Skognatt – Ancient Wisdom

Alla luce della bontà del sound offerto in due tracce come Ancient Wisdom e Xibalba, è maturo il momento per puntare alla pubblicazione di un lavoro a nome Skognatt dal minutaggio più consistente.

Skognatt è il progetto solista di Danijel Zambo, musicista tedesco molto attivo come compositore sia a proprio nome sia anche in ambito pubblicitario e cinematografico; il suo background comunque resta quello metal, ambito al quale si è dedicato negli ultimi anni anche con un’altra sua one man ban deominata Derailed.

In quel caso la materia trattata era un doom/post metal mentre, invece, in Ancient Wisdom , secondo ep come Skognatt, Zambo si dedica ad un black metal atmosferico e, almeno nel caso di questo ep, dai toni piuttosto soffusi.
Le due tracce presentate sono entrambe molto belle, ma in effetti il black metal risiede per lo più in qualche accelerazione e nello screaming del musicista di Augsburg, visto che l’utilizzo prevalente della chitarra acustica e le atmosfere evocative riportano addirittura ai primi Tiamat: niente male, considerando che tra tutti i vari influssi che le band odierne cercano di assorbire dal passato questo non è certo uno dei più saccheggiati.
Danijel Zambo si dimostra un compositore di vaglia, riuscendo peraltro a districarsi con disinvoltura tra album di metal, dai tratti comunque pesanti, ed una ricca produzione solista che svaria dall’elettronica all’industrial fino a più recenti puntate nel trip hop; una versatilità che, comunque non impdisace al nostro di mettere sul piatto un lavoro di metallica qualità, seppur molto breve.
Si può concludere dicendo che, alla luce della bontà del sound offerto in due tracce come Ancient Wisdom e Xibalba, è maturo il momento per puntare alla pubblicazione di un lavoro a nome Skognatt dal minutaggio più consistente.

Tracklist:
01.Ancient wisdom
02.Xibalba

SKOGNATT – Facebook

Farsot – Fail-Lure

Destinati a restare comunque una band di nicchia,  i Farsot con il loro operato sottolineano con forza la solidità e la profondità dell’intera scena black germanica.

I Farsot appartengono al nutrito sottobosco di gruppi tedeschi capaci di fornire un’interpretazione del black metal in linea con le sonorità tipiche in voga nella loro nazione.

Fail-Lure e solo il terzo full length all’interno di una storia iniziata addirittura alla fine del secolo scorso, un dato che la dice lunga sulla relativa prolificità unita ad un approccio, anche visivo, sicuramente fuori dagli schemi da parte della band della Turingia. Per il resto sorprende affatto ascoltare un lavoro che mantiene al meglio le attese, con il suo sound austero, essenziale, intriso di spinte avanguardiste ma anche di notevoli spunti melodici.
Personalmente ho ricevuto ben poche delusioni dai gruppi tedeschi dediti al black in questi anni, e i Farsot non fanno certo eccezione con questa raccolta di brani mediamente piuttosto lunghi ma sufficientemente ricchi di cambi di forma e ritmo per mantenere desta l’attenzione dell’ascoltatore.
Il settimo ed ultimo di questi, A Hundred to Nothing,  fa storia a sé, offrendo oltre venti minuti di musica ambient inquieta e dalle interessanti  pulsioni elettroniche nella sua parte centrale.
Destinati a restare comunque una band di nicchia,  i Farsot con il loro operato sottolineano con forza la solidità e la profondità dell’intera scena black germanica.

Tracklist:
1.Vitriolic
2.Circular Stains
3.With Obsidian Hands
4.Undercurrents
5.The Antagonist
6.A Hundred to Nothing

Line-up:
v.03/170 – Bass, Keyboards
R 215k – Drums
Pi: 1T 5r – Guitars
3818.w – Guitars
10.XIXt – Vocals

FARSOT – Facebook

Suicide Forest – Descend Into Despair

Come da ragione sociale e titolo dell’album, la materia qui trattata è un depressive black dal buon impatto melodico ed atmosferico e contaminato da una altrettanto gradita componente ambient.

Suicide Forest è il progetto solista dello statunitense A. Kruger, che con Descend Into Despair giunge alla sua prima prova su lunga distanza, di fatto costituita, però, dall’unione edita in cassetta dalla Folkvangr di due precedenti ep.

Come da ragione sociale e titolo dell’album, la materia qui trattata è un depressive black dal buon impatto melodico ed atmosferico e contaminato da una altrettanto gradita componente ambient.
Niente di nuovo all’ombra delle cripte, quindi, ma sicuramente un’interpretazione della materia credibile ed efficace, caratterizzata dalla consueta produzione lo-fi ma che comunque mantiene le urla disperate di Kruger al di sopra della linea di galleggiamento, mentre gli strumenti sottolineano impietosi il dolore e l’impotenza di una vita sulla via del definitivo disfacimento.
Proprio il buon gusto melodico rende quest’album sicuramente meritevole di attenzione, e tutto sommato la prova vocale neppure troppo esasperata (a parte qualche ululato sparso qua e là) favorisce l’assimilazione di un’opera che, essenzialmente, consta di tre lunghi brani, The Embrace of Solitude, This Silence (picco dell’opera con le sue atmosfere più drammatiche punteggiate anche dal pianoforte) e Woods of Indifference, attorniati da altri cinque più brevi episodi di ambient atmosferica.
Suicide Forest si rivela così un altro nome da mettere in evidenza da parte di chi ama queste sonorità, in virtù di buone doti di scrittura ed un approccio neppure troppo soffocante; peraltro va detto che Kruger, a differenza di gran parte dei suoi corrispettivi, non si sottrae alle esibizioni dal vivo costituendo all’uopo una vera e propria band, e questa è senz’altro un’ulteriore nota di merito anche se, ovviamente, ne potranno godere solo gli appassionati d’oltreoceano.

Tracklist:
1. A Declaration of Misanthropy
2. The Embrace of Solitude
3. This Silence
4. A Sobering Reflection
5. Not for a lack of trying…
6. Woods of Indifference
7. The Pain of Existence
8. Sea of Glass

Line-up:
A. Kruger: All Instruments, vocals, lyrics, mixing and mastering

SUICIDE FOREST – Facebook

The Ruins Of Beverast – Exuvia

La musica dei The Ruins Of Beverast va ben oltre qualsiasi etichetta, esplicitandosi in una forma che sfida le convenzioni e la banalità, ma risultando ugualmente, per assurdo, meno ostica di quanto si potrebbe supporre.

Pochi mesi dopo l’ottimo ep Takituum Tootem, ecco giungere l’atteso nuovo full length dei The Ruins Of Beverast.

Alexander Von Meilenwald, il musicista tedesco che è dietro questo progetto, prosegue con questo suo quinto lavoro su lunga distanza l’opera di consolidamento di uno status derivante da un’espressione stilistica peculiare ed in costante evoluzione.
Rispetto all’ep vengono mantenuti i riferimenti etnici riferiti alla cultura dei nativi americani, che in più di un brano si manifestano tramite invocazioni rituali e vocalizzi femminili, il tutto all’interno di una struttura definibile black/doom solo per consentirne un’approssimativa identificazione.
In realtà, la musica dei The Ruins Of Beverast va ben oltre qualsiasi etichetta, esplicitandosi in una forma che sfida le convenzioni e la banalità, ma risultando ugualmente, per assurdo, meno ostica di quanto si potrebbe supporre, in virtù di una capacità si scrittura non comune che consente a Von Meilenwald di piazzare, in ogni traccia, passaggi chiave capaci di attrarre fatalmente l’attenzione avvinghiando l’ascoltatore senza alcuna remissione.
Ne è l’esempio più eclatante la lunga title track posta in apertura, magnifico viaggio rituale di oltre un quarto d’ora nel quale le ossessive note in sottofondo si ripetono come un mantra, mentre la musica fluttua sovrapponendosi a voci salmodianti o a quella più canonica dell’autore, che invece in altri frangenti dell’album esibisce tonalità in scream e un growl.
Il resto di Exuvia si dipana così tra sentori sperimentali, sprazzi industriali, dissonanze che difficilmente si dissolvono in melodie compiute ma che mantengono sempre elevatissimo il carico di tensione, spingendosi oltre l’ora di durata, un qualcosa di molto vicino ad un suicidio artistico per chiunque non fosse in grado di esibire la stessa chiarezza d’intenti del musicista di Aachen .
L’album va ascoltato uscendo dalla logica del track by track, perché ne verrebbe sminuito l’impatto avvolgente, ed arrivare alla nuova versione di Takitum Tootem!, posta in chiusura, risulterà impegnativo quanto gratificante.
Così, come l’exuvia (l’esoscheletro abbandonato da diverse specie di crostacei, insetti e aracnidi dopo la muta), la musica targata The Ruins Of Beverast si trasforma dopo ogni ascolto in un involucro testimone di un estro compositivo che, nello stesso momento in cui viene rilevato si sta già trasferendo altrove, pronto ad mostrare ulteriori e visionari bagliori creativi.

Tracklist:
1.Exuvia
2.Surtur Barbaar Maritime
3.Maere (On A Stillbirth´s Tomb)
4.The Pythia´s Pale Wolves
5.Towards Malakia
6.Takitum Tootem (Trance)

Line up:
Alexander Von Meilenwald

THE RUINS OF BEVERAST – Facebook

Chiral – Gazing Light Eternity

Gazing Light Eternity conferma appieno il valore che Chiral aveva già esibito compiutamente nelle opere precedenti, mostrando un talento di livello superiore alla media.

In occasione della sua riedizione in uscita a giugno per la Folkvangr Records, riproponiamo quanto scritto nello scorso autunno a proposito di Gazing Light Eternity.

Terzo full length in un ridottissimo lasso di tempo per il progetto solista di Chiral, senza che la qualità del livello compositivo ne risenta, anzi …
Infatti, a partire da Abisso, album che arrivava a raccogliere e sintetizzare i frutti di un lavoro intenso durato per tutto il 2014 e parte del 2015, il musicista piacentino ha iniziato un percorso di crescita che lo ha postato ad essere uno dei protagonisti di una scena atmospheric black che, nel nostro paese, assume diverse sfaccettature.
Lo stile di Chiral differisce dal filone venato di epica e di retorica storico-guerresca (che sta comunque fornendo buoni frutti) e mostra invece il lato più riflessivo e, se vogliamo, naturalistico del genere.
Gazing Light Eternity, forse ancor più e meglio del suo predecessore Night Sky, è la rappresentazione di scenari che appaiono bucolici nelle sue fasi ambient, e velati di un’inquietudine che va a comporre un quadro in cui il gusto melodico mediterraneo si va a fondere con la scuola scandinava e con le derivazioni cascadiane di quella nordamericana.
L’album consta di quattro brani dei quali i due più lunghi (vicini al quarto d’ora) sono appunto contraddistinti da un black metal liquido e meditabondo, se si eccettuano le misurate accelerazioni in doppia cassa, dove un convincente substrato melodico funge da filo conduttore, ammantando di grande fascino le composizioni di qualità alle quali Chiral ci ha abituato.
Le due tracce più brevi (della durata di sei minuti circa) svelano la vena ambient del nostro, del quale qui si può apprezzare ancora di più l’abilità nel rendere meno interlocutoria e più affascinante questa sfumatura musicale (da rimarcare il lavoro chitarristico che resta quasi in sottofondo in The Hourglass).
Gazing Light Eternity conferma appieno il valore che Chiral aveva già esibito compiutamente nelle opere precedenti, e se consideriamo che stiamo parlando dello stesso musicista che sta dietro agli ottimi lavori di un altro progetto come Il Vuoto, appare in tutta la sua evidenza come ci si trovi al cospetto di un talento di livello superiore che merita tutto il supporto da parte degli appassionati italiani e non solo.

Tracklist:
1.Part I (The Gazer)
2.Part II (The Haze)
3.Part III (The Crown)
4.Part IV (The Hourglass)

Line-up:
Chiral

CHIRAL – Facebook

Somnium Nox – Terra Inanis

I Somnium Nox non si limitano a proporre un black tradizionale ma lo arricchiscono di parti più rarefatte e dal buon carico melodico, funzionali nel preparare il terreno ad accelerazioni che sono comunque piuttosto ragionate.

I Somnium Nox sono una band australiana che, con Terra Inanis, fa il primo passo su lunga distanza (almeno dichiarata, in quanto in realtà il lavoro non supera la mezz’ora di durata.

Trattandosi di una band alle prime uscite, visto che all’attivo fino ad oggi aveva solo il singolo Apocrypha dello scorso anno, non c’è molto su cui parametrarne l’operato, per cui Terra Inanis va valutato per quello che è ovvero un buon esempio di black metal atmosferico e dagli spunti pregevoli.
Infatti, pur non potendolo considerare innovativo nel senso letterale del termine, l’album offre tre tacce di circa dieci minuti ciascuna in gradi di farsi apprezzare dagli amanti delle sonorità oscure ma non asfissianti: i Somnium Nox non si limitano a proporre un black tradizionale ma lo arricchiscono di parti più rarefatte e dal buon carico melodico, funzionali nel preparare il terreno ad accelerazioni che sono comunque piuttosto ragionate.
I tre brani esibiscono comunque sfumature differenti: Soliloquy of Lament è black nella sua accezione più classica e beneficia di un bel crescendo conclusivo, The Alnwick Apotheosis è la traccia migliore ed anche la più anomala, visto che per una metà si snoda su velocità consistenti per poi sfumare in liquide sonorità ambient, mentre la conclusiva Transcendental Dysphoria è un black doom cupo e dai toni inquietanti e drammatici.
Indubbiamente l’uso di uno strumento tradizionale come il didgeridoo fornisce al lavoro una propria peculiarità, fornendo al sound talvolta un tocco solenne ed ancestrale, proprio quello che serve per provare ad emergere e mettere la testa fuori dal gruppone.
In Australia, negli ultimi anni, è emersa senz’altro una scena capace di interpretare la materia estrema in maniera efficace e i Somniun Nox ne sono un nuovo e fulgido esempio.

Tracklist:
1. Soliloquy of Lament
2. The Alnwick Apotheosis
3. Transcendental Dysphoria

Line-up:
Nocturnal – Guitars, Bass, Didgeridoo
Ashahalasin – Vocals
Forge – Drums
Olkoth – Keys
J.A.H – Guitars

SOMNIUM NOX – Facebook

Davide Laugelli – Soundtrack of a Nightmare

L’esperimento di Davide Laugelli è senz’altro convincente, nonostante il bassista scenda su un terreno normalmente non battuto, a dimostrazione di una preparazione inattaccabile ed anche di una certa ispirazione, sfuggendo agli stucchevoli tecnicismi che spesso ammorbano gli album strumentali.

Davide Laugelli è un musicista dal curriculum  piuttosto ricco in ambito metal, facendo parte attualmente dei Disease Illusion e degli Heller Schein ed avendo ricoperto nel recente passato il ruolo di bassista on stage al servizio degli storici Electrocution, senza contare la passata militanza in altre band e svariate collaborazioni.

Soundtrack of a Nightmare esula formalmente da tutto questo, trattandosi di un primo esperimento di musica interamente strumentale eseguita utilizzando due bassi (uno tradizionale ed uno fretless, suonati ovviamente da Laugelli),  synth (a cura di Fausto De Bellis) e batteria (Michele Panepinto): l’intenzione del musicista bergamasco (ma da tempo di stanza a Bologna) è quello insito nel titolo dell’ep, ovvero la creazione di una sorta di colonna sonora per gli incubi che, sovente, rendono piuttosto agitate le notti di ognuno.
Anche se il lavoro mostra aspetti per lo più imprevedibili, non sorprende la prima traccia visto che la Johannes Brahms Op.49 n. 4 altro non è che la ninna nanna per antonomasia, rivista con un certo gusto e senza stravolgerne l’essenza; il breve intermezzo onirico La Nave di Pietra introduce una più movimentata A Night At Stonehenge, nella quale si apprezza il lavoro dei musicisti che si snoda su coordinate progressive anche se non nell’accezione più comune del genere.
Hell With You è un altro brano piuttosto breve, nel quale il basso di Laugelli si fa minaccioso ed ossessivo, mentre Climbing The Wrong Mountain, con il suo andamento potrebbe rievocare quelle affannose rincorse a cui la nostra mente ci costringe mentre il corpo solo apparentemente riposa: anche qui va segnalato un lavoro strumentale di prim’ordine, prima che il trillo di una sveglia ci sottragga all’incubo per riportarci alla realtà, non necessariamente più rassicurante di quella elaborata dalla psiche durante il sonno.
L’esperimento di Davide Laugelli è senz’altro convincente, nonostante il bassista scenda su un terreno normalmente non battuto, a dimostrazione di una preparazione inattaccabile ed anche di una certa ispirazione, sfuggendo agli stucchevoli tecnicismi che spesso ammorbano gli album strumentali, e riuscendo infine a tenere fede alla dichiarazione d’intenti contenuta nel titolo dell’ep, grazie ad un sound cangiante che alterna passaggi più nervosi ad altri più rarefatti e vicini all’ambient.
La breve durata ne aiuta senz’altro l’assimilazione, ma l’ascolto di Soundtrack of a Nightmare offre la ragionevole certezza che Davide sia in grado, in futuro, di replicare quanto fatto in quest’occasione anche su un eventuale lavoro su lunga distanza.

Tracklist:
1. Johannes Brahms Op. 49 n. 4 (insane version)
2. La nave di pietra
3. A night at Stonehenge
4. Hell with you
5. Climbing the wrong mountain

Line up:
Davide Laugelli: bass
Michele Panepinto: drums
Fausto de Bellis: synth

DAVIDE LAUGELLI – Facebook

Mosaic – Old Man’s Wyntar

Supreme Thuringian Folklore …come spesso accade nell’underground si celano grandi realtà per “open-minded people”.

Spettacolare riedizione (la quarta in tre anni) da parte della tedesca Eisenwald dell’ep Old Man’s Wyntar dei Mosaic, che in realtà nascondono le gesta musicali di un solo artista, Inkantator Koura, accompagnato da altri musicisti (Leshiyas, Scorpios, Maya e altri).

Le tre precedenti edizioni non sono neanche lontanamente paragonabili alla magnificenza dell’ attuale packakging in A5 digibook con testi tedesco e inglese, con intervista all’artista e storia del concept; inoltre, per rendere imperdibile il tutto e’ stato aggiunto un terzo capitolo intitolato Joyful reminiscense and sacred eyes. Inkantator Koura narra di un concept riguardo a winter journey through ancient mysticism and bittersweet darkness e lo fa creando un masterpiece, stratificando suoni black metal, neofolk, ambient, experimental trascinando l’ascoltatore in un vortice di emozioni varianti dall’ incanto alla melanconia, dall’orgoglio alla oscurità, dalla disperazione alla estasi. L’opera alterna momenti folk e neo folk struggenti e dolorosi con parti black raramente esasperate o ritmicamente forsennate, ma cariche di fierezza e disperazione; la struttura è complessa a formare una materia cangiante che sfida l’ascoltatore ad entrare in un regno di freddo e oscurità omaggiante la stagione invernale. L’opera originaria, edita nel 2014, nelle parole dell’autore intesa come un omaggio a Paysage d’Hiver, entità guidata da Wintherr (ora anche nei Darkspace), si divide in due capitoli: il primo, Awakening & Snowfall, inizia con Incipit:Geherre, una litania ovattata sferzata da un gelido vento, per poi proseguire con Onset of Wyntar, brano a tinte black molto atmosferico con Inkantator che declama le sue lyrickal magick.
Il terzo brano Im Winter, che conclude il primo capitolo, profuma di immobili e infiniti ghiacci e mi ha ricordato echi, probabilmente non voluti, di una leggenda Krauta di acidfolk, gli Amon Duul II (qualche vecchio ascoltatore ricorderà); il secondo capitolo, …of Magick and Darkness, presenta Snowscape, un breve viaggio guidato da una tersa melodia,White gloom, un fiero inno black come un lupo in cerca di prede da dilaniare, mentre in the darkness the wind still blows… e Black Glimmer, spettrale e salmodiante racconto ricco di tensione per un posto in cui …nothing shall be green here, for as long as winter reigns. Il terzo capitolo, Joyful reminiscense and sacred eyes, presenta altri tre brani che completano il concept, Silent world, holy awe, oscuro e acido folk rock ,Vom ersten schnee/a tale of mother Hulda dove una nonna, su note molto malinconiche, narra al nipote l’origine della neve; il finale Silver Nights, della durata di circa venti minuti (l’opera dura in tutto molto più di un’ora) chiude su intense, atmosferiche ed epiche note black un lavoro molto particolare, originale, di non facile assimilazione e, come chiosa Inkantator, …for candid, open minded people that take an umbiased approach to music and don’t need to sort everything into stereotyped thinking.

TRACKLIST
1.Incipit: Geherre
2.Onset of Wyntar
3.Im Winter
4.Snowscape
5.White Gloom
6.Black Glimmer
7.Silent World, Holy Awe
8.Vom ersten Schnee
9.Silver Nights

LINE-UP
Inkantator Koura – all instruments and vocals

MOSAIC – Facebook

Cripta Oculta – Lost Memories

Lost Memories è un viaggio dentro un passato che riposa dentro di noi e che non aspetta altro che risvegliarsi, ed è anche un ottimo disco di black metal selvaggio e fatto con passione.

Tornano con il loro quarto album i portoghesi Cripta Oculta, uno dei gruppi principali della scena black metal portoghese. Il duo pubblica, con la label di riferimento portoghese Signal Rex, un altro grande disco di black metal classico, intriso di misticismo e di ricerca di qualcosa che va molto oltre gli schemi di questa società.

Il Portogallo è una terra antica ed inquieta, che da moltissimo tempo vive di inquietudine e di uno strano modo di sentire le cose, che ha portato il suo popolo a sviluppare una sensibilità molto particolare, con uno sguardo melanconico verso la vita. Tutto ciò si è spesso tradotto in svariati capolavori nelle più disparate discipline, e Lost Memories si inserisce a pieno titolo in questa casistica. I Cripta Oculta sono difensori e diffusori delle tradizioni lusitane, e in questo disco ci conducono per antichi sentieri grazie al loro black metal selvaggio, lo fi e classicheggiante, di grande impatto. Qui la musica è un mezzo per comunicare empaticamente qualcosa che non potrebbe essere comunicato qualcosa, e chi apprezza il black metal conosce benissimo questo processo. La narrazione ci porta in boschi, sentieri e nel cuore del Portogallo, e il black metal dei Cripta Oculta ci fa vedere cose celate allo sguardo dell’uomo moderno. Si torna indietro in un’esperienza davvero coinvolgente, grazie ad un gruppo assolutamente fuori dal comune per capacità di comunicare e per la sua potenza di fuoco. Si cambia spesso registro in questo disco, passando da cavalcate black metal a momenti di dark ambient con strumenti tradizionali lusitani, andando a ricercare un passato che non è solo nostalgia, ma riproposizione di una tradizione che era e che ora non è più. Lost Memories è un viaggio dentro un passato che riposa dentro di noi e che non aspetta altro che risvegliarsi, ed è anche un ottimo disco di black metal selvaggio e fatto con passione.

TRACKLIST
1.Mistérios do Sangue
2.Uma Noite de Trevas
3.Para o reavivar das Tradições
4.Batalha Nocturna
5.A Dança do Fado Negro
6.A Mão de Ferro que Esmaga Sião

SIGNAL REX – Facebook

The Ruins Of Beverast – Takitum Tootem!

Un’operazione sicuramente valida, per la quale andrà poi verificato l‘eventuale impatto sulla futura produzione dei The Ruins Of Beverast: di certo questo ep appare tutt’altro che un riempitivo, in quanto dimostra appieno il valore e le potenzialità di un musicista di livello superiore alla media.

The Ruins Of Beverast è un progetto solista di Alexander Von Meilenwald, il quale agita i sonni degli appassionati di metal estremo da quasi una quindicina d’anni.

Il black doom del musicista tedesco è sempre stato caratterizzato dalla sua non omologazione ai canoni dei generi di riferimento, collocandosi costantemente un passo avanti rispetto alle posizioni consolidate.
Non fa eccezione questo Ep intitolato Takitum Tootem!, con il quale il nostro si concede un’esplorazione più approfondita di territori ancor più sperimentali, lasciando che la propria musica si faccia avvolgere da un flusso rituale e psichedelico.
Il primo dei due brani raffigura, come il titolo stesso fa intuire, una sorta di rito sciamanico che si protrae nella fase iniziale per poi sfociare in una traccia che presenta sfumatura industrial, in virtù di un mood ossessivo (che potrebbe ricordare alla lontana certe cose dei migliori Ministry), ideale prosecuzione dell’invocazione/preghiera ascoltata in precedenza: questi otto minuti abbondanti costituiscono un’espressione musicale di grande spessore e profondità, tanto che quando il flusso sonoro improvvisamente si arresta provoca una sorta di scompenso alla mente oramai assuefatta a quell’insidioso martellamento.
Il vuoto viene ben presto riempito dalla magistrale cover di una pietra miliare della psichedelia, la pinkfloydiana Set The Controls For The Heart Of The Sun, che viene resa in maniera in maniera del tutto personale pur mantenendone l’impronta di base, ma conferendole ovviamente una struttura maggiormente aspra e, se, possibile, ancor più ossessiva; l’idea di farla sfumare nella stessa invocazione rituale che costituiva l’incipit del primo brano conferisce al tutto un‘andamento circolare, creando così una sorta di loop se si imposta il lettore in modalità “repeat all”.
Un’operazione sicuramente valida, per la quale andrà poi verificato l‘eventuale impatto sulla futura produzione dei The Ruins Of Beverast: di certo questo ep appare tutt’altro che un riempitivo, in quanto dimostra appieno il valore e le potenzialità di un musicista di livello superiore alla media.

Tracklist:
1. Takitum Tootem (Wardance)
2. Set The Controls For The Heart Of The Sun

Line-up:
Alexander Von Meilenwald

THE RUINS OF BEVERAST – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=vbvvbokHtaw

Árstíðir Lífsins – Heljarkviða

L’ascolto attento di Heljarkviða è un altro passo fondamentale da compiere per chi vuole approfondire la conoscenza con musica che travalica le definizioni di genere.

Nuova uscita per una delle realtà più interessanti emerse nel decennio in corso in ambito black metal, anche se, come spesso accade, il confinare certe band al singolo genere appare riduttivo.

Gli Árstíðir Lífsins li abbiamo già commentati negli anni scorsi in occasione del precedente Ep (Þættir úr sǫgu norðrs) e dello split con gli Helrunar (Fragments – A Mythological Excavation): oggi tornano, dopo il terzo full length Aldafǫðr ok munka dróttinn, con questo altro Ep piuttosto corposo, essendo composto di due lunghe tracce di venti minuti ciascuna.
Le coordinate stilistiche sono sempre quelle di una musica che spazia dal folk, all’ambient, alla musica da camera, resa minacciosa dalle eccellenti sfuriate black condotte dalla voce dell’ottimo Marsél (Marcel Dreckmann,  ben conosciuto anche per il suo operato con Helrunar e Wöljager).
L’anima degli Árstíðir Lífsins è costituita da Árni, il quale caratterizza il sound con la sua consueta maestria nell’utilizzo degli strumenti ad archi, mentre il terzetto viene completato da un altro tedesco, il chitarrista/bassista Stefan (Kerbenok).
Árstíðir Lífsins è oramai divenuto, al di là del suo reale significato in islandese (le stagioni della vita), un sinonimo di qualità e Heljarkviða non fa certo eccezione; poi, personalmente, ritengo tutti i progetti che vedono coinvolto Dreckmann un qualcosa di irrinunciabile, in grado di elevare la musica a forma d’arte sublime.
Certo, le configurazioni sono diverse per stile e per intenti, ma la cura che viene immessa anche nella stesura dei testi rende ancor più speciali tutti questi lavori: non va trascurato quindi il concept lirico qui contenuto, trattandosi di un’efficace rilettura dei temi tipici della mitologia norrena, che trovano una colonna sonora ideale nelle partiture profonde e solenni degli Árstíðir Lífsins.
Da tre musicisti di simile livello è lecito attendersi sempre il massimo, e finora tali aspettative non sono mai andate deluse: l’ascolto attento di Heljarkviða è un altro passo fondamentale da compiere per chi vuole approfondire la conoscenza con musica che travalica le definizioni di genere.

Tracklist:
1. Heljarkviða I: Á helvegi
2. Heljarkviða II: Helgrindr brotnar

Line-up:
Stefán – guitars, bass, vocals & choirs
Árni – drums, viola, keyboards, effects, vocals & choirs
Marsél – storyteller, vocals & choirs

ÁRSTÍÐIR LÍFSINS – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=QDcdtAHFLns

Kzohh – Trilogy: Burn Out The Remains

Trilogy: Burn Out The Remains è un lavoro di sicuro interesse, che consiglierei però più ai fruitori di musica dai tratti sperimentali o a chi ascolta il black comunque con una propensione lontana da integralismi di matrice “true”.

Gli ucraini Kzohh nascono nel 2014 quale unione tra membri di diverse band della scena black metal nazionale e, con Trilogy: Burn Out The Remains, chiudono quella che è, appunto, una trilogia dedicata alla peste.

Il marchio black metal che aleggia su questa band va preso assolutamente con le pinze, perché se è vero che si tratta del background musicale dei cinque musicisti (la cui iniziale dei rispettivi nickname va a formare l’anomalo monicker), questo lavoro si può associare del tutto al genere solo in alcuni passaggi del secondo brano Ñrom Conaill, episodio invero impressionante e che esprime al meglio le potenzialità dei Kzohh.
Le altre due tracce, al contrario, mostrano un volto ritual/ambient di sicuro fascino ma, per forza di cose, meno d’impatto, rendendo quest’ultima parte della trilogia la più ostica all’ascolto e, nel contempo, la più ambiziosa dal punto di vista compositivo.
Trilogy: Burn Out The Remains è un lavoro di sicuro interesse, che consiglierei però più ai fruitori di musica dai tratti sperimentali o a chi ascolta il black comunque con una propensione lontana da integralismi di matrice “true”: i Kzohh propongono musica oscura alla quale riesce difficile dare una definizione precisa, facendola sembrare in diversi passaggi la vera e propria colonna sonora di uno dei peggiori incubi ai quali ogni tanto si è soggetti, anche se la caratteristica interlocutoria di molti di questi momenti ne rendono relativa l’appetibilità.
Ma, del resto, se i componenti di diverse band dedite al black metal si fossero riuniti per suonare a loro volta del black metal, sarebbe stato lecito pensare a qualcosa di riduttivo se non di superfluo: l’idea di musica proposta dai Kzohh è condivisibile e terrificante il giusto, anche se non appare sempre focalizzata al meglio. Probabilmente i dischi precedenti erano più lineari ed incisivi, pur se non scevri di passaggi sperimentali  nel loro ondeggiare tra il black ed il doom, ma anche Trilogy è senz’altro un’opera più che degna della massima attenzione.

Tracklist:
01. Panoukla DXLII
02. Ñrom Conaill
03. H19N18

Line-up:
Khorus – bass
Zhoth – vocals
Odalv – drums
Helg – guitars
Hyozt – guitars, keys and samples

KZOHH – Facebook

Insonus – Nemo Optavit Vivere

La capacità di variare le sfumature stilistiche da parte degli Insonus, rende Nemo Optavit Vivere un lavoro di un certo interesse.

Ep d’esordio per gli Insonus, duo italiano che va ad inserirsi nell’affolata scena black metal.

La maniera per farsi notare in questo specifico settore, tralasciando la remota possibilità che qualcuno che riesca ad introdurre particolari elementi innovativi nel proprio sound, è sicuramente quella di intepretare la materia in maniera coerente e competente, anche se non sempre si rivela ugualmente utile a raggiungere lo scopo.
Gli Insonus, in ogni caso, il loro compito lo svolgono in maniera egregia, con la proposta di un black che in certe parti sembra spingere più sul versante depressive, mentre in altre rimane nell’alveo della tradzione, il tutto però sempre con una buona propensione nel creare linee melodiche capaci di attrarre l’attenzione del’ascoltatore.
Proprio la capacità di variare le sfumature stilistiche da parte del duo, rende Nemo Optavit Vivere un lavoro di un certo interesse, proprio perché offre la sensazione di una ricerca musicale che va oltre la ripoposizione fedele degli stlemi del genere.
Così, se The Solution è una bella traccia nello stile dei migliri Arckanum, Bury Me esplora n manira decisa il versante depressive, con un andatura più rallentata ed il canonico scraming disperato a fare da corollario; Nihist Manifesto è un brano che, dopo un’introduzione pacata, diviene inarrestabile quando le ritmiche si fanno a trati parossistiche, mentre Life Hurts A Lot More Than Death è un pregevole episodio di matrice ambient.
L’ep indica senz’altro buone doti compositive da parte degli Insonus e gli scostamenti stilistici denotano il lodevole tentativo di non apparire eccessivamente calligrafici, cosa che riesce loro piuttosto bene: a mio avviso il brano più focalizzato ed incisivo è The Solution, ma anche i restanti risultano degni di una certa attenzione. Un esordio decisamente positivo.

Tracklist:
1. The Solution
2.Bury Me
3.Nihilist Manifesto
4.Life Hurts A Lot More Than Death

Line-up:
R. – Guitars, Additional Vocals, Songwriting
A. – Vocals, Lead guitars, Bass, Programming, Arrangements

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Urfaust – Empty Space Meditation

Empty Space Meditation è un lavoro davvero convincente: profondo ma non per questo troppo ostico da recepire, da parte di un nome magari poco noto ma in grado di ritagliarsi uno spazio importante tra gli estimatori di sonorità metalliche meno scontate.

Il duo olandese Urfaust è attivo da oltre un decennio e, nel corso di questo arco temporale, ha prodotto un numero elevato di uscite dal minutaggio ridotto (ep e split album) e tre full length, tra i quali l’ultimo è questo Empty Space Meditation.

L’etichetta di atmospheric black ambient che accompagna la musica IX e VRDRBR è piuttosto appropriata ma, tutto sommato, anche riduttiva, visto che il sound è decisamente composito e volto alla creazione di passaggi ariosi ed evocativi, a volte screziati da violente accelerazioni alle quali fanno da contraltare pulsioni droniche che, comunque, non appesantiscono affatto il lavoro nel suo complesso.
Empty Space Meditation è composto da sei brani intitolati Meditatum, numerati da I a VI, e ci fornisce l’idea di un album che, comunque, va ascoltato come un unico flusso sonoro nel quale convergono sensazioni svariate e spesso contrastanti, laddove spiritualità e nichilismo vanno di pari passo senza elidersi a vicenda.
Da tutto questo ne viene fuori una quarantina di minuti di enorme spessore, nei quali l’emotività deriva dal un incedere atmosferico e sovente rallentato ai confini del doom, con l’accento posto su un’interpretazione vocale da parte di IX magari non sempre ortodossa, ma dalle indubbie doti comunicative.
A brano simbolo eleggo il sulfureo srotolarsi di Meditatun IV, con il suo procedere quasi tetragono, accompagnato dai vocalizzi di IX che si fanno via via più sgraziati e disperati: questi sono gli Urfaust nella loro espressione meno immediata ed accomodante, in grado di puntellare ulteriormente un disco eccellente con V, brano che sembra a tratti una rielaborazione in veste metallica di Bauhaus e Christian Death dei tempi d’oro, e con la conclusiva, magnifica, VI, nella quale è il sitar che dona un’aura davvero particolare ad atmosfere già di loro sufficientemente introspettive.
Detto d IX, che si occupa praticamente di tutto il lavoro strumentale e vocale, va rimarcato il fondamentale operato di VRDRBR alla batteria, un aspetto spesso sottovalutato nei lavoro di matrice prevalentemente solista, venendo affidato ad una più fredda drum machine.
L’elemento umano qui si sente e fa la differenza, conferendo varietà e ritmiche non banali ad un sound che veleggia ispirato e dotato di un’oggettiva peculiarità.
Empty Space Meditation è un lavoro davvero convincente: profondo ma non per questo troppo ostico da recepire, da parte di un nome magari poco noto ma in grado di ritagliarsi uno spazio importante tra gli estimatori di sonorità metalliche meno scontate.

Tracklist:
1. Meditatum I
2. Meditatum II
3. Meditatum III
4. Meditatum IV
5. Meditatum V
6. Meditatum VI

Line-up:
VRDRBR – Drums
IX – Guitars, Vocals

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Karg – Weltenasche

Il black metal avrà sempre un senso e, soprattutto, vita ancora molto lunga, finché verrà interpretato da chi possiede la sensibilità compositiva di V. Wahntraum.

Karg è la creatura solista di V. Wahntraum, conosciuto anche come J.J. all’interno degli ottimi Harakiri For The Sky: un progetto travagliato nel suo decennale snodarsi, così come la personalità del musicista che lo conduce e che, tra varie vicissitudini,anche personali, pare aver trovato oggi una sua nuova dimensione con l’uscita di questo bellissimo Weltenasche.

Dopo i primi dischi , contraddistinti da un black metal dalle ampie sfumature ambient prima, e depressive poi, il musicista austriaco è approdato ad una forma che solo apparentemente si può considerare più canonica ma che, semmai, è solo maggiormente efficace e capace di colpire nel segno senza dover percorrere vie traverse.
E’ difficile, infatti, imbattersi nel genere in un lavoro così lungo eppure privo di momenti di stanca o di riempitivi: anche quando il nostro rallenta o varia la velocità di crociera, abbandonandosi a momenti acustici o più rarefatti, tutto appare perfettamente inserito in un disegno compositivo focalizzato su un costante scambio emotivo tra musicista ed ascoltatore.
D’altronde è percepibile dall’intensità di brani che, ad eccezione dell’acustica Spuren im Schnee, sono marchiati da un crescendo di pathos, mix tra rabbia, disperazione e rassegnazione, quanto in Weltenasche non ci sia nulla di costruito essendo ogni nota il naturale sbocco della creatività di un’anima tormentata.
Talvolta pare addirittura di ascoltare una versione dall’impatto più esasperato dei primi lavori degli Alcest, laddove melodie sognanti si sposano fluidamente con le sfuriate in blast beat (Solange das Herz schlägt…), in altri momenti è un afflato poetico a prendere la scena (MMXVI/Weltenasche) ma è soprattutto una reazione liberatoria ad un disagio interiore che prepara il terreno a brani splendidi come Crevasse, Alles wird in Flammen stehen e …und blicke doch mit Wut zurück.
Non è certo il genere musicale a fare il musicista, ma semmai il contrario, ed il black metal avrà sempre un senso e, soprattutto, vita ancora molto lunga, finché verrà interpretato da chi possiede la sensibilità compositiva di V. Wahntraum.

Tracklist:
1. Crevasse
2. Alles wird in Flammen stehen
3. Le Couloir des Ombres
4. Tor zu tausend Wüsten
5. Spuren im Schnee
6. Solange das Herz schlägt…
7. …und blicke doch mit Wut zurück
8. (MMXVI/Weltenasche)

Line-up:
V. Wahntraum Guitars, Vocals

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VIII – Decathexis

Black avanguardista, death tecnico e progressivo, ambient, tutto scorre e cambia vorticosamente in Decathexis, un lavoro con il quale gli VIII provano in maniera decisa a staccarsi dalle convenzioni

Poco più di due anni fa mi ero trovato ad elogiare il primo full length dei sardi VIII, autori in quel frangente, con il loro Drakon, di un black metal dalle ampie sfumature doom e ricco di passaggi evocativi e melodici.

Le cose sono cambiate non poco nel lasso di tempo intercorso tra quell’uscita ed il qui presente Decathexis, non tanto dal punto di vista qualitativo che, come vedremo, non ha subito alcun contraccolpo, bensì da quello riferito all’approccio stilistico: gli VIII sono oggi una realtà dedita ad un black avanguardista che può essere avvicinabile ai parti più recenti della scuola francese, reso però con una personalità ed un tocco di follia che ne accentua la peculiarità.
Ed è proprio da un concept basato su stati di alterazione mentale (Decathexis significa, a grandi linee, ad una forma patologica di progressivo disinteresse e distacco nei confronti della realtà circostante) che DrakoneM, sempre aiutato dal fido drummer Mark, prende le mosse per sviluppare un lavoro impressionante per come la materia viene plasmata a piacimento senza che, alla fine, il risultato finale ne risenta particolarmente a livello di fluidità.
Non era semplice, infatti, concentrare in un solo album una simile quantità di influssi, corrispondenti ad altrettanti cambi di scenario ed atmosfera, mantenendo saldo il controllo delle composizioni senza farsi sopraffare dalla propria vis sperimentale.
Fin dall’incipit di Symptom, infatti, si intuisce che Decathexis offrirà una cinquantina minuti all’insegna di un’imprevedibilità, abbinata ad un’estremizzazione del suono che va oltre i semplici canoni del black o del death: gli VIII suonano quello che si può definire a buon titolo avantgarde metal, senza che tale definizione appaia pomposa o inadeguata
Così le incursioni del sax, strumento che da chi ascolta metal estremo viene normalmente visto come il fumo negli occhi, sono solo uno dei simboli del disagio che gli VIII traducono in musica: i tre brani, la cui delimitazione appare più una necessità che non una conseguenza logica, per cui potrebbero essere anche dieci od uno soltanto, non lasciano punti di riferimento certi ed è quasi impossibile prevedere quale direzione prenderà il sound.
Black avanguardista, death tecnico e progressivo, ambient, tutto scorre e cambia vorticosamente in Decathexis, un lavoro con il quale gli VIII provano in maniera decisa a staccarsi dalle convenzioni, rischiando del loro con l’abbandono di strade più confortevoli ma ottenendo un risultato davvero soddisfacente, che lascia quale unico interrogativo la reazione di chi ha seguito le prove del passato al cospetto di una sterzata così decisa e violenta inferma al proprio modus operandi.
Poco male, visto che auspicabilmente DrakoneM e Mark dovrebbero ottenere nuovi e numerosi consensi per un album che va assaporato, comunque, mantenendo un’ampia apertura mentale.

Tracklist:
1. Symptom
2. Diagnosis
3. Prognosis

Line-up:
DrakoneM – Guitars, Bass, Synth, Vocals (additional)
Mark – Drums

VIII – Facebook

Negură Bunget – Zi

Zi è un lavoro francamente inattaccabile, sminuito però dal confronto con le uscite passate, non riuscendo ad indurre nell’ascoltatore lo stesso grado di coinvolgimento.

Con Zi i Negură Bunget giungono alla seconda parte della programmata trilogia transilvanica: il precedente Tau aveva evidenziato l’avvio di un progressivo distacco da quelle radici black che avevano accompagnato la band nello scorso decennio e, in buona parte, anche nel primo degli album che vedeva il solo Negru alle redini della band (Virstele Pamintului).

Tale aspetto si accentua ancor più oggi, relegando quasi ad una presenza marginale le pulsioni più estreme: il lavoro sposta la barra in maniera decisa verso il folk, materia che la band rumena ha sempre interpretato in maniera unica; tutto ciò comporta, rispetto al predecessore, una minore fruibilità, visto che la componente etnica qui non viene mai interpretata in maniera giocosa o ritmata, ma esprime un sentire che va a fondere la tradizione popolare con quella spiritualità che, per i Negură Bunget, è sempre stata una componente essenziale.
Rispetto a Tau non si può comunque fare a meno di rimarcare una minore fluidità, derivante soprattutto da un approccio che mette ancor più ai margini la forma canzone, optando per strutture cangianti che tendono ad esaltare gli aspetti più mistici ed evocativi del sound.
Resta il fatto che, per ascoltare oggi un album dei Negură Bunget, bisogna essere dotati di una buona dose di curiosità e di apertura mentale, oltre che di innata passione per sonorità ancestrali che traggono linfa dalle radici popolari: senza dubbio quello della band rumena è un percorso catartico e spirituale che non ha certo quale primo obiettivo quello di rilasciare musica accattivante e banale e, proprio per questo, Zi è un album che cresce sicuramente dopo molti ascolti, rivelandosi per quello che è, ovvero un buonissimo lavoro che si attesta comunque leggermente sotto a Tau.
Segnalando come episodi migliori i due centrali, Brazdă dă foc e Baciul Moșneag, appunto quelli in cui le due anime della band paiono convivere in maniera più equilibrata, non disdegnando neppure aperture melodiche più canoniche come il bellissimo assolo di chitarra nel finale della seconda delle due tracce, non si può fare a meno di notare come la tensione emotiva, che in Tau non veniva mai meno, qui si manifesta in maniera molto altalenante, compressa da un’attenzione per la forma che talvolta finisce per sacrificare la sostanza.
I Negură Bunget esibiscono così con maestria il loro inimitabile brand ed è innegabile che, preso singolarmente, Zi sia un lavoro francamente inattaccabile, sminuito però dal confronto con le uscite passate, non riuscendo ad indurre nell’ascoltatore lo stesso grado di coinvolgimento.
Un piccolo passo indietro che non inficia in alcun modo il meritato status di culto acquisito dalla band rumena, autrice di una delle espressioni artistiche più peculiari in ambito metal, e non solo.

Tracklist:
1. Tul-ni-că-rînd
2. Grădina stelelor
3. Brazdă dă foc
4. Baciul Moșneag
5. Stanciu Gruiul
6. Marea Cea Mare

Line-up:
Negru – Dulcimer, Tulnic, Toacă, Xylophone (2002-present)
Ovidiu Corodan – Bass
Petrică Ionuţescu – Flute, Nai, Kaval, Tulnic
Adi “OQ” Neagoe – Guitars, Vocals, Keyboards
Vartan Garabedian – Percussion, Vocals
Tibor Kati – Vocals, Guitars, Keyboards, Programing

NEGURA BUNGET – Facebook