Komatsu – Recipe For Murder One

Una forte struttura grunge, un grande cuore melodico e tante distorsioni.

Gli olandesi Komatsu sono la dimostrazione suonante che ci sono gruppi validissimi che non hanno ancora lo scenario che meritano.

Nati nel 2010, dopo un primo ep autoprodotto nel 201, nel febbraio del 2013 danno alle stampe Manu Armata il loro primo disco. Dopo di che hanno avuto un’intensa attività dal vivo, dato che hanno suonato di spalla a tutti i grandi nomi della scena, come i Queens Of The Stone Age, i Karma To Burn, i Clutch, gli High On Fire e tanti altri.
Ascoltando questo disco si vine colpiti da meraviglia, sopratutto quelli che hanno vissuto la breve ma gloriosa stagione del grunge, che a discapito di una durata non lunghissima ha prodotto cose eccelse, e ha lasciato un’impronta importantissima. Sin dalla prima Scavenger si respira un’aria davvero diversa in casa Komatsu, i giri di chitarra e le evoluzioni della sezione ritmica sono al servizio di un’idea ben precisa di musica, ovvero quello di creare un magma sonoro attivo e coinvolgente, dove tutto gira alla perfezione toccando generi diversi, dallo stoner ad un hard rock mutato. Questi olandesi riescono ad essere davvero coinvolgenti, e stupisce che non abbiano una fama commisurata alla bravura espressa in questo disco, ma forse proprio questa uscita li porterà dove devono stare. Il disco nella sua interezza è uno dei meglio strutturati che si possano sentire ultimamente, nel senso che la composizione è eccelsa, e che non si lascia una pagina bianca od un momento di vuoto temporaneo, perché come nel viaggio da oppiaceo la bolla è perfettamente tonda.
Ci si chiede perché non si possa sempre stare come quando si ascolta questo disco, perché non si possa vivere avvolti da una nube di Komatsu, con il loro groove davvero godibile. Ma come tutti sappiamo non si può vivere come si vuole, anche se questo cd migliora nettamente la nostra vita. Si viene trascinati sulla nave olandese da tanti uncini, ballando come non vi ricorderete da tempo, e la vostra dopamina vi chiederà di cercare questo disco e di metterlo nel lettore.
Ricapitolando, una forte struttura grunge, un grande cuore melodico e tante distorsioni.
Un gruppo davvero grande ed un disco che bisogna essere sordi per non poterlo apprezzare.

TRACKLIST
1 Scavenger
2 The Sea Is Calm Today
3 So How’s About Billy?
4 Lockdown (featuring NICK OLIVERI)
5 A Dish Best Served Cold
6 WTF?!
7 Recipe for Murder One
8 There Must Be SOmething in Your Water
9 The Long Way Home
10 Against All Odds
11 Breathe

LINE-UP
Mo Truijens: Guitar, Lead vocals
Mathijs Bodt: Guitar
Martijn Mansvelders: Bass
Joris Lindner: Drums

KOMATSU – Facebook

Elepharmers – Erebus

Un’opera che ti avvolge come un serpente, ti ipnotizza con le sue letali spire e ti ingoia senza che tu te ne accorga

L’Italia del rock e del metal ha trovato una sua chiara identità in questi ultimi anni, perdendo completamente quel fastidioso provincialismo nei confronti delle scene oltreconfine.

Se il metal classico ed estremo ha sempre patito l’esterofilia di fans e addetti ai lavori, il rock ha vissuto per decenni all’ombra dei soliti nomi provenienti dalla scena cantautorale o dal progressive settantiano.
Con il successo dell’hard rock stonerizzato e dai rimandi al decennio settantiano per esempio, negli ultimi tempi band dalle indubbie capacità sono nate nel nostro paese, molte giocandosela alla pari con le più note realtà straniere.
Sulle due isole maggiori i caldi venti che soffiano dal deserto africano trasformano il territori nelle soleggiate ed invivibili pianure arse dal sole della Sky Valley, non è un caso infatti che i migliori gruppi di genere provengano dalla Sicilia e dalla Sardegna.
Ed in Sardegna nascono nel 2009 gli Elepharmers, gruppo di Cagliari al secondo lavoro per Go Down Records dopo l’ottimo debutto Weird Tales from the Third Planet, uscito tre anni fa.
Aprite bene le orecchie cari miei rockers, perché Erebus risulta un altro straordinario lavoro di musica stonata che raccoglie l’eredità delle grandi band degli anni settanta, la fa amoreggiare tra la sabbia del deserto con il sound dei gruppi statunitensi della scena stoner e la scaraventa nel 2016, per un sabba psichedelico lungo quarantadue minuti.
Difficile trovare un brano che non catalizzi l’attenzione, ipnotizzando l’ascoltatore perso in questo vagare per una galassia di suoni e note che clamorosamente, pur non nascondendo le proprie fonti di ispirazione, riesce nell’impresa di risultare personale e tremendamente affascinante.
Gli undici minuti strumentali della title track basterebbero ad altre band per costruirci un’intera discografia, una bomba sonora che esplode senza pietà nei nostri padiglioni auricolari, scheggiando irrimediabilmente i crani di chi senza precauzioni si avvicina troppo al sound degli Elepharmers.
Psichedelia, doom, hard rock, blues sporcato di stoner, continuano a dettare legge nello spartito del gruppo, molto più liquido rispetto al debutto, come se il calore letale del sole ha trasformato la pietra in lava.
E The River, appunto, è un fiume di lava sabbatica che scende inesorabile dalla cima del monte da dove lo stregone lancia i suoi anatemi, per distruggere qualsiasi forma di vita incontri nel suo inesorabile e lento incedere.
Cannibal Supernova, un piccolo gioiello di stoner psichedelico, non da tregua alle nostre povere menti, ormai in balia dell’ipnotico sabba creato dal quartetto sardo, ma il blues acustico dal flavour zeppeliniano e dalle atmosfere southern di Of Mud And Straw lasciano che il nostro corpo e la nostra mente, si perdano per non ritrovarsi più nell’oscura danza della conclusiva Nereb.
Un’opera che ti avvolge come un serpente, ti ipnotizza con le sue letali spire e ti ingoia senza che tu te ne accorga, uno dei dischi dell’anno nel genere, parola di MetalEyes.

TRACKLIST
1. Erebus
2. Spiders
3. The River
4. Cannibal Supernova
5. Of Mud And Straw
6. Deneb

LINE-UP
El Chino – vocals; rhythm guitar; bass; harmonica
Andrea “Fex” Cadeddu – lead & rhythm guitars –
Maurizio Mura – drums
Matteo “Baro” Carta- synth, bass, vocals

ELEPHARMERS – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=fqXiBIUSJ90″>

• DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO
, uno dei dischi dell’anno nel genere, parola di metaleyes.

Monolithe – Zeta Reticuli

Zeta Reticuli rafforza le tendenze emerse dal nuovo corso dei Monolithe, i quali, pur continuando a perseguire il proprio concept cosmico, hanno decisamente reso più ariose le proprie composizioni.

A poco più di sei mesi dall’uscita di Epsilon Aurigae, ecco l’arrivo di Zeta Reticuli a completare questa opera discografica dei Monolithe, che non a caso viene pubblicata anche in una sola confezione contenente entrambi i lavori, sempre a cura della Debemur Morti.

Quest’album conferma e rafforza le tendenze emerse dal nuovo corso della band francese che, pur continuando a perseguire il proprio concept cosmico, ha decisamente reso più ariose le proprie composizioni svincolandosi del tutto da un funeral ortodosso per approdare ad una forma di doom molto più atmosferica, in cui aumentano esponenzialmente gli splendidi assoli dì chitarra di Sylvain Begot e giungendo, infine, a chiudere il lavoro con l’intera The Barren Depths interpretata dall’ospite Guyom Pavesi (cantante dei Devianz, band in cui suona l’altro chitarrista Benoit Blin) con la sua particolare e stentorea voce pulita.
Insomma, la galassia Monolithe continua a fluttuare negli spazi interminabili dell’universo e lo fa speditamente fin dal 2012, quando, dopo un quinquennio di silenzio, è iniziato un periodo di grande prolificità coincisa con la pubblicazione di ben quattro full-length.
Ciò che, fin da Monolithe III, è apparso subito evidente, è stata la maggiore dinamicità di un sound che, nel corso dei lavori successivi, si è sempre più aperto a soluzioni melodiche sublimatesi, infine, in un refrain come quello presente in The Barren Depths, dove si sconfina in mondi musicali paralleli abitati da Mastodon e co.
Cosmic atmospheric doom è una definizione ad hoc per i Monolithe, i quali, con un lavoro di questa portata, potrebbero ampliare non poco la base dei propri fedeli estimatori, pur restando per attitudine e capacità evocative una doom band a tutti gli effetti; impossibile resistere a queste colonna sonore che riportano la mente ad un immaginario kubrickiano, il che, a ben vedere, trasmette un senso di sgomento non inferiore rispetto agli scenari luttuosi che costituiscono normalmente il tema portante del genere.
Al di là della splendida anomalia costituita dall’ultima traccia (di 15 minuti esatti, come avviene anche per gli altri brani di questo disco e del suo predecessore), Ecumenopolis è un episodio magnifico, nel quale Richard Loudin declama foschi scenari futuristici su schemi compositivi che ormai sono un marchio di fabbrica: il crescendo nella parte centrale, il pulsare del basso in conclusione, lasciano spazio ad uno strumentale (TMA-1, omologo del TMA-0 di Epsilon Aurigae) in cui regala il suo tassello chitarristico anche Jari Lindholm degli ottimi Enshine.
Proprio la riconoscibilità del sound è, come sempre, uno dei sintomi più evidenti del raggiungimento di uno status ragguardevole: quello dei Monolithe resta comunque di culto, perché tale è il destino di chi suona questo genere anche ai massimi livelli, ma se oggi dovessi puntare un euro su una band di matrice funeral capace di abbattere le barriere di genere per approdare ad una popolarità (relativamente ) più vasta, me lo giocherei su questi parigini con la testa ben oltre le nuvole …

Tracklist:
1. Ecumenopolis
2. TMA-1
3. The Barren Depths

Line-up:
Benoît Blin – Guitars
Sylvain Bégot – Guitars, Keyboards, Programming
Richard Loudin – Vocals
Olivier Defives – Bass
Thibault Faucher – Drums

Guests:
Guyom Pavesi – Vocals (track 3)
Jari Lindholm – Guitars (lead) (track 2)

MONOLITHE – Facebook

Rotör – Musta Käsi

Heavy metal melodico e piacevolissimo, che scorre benissimo, fatto con molto entusiasmo, cantato in finlandese.

Quanto di voi hanno suonato il metal nella propria cameretta ? I più fortunati e bravi lo avranno fatto con uno strumento, ma tutti di voi avranno suonato migliaia di concerti immaginari nella vostra camera, davanti ad una folla che nemmeno a Wacken o Clisson.

I Rotör sono quelli che dalla cameretta sono usciti, ora suonano ma lo fanno ancora come se fossero nell’età della pubertà. Metal NWOBHM a velocità smodata e davvero tantissimo divertimento. Negli ultimi tempi escono tantissimi dischi metal, molto sono assai validi, ben suonati e ben composti, ma a volte davvero poco divertenti. Qui invece, come in un Stranger Things del metal, siamo riportati indietro negli anni ottanta, e i Rotör in quegli anni avrebbero spiccato su molti gruppi di quell’epoca. Questo disco è un piccolo miracolo, una di quelle cose che ancora a volte succedono in un mondo dove si aspetta l’uscita dell’ultima cavolata techno. Heavy metal melodico e piacevolissimo, che scorre benissimo, fatto con molto entusiasmo, cantato in finlandese, che calza a pennello, poiché ha una metrica talmente impossibile che col metal si accompagna benissimo. Prendete la NWOBHM e velocizzatela un po’, con un tocco quasi punk hardcore nella voce, e vi avvicinerete abbastanza anche se non molto a quello che ascolterete. Questo disco è entusiasmante, coinvolgente, proprio come quei dischi che sentivate in cameretta ondeggiando la testa, e dando spallate sui muri, e qui tornerete a fare quello, perché vi è mancato, ma non tutto è ancora perduto. Su questo gruppo finlandese non si conosce molto, ma non serve granché, visto la musica che fanno.

TRACKLIST
1. Avattu Hauta
2. Porttokirkko
3. Silmä
4. Uuden Maailman Asukas
5. Roottoripää
6. Valittu
7. Portti Helvettiin
8. Käärme
9. Loputon

SVART RECOTDS – Facebook

Wrekmeister Harmonies – Light Falls

Il prodigio del giorno che diventa notte, in un dolce scomparire della luce, e poi tutto nero, terribile eppure bellissimo. Come la musica dei Wrekmeister Harmonies.

Una lenta, graduale caduta di ogni cellula e fibra del nostro corpo in un buio dominato dalla caduta della luce. La luce in alcuni casi cade, e la musica può descrivere benissimo il senso della perdita di ciò che per noi è il bene più prezioso : la luce.

Torna uno dei migliori collettivi musicali della terra, i Wrekmeister Harmonies, ora in formazione sicuramente più minimale rispetto al passato, anche perché nei dischi precedenti transitano ivi una trentina di musicisti per volta, e che musicisti, il meglio dell’avanguardia. I Wrekmeister Harmonies sono un gruppo speciale, un unicum nella musica, e con questo disco lo dimostrano ampiamente. Fondati dal visionario J R Robinson nel 2006, hanno subito mostrato un qualcosa di decisamente diverso rispetto a tutti gli altri gruppi. Dopo il successo dell’ultimo album Night Of Your Ascension, JR ha sentito il bisogno di cambiare stile compositivo ed obiettivi. Il titolo prende spunto da romanzo di Primo Levi, Se Questo è un Uomo, scritto sulla sua esperienza ad Auschwitz. Levi, morto suicida nella sua Torino, tratta soprattutto dell’idea che l’uomo diventa inumano quando tutti accettano questo cambio senza remore, e quindi anche imprigionare un uomo per la sua razza diviene normale. Parole che suonano quanto mai attuali. La musica dei Wrekmeinster Harmonies è puro rumore che genera poesia, è poderosa, delicata, coccola e colpisce al volto, senza soluzione di continuità. Si spazia in molti generi, dal post rock, al post metal, dalla new wave al drone, sempre su livelli altissimi. Tutto qui ha un significato ben preciso, e sembra di sentire una sezione poetica dei Neurosis, giusto per far capire da che parte si potrebbe andare. Light Falls è una connessione tra noi stessi e una strana forza eterea che attraversa il mondo e ci fa mutare, girare e vivere. Questo gruppo è un’entità in continuo movimento, una dolce mutazione, un cullarsi mentre tutto intorno diviene buio. E infatti il prodigio del giorno che diventa notte, in un dolce scomparire della luce, e poi tutto nero, terribile eppure bellissimo. Come la musica dei Wrekmeister Harmonies.
“ Stay In, Go Out, Get Sick, Get Well, Light Falls”.

TRACKLIST
1.Light Falls I – The Mantra
2.Light Falls II – The Light Burns Us All
3.Light Falls III – Light Sick
4.The Gathering
5.Where Have You Been My Lovely Son?
6.Some Were Saved Some Drowned
7.My Lovely Son Reprise

WREKMEISTER HARMONIES – Facebook

TIBIA NIGHT – Genova CSOA Pinelli – 10/9/16

Fabio Cuomo, Søndag, Muschio, Plateu Sigma

Per un appassionato di musica, di quella fuori dai canoni commerciali ma intrisa di sudore, passione e talento, un evento come il Tibia Night, organizzato presso il CSOA Pinelli in quel di Genova, dovrebbe essere un occasione imperdibile visto che, oltre alla qualità e la varietà della musica offerta, c’è anche la possibilità di passare una serata mangiando e bevendo a prezzi “sociali”, senza cioè la necessità di accendere un mutuo per riuscire a sostenere la spesa di due birre .
L’uso del condizionale (“dovrebbe”) lo spiegherò alla fine, nel frattempo provo a riassumere quanto accaduto nel corso della serata: il programma prevedeva quattro esibizioni, quella del padrone di casa Fabio Cuomo, dei piacentini Søndag, dei verbanesi Muschio e degli imperiesi Plateau Sigma.

Fabio Cuomo non è solo il batterista che i più conoscono come mente degli ottimi Eremite, ma è soprattutto un musicista la cui voglia di sperimentare e di percorrere strade che travalicano l’idea di rock e metal, lo ha portato a creare una forma espressiva davvero sorprendente. Prendendo le mosse dalla musica ambient (quella di Eno, da solo o in compagnia di Fripp) e dal kraut rock (Klaus Schulze), Fabio costruisce musica che non cessa mai di perseguire un’idea melodica, tramite passaggi pianistici lontani per fortuna anni luce dalla stucchevolezza neoclassica che pare andare tanto di moda di questi tempi.
Ciò che colpisce, al di là del mero valore artistico, è l’idea di proporre musica di questo tipo, che presupporrebbe un’audience silenziosa ed assisa compostamente in un ambiente ovattato e magari elegante, in un centro sociale o in luogo dove, comunque, si sono raccolte persone con l’intento di ascoltare sonorità pesanti. Il fatto stesso di non esibirsi sul palco, ma di collocarsi in maniera defilata in un angolo della sala, non è certo un atto di snobismo ma semmai, l’idea di raggiungere gli ascoltatori con un flusso sonoro che giunga dallo stesso livello e non dall’alto. L‘effetto conclusivo è straniante quanto del tutto convincente.

Il compito di iniziare a far piovere dallo spazioso palco del Pinelli infuocati lapilli sonori spetta ai Søndag, quartetto che fa propria con grande convinzione la lezione passata del grunge e del rock alternativo di questi ultimi anni, fornendone un’interpretazione fragorosa e di sicuro impatto. Peccato solo che i suoni non sempre ottimali abbiano impedito di cogliere più efficacemente le strutture melodiche di brani apparsi, comunque, di buona levatura.
I ragazzi emiliani sono prossimi alla pubblicazione in ottobre del loro primo full length: anche se manca ancora l’ufficialità, il lavoro dovrebbe godere del supporto di un’etichetta di un certo peso, per cui le aspettative per la loro prossima prova non sono poche.

I Muschio fanno parte invece della scuderia dell’Argonauta ed appartengono a quella categoria di strane creature musicali che, con una formazione non usuale (due chitarre e la batteria), riescono a fare un discreto baccano attingendo alla pesantezza dello sludge, alla ruvida intensità del post hardcore e imbastardendo il tutto con ampie digressioni psichedeliche.
Il risultato è una mazzata non indifferente, più per la densità del sound che non per la sua effettiva pesantezza: le due chitarre lavorano quasi all’unisono, facendo dimenticare la rinuncia alle parti vocali a chi, come il sottoscritto, non è propriamente un sostenitore di questa particolare scelta.
Indubbiamente influisce sulla resa finale anche la presenza sul palco di un trio di musicisti di notevole esperienza, nonostante il nome Muschio sia relativamente nuovo. Una conferma, senza dubbio, delle ottime referenze che accompagnavano una band confermatasi di assoluta qualità.

La chiusura del Tibia Night è affidata ai Plateau Sigma, band per la quale ho esaurito ogni aggettivo fin dalla recensione del loro recente Rituals, vertice assoluto di una produzione di elevato livello medio. Rivisti dal vivo a qualche mese di distanza rispetto al concerto di Imperia, dove presentavano per la prima volta il nuovo materiale, i quattro ponentini hanno dato vita ad una esibizione di rara intensità emotiva, resa impeccabile anche dall’essersi rodati con le diverse date sostenute nel corso di quest’anno, accompagnando sovente nomi di spicco della scena metal (senza dimenticare il concerto del prossimo 27 novembre a Misano Adriatico con Ahab, The Foreshadowing e Weeping Silence). Il genere proposto è doom (perché tale resta, sia chiaro) ai massimi livelli, reso peculiare da una componente postmetal e progressive, esaltato dalla costante alternanza delle voci e, conseguentemente, delle diverse sfumature sonore espresse.
Potrei dire che oggi i Plateau Sigma, assieme a Doomraiser, Caronte, (Echo) e Abysmal Grief, occupano stabilmente le parti alte di un’ideale scala di valori del doom tricolore, ma nel farlo si rischia di sminuire la portata di una band la cui creatività male si adatta ai ristretti confini di genere.

Concludo con la promessa spiegazione di quel “dovrebbe essere un occasione imperdibile” che ho scritto nell’introdurre il report: inutile far finta di nulla, anche questa serata, nonostante ci fossero tutti i presupposti per attrarre un pubblico numeroso (sabato, nessuna delle due squadre di calcio impegnate nel vicino stadio, una location ampia e persino raggiungibile con i mezzi pubblici anche a tarda ora) è stata onorata da pochi intimi, perché, al netto dei musicisti, sotto il palco non ci saranno mai state più di 20-25 persone.
Considerando che questa è ormai una costante in tutti i concerti ai quali ho assistito negli ultimi anni, è evidente quanto una tale tendenza sia preoccupante, non essendoci sentore di una sua possibile inversione. Genova è storicamente poco ricettiva, ma non è che altrove, all’interno dei nostri confini, le cose vadano meglio quando si tratta di presenziare a concerti di band dedite a generi che necessitano d’essere un minimo “lavorati” all’atto dell’ascolto.
Peggio per gli assenti, mi chiedo però dove siano tutti quelli che, a parole, si definiscono appassionati di metal, ma che quando si tratta di supportare tangibilmente le band se ne guardano bene dal farsi vivi …

tibiabig

Indivia – Horta

Horta non è mai ovvio e scontato sia perché tale è l’approccio del gruppo, sia perché ad ogni svolta sonora non si sa dove finiremo al prossimo cambio di tempo, e ciò per un disco è davvero importante.

Movimenti di precisione che provocano nella nostra mente sinapsi cariche di suoni tendenti ad un ribassamento, che in alcune persone provocano piacere. Gli Indivia fanno questo e molto altro.

Il loro suono è uno stoner metal molto oscuro, ma in realtà partendo da coordinate conosciute riescono a confezionare un risultato molto originale. La loro musica è una bolla parallela, una dimensione che apriamo mettendo il cd nel lettore e schiacciando play. Gli Indivia hanno quella freschezza, quell’onda di novità che avevano ai tempi, quando non erano ancora come ora, gruppi come i Karma To Burn o i Conan, quando facevano grandi cavalcate in territori strumentali ancora inesplorati. Gli Indivia hanno quel quid in più,e grazie anche all’azzeccata formula del power trio fanno un gran bel disco. Basso, chitarra, batteria, distorsioni e volumi alti sono gli ingredienti per una vita felice, e gli Indivia riescono a darci qualcosa che ci piacerà. Horta non è mai ovvio e scontato sia perché tale è l’approccio del gruppo, sia perché ad ogni svolta sonora non si sa dove finiremo al prossimo cambio di tempo, e ciò per un disco è davvero importante. La produzione asseconda molto bene le intenzioni dei tre padovani, e ogni canzone merita davvero. Senza voler fare retorica da bar, gruppi come questo ce ne sono, bisogna essere sia bravi a trovarli, sia bravi nel proporsi. Era da tempo che in questo genere, che poi non è solo lo stoner, ma ci sono anche molte altre cose dentro, non si ascoltava in gruppo così fresco, potente, calibrato e piacevole. I ragazzi hanno talento, voglia e poi hanno questa batterista, Nathalie che oltre che essere una delle fondatrici del gruppo è una macchina che sale e scende crinali a tutta velocità, o pende da un dirupo durante un tramonto estivo.
Bello, da sentire e da gustare anche con il corpo, perché questa musica ha una dimensione molto fisica, che fa vibrare.

TRACKLIST
1. Dharma
2. The Green Planet
3. Hyperion
4. Shogun
5. Ciò Che Tradisce
6. Re-Growth

LINE-UP
Andrea Missagia – Guitar
Nathalie Antonello – Drums
Diego Loreggian – Bass

INDIVIA – Facebook

SUBLIMINAL FEAR

Il panorama metal attuale include molti gruppi validi e nei più disparati sottogeneri possibili, segno che il metal ha due tendenze principali: quella conservatrice e quella innovativa. In quest’ultima vanno assolutamente ascritti i Subliminal Fear, un gruppo italiano che ha raccolto il testimone dei Fear Factory e l’ha portato molto oltre gli usuali confini.
Qui di seguito un’intervista con Carmine Cristallo, cantante dei Subliminal Fear.

iye Potete spiegarci come nasce il vostro suono?

Carmine: Un saluto a tutti voi! Quando ci siamo decisi a discutere di un nuovo album, abbiamo subito fissato come principale obiettivo un maggiore sforzo verso la personalizzazione della nostra proposta musicale. Il nostro lavoro si è quindi focalizzato sul ricercare un “nostro sound” moderno e soprattutto multi sfaccettato, che ci identificasse in questo momento, abbandonando i cliché di un genere come il melodic death metal, che non ci apparteneva più. “Escape from Levithan” presenta queste novità: l’inserimento della musica elettronica, una sezione ritmica più groove-oriented e un lavoro particolarmente attento sulle melodie. Questi sono stati alcuni degli elementi sui quali ci siamo concentrati maggiormente nella fase di composizione. Dopo aver iniziato a sperimentare tra strutture ed equilibri tra i vari elementi, i brani sono venuti fuori con molta naturalezza, poiché a differenza degli altri album, avevamo le idee molto chiare sui nostri obiettivi.

iye Quali sono le vostre influenze?

Carmine: Le nostre influenze negli ultimi anni sono state molte e provenienti da sottogeneri del metal anche distati tra loro. Ognuno di noi singolarmente ha assorbito nel corso di questi anni da fonti differenti e non avendo più schemi abbiamo cercato di inserire e poi equilibrare più elementi che sentivamo vicini al nostro gusto e alla nostra idea di metal moderno. Vogliamo portare aventi questo discorso anche sui prossimi album, cercando di inserire sempre qualcosa di nuovo. Mi sento di dire che la strada tracciata con “Escape from Leviathan” ci ha davvero entusiasmato per questa motivazione. Gli ultimi lavori di band come Mnemic, Meshuggah Fear Factory e Sybreed hanno molto influenzato il nostro nuovo corso, ognuno di loro per un aspetto differente, ma mi sento di citare anche la musica pop anni 80 tra le influenze, specialmente per alcune melodie e per i synth.

iye Come componete i pezzi?

Per quest’album abbiamo utilizzato molto le nuove tecnologie e quindi software e computer sono stati fondamentali per permetterci di ottimizzare il songwriting e di lavorare da più postazioni. Partiamo sempre da una nostra idea oppure da una melodia principale di voce per poi costruire altre parti intorno ad essa. Gli arrangiamenti dei singoli strumenti poi, sono aggiunti e completati in seguito procedendo a diverse versioni, sino alla soluzione definitiva. Il “mood” di un testo oppure l’idea di comporre un brano che possa trasmettere una determinata atmosfera ci permette di creare anche le parti degli altri strumenti adatte all’esigenza. Grande importanza ha avuto l’apporto di Botys Beezart che ha composto tutti i synth e le parti di musica elettronica, arrangiati in maniera simultanea agli altri strumenti, costituendo un corpo unico, compatto e a volte anche da protagonista.

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iye Come vedete il futuro della razza umana?

La nostra visione futura dell’umanità su Escape From Leviathan non è molto ottimistica. Tutti i testi dei brani sono collocati in una società distopica e sottomessa alle tecnologie. Il titolo Escape From Leviathan è nato prendendo spunto dall’omonimo libro di J.C. Lester, che è un’opera molto critica sul libertarismo, cioè esprime un giudizio negativo sulla possibilità dell’uomo di autogovernarsi. Mentre il filosofo inglese Thomas Hobbes, nella sua opera “Leviatano”, descrive lo stato come una creatura primordiale disposto a divorarci, le cui membra sono i cittadini. Da questi due concetti siamo partiti per lavorare al concept del nostro album, immaginando la nostra società nel futuro e in una fase conclusiva di un processo degenerativo che ha portato le macchine a governarci. Quindi la principale paura di divenire vittime del nostro stesso progresso è divenuta realtà. In questo scenario apocalittico la società è incapace di autogovernarsi e tutti noi sono quindi schiavi delle nostre scelte sbagliate e dall’incapacità di riconoscere il male. Una forte influenza sono poi stati film fantascientifici come Terminator, Blade Runnner e Matrix, per citarne alcuni, di cui siamo appassionati.

iye Vi sentite più adatti al mercato italiano o a quello estero?

Oggi, i Subliminal Fear propongono un metal contaminato e proiettato verso le sonorità moderne. Sappiamo tutti quanto il mercato italiano sia difficile ed esigente, magari per tradizione anche poco incline alle novità. Abbiamo deciso di ascoltare solo la nostra esigenza e non pensare a quale mercato la nostra musica fosse adatta. Confidiamo che molti abbiamo apprezzato la nostra scelta di svecchiare la nostra proposta e comunque i riscontri sul nuovo album finora, sono piuttosto positivi sia in Italia sia all’estero.

iye Progetti futuri?

Dopo aver ultimato la produzione di quest’album sia proiettati verso la promozione e l’aspetto live, che in passato ahimè, è stato posto in secondo piano a causa dei problemi personali e di line-up. Adesso con questa formazione abbiamo raggiunto stabilità e certezze tecniche individuali, che metteremo in pratica nelle occasioni che ci saranno date. Vogliamo suonare il più possibile nei prossimi mesi e sicuramente vogliamo portare la nostra musica oltre confine. All’inizio del prossimo anno ci dedicheremo a comporre altro materiale continuando il percorso intrapreso con Escape from Leviathan, dando quindi continuità musicale e concettuale a questa seconda fase della storia della nostra band.

iye Ciao e grazie.

Grazie a voi è stato un piacere, ringraziamo la redazione e i lettori, che invitiamo ad ascoltare il nostro nuovo album e a lasciarci un feedback sulle nostre pagine social. A presto!

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Witherscape – The Northern Sanctuary

Dan Swanö ha sempre raccolto meno di quanto il suo inestimabile genio meritasse e forse sarà ancora così, ma ignorare la musica di questo splendido ed inarrivabile musicista e compositore è perdersi pura arte.

Edge Of Sanity, Moontower, Nightingale, pescate a piene mani dalle tre più sontuose proposte dal grande musicista, compositore e produttore svedese, al secolo Dan Swanö, ed avrete un’idea di che meraviglia sonora possa essere The Northern Sanctuary, secondo lavoro dei Witherscape, band che lo vede in compagnia del chitarrista e bassista Ragnar Widerberg, dove lui si accontenta di suonare batteria e tastiere, oltre che far scorrere brividi con la sua inimitabile voce.

Seguendo il concept iniziato sul primo lavoro (The Inheritance), una storia a tinte horror scritta dall’amico Paul Kuhr (frontman dei Novembers Doom), il padre del melodic death metal scandinavo ritorna ad illuminarci con il suo inimitabile genio, fondendo alla perfezione il death metal con sonorità classiche, gothic e progressive in un’opera metal che andrebbe fatta studiare nelle scuole.
The Northern Sanctuary entusiasma e per chi conosce la discografia di Swanö non è una novità, i capolavori che dai primi anni novanta hanno trovato posto sugli scaffali degli appassionati non si contano più, ma lascia senza parole la freschezza compositiva che accompagna ancora oggi il musicista svedese, qui sontuoso anche nella prova vocale dove risplende il suo inconfondibile growl e procura pelle d’oca con le clean vocals, teatrali e profonde.
E parto da qui, dal perfetto e spettacolare uso che Swanö fa delle linee vocali, primo importantissimo dettaglio che manda The Northern Sanctuary direttamente tra le migliori uscite del 2016, visto che la perfetta simbiosi tra i toni estremi e la voce pulita non la troverete in nessun altro lavoro, almeno per quanto riguarda il genere proposto.
Le tastiere hanno un ruolo fondamentale nella struttura dei brani, il musicista svedese ha fatto tesoro di tutte le collaborazioni che lo hanno visto al fianco di colleghi delle più svariate correnti musicali, così che è facile incontrare armonie tastieristiche che si avvicinano al mood di Ayreon del folletto olandese Lucassen (God Of Ruin), mentre lo scontro tra progressive e death metal continua imperterrito e Swanö, come un dottor Jekyll e Mister Hyde, ora estremo, ora elegantemente melodico insegna a più di una generazione di songwriter come scrivere canzoni, difficili ma allo stesso tempo accattivanti e dall’appeal mostruoso.
Mentre la qualità altissima di brani come l’opener Wake of Infinity, o il perfetto swedish sound che si evince dalla spettacolare In The Eyes Of Idols, confermano il mood di questo lavoro (il riassunto compositivo tra Edge Of Sanity, Moontower e Nightingale) succede qualcosa di clamoroso e che non era stato ancora composto (almeno così bene): Marionette arriva e ci presenta il primo stupendo esempio di sonorità aor e death insieme e che, per mano, costringono i nostri occhi a lacrimare, mentre Divinity ci scuote con un brano death melodico alla Sanity, valorizzato da chorus prog di estrazione settantiana.
La title track saluta tutti dall’alto della sua splendida natura estrema, ma sulla quale il genio di Swanö immette una serie di varianti musicali che vanno dall’hard rock, al gothic al prog metal per la definitiva consacrazione di questo ennesimo capolavoro.
Dan Swanö ha sempre raccolto meno di quanto il suo inestimabile genio meritasse e forse sarà ancora così, ma ignorare la musica di questo splendido ed inarrivabile musicista e compositore è perdersi pura arte.

TRACKLIST
1. Wake Of Infinity
2. In The Eyes Of Idols
3. Rapture Ballet
4. The Examiner
5. Marionette
6. Divinity
7. God Of Ruin
8. The Northern Sanctuary
9. Vila Lerid

LINE-UP
Ragnar Widerberg – Guitars, Bass
Dan Swanö – Vocals, Keyboards, Drums

WITHERSCAPE – Facebook

Second To Sun – The First Chapter

The First Chapter segue un’impetuosa narrazione, là dove il metal viene usato come codice da integrare con altri linguaggi come il folclore, per creare un punto d’incontro che serve da base per raccontare storie altrimenti dimenticate.

Il disco dei Second To Sun è una magnifica opera sonora, composta da diversi strati, molti livelli di lettura e stili ricchi e assai differenti tra loro.

The First Chapter segue un’impetuosa narrazione, là dove il metal viene usato come codice da integrare con altri linguaggi come il folclore, per creare un punto d’incontro che serve da base per raccontare storie altrimenti dimenticate.
Il tutto è strumentale e non potrebbe essere altrimenti, dato che ogni parola sarebbe estranea in questa cascata di note, vite e sogni spezzati. Lo stile è un metal super tecnico, con intarsi di djent e post metal, ma uno degli elementi più importanti è il folclore. Ogni canzone ha genesi e semantica diverse, ma tutte raccontano qualche accadimento, ed in più fanno sentire le musiche delle genti coinvolte. Red Snow narra degli avvenimenti accaduti al passo Dyatlov, dove vennero uccise nove persone, o dai locali o da qualcosa che sarebbe meglio non nominare nemmeno. In questa canzone i Second To Sun ci fanno sentire anche in fondo al pezzo dei loro rimaneggiamenti di pezzi tipici delle popolazioni di quei luoghi. E questo disco, grazie alla sua musica, tra Meshuggah e dintorni e un certo grado di distopia, regala grandi gioie, qui il metal diventa moderno narrando storie e visi antichi. La potenza e la tecnica dei Second To Sun fanno davvero la differenza, anche perché non sono usate affatto a caso, ma sempre con consapevolezza e sapienza. Quando poi il metal dei russi si fonde con il folk dei canti finlandesi riarrangiati, o con composizioni di popoli così lontani dalla nostra tecnocrazia, è qui che si raggiungono i momenti più alti del disco, che viaggia su di una qualità media davvero ragguardevole. La cosa migliore che si possa dire di questo disco è affermare la sua originalità, che continua la tradizione di dischi come Roots dei Sepultura, pur essendone molto diverso nell’essenza, parlando di popoli antichi e facendolo con un metal moderno e propositivo, molto differente rispetto al folk metal. Potrebbe sembrare un disco ostico ma non lo è, perché imponenti impalcature musicali nascondono al loro interno melodie importanti che vengono palesate in tutta la loro potentissima bellezza.
Un disco che riempe e che fa vedere dove dovremmo volgere il nostro sguardo, sia davanti che dietro di noi.
Potenza, tecnica e grandiosità.

TRACKLIST
1.Spirit Of Kusoto
2.Red Snow
3.Me Or Him
4.Land Of The Fearless Birds
5.The Blood Libel
6.Narčat
7.Virgo Mitt
8.Chokk Kapper (Bonus Track)
9.Narčat (Demo Version, Bonus Track)

LINE-UP
Vladimir Lehtinen
Theodor Borovski
Aleh Zielankievič

SECOND TO SUN – Facebook

Yhdarl – A Prelude to the Great Loss

L’ennesima epifania di un talento per il quale una sorta di compulsività espressiva non va minimamente a discapito della qualità delle diverse proposte.

Un preludio alla grande perdita: per raccontare gli stati d’animo che accompagnano questo tragico momento c’è bisogno di uno dei massimi cantori moderni di tutto ciò che rappresenta il dolore, il disagio esistenziale, la disperazione e l’alienazione di chi è condannato, suo malgrado, a trascorrere l’esistenza su questo pianeta.

Il suo nome è Déhà, lo abbiamo testato fin troppe volte ed in mutevoli forme per nutrire dei dubbi sul suo valore, e anche questa volta non delude, utilizzando quale mezzo uno dei suoi innumerevoli progetti, Yhdarl, dove si accompagna alla musicista francese Larvalis Lethæus.
Il monicker in questione rappresenta l’ incarnazione più prolifica del musicista belga e, forse, anche quella in cui riesce davvero compiutamente a racchiudere tutte le sue oscure visioni, proprio perché, ascoltando con attenzione A Prelude to the Great Loss, si riescono a cogliere sfumature, provenienti dagli altri suoi progetti, che vengono espresse come sempre in maniera mirabile.
L’ep regala una mezz’ora complessiva di musica, suddivisa in due brani complementari ma diversi per approccio ed intensità: la furia parossistica che spesso contraddistingue Unblessed Hands è sintomatica di un dolore che pare non trovare vie d’uscita ed è il punto d’incontro tra la furia distruttiva dei COAG, il nichilismo dei Merda Mundi ed il rabbioso sgomento degli Imber Luminis, mentre ben diverso è l’impatto emotivo provocato da Primal Disgrace, laddove il dolore ottundente degli Slow va a fondersi idealmente con la poetica malinconica dei We All Die (Laughing).
Il tutto viene accompagnato dalla cangiante e sempre convincente interpretazione di Déhà e dai vocalizzi strazianti di Larvalis Lethæus, elemento vieppiù disturbante in un ambito che di rassicurante e confortevole di suo ha già ben poco.
Gli Yhdarl rappresentano l’ennesima epifania di un talento per il quale una sorta di compulsività espressiva non va minimamente a discapito della qualità delle diverse proposte, un qualcosa che trova ben pochi eguali nella storia recente della musica, non solo di quella circoscritta al metal.

Tracklist:
1. Unblessed Hands
2. Primal Disgrace

Line-up:
Déhà – All instruments, Vocals
Larvalis Lethæus – Vocals, Piano

YHDARL – Facebook

Devin Townsend Project – Transcendence

Transcendence suona imponente e vasto e, malgrado la spinta interiore verso il sovrumano, Devin permane dentro un ambito fondamentale: l’heavy metal.

Trascendenza: in filosofia, la condizione o la proprietà di essere trascendente, di esistere al di fuori o al di sopra di un’altra realtà.

Devin Really Hevy Townsend, (Steve Vai, Strapping Young Lad, The Devin Townsend Band, Ziltoid The Omniscient, Casualties of Cool) poliedrico musicista canadese, ha sperimentato fusioni di più generi, elevando e modernizzando il concetto di heavy metal. Per il sottoscritto rappresenta un esempio lampante di chi ha ricevuto l’immenso dono della creatività, perciò consacrato all’arte e al cambiamento. Uscire dalla zona di comfort, sperimentare i contrari, esprimere tutto ciò nelle sue composizioni, rappresenta evidentemente tutti aspetti della sua individualità.
In Transcendence (bellissima la copertina ad opera di Anthony Clarkson) c’è probabilmente un nuovo approccio alla vita, in parte anche alla musica, perché Mr. Townsend non è poi così estraneo alla realtà sensibile che lo circonda. Tutto nell’album è amplificato, maestoso, sinfonico, come proveniente dall’Universo, da una dimensione ultraterrena, sconfinata. Un’opera che scandisce il tempo di una colossale colonna sonora. Si avverte immediatamente una disposizione d’animo più positiva che in passato, l’amalgama è molto densa, le emozioni che scaturiscono durante l’ascolto sembrano voler legare l’essere umano al Tutto. Volutamente evito la recensione track by track perché ci troviamo alle prese con un flusso di sensazioni tutte in stretta relazione, durante le quali si alternano vette appassionanti a parti più monotone, ma che per nostra fortuna si risollevano con energia e originalità. Su tutte cito solo Failure, le bellissime Higher e Stars e la coda di From The Heart. Si chiude con l’apprezzabile cover Transdermal Celebration dell’alternative rock band Ween.
Se avete già apprezzato i precedenti lavori, amerete questo tipo di sonorità spaziali. Viaggerete tra le stelle accompagnati da cori celestiali, suoni pomposi, piccoli sprazzi djent, cori femminili (ancora a carico di Anneke Van Giersbergen) e ritmiche alternate. Le (poche) parti di chitarra solista sono squisite, ma le sonorità sviluppate dal genio di Vancouver negli ultimi anni sono state aggiornate e potenziate da un approccio fresco e moderno.
Registrato al Armoury Studios, prodotto e mixato dallo stesso Townsend e da Adam ‘Nolly’ Getgood (Periferie, Animals As Leaders), Transcendence suona imponente e vasto e, malgrado la spinta interiore verso il sovrumano, Devin permane dentro un ambito fondamentale: l’heavy metal. E a noi sta molto bene così.

TRACKLIST
1. Truth
2. Stormbending
3. Failure
4. Secret Sciences
5. Higher
6. Stars
7. Transcendence
8. Offer Your Light
9. From The Heart
10. Transdermal Celebration

LINE-UP
Devin Townsend – Vocals, Guitars, Bass, Keyboards, Programming
Dave Young – Keyboards, Guitars
Mike St-Jean – Keyboards
Brian Waddell – Bass
Ryan Van Poederooyen – Drums

DEVIN TOWNSEND – Facebook

Ancient – Back To The Land Of The Dead

Un ritorno al alto livello, per certi versi inatteso e quindi ancor più gradito da chi prova un pizzico di nostalgia per tutte quelle band che, negli anni ’90, rivoltarono come un calzino la storia del metal estremo.

Non è semplice l’avvicinamento a lavori che segnano il ritorno, dopo oltre un decennio di silenzio, di band capaci di legare il proprio nome alla nascita e allo sviluppo di un genere specifico.

Non sempre i risultati che ne conseguono sono eccellente come sarebbe lecito attendersi, perché sovente le motivazioni sono legate al solo marketing e non ad una ritrovata vena creativa.
Nei confronti di chi arriva da molto lontano, come gli Ancient, tra i precursori negli anni ’90 della dirompente esplosione del black metal in Norvegia, l’attenzione aumenta poi in maniera esponenziale, specialmente perché i nostri non sono mai stati annoverati tra i campionissimi, come avvenne invece ad Emperor, Mayehem o Darkthrone, e fondamentalmente il loro album migliore è sempre stato considerato unanimemente quello d’esordio, l’ottimo Svartalvheim, che risale ormai ad oltre un ventennio fa.
Da allora continui cambi di formazione, spostamenti logistici e vicissitudini assortite hanno visto quale trait d’union del gruppo lo storico vocalist Aphazel, con un’altra serie di album pubblicati nel decennio successivo, tutti di buon livello ma nessuno capace di raggiungere l’eccellenza.
Se provassimo a resettare tutto questo e a considera gli Ancient in base al presente e non al passato, cosa ne dedurremmo da questo ultimo full length intitolato Back To The Land Of The Dead? Semplicemente che si tratta di una bellissima prova, con la quale l’attuale trio impartisce una lezione su come il genere possa essere ancora oggi al contempo maligno e dal notevole impatto melodico.
Senza fare dello sciovinismo, va detto che il motore della band è italiano, nella persona del chitarrista e bassista Dhilorz (Danilo Di Lorenzo), autore di gran parte delle musiche, da solo o in compartecipazione con Zel (nuovo nickname adottato dal fondatore, che all’anagrafe fa Magnus Garvik), e del recente approdo, quale live session man, del chitarrista dei Bulldozer Giulio Borroni (denominato per l’occasione Ghiulz); in aggiunta, non è certo marginale l’approdo alla batteria di Nicholas Barker, uno che ha prestato le proprie bacchette a Cradle of Of Filth, Dimmu Borgir e Lock Up, tanto per citare solo alcune dell band che lo hanno visto all’opera.
Back To The Land Of The Dead, con tali premesse, scorre in maniera piacevolmente fluida, nonostante una lunghezza forse eccessiva per gli standard del genere: il black degli Ancient è melodico, epico, magniloquente ed anche sufficientemente aspro per mantenere comunque ben salde le coordinate del genere e si intuisce chiaramente che la sua manipolazione avviene da parte di musicisti che sanno perfettamente il fatto loro.
Come detto, non si riscontrano particolari debolezze in una tracklist che vede quale picco qualitativo la mini suite The Excruciating Journey (composta dalle tracce Part I – Defiance And Rage, Part II – The Prodigal Years Part III – The Awakening) e dall’evocativa Petrified By Their End, degna conclusione di un album che prevede, comunque, quale bonus track la cover di 13 Candles dei Bathory.
Un ritorno al alto livello, per certi versi inatteso e quindi ancor più gradito da chi prova un pizzico di nostalgia per tutte quelle band che, negli anni ’90, rivoltarono come un calzino la storia del metal estremo.

Tracklist:
1. Land Of The Dead
2. Beyond The Blood Moon
3. The Sempiternal Haze
4. The Empyrean Sword
5. The Ancient Disarray
6. Occlude The Gates
The Excruciating Journey
7. Part I – Defiance And Rage
8. Part II – The Prodigal Years
9. Part III – The Awakening
10. Death Will Die
11. The Spiral
12. Petrified By Their End
13. 13 Candles

Line-up:
Zel – Vocals, Guitars, Keyboards
Dhilorz – Guitars, Bass
Nick Barker – Drums

ANCIENT – Facebook

Running Wild – Rapid Foray

Una band che continua dal vivo a divertire non poco, ma come molte altre dalla lunga carriera, in leggero affanno quando si tratta di creare nuova musica.

Trittico di nuove uscite in casa Steamhammer che vedono coinvolte tre band storiche del metal, quali Sodom, Vicious Rumors e Running Wild, la banda di pirati capitanata dal mai domo Rolf Kasparek, in arte Rock ‘n’ Rolf.

Lo storico gruppo tedesco dal concept piratesco che, negli anni ottanta, conquistò anime metalliche come galeoni a spasso per il Mar dei Sargassi, di fatto è ormai da considerarsi un duo, con Rock’n’Rolf accompagnato dal fido Peter Jordan e raggiunto in sede live dall’accoppiata ritmica Ole Hempelmann al basso e Michael Wolpers alle pelli.
Poco male, l’anima dei Running Wild è ben salda tra le mani del leader, che continua imperterrito a portare il proprio vascello all’arrembaggio con il classico sound che prende dal power tedesco e dall’hard rock , per trasformarsi nel solito assalto sonoro.
Come ormai da un po’ di anni l’aspetto melodico è diventato preponderante nella musica del combo, ed anche in questo ultimo lavoro Rolf ha puntato molto sulle atmosfere e sui solos, addomesticando la belva power, con ritmiche più controllate e meno impatto diretto come nelle produzioni ’80/’90.
Prodotto dallo stesso Kasparek con l’aiuto del tecnico del suono Niki Nowy e presentato da una copertina che rispecchia il mood piratesco del gruppo, Rapid Foray torna dopo tre anni dall’ultimo lavoro (Resilient), album che sicuramente non aveva fatto gridare al miracolo ma si era assestato sul livello del classico compitino che, se pur svolto bene, non andava oltre un giudizio discreto.
Quest’ultimo lavoro non cambia di molto la situazione anche se, dove il gruppo rischia qualcosa in più sotto l’aspetto del songwriting, escono brani molto melodici e sostenuti da portentose cavalcate, come le due tracce che risultano il cuore pulsante dell’album: la strumentale The Depth Of The Sea – Nautilus e l’ottima power hard rock oriented Black Bart che, con la conclusiva e maideniana Last Of The Mohicans, sono ciò di meglio ha da offrire il gruppo nell’anno di grazia 2016.
Con tutto questo, Rapid Foray rimane un prodotto godibile e ben confezionato; il mood eroico e battagliero con cui la ciurma di Amburgo ha costruito la sua discografia è ben presente, risultando per i fans un lavoro degno della loro reputazione, anche se (è bene precisarlo) siamo ormai lontani dalle gloriose gesta piratesche di classici come Under Jolly Roger, Port Royal e quel gran bel disco che fu Masquerade, sicuramente un lavoro da rivalutare nella discografia immensa dei Running Wild.
Una band che continua dal vivo a divertire non poco, specialmente quando i riff dei classici riprendono vita dalle chitarre ma, come molte altre dalla lunga carriera, in leggero affanno quando si tratta di creare nuova musica: d’altronde gli anni passano per tutti, anche per gli eroi della Tortuga.

TRACKLIST
1. Black Skies, Red Flag
2. Warmongers
3. Stick To Your Guns
4. Rapid Foray
5. By The Blood In Your Heart
6. The Depth Of The Sea – Nautilus (instr.)
7. Black Bart
8. Hellestrified
9. Blood Moon Rising
10. Into The West
11. Last Of The Mohicans

LINE-UP
Rock N’ Rolf – vocals, guitars
Peter Jordan – guitars
Live:
Ole Hempelmann – bass
Michael Wolpers – drums

RUNNING WILD – Facebook

DGM – The Passage

Il passaggio su Frontiers non ha alterato la proposta DGM. La band ha compiuto ancora un ulteriore passo in avanti verso la magnificenza.

Dopo il magnifico “Momentum” del 2013, mi giunge come graditissima sorpresa per il mio secondo contributo su Metal Eyes la proposta del Cavanna di recensire l’ultimo lavoro dei DGM.

L’attuale formazione è stabile da quasi un decennio e, per nostra gioia, ha composto grande musica. Quale fan dei Symphony X, mi sento molto vicino a quanto finora proposto dalla band italiana, e questi ultimi non hanno mai peraltro dissimulato l’influenza dei giganti americani.
Mi immergo perciò in questi 60 minuti con voluttà e le ampie aspettative (le ho ancora, malgrado la veneranda età) vengono rispettate fin dall’opener The Secret (Part I), 8 minuti buoni di eccellente power prog nei quali potenza, tecnica e feeling non lasciano spazio ai pensieri, tant’è la forza espressiva dei nostri. La mini suite si estende in The Secret (Part II), le atmosfere distese e l’andatura più riflessiva, caratterizzata da aperture melodiche di chitarra e tastiere ora brillanti, ora elegiache nel finale. Animal è diretta abilmente dalla chitarra di Simone Mularoni, ottimo compositore e sorgente inesauribile di riff coinvolgenti e fraseggi mai banali. Ghosts Of Insanity (con la partecipazione di Tom Englund degli Evergrey) mostra muscoli e perizia compositiva con un riff iniziale al fulmicotone, possente, vera màcina che sfocia in un ritornello delizioso, fino all’assolo di chitarra scintillante con un finale finale martellante e cupo.
Attacca Fallen e picchia al cuore alternando riff di matrice thrash a refrain ariosi da cantare a pieni polmoni. La title track mette i brividi con un riff iniziale tostissimo e geniale, una composizione entusiasmante che rallenta fino al sublime dialogo tra chitarra/tastiera e dal finale improvviso. La dolce Disguise per piano e voce introduce l’infuocata Portrait, dove tutti gli attributi dei talentuosi power metallers romani vengono esibiti senza inibizioni. La successiva Daydreamer allenta la presa ed è forse la traccia meno entusiasmante, ma Dogma ci inocula nuova adrenalina sempre alternando parti plasmate nell’acciaio ad altre di più ampio (e breve) respiro dove Mark Basile esprime potenza e melodia con linee vocali sempre ispirate, supportate egregiamente da tutti gli altri componenti, compreso l’ospite eccellente a nome Michael “SX” Romeo. La conclusiva In Sorrow ci culla e sfuma nel silenzio rimarcando l’eco di questo magnifico album che ha il solo vizio di essere ancora deliziosamente “dipendente” dalla Symphonia metallica del New Jersey.

TRACKLIST
01. The Secret (Part I)
02. The Secret (Part II)
03. Animal
04. Ghosts Of Insanity
05. Fallen
06. The Passage
07. Disguise
08. Portrait
09. Daydreamer
10. Dogma
11. In Sorrow

LINE-UP
Mark Basile – vocals
Simone Mularoni – Guitars
Emanuele Casali – Keyboards
Andrea Arcangeli – Bass
Fabio Costantino – Drums

DGM – Facebook

Vicious Rumors – Concussion Protocol

Non mancano brani che ricordano il passato glorioso del gruppo statunitense ed il songwriting si attesta su di una media medio alta per tutto lo scorrere del lavoro.

Geoff Thorpe non molla la presa e, a distanza di tre anni da Electric Punishment, torna con un nuovo album (il dodicesimo) dei suoi Vicious Rumors, heavy power metal band made in U.S.A., amata da chiunque si professi un amante dei suoni metallici fin dall’anno di grazia 1988, da quando cioè uscì il loro capolavoro Digital Dictators.

Una carriera quella del gruppo californiano tra alti e bassi, con un periodo che li vide affrontare suoni dal mood più moderno e cool, una sfilza di vocalist che si sono avvicendati dietro al microfono ed il ritorno alle sonorità heavy power con le ultimissime uscite.
Concussion Protocol, prodotto dal chitarrista e Juan Urteaga ai Trident Studio, famosi per aver già ospitato artisti come Testament, Heathen, Machine Head ed Exodus, e con la partecipazione di due ospiti d’eccezione come Brad Gillis (Night Ranger) e Steve Smyth (Nevermore, Testament, Forbidden), vede due nuovi entrati nella line up del gruppo rispetto al suo predecessore: l’ottimo singer Nick Holleman vero animale metallico, ed il bassista Tilen Hudrap.
Valorizzato come sempre dal sontuoso lavoro di Thorpe alla sei corde e aiutato dall’ascia di Thaen Rasmussen, l’album si sviluppa su un concept catastrofico riguardante la caduta di un asteroide sulla terra ed il conseguente armageddon a cui va incontro il genere umano; il gruppo viaggia a mille all’ora tra power metal e ritmiche thrash risultando devastante e melodico, ruggente e molto heavy.
L’heavy metal classico ha appunto un ruolo fondamentale in questo lavoro, la voce di Holleman spazza via ogni tentazione moderna regalandoci una prova da singer di razza, nato e cresciuto nella più pura tradizione metallica e le songs ci guadagnano in impatto ed appeal melodico.
Non mancano brani che ricordano il passato glorioso del gruppo statunitense (Digital Dictators, Vicious Rumors e Welcome to the Ball, album fondamentali per il movimento metallico d’oltroceano) ed il songwriting si attesta su di una media medio alta per tutto lo scorrere del lavoro.
I cinque californiani picchiano che è un piacere, le chitarre fumano sotto le dita degli axeman e le ritmiche sono tempeste sulla costa, le ottime Chemical Slaves, Victims of a Digital World, dal mood hard rock, ed il massacro sonoro ad opera di 1000 Years sono solluchero per i padiglioni auricolari metallizati dal sound old school che il gruppo, almeno questa volta, riesce ad imprimere in questa raccolta di canzoni che non mancherà di soddisfare gli amanti della musica di Thorpe.
Un buon ritorno, il tempo è passato troppo in fretta ma la voglia di suonare metallo è tornata quella di una volta.

TRACKLIST
1. Concussion Protocol
2. Chemical Slaves
3. Victims Of A Digital World
4. Chasing The Priest
5. Last Of Our Kind
6. 1000 Years
7. Circle Of Secrets
8. Take It Or Leave It
9. Bastards
10.Every Blessing Is A Curse
11. Life For A Life

LINE-UP
Nick Holleman – vocals
Geoff Thorpe – guitars
Thaen Rasmussen – guitars
Tilen Hudrap – bass
Larry Howe – drums

VICIOUS RUMOURS – Facebook

Sodom – Decision Day

Decision Day non diventerà un classico, i bei tempi sono passati ormai, ma sicuramente non farà rimpiangere più di tanto i vecchi lavori del gruppo tedesco

Ne hanno fatte di battaglie i Sodom dai primi anni della decade ottantiana, anni che per i true metallers rimangono quelli d’oro per antonomasia del metal considerato classico (o per alcuni old school), dove le prime avvisaglie estremiste cominciavano a contaminare l’heavy metal, per trasformarsi in orde barbariche death e thrash.

Tom Angelripper, insieme a Mille Petrozza dei Kreator e Schmier dei Destruction, si possono considerare come il padre, il figlio e spirito santo della cosiddetta sacra triade di questo mostro chiamato thrash metal e che in terra tedesca trovò i suoi migliori interpreti, almeno per quanto riguarda la vecchia Europa.
Siamo nel 2016, sono passati quasi quarant’anni, eppure in pochi mesi ritroviamo più in forma che mai le due anime più legate al thrash tout court della triade, appunto Destruction (freschi di stampa con l’ultimo e bellissimo Under Attack) ed ora Sodom, con questo ritorno che a conti fatti risulta un ottimo lavoro.
Il quindicesimo album dell’infinita discografia del terzetto di Gelsenkirchen, che vede (oltre al buon Tom come sempre alle prese con basso e voce) anche Bernemann alla sei corde e Markus “Makka” Freiwald alle pelli, continua la tradizione guerresca del gruppo: oggi la band ci porta nel Giugno del 1944 e ai fatti che spinsero gli alleati a sbarcare, non senza dolorose e numerosissime perdite sulle coste della Normandia con la missione di liberare l’Europa dall’oppressione nazista.
Decision Day, titolo molto “americano” è stato prodotto da Cornelius ´Corny` Rambadt, batterista e tecnico del suono del progetto solista di Angelripper, ed illustrato da Joe Petagno, storico artista e grafico al lavoro con icone del metal e del rock come Led Zeppelin, Pink Floyd e Motorhead.
Il gruppo, messe in campo le sue armi migliori, parte alla conquista delle scogliere a nord della Francia con il suo sound spaccaossa, un bombardamento thrash metal che non lascia scampo già dall’opener In Retribution, sei minuti abbondanti di ritmiche infernali, scream al limite del black e solos terremotanti.
Il mood del disco si rifà in toto al primo brano e continua imperterrito la sua avanzata nel cuore del territorio europeo a suon di cannonate, intervallate da attimi di metallo classico ed oscuro, tragicamente melodico ma inesorabilmente potente.
Si respira tra i solchi delle varie Decision Day, Who is God?, il mid tempo estremo di Strange Lost World, il massacro sonoro Sacred Warpath, una fievole speranza di luce, una convinzione che, dall’abominevole sterminio ci sarà una rinascita, ancora una volta una chance data all’uomo che continua a non imparare dai propri errori ma che come un’araba fenice, quando tutto sembra perduto, rinasce per provare a costruire un mondo diverso.
Il trio trasforma queste sensazioni in musica perennemente in bilico tra il thrash metal più oltranzista e quello classico, il che aiuta non poco l’atmosfera oscura di Decision Day.
Batteria e basso liberi di far danni sono una macchina di morte metallica sopra le righe, la sei corde riempe di riff e ritmiche molte volte il limite del marziale il sound, mentre Angelripper conquista cuori metallici dal’alto del suo ruvido e malvagio tono vocale.
Una bellezza Refused To Die, cavalcata che ricorda una marcia delle truppe verso la morte, ora scalfita da venti metallici che da nord soffiano imperterriti sulle coste imbrattate dal sangue dei soldati caduti sotto i colpi dei nemici in un deliro brutale e senza freni.
Decision Day non diventerà un classico, i bei tempi sono passati ormai, ma sicuramente non farà rimpiangere più di tanto i vecchi lavori del gruppo tedesco; per i fans un gran bel regalo da parte di chi la storia del genere l’ha scritta sul serio.

TRACKLIST
1.In Retribution
2.Rolling Thunder
3.Decision Day
4.Caligula
5.Who Is God?
6.Strange Lost World
7.Vaginal Born Evil
8.Belligerence
9.Blood Lions
10.Sacred Warpath
11.Refused To Die
12.Predatory Instinct

LINE-UP
Tom Angelripper – Bass, Vocals
Bernemann – Guitars
Makka – Drums

SODOM – Facebook

Throes Of Dawn – Our Voices Shall Remain

Non resta che raccomandare questo splendido ritorno dei Throes Of Dawn a chi vuole farsi cullare da emozioni che traggono linfa dal passato ma vivono e si sublimano nel presente.

Anche se non lo si dovrebbe fare, viene spontaneo associare le diverse etichette discografiche ad un genere musicale piuttosto che ad altri: nello specifico, dalla Argonauta Records, che annovera nel proprio roster, tra gli altri, autentici “agitatori” musicali quali Nibiru o Sepvlcrvm, ci si aspettano di norma album collocabili in qualche luogo che stia a metà strada tra doom, sludge post metal e sperimentalismi mai fini a sé stessi.

Sorprende non poco, quindi, ritrovare tra le competenti grinfie di Gero, boss della label genovese, la storica band finlandese Throes Of Dawn, visto che nei suoi anni migliori (parliamo dello scorso decennio), aveva dato alle stampe degli splendidi lavori (su tutti Quicksilver Clouds) aventi quale comune denominatore melodie malinconiche inserite all’interno di un tessuto gothic doom/dark. Sorprende ancor di più constatare come, sei anni dopo il leggermente opaco The Great Fleet of Echoes, il gruppo fondato nel 1994 dal vocalist Henri Koivula (oggi anche nella line-up dei magistrali Shape Of Despair) e dal chitarrista tastierista Jani Heinola sia infine approdato ad una forma di progressive dai tratti certamente oscuri, riconducibile in parte agli ultimi Anathema ma dai robusti richiami a sonorità pinkfloydiane.
Lo schema compositivo lo si potrebbe liquidare come semplice e lineare: i brani si aprono in maniera soffusa, spesso rarefatta, lasciando spazio ad arpeggi acustici, tocchi pianistici ed una voce scevra di ogni asprezza, per poi aprirsi irresistibilmente in assoli di matrice gilmouriana, tutti, nessuno escluso, capaci di strappare più di una lacrima a chi ha vissuto in tempo quasi reale le gesta del musicista inglese e della sua ineguagliabile band.
Facile o, ancor peggio, derivativo? No, perché intanto certe sfumature bisogna saperle maneggiare con cura e competenza, ma ciò che più interessa, qui, è l’intensità emotiva che l’album riesce a sprigionare in ogni brano e, a fare la differenza, è soprattutto la predisposizione con la quale l’ascoltatore si avvicina a Our Voices Shall Remain: se si cerca qualcosa che urti, disturbi e ribalti con forza le nostre (poche) certezze consolidate, allora si è decisamente sbagliato indirizzo, mentre non sarà così per chi nella musica ricerca una forma d’arte che sappia commuovere, elevando lo spirito tramite un doloroso processo catartico.
Qui manca, ovviamente, il senso di tragedia evocato dal migliore funeral melodico, ma il turbamento che la chitarra di Jani Heinola riesce a produrre con magistrale continuità porta ad un risultato finale non troppo lontano, lasciando quale eredità tangibile la commozione che prende il sopravvento all’ascolto di brani quali Lifelines, The Understanding e, soprattutto, la conclusiva The Black Wreath of Mind, che chiude magnificamente il lavoro grazie al magico connubio tra le sei corde ed il pianoforte.
Sperando, probabilmente invano, che qualcuno tra gli onanisti del progressive dei bei tempi andati riponga per un attimo la sua copia di Wish You Were Here ingiallita dal tempo e provi a dare un ascolto a Our Voices Shall Remain, non resta invece che raccomandare questo splendido ritorno dei Throes Of Dawn a chi vuole farsi cullare da emozioni che traggono linfa dal passato ma vivono e si sublimano nel presente.

Tracklist:
1. Mesmerized
2. We Used to Speak in Colours
3. Lifelines
4. The Understanding
5. Our Voices Shall Remain
6. One of Us Is Missing
7. The Black Wreath of Mind

Line-up:
Jani Heinola – Guitars, Keyboards
Henri Koivula – Vocals
Harri Huhtala – Bass
Juha Ylikoski – Guitars
Henri Andersson – Keyboards
Juuso Backman – Drums

THROES OF DAWN – Facebook

https://soundcloud.com/argonautarecords/we-used-to-speak-in-colours

Evergrey – The Storm Within

“The Storm Within” è decisamente il miglior album degli Evergrey, accessibile, profondo, con una produzione centrata e potente, 100% Metal.

Avevo apprezzato discretamente i prog-metallers svedesi Evergrey con “In Search of Truth” e “Recreation Day”, li avevo “allontanati” dopo il non esaltante “The Inner Circle” del 2004.

Al decimo lavoro in studio mantengono il loro inconfondibile lato oscuro e quella malinconia che da sempre li contraddistingue, qui stemperata da melodie decisamente catchy.
Apre Distance, con una intro di piano luttuosa, desolante, per il quale è stato realizzato un bel video promozionale (anche per The Paradox of the Flame), poi il ritmo incalza con basso e chitarra sugli scudi, guidati dal poderoso e metronomico drummer. Il groove è notevole, caratterizzato da accordature “detuned” e un riff portante molto coinvolgente.
La voce di Tom Englund in questo lavoro è decisamente espressiva, matura e con la successiva Passing Through il respiro si fa decisamente più ampio. Il brano è mirabile, con una interpretazione molto sentita e assoli incastonati alla perfezione.
Someday col suo incedere quasi epico e cadenzato ci conduce nel cuore del disco, avvalendosi di chitarre ispirate e coinvolgenti.
La più classica Astray innalza ulteriormente il tasso energico-dinamico e chiude con un bel finale adrenalinico di stampo modern thrash.
La breve ballata per voce e tastiera The Impossible inietta malinconia e desolazione prima di My Allied Ocean che pesta duro con la sezione ritmica trainata dalla doppia cassa di Jonas M. Ekdahl, e il metallo trasuda che è un vero piacere.
La melodiosa e ragionata In Orbit è impreziosita dalla vocalist Floor Jansen che duetta all’unisono con Englund, e d’altronde in tutto l’album le melodie vocali sono molto curate e godibili. Attacco deciso per The Lonely Monarch, dove melodia e potenza sono amalgamate con oculatezza e infiorettate da coinvolgenti guitar-solos, sapienti keyboards e vocals incisive.
La meravigliosa e intimistica The Paradox Of The Flame propone ancora una volta Carina Englund al fianco del marito, accompagnandoci in un altro luogo misterioso e maggiormente rarefatto, e si ritorna in corsa con Disconnect e The Storm Within, i brani più lunghi del lotto, nei quali si alternano con gusto parti cadenzate e maggiormente dilatate con un utilizzo delle tastiere che conferiscono ulteriore enfasi e atmosfera in chiusura dell’album.
The Storm Within è decisamente il miglior album degli Evergrey, accessibile, profondo, con una produzione centrata e potente, 100% metal. Consigliato ai fan della band e non!

TRACKLIST
01. Distance
02. Passing Trough
03. Someday
04. Astray
05. The Impossible
06. My Allied Ocean
07. In Orbit (feat. Floor Jansen)
08. The Lonely Monarch
09. The Paradox Of The Flame
10. Disconnect
11. The Storm Within

LINE-UP
Tom S. Englund – vocals, guitar
Henrik Danhage – guitar, backing vocals
Rikard Zander – keyboard, backing vocals
Jonas Ekdahl – drums
Johan Niemann – bass, backing vocals

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