Prong – X – No Absolutes

Il nuovo lavoro non lascia dubbi sul talentodi Victor che, accompagnato da Jason Christopher al basso e Art Cruz alla batteria, sfodera una prova che riconcilia con il genere

Ci sono gruppi che, grazie alla padronanza del genere suonato, a distanza di anni, dopo glorie e cadute, gioie e dolori, arrivano ad incidere album straordinari proprio come nel momento di massimo splendore e successo.

Tommy Victor ed i suoi Prong sono una di queste: grandi interpreti del metal moderno, con un talento unico  per le ritmiche industrial, magari non estremi come nei primi anni novanta (con i seminali Beg To Differ e Prove You Wrong) ma ugualmente spettacolari come nel capolavoro Cleansing, album che portò il gruppo di New York City alla notorietà.
Quasi trent’anni sono passati dal primo album e Tommy Victor non molla, circondato da una marea di musicisti che hanno gravitato nel gruppo e che, di album in album, hanno contribuito a fare della band del chitarrista americano, un punto di riferimento per chiunque si voglia confrontare con il thrash industriale.
Il nuovo lavoro non lascia dubbi sul talento di questo musicista che, accompagnato da Jason Christopher al basso e Art Cruz alla batteria, sfodera una prova che riconcilia con il genere: duro, marziale, molto thrash oriented ma ricamato da chorus catchy da fare tremare le gambe, metal moderno che molte delle giovani band di grido in questi tempi dovrebbero studiare in ogni dettaglio e venerare, prima di rientrare in sala d’incisione.
E X-No Absolutes non delude i fans dello storico gruppo, in stato di grazia in quanto a qualità del songwriting, già ampiamente dimostrato dal ritorno sulle scene con Carved In Stone, album del 2012 che ha dato il via ad una ritrovata enfasi nello scrivere musica da parte del genio newyorkese, con altri due lavori a distanza di pochi anni: Ruining Lives (2014) e Songs from the Black Hole dello scorso anno.
Il nuovo album è melodicissimo, arrembante, colmo di potenziali hits, veloce e thrashy fino al midollo, la chitarra di Victor si destreggia tra i famosi ritmi marziali e sfuriate metalliche da far impallidire mezza Bay Area, la voce del leader negli anni è migliorata, tanto da raggiungere un appeal che solo pochi anni fa era impensabile (la semiballad Belief System), mentre raggiungere la fine è un attimo, esaltati dallo strapotere delle varie Sense Of Ease, il metallone classico di Worth Pursuing, la thrashy Cut And Dry o l’arrembate metal industriale di Soul Sickness.
Rimane un lotto di tracce dall’impatto melodico esagerato, senza perdere un grammo dell’impatto groove/industrial metal di cui il gruppo è portatore sano, contaminando il nostro sangue con scorie di moderno sound esplosivo e devastante come un’atomica.
I Prong, come per esempio gli Anthrax, non si accontentano di riproporre lo stesso materiale, ma cercano di donare ai loro fans nuovi modi per assaporarne la musica e, di fatto, hanno trovato un ottimo compromesso tra la devastante marzialità dei primi lavori e l’aspetto più melodico del metal moderno: il tempo per loro non è passato invano…

TRACKLIST
1. Ultimate Authority
2. Sense of Ease
3. Without Words
4. Cut and Dry
5. No Absolutes
6. Do Nothing
7. Belief System
8. Soul Sickness
9. In Spite of Hindrances
10. Ice Runs Through My Veins
11. Worth Pursuing
12. With Dignity
13. Universal Law

LINE-UP
Tommy Victor Vocals, Guitar
Jason Christopher Bass
Arturo “Art” Cruz Drums

PRONG – Facebook

Dario Cattaneo – Dietro il Sipario: l’Epopea dei Savatage

Dietro Il Siparo è, di fatto, una sorta di bibbia per ogni fan dei Savatage degno di questo appellativo.

Ma dietro le tende, il palco, anche se vuoto, c’è ancora. E qualcuno ha lasciato lì un vecchio pianoforte nero e una chitarra bianca avvolta di rose, entrambi apparentemente pronti per essere riutilizzati.

Si conclude così, di fatto, questo bellissimo racconto, un’avventura nel mondo delle sette note, un omaggio ad una delle più grandi e fondamentali band di cui il nostro genere preferito può vantarsi.
Me lo chiedevo da un bel po’: possibile che nessuno fosse interessato a scrivere un libro sui Savatage? Eppure la band fondata dai fratelli Oliva, ha scritto quanto di meglio il metal abbia potuto offrire, in termini di qualità, al mondo della musica, partendo dal classico power metal made in U.S.A. per trasformarsi strada facendo in una spettacolare orchestra capace di convogliando i suoni ruvidi del metal, la musica classica e il prog senza lasciare, nella sua storia, niente in quanto ad eccessi e tragedie.
Ci ha pensato fortunatamente Dario Cattaneo, una vita nel mondo metal, redattore per Metalitalia e collaboratore di Metal Maniac, nonché grande fan del gruppo floridiano.
Aiutato da Andrea Mariani, batterista della tribute band ufficiale, gli Strange Wings, nonchè roadcrew dei Jon Oliva’s Pain, lo scrittore ha finalmente reso giustizia ad un gruppo unico ed inimitabile, ponendo l’accento su quello che sono sempre stati i Savatage: una famiglia, un unico nucleo di musicisti, gravitanti intorno ai fratelli Oliva prima, e poi, dopo la tragica scomparsa dell’inimitabile axeman Criss, al duo di compositori formato da Paul O’Neill ed il Mountain King, Jon Oliva.
Una scrittura fluida e scorrevole fa in modo che la storia prenda forma come in una pellicola cinematografica, dalle prime esibizioni dei due fratelli, alla parentesi Avatar, un attimo prima che la leggenda prenda il volo, il giorno prima della messa in stampa dello storico Sirens e del cambio di monicker in Savatage.
Di qui in poi si entra dalla porta principale nell’universo dei fratelli Oliva: i vari album sono descritti perfettamente ma senza annoiare, come talvolta accade invece nelle biografie musicali.
I primi successi e gli eccessi del Mountain King, il flop del famigerato Fight For The Rock, le incomprensioni con la Atlantic, fino ad Hall Of The Mountain King ed all’incontro con Paul O’Neill.
Chris Caffery, Al Pitrelli, Jeff Plate, Jack Frost, Zachary Stevens, Alex Skolnick sono solo alcuni dei musicisti della Savalandia che si unirono al gruppo nel corso degli anni, sostituendo o collaborando con la formazione originale: l’autore racconta dei  vari avvicendamenti in formazione con un tocco romanzato che affascina e tiene il lettore incollato alle pagine; la morte di Criss Oliva in un incidente stradale, la decisione di Paul e Jon di continuare, lasciando ad una formazione inusuale lo stupendo Handful Of Rain, e l’inizio della fase orchestrale, affidata a capolavori come Dead Winter Dead, The Wake Of Magellan e Poets And Madmen, ma di fatto già in embrione con l’altrettanto, bellissimo, Streets, sono descritti in modo molto professionale e corredati da schede in cui vengono raccontate le varie storie che formano questi concept, ormai passati alla storia.
Ma il mondo dei Savatage non finisce con il lungo silenzio della band: Cattaneo, nel finale, ci regala un’ulteriore panoramica su tutti i figli musicali della band madre, dai Doctor Butcher ai Jon Oliva’s Pain, dai Circle II Circle alla carriera solista di Chris Caffery, fino all’immensa Trans Siberian Orchestra, quella che, a detta dallo stesso Mountain King, è la nuova incarnazione dei Savatage.
Una band che ti entra dentro l’anima e non ti lascia più, l’unica che può vantare un innumerevole via vai di musicisti senza perdere un grammo della sua identità, troppo presto privata del grande talento di Criss Oliva, ma valorizzata dall’altrettanto mostruoso musicista e compositore che è il fratello Jon.
Il libro si conclude con la descrizione dell’evento al Wacken Open Air dello scorso anno, che vedeva la reunion dei Savatage con la formazione di The Wake Of Magellan suonare a fianco della Trans Siberian Orchestra, e la dettagliata discografia del gruppo compresi i vari progetti di cui abbiamo parlato.
Licenziato dalla Tsunami Edizioni, ormai punto di riferimento per la musica scritta, Dietro Il Siparo è, di fatto, una sorta di bibbia per ogni fan dei Savatage degno di questo appellativo, ed essendo io stesso un adoratore della musica del maestro Oliva, non mi rimane che ringraziare l’autore per questa suo esauriente omaggio … Still The Orchestra Plays!

Todtgelichter – Rooms

Rooms, nove stanze che nascondono nove modi di emozionare, nove porte da aprire per entrare in un caleidoscopio di suoni progressivi estremi.

Mi fate davvero sorridere, sì voi beceri ed ignoranti cultori della musica usa e getta, delle boy band, e detrattori del metal a prescindere, cultori dei soldi a dispetto dell’arte.

Ma ilo mio ghigno è di rabbia, una rabbia che da anni mi porto dentro, ogni volta volte che mi fermo a parlare di musica, fiato sprecato se al cospetto ho persone che non hanno orecchie per sentire.
E allora, il tutto rimane come sempre circoscritto ad un manipolo di eletti che, fregandosene altamente delle abituali new sensations che ogni anno sfornano antipatici tormentoni, della buona musica si nutrono e sicuramente apprezzeranno un album come Rooms, nuovo lavoro dei tedeschi Todtgelichter.
Nati come black metal band, magari atipica, ma pur sempre assimilabile al genere oscuro per eccellenza, nel corso degli anni si sono trasformati in un’entità totalmente slegata da generi e confini, maturando un sound estremo che fa dell’originalità e della maturità compositiva il suo credo, elargendo arte delle sette note come se piovesse dal cielo.
Rooms, nove stanze che nascondono nove modi di emozionare, nove porte da aprire, per entrare in un caleidoscopio di suoni progressivi estremi, intricati, ma perfettamente logici, per godere di arte che va aldilà delle barriere erette dai profeti del nulla, per umiliare quella forma di musica che si rivela solo materiale di uso e consumo.
Nati all’inizio del nuovo millennio e con ben quattro full length alle spalle, di cui l’ultimo, Apnoe, aveva tutti i crismi del capolavoro, il gruppo di Amburgo aggiunge un altro quadro dai mille colori nella sua già nutrita discografia, con questo stupendo affresco di musica a 360° dal titolo Rooms.
Progressive, musica estrema, dark, accenni di blues rock (Origin) si fondono per donare nove tracce di suoni alternativi ai soliti cliché: teatrale, oscura, intimista ed eclettica, sfiora la sublime eccellenza con l’interpretazione della stupenda Marta, un’Edith Piaf della musica estrema, violenta e terrificante con lo scream, teatrale ed assolutamente ineccepibile alle clean vocals.
Entrando nelle nove stanze di cui è composto questo monumentale edificio musicale, vi perderete nei meandri delle sette note, intimiste, malinconiche, violente come uno stupro, affascinanti come il male e curative come solo l’arte sa essere per l’anima.
Nessun accenno ai brani, per entrare dovrete trovare la prima chiave e poi, dentro alla prima stanza troverete quella per la seconda e così via, in un viaggio dove voi sarete incollati all’ingresso, mentre sarà il vostro io che percorrerà i corridoi, aprirà le porte, si rifugerà negli angoli più bui, spaventato da una musica che lo denuda, mettendolo davanti ad uno specchio che non riflette quello che crede di essere, ma ciò che è veramente.
Un capolavoro di emozioni.

TRACKLIST
01. Ghost
02. Schrein
03. Lost
04. Shinigami
05. Necromant
06. Zuflucht
07. 4JK
08. Origin
09. Pacific

LINE-UP
Marta: vocals, screams
Frederic: guitars, backing vocals
Floris: guitars
Guntram: bass
Frieder: organ, synths
Tentakel P.: drums

TODTGELICHTER – Facebook

URL YouTube, Soundcloud, Bandcamp

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Magnum – Sacred Blood “Divine” Lies

Per i fans del rock d’autore, raffinato, melodico ed elegante, questo nuovo album dei Magnum è l’espressione più alta che l’hard rock melodico possa offrire, acquisto obbligato.

Scrivere di un nuovo album dei Magnum è come entrare in un mondo fatato, da sempre infatti il gruppo britannico ha sempre affrontato il rock come farebbe un moderno cantastorie, regalando avventure fantastiche, tutte da vivere all’ascolto dei vari lavori che, dall’uscita di Kingdom Of Madness nel lontano 1978, ha fatto sognare centinaia di appassionati, dai rockers innamorati dell’AOR, ai progsters che flirtano più con l’emozionalità che con la tecnica, fino a raggiungere i metallers dai gusti musicali raffinati.

E’ un fatto che il gruppo di Birmingham ha scritto pagine epocali dell’hard rock con capolavori (On a Storyteller’s Night e Wings of Heaven su tutti) che hanno contribuito a fare del gruppo una realtà intoccabile della scena, anche se in termini commerciali il successo non è mai andato pari passo con la qualità della musica proposta, ma la band è sempre qui, ad elargire stupende armonie prog/folk/pomp su di un tappeto di regale hard rock.
La Steamhammer/SPV ha fatto le cose in grande per il ritorno dopo due anni dal precedente Escape from the Shadow Garden, ed il nuovo lavoro del gruppo del divino Bob Catley e dell’arcigno axeman Tony Clarkin, esce in tre diverse releases : CD+DVD, CD e vinile colorato, cose d’altri tempi, abituati ormai agli store sul web, o, al massimo il solo formato su dischetto ottico.
Come ormai abituati da più di trent’anni di uscite targate Magnum, il sound di questa nuova opera riesce a mettere d’accordo un po tutti, conquistando con meravigliose armonie dalle riminiscenze folk, tante melodie AOR e un’impronta progressiva, non facendo mancare una buona dose di grinta, specialmente nella ruvida chitarra di Clarkin che parte aggressiva e grintosa sula title track posta in apertura.
Crazy Old Mothers torna a far risplendere i tasti d’avorio, eleganti e pomposi di Mark Stanway e si entra nella nuova fiaba, scritta da questi menestrelli dell’hard rock, che tanto hanno influenzato gruppi fantastici come Ten o Ayreon, che alla band di Catley dovrebbero ereggere un monumento.
Gipsy Queen torna a rockare, la sei corde di Clarkin sforna un riff esplosivo su cui il gruppo costruisce una marcia rock dedicata alla regina degli zingari, mentre Princess In Rags (The Cult) è un pomp rock dal piglio drammatico, molto Ten oriented.
Sacred Blood “Divine” Lies continua la sua marcia verso il finale con altre perle di rock raffinato, elegantemente incorniciato dai sontuosi ricami di cui il gruppo è maestro, con picchi qualitativi come L’emozionale e orchestrale Afraid Of The Night e la superba Twelve Men Wise and Just, song che se ce ne fosse ancora bisogno, riassume l’eleganza e la straordinaria padronanza del songwriting di questi grandi musicisti britannici.
Arriviamo alla conclusione dell’album con la consapevolezza di aver ascoltato un’altra storia, un’altra splendida opera, da parte di un gruppo che non ne vuol sapere di lasciare la testa della classifica del genere, e ha ragione, vista la qualità della musica che sa ancora donare a chi li segue imperterriti dopo così tanti anni.
Per i fans del rock d’autore, raffinato, melodico ed elegante, questo nuovo album dei Magnum è l’espressione più alta che l’hard rock melodico possa offrire, acquisto obbligato.

TRACKLIST
01. Sacred Blood “Divine” Lies
02. Crazy Old Mothers
03. Gypsy Queen
04. Princess in Rags (The Cult)
05. Your Dreams Won’t Die
06. Afraid of the Night
07. A Forgotten Conversation
08. Quiet Rhapsody
09. Twelve Men Wise and Just
10. Don’t Cry Baby

LINE-UP
Tony Clarkin – guitars
Bob Catley – vocals
Mark Stanway – keyboards
Al Barrow – bass
Harry James – drums

MAGNUM – Facebook

ELEVATORS TO THE GRATEFUL SKY

Sandro Di Girolamo ci ha parlato dei suoi Elevators To The Grateful Sky, del loro passato e del presente che si chiama Cape Yawn, capolavoro stoner/psichedelico in uscita in questi giorni, buona lettura.

Sandro Di Girolamo ci ha parlato dei suoi Elevators To The Grateful Sky, del loro passato e del presente che si chiama Cape Yawn, capolavoro stoner/psichedelico in uscita in questi giorni, buona lettura.

iye Ciao Sandro, raccontaci come nasce il progetto Elevators To The Grateful Sky.

Ciao Alberto, anzitutto, grazie mille per questa intervista e per le gentili parole che hai sempre speso nei confronti degli ETTGS. Il progetto nasce nel 2011, da un’idea mia e di Giuseppe Ferrara (chitarra). Entrambi suonavamo in un duo brutal death (munito di drum machine), Omega. Forse, perché stanchi di portare avanti un qualcosa di così veloce e tecnico o semplicemente rapiti da un genere così incredibile come quello dello stoner-rock e l’heavy psych, abbiamo deciso di fondare gli Elevators to the Grateful Sky. Subito alla batteria si è unito, Giulio Scavuzzo (ex-Horcus), e alla chitarra solista, Giorgio Trombino (con cui suonavo già nel gruppo swedish death Undead Creep e il quale vantava e vanta la sua presenza e “paternità” in/di numerose altre band: Haemophagus, Sergeant Hamster, Furious Georgie, Assumption, The Smuggler Brothers. Proprio lui, infatti, è abbastanza apprezzato all’interno della scena palermitana, per la sua versatilità nel comporre musica e suonarla con i più svariati strumenti).

N.B. E’ qualcosa che non ho mai detto in giro, però ricordo esattamente il giorno … stavo al pc e mi imbattei in ‘Whitewater’ dei Kyuss, metto play e ascolto. Dopo l’intro parte il riff principale, mi aggrappai alla sedia e subito pensai: “Ma che cos’è questa roba fichissima!? E’ questo il mood che ho sempre ricercato! Devo assolutamente fare anch’io questo genere!”. Da lì in poi, la storia si conosce…

iye Cloud Eye è stato un esordio clamoroso per il gruppo: quali sono stai i riscontri ottenuto tra il pubblico e gli addetti ai lavori?

L’album è piaciuto davvero tanto e ha avuto anche un ottimo riscontro sia da parte della critica che del pubblico. Ci sono arrivate un fiume di recensioni (italiane ed estere) estremamente positive e fatto varie interviste. Molti magazine, su tutti uno dei nostri preferiti, Rumore, ci hanno più volte, dato spazio al loro interno. Non possiamo che ringraziare sempre tutti coloro che ci supportano e ci aiutano nel difficile compito di diffondere il più possibile la nostra musica (ovviamente tra queste tante persone, ci sei anche tu, Alberto).

iye Musica desertica, splendidamente psichedelica, un’amalgama del meglio che un certo tipo di rock ha regalato negli ultimi decenni, senza dimenticare il periodo settantiano: sei d’accordo con questa definizione di quel disco?

Assolutamente. Cloud Eye, per quanto anch’esso ricco di citazioni facenti l’occhiolino ad altre “atmosfere” non proprio inerenti al rock desertico in senso stretto, di sicuro pecca di questa maggiore “affiliazione” a quel particolare genere sviluppatosi dagli anni ’70 in poi e che ha trovato la sua evoluzione in Palm Desert e Seattle.

iye Il nuovo lavoro lascia in disparte le sfumature grunge di Cloud Eye per nutrirsi di suoni rock’n’roll e garage, mantenendo quella vena psichedelica che è il vostro marchio di fabbrica.

Esatto, come dicevo prima, se Cloud Eye rimaneva ancora fortemente legato a una particolare “dimensione musicale”, con Cape Yawn abbiamo alzato un po’ il tiro, puntando a qualcosa di più miscelato e personale, come hai detto tu nella recensione dell’album: “liquido”. Ovviamente è importante mantenere, quelli che chiami “marchi di fabbrica”. Personalmente penso che, nell’arte in generale, se non si è capaci di dire “la propria” e a “proprio modo”, si può tranquillamente smettere di suonare/scrivere/dipingere ecc … passando ad impiegare il proprio tempo in altro. Non vorrei essere polemico, ma sento il bisogno di dirlo, è capitato più volte, che abbiano esclamato sul nostro conto, le classiche frasi: “non comunicate nulla di nuovo”, “siete derivativi” (P.S. sentiteli bene i dischi prima di dire la vostra e scrivere sommarie parole). Cari signori, io non capisco invece, dove tutta questa “grande novità” la troviate in gruppi (e ce ne sono a bizzeffe) facenti parti sempre della stessa scena stoner-rock e da voi acclamati e portati in gloria. Riff banali, scontati, scopiazzati, personalità inesistente, suoni stantii, composizione dei brani inconcludente. Non mi sembra che questi nostri colleghi si sforzino più di tanto nel cercare questa tanta agognata “innovazione” o che s’impegnino nel tentativo di esprimere la loro personalità. Noi nel nostro piccolo, cerchiamo di farlo, con tutto ciò che potrete sentire all’interno delle nostre canzoni (es. la parte funky di Mongerbino). La cosa comunque fondamentale, e chiudo, è che questa nostra ricerca non viene stimolata sicuramente dal ricevere il benestare del boss della ‘zine “di turno”, bensì, tutto ciò lo facciamo solamente perché ci va e vogliamo dire la nostra divertendoci e giocando con le note e i suoni. E’ stato e sarà sempre così, che piaccia o dispiaccia, che riesca o no. (P.S. ma poi innovazione, innovazione … ma a un certo punto fanculo, se una cosa è bella, è bella! L’importante è questo!)

iye A mio parere gli anni settanta nella vostra musica sono rappresentati da una vena doorsiana, cosa ne pensi?

Ovviamente le atmosfere dei Doors intrise di trip mistici e oscuro surf-rock trovano larga diffusione nella nostra musica. Probabilmente anche alcuni testi e metriche che compongo richiamano un certo mondo della California di qualche decennio fa. Personalmente apprezzo molto Gleen Danzig, quindi il richiamo può starci tutto (visto le cose in comune con Jim Morrison). Comunque, le influenze inerenti ai ‘70s sono molteplici, non ci basterebbe un’intervista per elencarle!

iye La title track è uno strumentale da brividi, come nasce un brani di questo tipo?

Bella domanda! Guarda non saprei risponderti sul fatto di come “nasce un brano di questo tipo”, ma posso dirti come questo è nato! I riff principali sono stati scritti da me e Giuseppe per poi essere revisionati, armonizzati e implementati da Giorgio e Giulio (anche con l’ausilio di strumenti come il sassofono). Abbiamo registrato, prima una pre-produzione casalinga e poi suonato più e più volte, rendendo la natura della strumentale, sicuramente più “jammata”. Quando componiamo, riflettiamo un po’ su ciò che vorremmo esprimere con quella canzone. Dobbiamo raccontare una storia, particolari stati d’animo, luoghi, persone, che caratterizzano un definito periodo della nostra vita. Proprio Cape Yawn è l’inno perfetto per le nostre “gite”, qui nei dintorni di Palermo (Monte Pellegrino e la costa di Barcarello su tutti). Guardare il tramonto in compagnia degli amici, bere una birra, fumarsi una sigaretta, pensando ad amori passati o impossibili … magari, il tutto avvolto da questa malinconia provocata dall’incertezza per il futuro della nostra terra, cullati dalla bellezza e poesia del nostro paesaggio (spero che dal video che ho realizzato, si capisca tutto ciò). In questo caso, le melodie richiamanti un triste surf-rock, condite da chitarre ovattate e sassofono riverberato, restituivano al meglio un simile mood. Questa è Cape Yawn, “Capo Sbadiglio”.

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iye Laura è un altro strumentale dedicato a Mark Sandman, frontman dei Morphine: a che cosa è dovuto questo omaggio?

Tutti e quattro siamo degli sfegatati fan dei Morphine. Penso che sia impossibile quantificare le volte in cui ho ascoltato capolavori come “Good”, “Yes”, “Cure for Pain” ecc … Mark Sandman è stata una persona davvero determinante per l’evoluzione della musica rock targata 90’s. Una leggenda. A mio avviso non esisteranno mai più gruppi, con un sound, un appiglio e un groove come il combo di Boston. Proprio il full “Good” mi ha fatto compagnia in un periodo non proprio allegro della mia vita (coincidente con la composizione di Cape Yawn). La semplicità, ma nello stesso la “portata e pesantezza” delle parole del compianto Sandman hanno scavato in noi tutti qualcosa di veramente indimenticabile. Gli hanno dedicato una scalinata a Palestrina, il minimo che potessimo fare noi sarebbe stato scrivere qualche secondo di sassofono in chiave “Dana Colley”. Non so dovunque tu sia, però Mark, ti ringraziamo con tutto il cuore per quello che ci hai trasmesso con la tua arte.

iye La copertina di Cape Yawn è stata disegnata da te: quella del grafico è solo una passione alternativa a quella per la musica, o qualcosa di più?

Di solito ci lavoro part-time. In questi anni non so più quante grafiche ho realizzato (una volta feci pure un inchiostrazione per gli Hooded Menace). Quasi tutte per i gruppi della scena di Palermo, non vorrei esagerare, ma alla stragrande maggioranza delle band della mia città ho fatto o un logo o un artwork o qualcos’altro. Principalmente però, mi sto laureando in Ingegneria Edile-Architettura. Ogni tanto lavoro pure come free-lance in studi di progettazione per la realizzazione di rendering 3d. Cerco per adesso di guadagnare un po’ di soldini, per il gruppo e anche per avere la libertà di poter uscire la sera e devastarmi di birra e Jägermeister al Pub; per chi vuole, mi trova quasi sempre al Krust in via Dante, 19 (qui a Palermo). Passo praticamente le mie serate sbevazzando, a parlare di musica e a sparare cazzate!

iye L’album finora è stato stampato in vinile dalla HeviSike Records, ne è prevista l’uscita anche nel formato cd?

A quanto pare, no. Probabilmente, invece, è prevista l’uscita di Cloud Eye in vinile. Rimanete sintonizzati sul nostro profilo facebook per news e quant’altro.

iye Con nomi quali Elevators To The Grateful Sky, Haemophagus, Sergeant Hamster, spesso collegati tra loro, è giusto parlare dell’esistenza di una vera e propria scena in quel di Palermo?

Questi gruppi sono indissolubilmente legati dal fatto che ci suoni Giorgio. Ora, che non me ne voglia, visto che lui evita sempre di parlare di queste cose e mi richiama più volte e più volte quando lo faccio io, perché eticamente è abbastanza da presuntuosi e spacconi. Però questa volta parlerò, poco importa se mi crederanno o meno e che a lui piaccia o no. Giorgio Trombino oltre che ad essere una persona magnifica, unica, è uno dei miei più cari amici, con cui ho condiviso i giorni e la musica è sicuramente uno dei più grandi talenti dell’underground siciliano (personalmente anche d’Italia per non parlare d’Europa, se vogliamo proprio esagerare). Non è cosa di tutti i giorni incontrare un così poliedrico musicista, nell’ambito degli ascolti, del gusto compositivo (qui si passa da John Coltrane ai Pungent Stench, per farvi capire) e che suoni praticamente TUTTI gli strumenti. Ecco Giorgio. L’ho detto e l’ho fatta grossa, adesso ci odieranno ehehe. Comunque ricordo tutto ciò, per ricollegarmi al fatto che molte cose che sentite provenire dalle nostre parti, sicuramente sono di un certo livello proprio perché c’è il suo zampino. Ad ogni modo, molti sono i gruppi che pur soffocati dalle difficoltà che contraddistinguono la diffusione della musica underground nella nostra città, sono riusciti a canalizzarle per creare un sound personale e di un buon livello. Su tutti (oltre ai progetti del signor Trombino, che avevo già citato): Balatonizer, Airfish, Kali Yuga, La Banda di Palermo, Bigg Men, Cadaver Mutilator, ANF, FUG, Throne of Molok, Stesso Sporco Sangue, Terrorage, Favequaid ecc…

iye La vostra musica è colma di riferimenti a più generi, ma quale tra questi vede Sandro Di Girolamo come suo vero e proprio fan?

Direi quasi tutti, trasversalmente. Certamente, gruppi come: Kyuss, QoTSA, Morphine, Danzig, Yawning Man, Fu Manchu, Captain Beefheart, Melvins, Electric Wizard, Goatsnake, Sleep, Church of Misery, (un po’ banali come citazioni, comunque) ecc… li porto sicuramente nel cuore. Ultimamente ascolto davvero tanto gli Arctic Monkeys. Apprezzo enormemente il talento e le capacità compositive e comunicative di Alex Turner (pure se è ormai diventato il frutto dell’image styler – “lo zio Homme”). In playlist ho quasi sempre “Favorite Worst Nightmare” e “AM”. Ci sono davvero delle belle canzoni (sottolineo, canzoni, non tracce o pezzi) e quando vedo alcuni loro live, non posso che essere (sanamente e costruttivamente) invidioso del loro successo. Arrivare a quei livelli lì, sarebbe davvero un sogno che si avvera. Non chiederei altro.

iye Per finire, quali sono i vostri progetti sul versante live?

Stiamo cercando di organizzare un mini-tour in Inghilterra, visto oltretutto che Giuseppe oramai vive e lavora come infermiere specializzato a Stoke-on-Trent, in pianta stabile (esatto il luogo di nascita di “gentaglia” come il leggendario Lemmy e Slash). Volevamo pianificare qualcosa per Maggio, ma probabilmente il tutto verrà posticipato. Se qualcuno è in grado di darci una mano, per favore, non tardi a contattarci! Per il resto, grazie ancora per questa bella intervista! Ricordiamo che Cape Yawn, sarà disponibile via Hevisike dall’11 Marzo in poi. Spero che tutte le persone sintonizzate, possano sentirlo e apprezzarlo. Magari non è il disco della vita, ma sicuramente è un prodotto sincero, fatto con impegno e passione. Se volete approdare nel nostro mondo, Cape Yawn e l’astronave che vi ci porterà!

Hangarvain – Freaks

Freaks conferma ancora una volta il talento compositivo di questi musicisti, superando il già bellissimo esordio con un lavoro più duro, maturo, intimista, come se l’entusiasmo dell’esordio avesse lasciato il passo alla consapevolezza di essere una grande band

Un giorno, qualche anno fa, un gruppo di ragazzi napoletani con la voglia di essere liberi e suonare hard rock, caricarono la loro cinquecento e partirono dai piedi del Vesuvio alla conquista dello stivale; tanta passione accompagnata da un talento smisurato per il rock americano, li portò sulle strade che al loro passaggio, mentre l’autoradio suonava i brani di Best Ride Horse (il loro debutto), come d’incanto si trasformavano nelle polverose e lunghissime highway di quell’America da vivere fino all’ultimo respiro.

Un anno dopo serviva riprendere fiato e, a Natale 2014 le armonie acustiche dell’ep Naked vedevano gli Hangarvain finalmente riposare, fare un sunto del viaggio che li aveva visti bruciare chilometri e chilometri d’asfalto, mentre i loro strumenti si accendevano su molti dei palchi in giro per le città della penisola, portando un po’ di quell’America, tra hard rock, southern e rock style a chi li voleva ascoltare.
Quasi tre anni sono passati e la band ha sudato, sognato e fatto divertire tanti ragazzi, nel suo lungo viaggiare tra strade impervie e mille difficoltà, ma è ora di tornare verso casa, affrontando un viaggio di ritorno che porta al traguardo di un nuovo lavoro.
E Freaks conferma ancora una volta il talento compositivo di questi musicisti, capitanati dal vocalist Sergio Toledo Mosca e dal chitarrista Alessandro Liccardo, superando il già bellissimo esordio con un lavoro più duro, maturo, intimista, come se l’entusiasmo dell’esordio avesse lasciato il passo alla consapevolezza di essere una grande band, il che si trasforma in molta più personalità e convinzione.
Ora la loro musica non è più solo una stupenda rilettura di un modo di fare rock’n’roll, il viaggio intrapreso li ha fatti tornare maturi e appunto consapevoli, così da imprimere al loro sound il proprio marchio di fabbrica.
Freaks, i diversi, quante volte negli ultimi tempi abbiamo sentito e letto su media e giornali questa parola riguardo allo squallore in cui è piovuta la nostra società, riguardo a problemi che, noi per primi sottovalutiamo, non concedendo chance a chi non è fortunato, che sia un uomo arrivato da un altro paese o di tendenze sessuali sulle quali continuiamo a costruire tabù, imprigionati in un assurdo medioevo spazio temporale.
Ecco questo disco è dedicato a chi non si arrende, a chi vivrà sempre contro, a chi non si piega e vive per il suo sogno, lottando per i propri ideali o molto più prosaicamente, per il prprio lavoro, cercando di non farsi sopraffare da una società che non accetta debolezze.
Il punto di partenza per questa nuova raccolta di songs non poteva essere più azzeccato e la band, ancora senza un’etichetta, ha fondato la propria fregandosene di un music biz sordo come non mai: lottando, ha portato a termine questo stupendo concentrato di hard rock made in U.S.A., amalgamando alla perfezione, sound sudista, post grunge e hard rock classico, questa volta velato di un’oscurità quasi tragica, introspettiva, e portando la propria musica ad un livello emotivo ancora superiore.
Freaks emoziona, aldilà dei fantastici riff scaldati dal sole del sud creati dall’axeman Liccardo, della straordinaria voce di un Toledo Mosca cresciuto tantissimo in personalità, o della sezione ritmica che sanguina groove di Francesco Sacco al basso e Mirkko De Maio alle pelli; emoziona e scava dentro di noi, tra canzoni che sprigionano hard rock moderno (Keep Falling, la title track e Sliding To Hell, per un inizio da infarto), ballad d’autore che tolgono il respiro, energiche come Dancing On A Wispher o meravigliosamente poetiche come Like Any Other, song d’autore che avvicina il gruppo ai Pearl Jam, salti nel puro southern rock con la magnifica A Life For Rock’n’Roll o hard blues sanguigni come A Coke Shot e Stuck In Arizona.
Ten Years Waiting è il commiato: orgogliosamente sudista, trasuda tutta la malinconia di cui è rivestito gran parte di questo capolavoro e ci dà appuntamento sulla piazza, una mattina di primavera, per ripartire verso altri luoghi dove raccontare di diversità, di libertà, di battaglie da vincere e sogni da conquistare, insieme a questa fantastica band chiamata Hangarvain.

TRACKLIST
1.Keep falling
2. Freaks
3. Sliding to hell
4. Dancing on a whisper
5. Devil of the South
6. Like any other
7. A coke shot
8. A life for rock’n’roll
9. Stuck in Arizona
10. Ten years waiting

LINE-UP
Sergio Toledo Mosca – Lead Vocals
Alessandro Liccardo – Guitars, Backing Vocals
Francesco Sacco – Bass
Mirkko De Maio – Drums

HANGARVAIN – Facebook

Myrath – Legacy

Legacy è l’album che DEVE consacrare questa risplendente realtà musicale, trattandosi della naturale finalizzazione di un talento non comune

Per farmi uscire dalla confortevole cripta virtuale, all’interno della quale mi abbevero di tutte le sonorità più cupe e funeree che il mondo musicale può offrire, ci vuole qualcosa di unico, di speciale, capace di entrare in rotazione pressoché fissa nel lettore, anche se di genere normalmente estraneo ai miei ascolti abituali.

L’anno scorso questo “evento” si era verificato grazie ai francesi 6:33, mentre in questo 2016 credo proprio che il loro posto verrà preso dai magnifici tunisini Myrath.
La band nordafricana non è, in effetti, una sopresa vera e propria, neppure per me visto che avevo già avuto modo, qualche anno fa, di apprezzarne le indiscutibili doti espresse con il terzo full-length Tales of the Sands.
Quel lavoro, così come i precedenti, metteva in evidenza un gruppo di assoluto livello ma, ammettiamolo, molta dell’attenzione nei suoi confronti derivava dalla nazione di provenienza, inutile girarci intorno, e questo induceva inevitabilmente a deformare la percezione del contenuto musicale, badando più all’aspetto esotico della proposta che non al suo effettivo e ben consistente valore.
Legacy, lo spero con tutto il cuore, dovrebbe sgombrare il campo da ogni distorsione, rendendo il disco dei Myrath “semplicemente” un capolavoro scritto e composto da musicisti che vivono su questo pianeta, punto; poi, è evidente quanto la grandezza di questo album derivi anche da quelle origini, oggi più che mai compenetrate con la struttura heavy/prog dei brani grazie ad un lavoro di arrangiamento a dir poco stupefacente, oltre che all’operato di un tastierista dalla statura superiore alla media (in tutti i sensi) come Elyes Bouchoucha, in grado di ammantare il sound dei Myrath di quelle orchestrazioni arabeggianti che lo rendono unico.
Questa commistione sonora in passato era riuscita altrettanto bene agli Orphaned Land (soprattutto in Mabool), ma la proposta della band israeliana traeva vantaggio da una maggiore eterogeneità che, quindi, consentiva di spaziare con disinvoltura da partiture estreme a passaggi etnici, senza però raggiungere l’amalgama perfetta espressa invece dai tunisini: in Legacy ogni singola strofa è immersa in questa atmosfera davvero speciale, con suoni caldi e comunque differenti da quelli, solo apparentemente simili, che possono giungere dall’Europa o dagli States; infatti, i Myrath riescono in maniera continua a conferire al loro sound la “riconoscibilità”, ovvero quel quid che rende ogni nota suonata da una band una sorta di marchio di fabbrica.
Certo, si potrebbe obiettare che, esemplificando al massimo, la musica ascoltata in Legacy sia una sorta di versione alleggerita ed arabeggiante dei Symphony X ma, fermo restando che ciò non sarebbe affatto sminuente nei confronti dei Myrath, va ribadito che qui non si sta parlando dell’invenzione di un nuovo genere, bensì di una rielaborazione dell’esistente in maniera del tutto personale: Legacy è un lavoro tutto sommato ortodossamente prog/heavy metal, per cui la bravura dei nostri risiede proprio nella capacità di apparire “unici”, pur muovendosi all’interno di un territorio dai confini stilistici ben definiti.
Del disco restano da citare i brani migliori, ma per far questo sarebbe sufficiente fare un copia-incolla della tracklist, visto che non c’è un solo brano debole tra gli undici (più intro) presentati; messo alle strette confesso però di avere maturato un debole per il singolo Believer (da godersi il video che lo accompagna), per Nobody’s Lives, con il suo refrain cantato in lingua madre, e per quello che ritengo uno dei brani migliori ascoltati negli ultimi tempi, la magica ed evocativa Duat.
Zaher Zorgati è il cantante perfetto per una band si questo tipo, con una voce che potrebbe definirsi, con molta approssimazione, un ipotetico punto d’incontro tra Dio, Jorn Lande e Roy Khan: un vocalist del quale si apprezzano, comunque, le doti interpretative ed espressive più che i virtuosismi.
Inevitabilmente ottimo il lavoro del chitarrista Malek Ben Arbia, fondatore della band quando era appena un ragazzino, meno appariscente in fase solista del suo modello Michael Romeo ma non di meno efficace, ed impeccabile la base ritmica fornita da Anis Jouini al basso e dal francese Morgan Berthet alla batteria.
Legacy è l’album che DEVE consacrare questa risplendente realtà musicale, trattandosi della naturale finalizzazione di un talento non comune; il fatto stesso che la band abbia deciso di autointitolare l’album (non è un refuso, Legacy è la traduzione inglese di Myrath) rende l’idea di quanto questo passo fosse ritenuto fondamentale per imprimere una svolta decisiva e definitiva ad una carriera che, da qui in poi, ci si augura possa proseguire in maniera altrettanto luminosa, per la gioia di tutti gli appassionati di musica in senso lato.
Nei primi anni del secolo un gruppo di ragazzi tunisini si dilettava a suonare cover dei Symphony X: nel 2016 quei ragazzi, diventati i Myrath, stanno intraprendendo un tour con quelli che erano i loro idoli (dalla nostre parti arriveranno il 3 marzo all’Alcatraz di Milano), con il concreto “rischio” di metterne in dubbio la leadership e, mi si creda, non sto affatto esagerando …

Tracklist
1.Jasmin
2.Believer
3.Get Your Freedom Back
4.Nobody’s Lives
5.The Needle
6.Through Your Eyes
7.The Unburnt
8.I Want To Die
9.Duat
10.Endure The Silence
11.Storm Of Lies
12.Other Side

Line-up:
Anis Jouini – Bass
Malek Ben Arbia – Guitars
Elyes Bouchoucha – Keyboards, Vocals
Zaher Zorgati – Vocals
Morgan Berthet – Drums

MYRATH – Facebook

Mountain Tamer – Mountain Tamer

Mountain Tamer hanno dentro di loro una fortissima matrice doorsiana, soprattutto per la composizione, per quella capacità musicale che fa viaggiare il nostro cervello su spiagge ventose e su pianeti lontani.

Esordio per questo gruppo californiano che stupisce davvero molto.

I Mountain Tamer sono di Santa Cruz, California e fanno una musica che lievita fra psych pesante, fuzz, stoner e puntate in qualcosa di più duro. In definitiva fanno un disco davvero potente ed impressionista, pennellando i più disparati stati mentali. I Mountain Tamer hanno dentro di loro una fortissima matrice doorsiana, soprattutto per la composizione, per quella capacità musicale che fa viaggiare il nostro cervello su spiagge ventose e su pianeti lontani. Lo stile passa dagli anni settanta ad un sentimento più grunge, soprattutto nella maniera di insistere su taluni passaggi tipica degli anni novanta. La qualità è altissima, e il gruppo non sbaglia una nota, rendendo questo disco un momento davvero piacevole. Ci sono anche momenti più duri e sono notevoli poiché si amalgamano benissimo con le parti più psych. Mountain Tamer è un compendio di psichedelia moderna, con una progressione notevole. Il disco è buono anche per mettersi e passare un momento maggiormente lounge, se così si può dire. Un ottimo debutto e uno dei migliori dischi del buon catalogo dell’Argonauta Records.

TRACKLIST
1.Mindburner
2.Knew
3.Dunes Of The Mind
4.Vixen
5.Wolf In The Streets
6.Sum People
7. Satans Waiting
8.Pharosite

LINE-UP
Andru – Guitar – Lead vocals/loud noises)Casey Garcia(Drums/vocals/art design) Dave Teget(Lead Bass/vocals/private security)

MOUNTAIN TAMER – Facebook

Rotting Christ – Rituals

I Rotting Christ si confermano con Rituals tra i leader della scena estrema del nostro continente, in virtù di un sound peculiare che ha contributo a consolidarne una fama meritatamente acquisita nel corso di una lunga storia.

Un nuovo disco dei Rotting Christ non può che rivestire il carattere dell’evento.

Chiaramente qui stiamo parlando di una delle band più importanti e più longeve della scena estrema europea, se pensiamo che è prossimo il traguardo del trentesimo anno di attività e questo dovrebbe già essere sufficiente per spiegare l’importanza del gruppo fondato dai fratelli Tolis.
Rituals è il dodicesimo full-length e non fa calare la qualità media delle uscite della band ateniese: come si può intuire dal titolo, a prevalere è l’aspetto prettamente rituale dei brani, che spesso risultano vere e proprie invocazioni corali; già l’opener In Nomine Dei Nostri esibisce senza mediazioni le sue sembianze di preghiera blasfema che tiene perfettamente fede alla ragione sociale, ma tutto ciò nei Rotting Christ non avviene con le modalità adolescenziali di certe band che pensano sia sufficiente esibire il face panting per apparire minacciose, bensì con la maturità di musicisti completi e soprattutto credibili.
In una carriera così lunga diversi sono stati gli indirizzi stilistici intrapresi da Sakis, dal grind dei primi demo al black metal peculiare dei primi quatto lavori (con i picchi di Non Serviam e Triarchy Of The Lost Lovers), poi con la svolta gothic di A Dead Poem e Sleep Of The Angels, per tornare successivamente sui propri prassi con Kronos fino a Theogonia ed approdare infine, in questo decennio, ad uscite dall’impronta più epica, talvolta anche folk, e se possibile maggiormente radicate a livello di ispirazione nella storia della nazione ellenica.
Se è vero che l’ultimo album fondamentale pubblicato dai nostri è stato Theogonia, datato 2007, va detto che una minore brillantezza del songwriting rinvenibile negli ultimi lavori è stata ben compensata da una sempre maggiore cura dei particolari, a partire dalla produzione per arrivare al contributo dei diversi ospiti che, da Aealo in in poi, si rivela una piacevole costante. Se allora brillava la presenza di una stella assoluta come Diamanda Galas (senza tralasciare un certo Alan Averill), in Rituals spicca la partecipazione di Vorph dei Samael, sorta di corrispettivi elvetici dei Rotting Christ, e di Nick Holmes dei seminali Paradise Lost.
Detto dell’ottima traccia d’apertura (con il contributo di un’altra icona della scena greca come Magus) e della bontà degli episodi che vedono all’opera i due illustri ospiti (Les Litanies de Satan con Vorph e For a Voice like Thunder con Holmes), il brano che maggiormente colpisce per intensità è Elthe Kyrie, sorta di rappresentazione musicale della tragedia greca, con tanto di recitato da parte di un’attrice del Teatro Nazionale (Danai Katsameni): qui ritroviamo anche le classiche progressioni chitarristiche che, se da una parte, possono apparire una forma di autocitazionismo, dall’altra costituiscono un vero e proprio riconoscibile marchio di fabbrica per i Rotting Christ.
Al contrario, un po’ debole e leggermente furi contesto è Devadevam, con Kathir dei singaporiani Rudra a fornire un’impronta fin troppo particolare al brano, mentre qualche ripetitività di troppo (Apage Satana) appesantisce solo parzialmente un lavoro che nel suo complesso non delude, anche perché, come detto, se l’ispirazione che pervadeva dischi come Non Serviam e Theogonia si manifesta ormai solo a sprazzi, tale mancanza viene compensata ampiamente dal mestiere e dal carisma di una band in grado di legare con disinvoltura i diversi spunti che vengono fatti confluire nell’opera.
In definitiva, i Rotting Christ si confermano con Rituals tra i leader della scena estrema del nostro continente, in virtù di un sound peculiare che, tra alti (molti) e bassi (rari) , ha contributo a consolidarne una fama meritatamente acquisita nel corso di una storia lunga ma che pare ancora ben lungi dall’essere al suo epilogo.

Tracklist
1. In Nomine Dei Nostri
2. זה נגמר (Ze Nigmar)
3. Ἐλθὲ κύριε (Elthe Kyrie)
4. Les Litanies de Satan (Les Fleurs du Mal)
5. Ἄπαγε Σατανά (Apage Satana)
6. Του θάνατου (Tou Thanatou) (Nikos Xylouris cover)
7. For a Voice like Thunder
8. Konx om Pax
9. देवदेवं (Devadevam)
10. The Four Horsemen

Line-up:
Themis Tolis – Drums
Sakis Tolis – Guitars, Vocals
Vagelis Karzis – Bass
George Emmanuel – Guitars

Guests:
Magus (NECROMANTIA) – “In Nomine Dei Nostri”
Danai Katsameni (NATIONAL HELLENIC THEATER) – “Elthe Kyrie”
Vorph (SAMAEL) – “Les Litanies De Satan (Les Fleurs Du Mal)”
Nick Holmes (PARADISE LOST) – “For A Voice Like Thunder”
Kathir (RUDRA) – “Devadevam”

ROTTING CHRIST – Facebook

Mourning Beloveth – Rust & Bone

Rust & Bone è il disco che consacra definitivamente i Mourning Beloveth: la band irlandese, con un album di questo spessore, va ben oltre i confini disseminati di spine del death doom, approdando ad una forma di lirismo che travalica qualsiasi definizione di genere

Gli irlandesi Mourning Beloveth sono una band dallo stato di servizio lusinghiero nel particolare mondo del doom più oscuro, se pensiamo che la loro storia ha preso avvio oltre vent’anni fa.

Fino all’incisione del precedente full length Formless, nel 2013, tutto sommato il gruppo era noto agli appassionati soprattutto per un eccellente album come A Sullen Sulcus, oltre a diverse buone opere in linea con gli stilemi del genere.
Con lo scorso lavoro, invece, era stata impressa una svolta decisa verso suoni che maggiormente attingevano alla tradizione musicale della propria terra di provenienza, non tanto riferiti al folk quanto ad un peculiare mood epico.
In particolare era emersa in tutto il suo splendore quell’affinità elettiva con i Primordial che ne aveva reso i Mourning Beloveth (citando la mia recensione di Formless) “una versione iper-rallentata”, ma ugualmente affascinante quanto personale.
Rust & Bone costituisce un’ulteriore e forse definitiva evoluzione della band proveniente di Athy: i Mourning Beloveth non sono più, di fatto, una band death/doom nel senso più convenzionale del termine, perché, sebbene la lunga opener Godether evidenzi per buna parte passaggi ascrivibili al genere, è l’atmosfera complessiva che è cambiata: il dolore ottundente viene rimpiazzato ora da un sofferenza dai tratti fieri e solenni, ora da una malinconia propedeutica ad una serenità illusoriamente vicina eppure irraggiungibile.
Quando Godether si apre melodicamente, attorno all’ottavo minuto, le emozioni rompono gli argini e non sarà più possibile contenerle fino all’ultima nota dell’album.
Rispetto a Formless, i Mourning Beloveth hanno optato per una maggiore sintesi, visto che Rust & Bone dura meno della metà del precedente lavoro, ma qui non c’è un solo secondo sprecato: anche i due brevi intermezzi Rust e Bone sono funzionali alla causa, andando ad introdurre le altre due perle The Mantle Tomb e A Terrible Beauty Is Born.
La prima prende avvio come se fosse un outtake di quel capolavoro assoluto intitolato A Nameless God e, allorché entra in scena la voce di Frank Brennan, non ci sono dubbi che questa traccia ci trascinerà in un vortice emotivo dal quale non sarà facile riprendersi. Alternato al robusto growl di Darren Moore, il canto evocativo del chitarrista non lascia scampo, finché la vena “primordiale” del brano non si stempera in una seconda parte strumentale nella quale la chitarra solista va a rovistare in maniera irrimediabile nella nostra anima, annichilita da tanta bellezza oltre che sfregiata dall’urlo disperato di Moore.
A Terrible Beauty is Born arriva achiudere l’album con modalità simili alla lunga Transmission, traccia che occupava interamente il cd bonus di Formless: lo spunto di quell’episodio acustico e dai tratti blueseggianti, qui viene perfezionato e reso in una veste che ne accentua il pathos e la limpidezza: l’interpretazione di Brennan fa tutta la differenza del mondo, donando al brano un’intensità rara e preziosa.
Rust & Bone è il disco che consacra definitivamente i Mourning Beloveth: la band irlandese, con un album di questo spessore, va ben oltre i confini disseminati di spine del death doom, approdando ad una forma di lirismo che travalica qualsiasi definizione di genere; difficile fare meglio di così, davvero.

Tracklist
1. Godether
2. Rust
3. The Mantle Tomb
4. Bone
5. A Terrible Beauty Is Born

Line-up:
Timmy Johnson – Drums
Frank Brennan – Guitars, Vocals (clean)
Darren Moore – Vocals
Brendan Roche – Bass
Pauric Gallagher – Guitars

MOURNING BELOVETH – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=spPn5BlHZVo&feature=youtu.be

Anthrax – For All Kings

For All Kings si rivela un lavoro più che semplicemente riuscito, grazie ad ottime canzoni, soluzioni armoniche geniali ed ottime cavalcate ritmiche, serrate e dal mood punk come tradizione del gruppo americano.

Spreading the Disease, Among the Living, Persistence of Time, basterebbero questi tre album per spiegare l’importanza degli Anthrax, una dei gruppi fondamentali, non solo per lo sviluppo del thrash metal, ma di tutto il mondo metallico.

Il gruppo di Scott Ian torna in questo inizio 2016 con un nuovo lavoro, For All Kings, che segue di cinque anni l’altalenante Worship Music, confermando la ritrovata verve dei gruppi storici del metal mondiale, prima gli Iron Maiden, poi gli Slayer e, infine, i Megadeth.
Detto che l’ex Shadows Fall Jon Donais ha preso il posto alla sei corde del buon John Caggiano, passato nei danesi Volbeat, e che al microfono si conferma il ritorno di un Joey Belladonna a mio parere mai così convincente, l’album, è bene chiarirlo, deluderà i fans della prima ora, quelli ancorati al thrash metal old school dei gloriosi anni ottanta.
Bisogna dirlo perché la band, pur scaricando volumi spropositati di metallo incendiario, ha da parecchi anni allargato i suoi orizzonti musicali, lasciando che molte soluzioni moderne e hard rock, entrassero prepotentemente nel propio songwriting, già da quel capolavoro che fu Sound of White Noise, album del 1993 che vedeva al microfono l’ex Armored Saints John Bush.
Se si parte da questa importantissima considerazione, allora For All Kings si rivela un lavoro più che semplicemente riuscito, grazie ad ottime canzoni, soluzioni armoniche geniali ed ottime cavalcate ritmiche, serrate e dal mood punk come tradizione del gruppo americano.
Tanta melodia dunque, che si alterna a sfuriate ritmiche serrate, tenute con forza da musicisti dall’esperienza e dalla bravura nota a tutti, a tratti rese irresistibili da chorus di elevata qualità e violentate dal lavoro preciso della coppia d’asce Ian/Donais.
La band, sensibile da sempre alle vicende politiche e sociali, non si risparmia nel dire la sua sulle vicende parigine e sull’attentato a Charlie Hebdo in Evil Twin, mentre il thrash metal fa a spintoni con un approccio più moderno al genere trascinando l’ascoltatore nel mondo Anthrax,  mai come ora meno ancorato ai soliti cliché ed in fondo molto più maturo.
Blood Eagle Wings potrebbe fungere da sunto alla proposta odierna degli Anthrax, un thrash metal che varia e si rigenera tra velocità ed irruenza ed aperture melodiche più ampie; il groove che affiora nelle parti potenti e cadenzate, danno a For All Kings quell’impronta attuale che rende fresco il sound (Defend Avenge) e l’impressione di essere al cospetto di un gruppo attuale è più forte di quello che affiora davanti ad opere imbolsite di tanti loro colleghi sopravvissuti a trent’anni di storia metallica.
L’oscura epicità di All Of Them Thieves, la spettacolare This Battle Chose Us e lo speed metal sparato ed ironico di Zero Tolerance, che torna (questa sì) al sound di Persistence Of Time, chiudono il lavoro, che ha una coda nel riproporre una manciata di brani live, tra cui la storica Caught In A Mosh, mettendo la parola fine al ritorno di questa seminale band che non ne vuol sapere di andare in pensione, dispensando ancora, dopo tanti anni, buona musica metal.
Promossi? Direi proprio di sì, ampiamente.

TRACKLIST
01. You gotta believe
02. Monster at the end
03. For all kings
04. Breathing lightning
05. Suzerain
06. Evil twin
07. Blood eagle wings
08. Defend Avenge
09. All of them thieves
10. This battle chose us
11. Zero tolerance
12. Fight’em all ‘til you can’t (live)
13. A.I.R. (live)
14. Caught in a mosh (live)
15. Madhouse (live)

LINE-UP
Scott Ian Guitars – Vocals
Charlie Benante Drums – Percussion
Frank Bello – Bass
Joey Belladonna – Vocals
Jonathan Donais – Guitars (lead)

ANTHRAX – Facebook

Rhapsody Of Fire – Into The Legend

Album entusiasmante di una band unica, arrivata all’undicesima opera ed ancora in grado, dopo tanti anni, di regalare emozioni forti

Si torna a viaggiare sulle ali del drago con il nuovo lavoro di una delle band più illustri del panorama metal europeo, i nostrani Rhapsody Of Fire, l’altra metà dei Rhapsody (come sapete Luca Turilli, dopo lo split con il gruppo ha formato i Luca Turilli’s Rhapsody) band che, fin dal sorprendente debutto del 1997 (Legendary Tales), ha dato lustro all’Italia metallara.

Quasi vent’anni sono passati ormai da quel bellissimo lavoro, ed il gruppo non ha mai smesso di portare avanti la propria proposta, un symphonic power epico, barocco e dall’input cinematografico che ha fatto scuola e ha portato il nome della band nella storia del metal classico.
Into The Legend è il secondo lavoro in studio dopo la scissione, e segue Dark Wings of Steel di due anni fa, opera che vedeva la band intraprendere una strada più lineare e colma di epicità alla Manowar, risultando meno sinfonico e più improntato sulle sei corde.
Il nuovo lavoro torna in parte al sound dei primi album, rinverdendo i fasti delle due parti di Symphony of Enchanted Lands e tornando ad un’impronta palesemente barocca.
Inutile dire che il risultato soddisfa in pieno le aspettative dei molti fans del gruppo, le orchestrazioni tornano ad essere protagoniste indiscusse su un tappeto di power metal veloce ed epico, dove non mancano le classiche cavalcate che la voce di Lione valorizza, accompagnata da cori classici e ospiti solisti dal mood operistico.
Un album mastodontico, come da sempre ci ha abituati questo ambizioso gruppo di musicisti: magari talvolta prevedibile, non scalfisce comunque la fama consolidata dei Rhapsody Of Fire nel creare musica epica, sognante e tremendamente piena.
Un’altalena di emozioni, tra fughe metalliche in compagnia di orchestrazioni cinematografiche, l’uso smisurato di strumenti classici, cori, solos fusi nella fiamma sprigionata dall bocca del drago e tanta fierezza metallica, sprofondando in un mondo parallelo, dove non c’è spazio per la pochezza della vita moderna.
Ed è qui che la band è da sempre maestra, riuscendo per più di un’ora nella non sempre facile impresa di portare l’ascoltatore a vivere le atmosfere fantasy, come davanti allo schermo di una sala cinematografica, immagini nitide che si formano nella mente all’ascolto della tempesta di suoni creati dalla band.
Detto che la prova di Lione è da applausi, confermandosi come uno dei più bravi vocalist in circolazione nel genere, che Alex Holzwarth è la solita macchina da guerra dietro al drumkit, che Staropoli incanta ai tasti d’avorio e che Roberto De Michelis spara solos fiammeggianti, l’album è un saliscendi di metal operistico, di rabbiose ripartenze power ed atmosfere dal mood folk, con il flauto di Manuel Staropoli (fratello di Alex) a portarci in un emozionante viaggio nel tempo (A Voice in the Cold Wind) o a cavalcare verso la gloria (Valley Of Shadow).
Bellissima la suite finale, The Kiss Of Light, diciassette minuti di riassunto del credo musicale del gruppo, tra parti veloci, atmosfere sognanti, voci liriche e barocche, ed un Lione sontuoso nell’assecondare tutte le sfumature di un brano perfettamente in bilico tra irruenza metal, dolci parti folcloristiche e classiche fughe sinfoniche.
Album entusiasmante di una band unica, arrivata all’undicesima opera ed ancora in grado dopo tanti anni, di regalare emozioni forti, entrate anche voi nella leggenda.

TRACKLIST
01. In Principio
02. Distant Sky
03. Into the Legend
04. Winter’s Rain
05. A Voice in the Cold Wind
06. Valley of Shadows
07. Shining Star
08. Realms of Light
09. Rage of Darkness
10. The Kiss of Life

LINE-UP
Alex Staropoli – Keyboards, Harpsichord, Piano
Fabio Lione – Vocals
Alex Holzwarth – Drums, Percussion
Roberto De Micheli – Guitars

RHAPSODY OF FIRE – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO
, entrate anche voi nella leggenda.

Faida – Faida

Si è rimandati in un’epoca nella quale i dischi nu metal facevano male davvero, quando non erano fatti per commiserare la perdita di una donna o del cane, bensì per liberare positivamente la nostra rabbia.

Negli ascolti distratti che facciamo ogni giorno nello sfruttamento in streaming della musica, detto senza condanne, spesso può sfuggire qualcosa ed io mi ero perso questo gran disco, questo gran calcio in faccia da Venezia.

Qui trovate groove metal, o crossover, comunque cattiveria come nei bei dischi nu metal di qualche anno fa, quando l’incazzatura si congiungeva carnalmente con il groove e ne scaturivano grandi cose.
I Faida nascono a Venezia da reduci dalle più diverse esperienze passate, dai Sir Oliver Skardy & Fahrenheit 451, ai Cappellaio Matto o Sanakioplatz, accomunati dal voler fare musica potente ed incazzata. Obiettivo pienamente raggiunto con questo disco inciso nel giro di due anni ed uscito a ridosso del 2016. Ascoltandolo si è rimandati in un’epoca nella quale i dischi nu metal facevano male davvero, quando non erano fatti per commiserare la perdita di una donna o del cane, bensì per liberare positivamente la nostra rabbia. E i Faida danno solo grandi sensazioni, per tutta la lunghezza del disco. Personalmente lo sto risentendo ancora ed ancora, gasato come quando usciva il nuovo dei Soulfly, per dire.

TRACKLIST
1.Pimpin’
2.Herbalize
3.Outer Space
4.Aparentar (ft. Cuentas Claras from Cuba)
5.Nirvana
6.Soul cleaned
7.Destroy
8.No job
9.Not enough
10.The lumberjack

LINE-UP
Alessandro Numa
Fabio Giaggio
Giuliano Da Re
Igor Di Cataldo

FAIDA – Facebook

Brainstorm – Scary Creatures

Scary Creatures conferma quanto di buono fatto in vent’anni di carriera dalla band tedesca che, a distanza di un paio d’anni dall’ultimo Firesoul, regala un album irrinunciabile per gli amanti del power.

I Brainstorm sono uno dei gruppi più sottovalutati della scena power metal tedesca che incendiò il mercato nella seconda metà degli anni novanta, sempre collocati dagli addetti ai lavori un passo indietro a Gamma Ray, Grave Digger e compagnia, eppure negli anni sono riusciti a scaldare i cuori degli appassionati con una serie di opere di genere entusiasmanti, soprattutto con il trittico Ambiguity (2000), Soul Temptation (2003) e Downburst (2008).

La band, capitanata dal vocalist Andy B. Franck (ex Symphorce e Ivanhoe), torna con l’undicesimo album in studio di una carriera che l’ha vista muovere i primi passi nel 1989, ed arrivare nel nuovo millennio con una carica ed un’energia invidiabile, mostrate in questa nuovo lavoro che, se non porta grosse novità all’interno della proposta del gruppo, lo conferma come un punto fermo per chi ama il power metal ed i suoni metallici tradizionali.
Potenti, devastanti e, come tradizione nel genere, alquanto melodici, i Brainstorm con Scary Creatures dichiarano la loro appartenenza al gotha del power metal europeo alla luce dell’ esperienza e del talento al servizio del genere, e in controtendenza rispetto ai mezzi passi falsi dei gruppi più quotati, ormai non più sulle prime pagine delle riviste di settore, visto il momento di poco interesse da parte dei fans di uno dei generi storici del metal.
Il nuovo lavoro torna così a far risplendere il sound del gruppo con una raccolta di brani compatti, ruvidi ed oscuri, Andy B. Franck non ha perso un’oncia del suo talento interpretativo: singer sanguigno ed eclettico, anima il sound del gruppo, sempre perfetto nel portare avanti la tradizione tedesca nel power, lasciando che sfumature metalliche di derivazione statunitense entrino nel cuore delle composizioni, facendo dei Brainstorm il gruppo più americano della nidiata famelica nata in terra germanica.
Non sono così distanti, infatti, le drammatiche ed oscure atmosfere che troverete nel sound dei Circle II Circle di Zack Stevens, altra band da considerare in questi anni come una delle massime esponenti del power metal classico, anche se il gruppo tedesco ne violenta la struttura con le ritmiche devastanti tipiche del sound europeo.
Prova sopra le righe di tutta la band, composta da musicisti dall’esperienza e bravura indiscutibili, produzione perfetta, e via per questa discesa senza freni nelle travolgenti trame offerte dai Brainstorm, con una serie di brani che hanno nella cadenzata ed epica How Much Can You Take, nella devastante Where Angels Dream, nell’oscura e americana title track e nella maideniana Caressed By The Blackness, i picchi di un lavoro che riconcilia con un sound dato per morto troppe volte.
Niente da aggiungere se non che Scary Creatures conferma quanto di buono fatto in vent’anni di carriera dalla band tedesca che, a distanza di un paio d’anni dall’ultimo Firesoul, regala un album irrinunciabile per gli amanti del power.

TRACKLIST
1. The World to See
2. How Much Can You Take
3. We Are…
4. Where Angels Dream
5. Scary Creatures
6. Twisted Ways
7. Caressed by the Blackness
8. Scars in Your Eyes
9. Take Me to the Never
10. Sky Among the Clouds

LINE-UP
Andy B. Franck – Vocals (lead)
Dieter Bernert – Drums
Milan Loncaric – Guitars, Vocals (backing)
Torsten Ihlenfeld – Guitars, Vocals (backing)
Antonio Ieva – Bass

BRAINSTORM – Facebook

Hell In The Club – Shadow Of The Monster

il nuovo album continua a fare la voce grossa nella scena hard rock, confermando il respiro internazionale che gli Hell In The Club hanno raggiunto in così poco tempo

Letteralmente irresistibile, pura dinamite hard, street rock’n’roll fatta esplodere in questo inizio 2016 dalla nostrana Scarlet che, a distanza di poco più di un anno dal precedente e folgorante Devil On My Shoulder, torna a dar fuoco alle polveri con il nuovo album di questa banda di fenomenali rockers, al secolo Hell In The Club.

Come ben saprete il gruppo nostrano è composto da un nugolo di musicisti della scena nazionale che, con le loro band di origine( Elvenking, Secret Sphere e Death SS) hanno regalato perle metalliche di assoluto valore nobilitando la scena tricolore, poi unitisi in questo combo arrivando al terzo album facendo filotto, con un tre su tre, davvero entusiasmante.
Tre album a distanza di appena cinque anni, uno più bello dell’altro, partendo dal debutto Let The Games Begin, esordio del 2011, passando per Devil On My Shoulder, magnifico parto uscito sul finire del 2014 ed arrivando a questo mostruoso (è il caso di dirlo) Shadow Of The Monster.
Registrato, mixato e masterizzato ai Domination Studios da Simone Mularoni, il nuovo album continua a fare la voce grossa nella scena hard rock, confermando il respiro internazionale che gli Hell In The Club hanno raggiunto in così poco tempo: difficile, infatti, trovare un sound così perfetto come quello creato dal gruppo italiano, un mix di street, hard rock che guarda al passato ma mantiene un taglio moderno, portando il rock’n’roll esplosivo delle grandi band degli anni ottanta/novanta nel nuovo millennio ed aggiungendo valanghe di melodie dall’appeal enorme.
Forse, ancora più che in passato, il sound di questo lavoro guarda oltreoceano, facendo di Shadow Of The Monster l’opera più americana del gruppo, un mix riuscito tra i Guns’n’Roses di Slash ed i Jon Bon Jovi, che escono prepotentemente quando l’elettricità si fa leggermente meno ruvida e viene accompagnata da linee melodiche scritte per mano di talenti smisurati.
Il burattinaio in copertina, sempre diabolico ma ispiratore di un sound che vi farà innamorare al primo ascolto di questo straordinario pezzo di musica rock, domina menti e corpi e ci fa sbattere teste, scalciare come cavalli impazziti, letteralmente drogati dall’adrenalina che scorre all’ascolto di Dance!, opener dell’album e dall’inno Hell Sweet Hell.
Impossibile non cantare il refrain della title track,bonjoviana fino al midollo, così come una moderna ballatona da arena rock si rivela The Life & Death of Mr. Nobody.
Appetite for destruction? No solo Appetite, ma l’effetto è lo stesso, hard rock irrefrenabile, ruvido, che aggredisce con schiaffoni street metal, senza perdere un’oncia in melodia.
Anche questo album rimane su di un livello altissimo in tutta la sua durata, regalando ancora due spettacolari hard rock song, Le Cirque des Horreurs e l’irresistibile Try Me, Hate Me, canzone che in sede live sarà la colpevole di poghi irrefrenabili, ammucchiate paurose, malattie mentali e croniche ubriacature, insomma rock’n’roll all’ennesima potenza.
Hell In The Club, in un mondo ideale, sarebbe il nome più gettonato tra i rockers, ancora troppi legati a dinosauri estinti o ridotti a cover band di se stessi, non mi rimane quindi che ribadire l’assoluto valore di questo album e lasciarvi con una citazione…….CI SCAPPA DEL ROCK CICCIO !!!! Approfittatene.

TRACKLIST
01. DANCE!
02. Enjoy the Ride
03. Hell Sweet Hell
04. Shadow of the Monster
05. The Life & Death of Mr. Nobody
06. Appetite
07. Naked
08. Le Cirque des Horreurs
09. Try Me, Hate Me
10. Money Changes Everything

LINE-UP
Andrea “Andy” Buratto – Bass
Federico “Fede” Pennazzato – Drums
Andrea “Picco” Piccardi – Guitars (lead)
Davide “Dave” Moras – Vocals

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Fleshgod Apocalypse – King

La raffinatezza e l’eleganza della musica sinfonica e classica, violentata dalle ritmiche indiavolate e devastanti del brutal, produce un risultato che lascia esterrefatti candidando il gruppo nostrano come uno dei migliori ensemble estremi in circolazione.

Brutal death metal e musica sinfonica o classica, come vi pare, niente di più distante, per i detrattori del metal e in questo caso, di quello estremo.

Eppure, come ormai è consolidato, il mondo metallico è talmente vicino alla musica classica da essere perfettamente in simbiosi con essa, non una novità per chi ha vissuto sulla sua pelle le varie fasi di questa unione, uno scandalo per altri ed un piacevole diversivo ai soliti suoni per chi i due generi li conosce in modo superficiale.
Uno dei gruppi maestri nel coniugare le due filosofie dello spartito è italiano, si chiama Fleshgod Apocalypse, esce per Nuclear Blast ed il nuovo lavoro è la sublime esaltazione di questo fenomeno che nobilita, a mio parere, non solo il mondo metal ma anche quello apperentemente lontano (concettualmente parlando) della musica classica.
Siamo al cospetto di una band unica, creatrice di un sound magniloquente, un’apocalisse di suoni epici e sinfonici dove la brutalità del metal si unisce all’epicità ed alla monumentalità della classica, per donare forti emozioni che nascono dalla grandezza spirituale dell’arte.
Come i più grandi maestri che, nel corso dei secoli hanno forgiato per noi musica immortale, i Fleshgod Apocalypse tornano con il nuovo lavoro, l’opera ( è il caso di dirlo) King, quarto parto di una nidiata di capolavori iniziata nel 2009 con Oracles e continuata imperterrita con Agony (2011) e Labyrinth (2013), tralasciando le uscite minori, confermandosi come una delle realtà più spettacolari dell’universo estremo mondiale.
Brutal death metal, devastante ed ipertecnico, a fare da tappeto sonoro e compagnia ad uno tsunami di musica sinfonica che, all’unisono, sfociano in un delirio di suoni drammatici, da tregenda, epici e tragici, teatrali nel senso più angosciante del termine.
La raffinatezza e l’eleganza della musica sinfonica e classica, violentata dalle ritmiche indiavolate e devastanti del brutal, produce un risultato che lascia esterrefatti candidando il gruppo nostrano come uno dei migliori ensemble estremi in circolazione.
Ho ancora nelle orecchie le sinfonie accompagnate dal sound futurista dei fenomenali Mechina, mentre In Aeternum, Cold as Perfection, And the Vulture Beholds e A Million Dephts, giungono a riempire il mio spazio cosmico di perfezione estrema, magniloquenza classica e monolitica pesantezza brutal, distanti concettualmente ma uniti da un sapiente uso delle sinfonie.
Saprete che sarete alla fine dell’album perché il sole tornerà a splendere, la pioggia torrenziale si placherà ed una luce divina risplenderà sul vostro soffitto di casa, anche per oggi l’apocalisse è stata solo sfiorata, almeno finché non rischiaccerete il tasto play del vostro lettore … solo applausi a cotanta magnificenza.

TRACKLIST
1. Marche Royale
2. In Aeternum
3. Healing Through War
4. The Fool
5. Cold as Perfection
6. Mitra
7. Paramour (Die Leidenschaft Bringt Leiden)
8. And the Vulture Beholds
9. Gravity
10. A Million Deaths
11. Syphilis
12. King

LINE-UP
Paolo Rossi – Bass, Vocals (clean)
Francesco Paoli – Drums, Guitars, Vocals (backing)
Cristiano Trionfera – Guitars, Vocals (backing), Orchestration
Tommaso Riccardi – Vocals (lead), Guitars
Francesco Ferrini – Piano, Orchestration

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Odyssea – Storm

Album che non può mancare nella collezione di ogni true defenders che si rispetti, ma assolutamente consigliato anche a chi apprezza la buona musica, Storm vi regalerà un’ora di nobile metallo progressivo ed incendiario, suonato e prodotto a meraviglia.

Mentre scrivo questo articolo, sotto l’effetto delle splendide note sprigionate da Storm, secondo lavoro del progetto Odyssea, la playlist di fine anno dei collaboratori di Iyezine è già in bella mostra sulle nostre pagine virtuali, altrimenti, come non inserire un album così bello nella mia personale classifica di questo stancante, drammatico ed oscuro 2015?

Passo indietro, per presentare questo progetto nato dalle menti di due dei più grandi musicisti che la scena metal italiana può vantare, il chitarrista Pier Gonella (Necrodeath, Mastercastle, Vanexa, ex-Labyrinth) e Roberto Tiranti (Wonderworld, ex-Labyrinth, ex-Vanexa), partito nel 2004 con il primo album Tears in Flood e ora tornato alla grande dopo più di un decennio e dopo le tante avventure musicali dei due protagonisti.
Dopo il successo delle opere di Tobias Sammet con il progetto Avantasia, di opere metal dai mille ospiti ne sono uscite davvero tante, alcune davvero belle, altre meno, perciò non è certo una novità questo Storm dove, intorno ai due musicisti principali, si raccoglie una buona fetta del meglio che il genere può vantare su e giù per lo stivale e non solo.
Infatti, oltre al songwriting che, sia chiaro, risulta eccellente, è un piacere trovare così tanti, ottimi musicisti, uniti in un’opera (lasciatemelo dire) tutta italiana, confermando l’elevata qualità che ormai ha raggiunto la scena metallica tricolore in ogni sua parte e in qualsiasi genere e sottogenere volgiamo la nostra attenzione.
Alessandro Del Vecchio, Alex De Rosso, Davide Dell’Orto, Giorgia Gueglio, Christo Machete, Mattia Stancioiu, Peso, Simone Mularoni, Wild Steel sono solo una piccola parte dei musicisti che hanno contribuito a fare di Storm una meraviglia power prog metal dalle mille idee e dalle mille sfumature, dove suoni classici si mescolano ad intuizioni futuriste, cavalcate power amoreggiano con ritmiche hard rock e si appartano con digressioni progressive, il tutto agli ordini della splendida voce di Tiranti, tornato a fare metal dopo il bellissimo lavoro solista uscito all’inizio dell’anno e dalla sei corde di un Gonella ispiratissimo e sempre più guitar heroes.
E come novelli Ulisse ci imbarchiamo in questo viaggio tra mari in tempesta, burrasche improvvise che scaricano fulmini pregni di elettricità, come se gli dei del metallo volessero rendere questo ascolto, un’Odissea, un epico girovagare tra i suoni nobili della nostra musica preferita, travolti da onde che senza pietà si infrangono e distruggono prue ed alberi a colpi di songs travolgenti come l’opener No Compromise, l’epica cavalcata Anger Danger, lo spettacolare duetto tra la Gueglio ed il buon Del Vecchio in Ice, la devastante title track, prima che le sirene di Ride ci ipnotizzino, liberati dall’entrata in campo della voce di Tiranti e da uno splendido e arioso refrain.
L’album regala ancora emozioni, in un susseguirsi di passaggi e cambi di atmosfere che hanno, nelle tastiere moderniste e dalle reminiscenze sci-fi di Apocalypse pt2, uno strumentale rotto solo dalla voce recitata della Gueglio, andando a concludere il nostro epico viaggio con Fly, canzone ripresa dal primo lavoro, e dalla versione alternativa dell’opener No Compromise.
Album che non può mancare nella collezione di ogni true defender che si rispetti, ma assolutamente consigliato anche a chi apprezza la buona musica, Storm vi regalerà un’ora di nobile metallo progressivo ed incendiario, suonato e prodotto alla perfezione.
Fatelo vostro e partite per questa affascinante e pericolosissima avventura in compagnia di questi grandi musicisti, non ve ne pentirete.

TRACKLIST
01. No compromise
02. Anger danger
03. Understand
04. Ice
05. Freedom
06. Galaxy
07. Storm
08. Ride
09. Tears in the rain
10. Apocalypse pt II
11. Fly 2015 (bonus track)
12. No compromise alternative (bonus track)

LINE-UP
Pier Gonella – guitars
Roberto Tiranti – vocals

Guests:
Andrea Ge – drums
Alessandro Bissa – drums
Alessandro Del Vecchio – vocals
Alessio Spallarossa – drums
Alex De Rosso – guitars
Andrea De Paoli – keyboards
Anna Portalupi – bass
Carlo Faraci – vocals
Christo Machete – drums
Davide Dell’Orto – vocals
Dick Laurent – guitars
Emilio Ranzoni – guitars
Francesco La Rosa – drums
Gandolfo Ferro – vocals
Giorgia Gueglio – vocals
Giulio Belzer – bass, vocals
Mattia Stancioiu – drums
Mistheria – keyboards
Oscar Morchio – bass
Peso – drums
Simone Mularoni – guitars
Steve Vawamas – bass
WildSteel – vocals

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