabbatory Anabapt – Full-length – 1996
Upheaval of Blasphemy / Dissociated Modernity – Split – 1997
Zygotical Ecstacy- Split – 2013
Cenotaphical Tri-Memoriumyths – Compilation 2014
Aseance Profanus Duoblation – Split – 2017
Oblation II: Abyssic Demonolatries – Compilation – 2017

Line-up
Exorcist – Guitars
Crucifer – Vocals
Imprecator – Bass
Dagoth – Drums

La New Wave of Finnish Heavy Metal

Dalla nostra retrospettiva sulla storia culturale e musicale della Finlandia moderna, volta per lo più a presentare una scena notevole ed importante, sono rimasti intenzionalmente fuori alcuni gruppi, di valore, lasciati da parte solo e appunto per trattarli in una sede apposita e appropriata: la presente.

Nel corso degli ultimi cinque lustri, rock ed in particolare metal hanno visto nascere in Finlandia un eccellente numero di nuove band, tutte o quasi dotate di una buona originalità, quindi in linea con il percorso storico nazionale, che ha visto, quasi sempre, gli artisti dell’antica Lapponia muoversi alla ricerca di un’identità personale, non direttamente assimilabile a modelli svedesi o danesi (e lo stesso discorso può farsi ovviamente per la grande scuola norvegese, non solo in ambito black). La cosa si nota, specialmente, quando si parla di estremo, più di rado nel dominio dell’heavy: ad esempio, vi è molto poco da apprezzare nei ruffiani e ripetitivi Battle Beast, che pure vengono spacciati come la new sensation del power mondiale. Il nostro sguardo deve invece rivolgersi altrove.
Nel campo del doom sono assolutamente da annoverare gli Shape of Despair (da pochi anni tornati a calcare le scene su Season of Mist, dopo un periodo d’inattività seguito al mitico debutto), i grandi Swallow the Sun (magicamente sospesi fra il melodic death, il funeral doom ed il folk nordico), i Minotauri (più legati alla grande tradizione dark-doom dei Seventies e, non a caso, pubblicati dalla nostra Black Widow) ed i Profetus.

Il doom atmosferico, con o senza tocchi ambient, è un genere che va, oggi, molto di moda – persino troppo – ma pochi rammentano che a contribuire a crearlo sono stati anche due gruppi finlandesi dal talento indiscutibile. I primi sono stati i Nattvindens Grat: nel 1995 il loro epico e misterioso debut A Bard’s Tale fu un autentico lampo di melodie ancestrali ed arcane, ritmi cadenzati, suoni cristallini quanto potenti, atmosfere medievali e porzioni più (classicamente) rock, sulla scia degli Amorphis più suggestivi. Un capolavoro irripetibile. Buono, anche se più accattivante, fu il successivo Chaos Without Theory, anche a livello lirico meno giostrato rispetto all’esordio su tematiche rinascimentali di magia naturale nordeuropea. Altro progetto imprescindibile per la nascita e la affermazione di ciò che oggi chiamiamo atmospheric doom fu quello dei Legenda fondati nel 1996 da Kimmo Luttinen (batterista e chitarrista degli Impaled Nazarene): un vero e proprio masterpiece il loro Autumnal, fin dal titolo e dalla malinconica copertina. Il disco, con tocchi gotici in stile primi Paradise Lost, vide la luce nel 1997, bissato l’anno dopo dal suo seguito Eclipse.
Passando al death metal, sono da segnalare gli Omnium Gatherum, con diversi lavori in carniere e non privi di gusto melodico, i pionieri e avanguardistici Demilich (una vera meteora), nonché tutte quelle band, di area totalmente underground, rimaste nell’oscurità, con accordature basse e sonorità tra il cupo e l’ipnotico: Demigod, Abhorrence, Xysma, Disgrace e Convulse. Fantastici e assai più conosciuti i Wolfheart (il cui nome viene dal classico dei Moonspell): death melodico, con aperture black, ogni volta a livelli molto alti, come in occasione dell’ultimo, Constellation of the Black Light (2018). Maggiormente spostati su territori BM, invece, i grandissimi Horna, quindi Musta Surma, Sargeist, Nattfof ed i fenomenali Satanic Warmaster, questi ultimi con aperture in taluni passaggi al più oscuro folk nordico. Da avere, di black metal finnico, pure Verge, Wyrd, Desolate Shrine e Witsaus, tra gli altri, nonché – tra black e doom – i seminali quattro lavori degli Unholy, magistrali ed attivi nella prima metà dei Nineties, incredibilmente evocativi.
Molti gruppi si sono poi mossi, ieri come oggi, sul confine (mobile) tra black death, groove death e death doom. Ricordiamo in proposito, tra meteore del passato e nuove leve odierne, i Depravity, Anguish, Messiah, Putrid, Funebre, Adramelech, Lubrificant, Cartilage, Vomituritium, God Forsaken, Paratroops, Mordicus, Chaosbreed, Purtenance, Corporal Punishment, Hateform, Phlegethon, Necropsy, Obfuscation, Mythos, Protected Illusion, Goretorture, Belial, Nomicon, Sotajumala, Immortal Souls, Infera, Cadaveric Incubator e Deathbound. Grandiosi poi, nella scena death-core, sono i Carnifex.
Una realtà a sé stante sono stati i Beherit, nati addirittura nel 1989, molto legati alle scienze occulte ed alla demonologia siriaca. Sino al 1993, hanno suonato un black-death decisamente underground: quattro demo tape, due mini, uno split e due album, davvero neri e glaciali, che – insieme ai carioca Sarcofago – hanno di fatto fondato il war metal, influenzando acts come Impiety, Grave Desecrator, Revenge, i connazionali Archgoat e naturalmente Blasphemy e Marduk. Tra il 1994 ed il 1995, si è verificata, nel sound e nell’approccio stilistico dei Beherit, la svolta in direzione del dark ambient di matrice elettronica.
Un altro immenso gruppo finnico che è partito dal black per approdare a sonorità sperimentali sono gli Oranssi Pazuzu, il cui nome deriva dalla mitologia babilonese. Nati a Tampere, nel 2007, hanno in discografia quattro album, un EP ed uno split (con i Candy Cane).
Il loro è un eccelso BM, ricco di atmosfere progressive e spaziali, a tutti gli effetti fantascientifiche, siderali e futuristiche.

Alcuni degli Oranssi Pazuzu, inoltre, collaborano anche con gli sludge-doomsters Dark Buddha Rising, di fatto i Neurosis della Finlandia, viste le complesse architetture di drone metal occulto che sanno con abilità manipolare.

Chiudiamo con i Circle, lo straordinario gruppo che, non senza orgoglio, è il simbolo stesso della NWOFHM. Nati nel 1991, i finlandesi vantano oggi una discografia a dir poco sterminata, tra mini, dischi, live, partecipazioni a compilation e tributi. Nel loro particolarissimo metal trovano posto tra le altre istanze space e kraut, ambient e prog, math-core e grind. I Circle sono impareggiabili, nella loro disinvolta (e matura) capacità di mescolare le carte, passando dall’hard zeppeliniano ai bagliori cosmici dei primissimi Pink Floyd, dal rumorismo tedesco di Faust/Neu/Can alle oscure dissonanze dei King Crimson (periodo 1973-74). Sono la perfetta sintesi di passato e presente, di art rock e di metal. Attrazione dell’olandese Roadburn Festival, si sono aperti al post rock ed hanno sperimentato con i sintetizzatori come pochi altri, in questi ultimi vent’anni.

I membri dei Circle, inoltre, suonano o hanno suonato anche in altri gruppi o progetti paralleli, di ragguardevole interesse, dedicati a tutti o quasi i generi musicali, che coprono la gamma storica dell’hard & heavy: si va infatti dagli stoners Pharaoh Overlord agli AOR Falcon di Frontier (il miglior disco nel settore in Finlandia, dai tempi degli Heartplay, che uscirono per la tedesca MTM), dai feroci Steel Mammoth agli altrettanto duri Krypt Axeripper (entrambi i gruppi a cavallo tra speed metal, crust punk e black-grind), dagli Iron Magazine agli Extroverde, dai Plain Ride Almosta ai Lusiferiinin, per citare, qui, soltanto alcune delle sigle sotto le quali i Circle hanno operato ed operano tuttora. Qual è il significato di tutto ciò? Dimostrare semplicemente la vitalità del metal finnico e più nella fattispecie illustrare la bellezza di tutti i generi che albergano all’interno di esso, dagli scenari più solari e melodici, sino a quelli dark e sperimentali. Versatili al pari di pochissimi altri, i Circle amano pertanto tutta la musica. Una vera e propria lezione, per coloro che ascoltano, solo in base ai propri gusti soggettivi, unicamente alcuni generi. Oltre al metal – in ogni sua forma e declinazione, come si è detto – i Circle amano alla follia il kraut rock spaziale della Germania anni ’70, su tutti i leggendari Faust. Non casualmente, il rinato gruppo di Wumme ha inciso per la loro etichetta, la Ektro, il live Kleine Welt, registrato nel 2006-07 e prodotto dai Circle nel 2008.
Segnalare in questa sede i migliori dischi dei Circle non è certamente un’impresa facile, alla luce di qualità e quantità delle loro infinite produzioni. Senz’altro, occorre procurarsi senza indugi Rautatie (2010), Hollywood (edito dalla Viva Hate di Berlino), Tulikoira e Forest (forse i loro dischi più dark metal), Telescope (inciso in concerto, al Cairo di Wurzburg, nel 2003), Raunio (naturalistico e quasi folk), Taantumus e Prospekt (orientati sullo sludge-drone), Soundcheck (registrato dal vivo, il 31 di ottobre 2009, nella loro terra) ed i più recenti Sunrise (um omaggio alla West Coast degli anni d’oro) e Terminal (apparso per la Southern Lord nel 2017). Una band veramente formidabile, che sa fare la storia in questo delirante terzo millennio.

Dazagthot
(in collaborazione con Michele Massari e Massimo Pagliaro)

LE INTERVISTE DI OVERTHEWALL – LAST RITES

Grazie alla reciproca collaborazione con la conduttrice radiofonica Mirella Catena, abbiamo la gradita opportunità di pubblicare la versione scritta delle interviste effettuate nel corso del suo programma Overthewall, in onda ogni domenica alle 21.30 su Witch Web Radio.
Questa volta tocca i savonesi Last Rites.

MC Su Overthewall ospiti i Last Rites: con noi Dave, leader e portavoce della band. Partiamo dall’inizio, quando i Last Rites si formano a Savona già nel 1997. Com’è nata l’idea della band? Avevate già avuto esperienze precedenti nell’underground?

La band è stata formata da me e Jan, il primo chitarrista; si suonicchiava in qualche piccola band improvvisata, ma nulla di serio: i Last Rites sono nati sulla scia di album quali “Somewhere out in space”, “Glory to the brave”… suonavamo Power Metal agli esordi poi, dopo l’abbandono del cantante, io passai anche al microfono ed il suono si spostò verso il Thrash, la nostra passione principale.

MC Nel corso degli anni sono arrivate parecchie soddisfazioni ( nel 2001 vincete un concorso per band emergenti e nel 2004 siete stati selezionati tra le 10 Thrash Metal band più promettenti del panorama italiano) e queste sono senza dubbio degli input che vi hanno permesso di credere sempre di più in ciò che stavate facendo. Qual’è stata la più grande gratificazione che avete ricevuto in questi anni?

Non saprei, ma sicuramente l’articolo su Metal Hammer è stata una piacevole sorpresa; comunque la soddisfazione più grande penso sia ricevere dei bei complimenti per il proprio lavoro.

MC Nemesis è il vostro terzo full-length e celebra i vent’anni di attività della band. Mi parli di questo nuovo lavoro discografico?

Nemesis segna un traguardo importante per la band! E’ stato voluto fortemente da me principalmente per festeggiare in maniera degna i nostri vent’anni di attività.
Contiene cinque pezzi inediti e tre canzoni nuovamente registrate per l’occasione. Tra gli inediti, Fallen Brother è un brano particolare perché è stato scritto in origine da me e Vic Mazzoni, amico e talentuoso chitarrista che non c’è più…

MC Nemesis parla di angoscia e oppressione ma racconta anche del ruolo che ricopre l’uomo all’interno dell’universo, della lotta tra il bene ed il male. Chi ha scritto i testi e da che cosa avete tratto ispirazione per le tematiche?

I testi sono stati scritti da me, Fens ed il Bomber: principalmente parlano del male di vivere, della lotta tra il bene e il male ma anche di morte, depressione, del mondo che ci circonda; il testo che ha ispirato la copertina (Ancient Spirit) parla della ricerca di uno stadio superiore dell’uomo, attraverso un percorso spirituale, fisico e mentale.

MC Ci saranno live a promuovere Nemesis?

Stiamo già promuovendo l’album da un annetto ormai, ma sicuramente ci saranno altre date.
Abbiamo suonato il 23 novembre all’Exenzia club di Prato, il 15 dicembre saremo a Savona al Raindogs Club, in compagnia degli amici Sex’n’Violence e Perceverance, ed il 2 febbraio saremo nuovamente in Toscana al Circus di Scandicci per il primo MASD Records Festival.

MC Che rapporto avete con il pubblico che vi segue? Vedete dei riscontri tra il numero dei followers sui social e il pubblico presente ai vostri live? Sono realmente attivi a sostenere la band anche dal vivo?

I social sono un po’ “aria fritta”, perché non rispecchiano assolutamente la realtà delle cose, anche se sono sicuramente potenti mezzi di comunicazione. In generale la situazione non è delle più rosee, i live sono spesso semi deserti ma noi stringiamo i denti!

MC Dove i nostri ascoltatori possono seguirvi?

Principalmente su facebook (http://www.facebook.com/lastrites0), sul notro canale youtube (http://www.youtube.com/user/lastrites0) e su bandcamp (http://lastrites0.bandcamp.com), dove si può trovare anche molta musica scaricabile gratuitamente!
Iscrivetevi ai nostri canali per ricevere tutte le news!

MC Grazie di essere stato con noi. A te l’ultima parola per chi ci ascolta.

Grazie per l’opportunità ed il supporto, invito tutti a dare un ascolto alla nostra musica, non ne rimarrete delusi!
Belin Metal Rules!

Ieri e oggi: intervista agli Hate

Un pezzo di storia del metal italiano. Questo sono gli Hate, esponenti oltretutto di una scena (quella ligure, e genovese nella fattispecie) da sempre viva e florida. Abbiamo potuto incontrarli e parlare con Enzo Vittoria.

ME Prima di tutto, la vostra storia: il vostro primo lavoro sulla lunga distanza è uscito in questo 2018, ma i vostri primi due demo risalgono alla seconda metà degli anni Ottanta…

Siamo nati come trio nel 1983: Enzo, Luca e Dido e dopo un esordio come supporto ad un gruppo più avviato abbiamo aggiunto Daniele alla formazione. Tra il 1984 e ’85 abbiamo sfornato pezzi e live a Genova e in festival fuori Genova poi nell’86 registrammo il primo demo formato da 8 tracce. Qualche live e nell’87 entrammo in studio per un altro demo di sole 4 tracce. Ci fu poi uno stop per la mia partenza per la leva obbligatoria a marzo ’87 e riprendemmo a fine ’88. Purtroppo la morte prematura di Daniele a giugno ’89 chiuse il capitolo Hate. A distanza di tanti anni abbiamo avuto la necessità di ritornare sui nostri passi perché, se pur breve, la nostra carriera aveva lasciato un segno e un seguito. Ci siamo riuniti io e Dido e abbiamo creato questo album con pezzi più maturi rispetto a quando avevamo tra i 15 e i 18 anni. Luca è rientrato nel gruppo rimettendosi in gioco dopo anni di stop ed è ripartito il motore Hate.

ME Volete parlarci della lavorazione di Useful Junk? In particolare, che cosa rappresenta questo disco per voi e nel vostro percorso artistico?

È stata una lavorazione lunga iniziata due anni fa, in quanto i tempi da dedicare al progetto erano limitati. Principalmente io componevo la tracce e le elaboravamo e registravamo nel nostro home studio. Dopo circa un anno e più di registrazioni siamo arrivati al mixing in studio. Sinceramente io volevo regalare ai vecchi fans un prodotto nuovo e registrato bene (a differenza dei nostri demo). Il gruppo (a parte io e Dido) era ancora da creare per eventuali live ma l’arrivo di Luca ha scatenato la macchina Hate e siamo ripartiti alla grande.

ME Che cosa sono per voi hard rock e metal? Qual è stata la vostra formazione musicale e oggi quali dischi preferite ascoltare?

Fondamentalmente l’hard rock ha significato più ampio e origini più vecchie rispetto al metal prettamente anni ’80 e più circoscritto. Personalmente ci reputiamo una hard rock band perché non facciamo il classico metal tipo Judas priest, Dio, Iron Maiden, ma vestiamo un genere derivato dal rock n roll e delineato da gruppi come Kiss, Motley Crue, Ratt, per arrivare a toccare generi più verso gli anni ’90 come gli Audioslave. La nostra formazione è: Enzo Vittoria basso e voce, David Caradonna chitarra, Luca Lopez batteria e Sebastiano Rusca chitarra. In aggiunta alla line up abbiamo due coriste per i live sessions: Martina Nuovo e Stefania Prian.

ME Cosa ricordate della scena heavy – italiana e genovese – degli anni ’80?

Abbiamo bellissimi ricordi vissuti. Erano gli anni in cui il genere spaziava anche in Italia, spinto ovviamente dal fenomeno mondiale. Si riempivano i teatri nonostante non esistessero social o vetrine, solo con la pubblicità ed il passaparola. C’erano tanti festival che radunavano il popolo metal e compagnie di metallari e rocker ovunque e si viveva di prepotenza.

ME Se doveste dare consigli ad un giovane ascoltatore che sta iniziando adesso a appassionarsi, quali sono i dieci dischi fondamentali che gli suggerireste?

Beh, per me il pezzo hard rock per eccellenza che mi ha cambiato la vita è stato Helter Skelter dei Beatles… da lì in poi Led Zeppelin e via di seguito fino ad arrivare agli anni ’80, quando ho preso coscienza che amavo quei suoni distorti. Diciamo che i 10 dischi che devi avere sono: 1) AC/DC, Highway to hell e Back in black; 2) il primo degli Iron Maiden (anche se non li apprezzo tanto); 3) Ratt, Out of the cellar; 4) Wasp, omonimo; 5) Van Halen, omonimo 1978; 6) Aerosmith, Rocks; 7) Motley Crue, Shout at the devil; 8) Kiss, Detroit rock city e 10) Def Leppard, Hysteria.

ME I vostri progetti futuri?

Per il futuro cercheremo di mettere in cantiere un altro album prima possibile, dobbiamo solo iniziare le registrazioni ma non facendolo di lavoro i tempi si allungano. Abbiamo alcune date live anche insieme ai Necrodeath, vecchi amici che avevano esordito come nostro gruppo di supporto nel ’86.

Le molte anime della NWOBHM

L’importanza storica irrinunciabile della New Wave of British Heavy Metal è da tempo ampiamente riconosciuta senza riserve. Sull’argomento, presenza fissa in tutte le enciclopedie di rock e hard and heavy, sono stati scritti numerosi libri e articoli (fondamentali e veramente dettagliatissimi quelli di Gianni Della Cioppa). L’intenzione di questo articolo non è pertanto quella di scrivere una ennesima storia di classici, più o meno famosi – riscoperti anche grazie alle tantissime ristampe, pure recenti – quanto semmai quello di illustrare le molte anime musicali del fenomeno.

La NWOBHM non fu, infatti, un genere, né tanto meno un approccio stilistico: al suo interno del resto erano presenti gruppi diversissimi tra loro – basti solo pensare ai più celebri: Iron Maiden, Def Leppard e Saxon – quanto piuttosto una corrente artistica, entro la quale trovavano posto, poi, band stilisticamente anche assai differenti l’una dall’altra.
Molte band della NWOBHM venivano (ed era cosa del tutto naturale, in termini di evoluzione) dal più classico hard rock anni Settanta. E’ il caso dei mitici Samson di Bruce Dickinson, degli Urchin, dei White Spirit. Questi ultimi incisero nel 1981 il loro primo e unico disco: un capolavoro di hard sinfonico, che aggiornava e trasportava nel nuovo decennio la lezione di Deep Purple e Uriah Heep, con la chitarra della futura Vergine di Ferro Janick Gers. Hard rock di alta classe, con retaggi blues di ascendenza Led Zeppelin, porzioni epiche e testi tra l’esoterico e il misticheggiante (con rimandi alla storia ecclesiastica anglo-britannica) per gli indimenticabili Diamond Head. Di formazione HR anche i Rage (1981-1983), formati da membri dei Nutz (1974-1977). Dal canto loro i Def Leppard di Sheffield, con il mini del 1978 e lo storico debutto On Through the Night del 1980, portarono nel Regno Unito le sonorità spaziali dei Rush, prima di svoltare in direzione AC/DC, con High and Dry (1981), e di scrivere quindi – con la triade Pyromania (1983) – Hysteria (1987) – Adrenalize (1992) – pagine immortali di hard tecnologico e melodico, baciate da meritatissimo successo.
Della NWOBHM hanno fatto parte inoltre, rammentiamolo, anche band street (Battle Axe, Heavy Pettin’, Black Rose) e glam (Soldier, Girl, i fantastici Wrathchild). Altri ancora hanno guardato e con sommo frutto al punk ed agli insegnamenti dei Motorhead, come nel caso dei Warfare di Evo e dei Plasmatics (formidabile il loro Coup d’Etat) della compianta Wendy ‘O’ Williams. Più boogie, invece, gli Starfighters e i Vardis, questi ultimi riediti su compact di recente.

Talvolta, anche se nessuno ama ricordarlo, e quasi sempre per partito preso, dalla NWOBHM sono arrivati anche gioielli di hard melodico ed AOR: non tanto gli Aragorn, quanto i seminali Praying Mantis (ancora sulla breccia, e con bellissimi lavori), i Tygers of Pan Tang del sottovalutato The Cage (MCA, 1982), gli stessi Saxon di Destiny (1988) ed in certe ballate pure i Tytan (1982-1985); ad un certo punto, da alcuni, anche i grandiosi Magnum di Birmingham (nati in realtà molto prima, tra il 1972 ed il 1976) sono stati inseriti, un po’ forzatamente, nel filone della NWOBHM, in virtù di talune trame sonore tra primi Black Sabbath e Rainbow di Rising che andavano ad infittire stupende tessiture pomp rock, di matrice talvolta emersoniana. Un discorso simile può farsi per i Nightwing, meno noti, ma comunque di valore, così come per i Tobruk e per i Grand Prix (tre LP alla Uriah Heep in carniere, ristampati dalla Lemon).
Dal pomp al progressive il passo, si sa, è breve e numerosi acts inglesi della NWOBHM flirtarono e non poco con la tradizione del prog. Tra questi i Gaskin (capaci di riecheggiare le lunghe escursioni armoniche dei Wishbone Ash di Argus), i fenomenali e da riscoprire Marquis de Sade e Triarchy (i cui filamentosi riff di tastiere e synth erano a dire poco essenziali nell’economia sonora dei brani), i Demon (passati dalle atmosfere gotiche dei primi due album a più liquidi paesaggi pinkfloydiani), i misteriosi e notevoli Dark Star (1981), la EF Band (responsabile di un oscuro heavy prog, condito di flauto, alla Jethro Tull), i Limelight (il cui esordio omonimo uscito per la Metal Heart nel 1980 si muoveva tra ELP, King Crimson e Status Quo), gli Shiva (Fire Dance, recentemente ristampato, è un gioiellino di Hi-Tech hard prog alla Rush) e gli entusiasmanti Saracen (che, con due dischi, tra il 1981 e il 1984, furono il vero anello di congiunzione fra NWOBHM e new prog alla Marillion).

In ambito traditional doom, vanno qui assolutamente segnalati i sabbathiani Legend (con tastiere), i Ritual (con tematiche legate all’occultismo), i Desolation Angels ed i più tardi Tyrant. Antesignani e padrini del black metal – sin dal 1982, ma venuti fuori con la NWOBHM – ovviamente i Venom da Newcastle.
Spesso confuso con il doom, il dark metal è in realtà una forma di heavy tradizionale che tratta nelle liriche ed a livello iconografico temi legati alla magia, all’esoterismo e alle scienze occulte. Durante la NWOBHM il dark metal, non senza richiami ai Judas Priest, nacque proprio in Inghilterra, grazie a gruppi basilari come Quartz (attivi sin dal 1977), Angel Witch (dal 1979), Satan, Cloven Hoof e Satanic Rites. Oggi il genere, sempre erroneamente confuso con il doom (e quasi mai nominato), è rinato in forma più moderna, grazie a ottime band come Evergrey, Epysode e i riformati Stormwitch (tra Europa settentrionale e Germania).
La NWOBHM ci ha dato anche gruppi epic metal (gli Overdrive), power (Dark Heart) e speed (i capostipiti Raven e gli Holocaust, adorati dai Metallica). Oggi, come si accennava, grazie alle tante riedizioni laser (alla rinfusa possiamo menzionare ad esempio Blietzkrieg, Elixir e Denigh, nonché gli irlandesi Sweet Savage, dell’immenso chitarrista Vivian Campbell, prima che entrasse nei Dio), non è più un’impresa recuperare dunque il materiale originario d’una scena davvero aurea. Scena – non genere, si rammenti – che vede anche apposite tribute-band (i Roxxcalibur, con le copertine di Rodney Matthews, hanno omaggiato, alla grande, Jaguar, Tokyo Blade, Chateaux, More, Cryer, Savage, Grim Reaper, ed i doomsters Witchfynde e Witchfinder General), ristampe anche delle mitiche raccolte di quell’epoca (tra queste, la leggendaria Metal for Muthas II, con i Trespass, Easy Money, Xero, Horse Power, Chevy e Raid, tra gli altri) e di quei gruppi (come i Damascus), che registrarono all’epoca solo singoli. Pezzi di storia, veramente.