None – None

Al di là del ridotto potenziale innovativo, un album di questo tipo lo si ascolta sempre volentieri, specialmente quando viene suonato e composto con tutti i crismi e con la dovuta intensità, e senza che ci si perda in troppi passaggi interlocutori.

Interessante lavoro da parte di questa band americana dedita ad un black metal atmosferico e dalle forti sfumature depressive.

Tre brani per circa una mezz’ora di buona musica sono il fatturato di quest’album autointitolato, pubblicato dalla Hypnotic Dirge: anche se il monicker None non è certo di quelli che si ricordano in maniera imperitura ed il genere suonato è discretamente inflazionato, il lavoro regala con buona continuità quelle sonorità oscillanti tra malinconia e disperazione, pescando con un certo equilibrio tra le due anime che confluiscono nelle composizioni.
Il depressive black prende campo specialmente quando è lo screaming straziante ad occupare la scena, mentre la componente atmosferica prevale nei momenti prettamente strumentali; peraltro, la copertina è piuttosto indicativa di quanto ci si possa attendere dalla musica della misteriosa band di Portland, per cui gli scenari esibiti corrispondono al senso di freddo e desolazione che prima o poi ognuno percepisce provando a scavare in profondità dentro sé stesso.
Al di là del ridotto potenziale innovativo, un album di questo tipo lo si ascolta sempre volentieri, specialmente quando viene suonato e composto con tutti i crismi e con la dovuta intensità, e senza che ci si perda in troppi passaggi interlocutori.
None non rappresenta nulla che possa stravolgere le gerarchie del metal underground ma è sicuramente un ascolto che non deluderà chi ama questo tipo di sonorità.

Tracklist:
1 – Cold
2 – Wither
3- Suffer

Bethlehem – Bethlehem‬

L’ottava fatica su lunga distanza dei Bethlehem è sicuramente un qualcosa che non deve essere trascurato, anche per il tentativo, spesso riuscito, di scandagliare l’oscurità in musica in tutti i suoi meandri, specialmente quelli più inaccessibili e ripugnanti: resta il fatto che, per il mio gusto personale, manca sempre il canonico centesimo per fare l’euro.

Ho sentito più di una persona attendere con una certa fiducia questo nuovo album dei Bethlehem, alla luce di una storia che colloca la band tedesca tra quelle fondamentali per la crescita e lo sviluppo di un certo modo di interpretare la materia estrema.

Allo stesso modo, da parte mia, c’erano diversi dubbi legati al precedente Hexakosioihexekontahexaphobia, album che non mi aveva lasciato ricordi indelebili, e questa nuova fatica autointitolata ne dissipa alcuni ma ne fa crescere altri.
Sicuramente la creatura che, ormai da molti anni, viene guidata dal solo Bartsch , non produce musica che possa lasciare indifferenti e, nonostante la matrice black sia sempre bene in vista, il risultato finale non può essere mai scontato.
D’altra parte, però, pur non volendo togliere ai Bethlehem il titolo di band seminale e imprescindibile per quella che sarebbe diventata poi la scena black metal tedesca, resta il fatto che la loro produzione è sicuramente di buon livello, considerando anche che il leader si e circondato di musicisti di spessore (tra tutti il notevole batterista Stefan Wolz) ma senza raggiungere picchi corrispondenti allo status acquisito.
Anche questo nuovo lavoro, quindi, non sposta il mio giudizio pur se, rispetto al suo predecessore, si rivela leggermente più diretto e meglio focalizzato su un’indole black doom che offre più di un passaggio avvincente e ben memorizzabile.
Un altro aspetto che potrebbe fungere da spartiacque per più di un ascoltatore è l’interpretazione fornita dalla vocalist polacca Onielar, improntata su un registro isterico, a tratti anche molto teatrale, comunque più adatto a un disco di natura totalmente depressive piuttosto che ad un contesto simile, e che a mio avviso, oltre che stucchevole alla lunga, si rivela decisamente inferiore e meno versatile rispetto alla prova fornita da Guido Meyer su Hexakosioihexekontahexaphobia.
In definitiva, l’album dei Bethlehem mostra diversi sprazzi di genialità, ma i passaggi che si ricordano più volentieri sono quelli strumentali afferenti alla matrice doom e non quelli che, invece di stupire, finiscono solo per compromettere la fluidità di certe tracce.
Così è la diretta opener Fickselbomber Panzerplauze a convincere, così come i brani più meditati e melodicamente lineari quali Kynokephale Freuden im Sumpfleben e Arg tot frohlockt kein Kind, nelle quali trova spazio in maniera più concreta il qualitativo lavoro chitarristico di Karzov, mentre tra le tracce più anomale spicca Verderbnisheilung in sterbend’ Mahr, oscillante tra riff plumbei e minacciosi e liquide pulsioni dark wave .
Bartsch si conferma compositore di vaglia e senz’altro una delle migliori menti musicali in circolazione, ma sono troppe le scelte che personalmente ritengo cervellotiche e non del tutto funzionali al risultato finale, incluso il rutto che accoglie l’ascoltatore all’inizio del lavoro e che fa solo venire voglia di restituirlo al mittente …
Detto questo, l’ottava fatica su lunga distanza dei Bethlehem è sicuramente un qualcosa che non deve essere trascurato, anche per il tentativo, spesso riuscito, di scandagliare l’oscurità in musica in tutti i suoi meandri, specialmente quelli più inaccessibili e ripugnanti: resta il fatto che, per il mio gusto personale, manca sempre il canonico centesimo per fare l’euro.

Tracklist:
1. Fickselbomber Panzerplauze
2. Kalt’ Ritt in leicht faltiger Leere
3. Kynokephale Freuden im Sumpfleben
4. Die Dunkelheit darbt
5. Gängel Gängel Gang
6. Arg tot frohlockt kein Kind
7. Verderbnisheilung in sterbend’ Mahr
8. Wahn schmiedet Sarg
9. Verdammnis straft gezügeltes Aas
10. Kein Mampf mit Kutzenzangen

Line-up:
Bartsch – Bass, Keyboards
Wolz – Drums
Karzov – Guitars, Keyboards
Onielar – Vocals

BETHLEHEM – Facebook

Damnatus – Io Odio La Vita

Una buona prova d’esordio, alla quella forse manca soltanto qualche spunto melodico più incisivo e melodico in grado d’imprimersi più a lungo nella memoria.

Damnatus è il nome dato al proprio progetto solista dal musicista alessandrino Oikos, all’esordio con questo ep intitolato Io Odio La Vita.

Ci troviamo mani e piedi negli anfratti più oscuri e dolenti del depressive black, che qui viene offerto in maniera molto esplicita anche dal punto di vista lirico. Se le coordinate sonore e stilistiche sono quelle consuete del dsbm, con i protagonisti che urlano tutto il loro disagio su una base piuttosto malinconica e melodica, non si può mai fare a meno di apprezzare questa particolare forma musicale, capace di far riflettere ciascuno sui pensieri più negativi ed autodistruttivi che ognuno prova in determinati momenti della propria esistenza.
L’operato dei Damnatus rientra nella media per la sua resa finale, rivelandosi ben eseguito, tutto sommato ben prodotto per gli standard del genere e convincente anche a livello lirico, pur evidenziando a volte qualche accentuazione retorica di troppo: di sicuro, però, alla fine dell’ascolto resta la consapevolezza del fatto che l’alienazione ed il desiderio di fuga del protagonista verso un solo approdo, la morte, rappresentano un qualcosa appartenente al vissuto di tutti noi e con il quale, prima o poi, si è destinati a dover fare i conti.
Anche per questo amo il depressive, per il coraggio di chi lo suona nel mettere in piazza, con un auspicabile effetto catartico, quel malessere che spesso viene nascosto sotto maschere di convenienza che non riescono a celare del tutto l’inanità di gran parte dei nostri gesti quotidiani.
Per Oikos, quindi, una buona prova d’esordio, alla quella forse manca soltanto qualche spunto melodico più incisivo e melodico in grado d’imprimersi più a lungo nella memoria.

Tracklist:
1. Intro
2. Primavera depressa
3. Ricaduta
4. Le ferite non si rimarginano
5. Il ricordo inesistente di una vita andata a male

Line-up:
Oikos – Vocals, All Instruments

Dreariness – Fragments

I Dreariness confermano e rafforzano con Fragments il loro status di band capace di produrre musica di bellezza cristallina, ammantata da una spessa coltre di oscurità ed inquietudine.

Attendevo con curiosità il secondo album dei Dreariness, band che mi aveva colpito alla sua prima uscita (My Mind Is Too Weak To Forget – 2013) con una proposta radicata nel depressive, ma con quel qualcosa in più a livello poetico e melodico in grado di fare la differenza.

In questo nuovo Fragments il sound appare più meditato in molte sue parti, ma nulla cambia riguardo al tormento e la sofferenza che la musica dei Dreariness induce, utilizzando come strumento aggiunto la voce di Tenebra, che si dimostra una delle interpreti più credibili del settore.
Il suo screaming esasperato è accompagnato da vocals pulite (altro elemento di novità rispetto al passato) che ne sono l’ideale contraltare, e il tutto va a comporre un quadro compositivo che si potrebbe definire depressive blackgaze ma che, in fondo, è solo un modo come un altro, per quanto necessario, di definire un sound in cui le melodie create da Gris e ben punteggiate dal drumming di Torpor vengono trasformate in qualcosa di realmente inquietante dagli interventi vocali.
Infatti, se gli Alcest, con il loro shoegaze, ci conducono per mano all’interno dei sogni di Neige, con i Dreariness ci si addentra in una realtà onirica prossima all’incubo, quasi che le asprezze vocali intendano riportarci bruscamente ad una realtà che la mente immagina meno ostile e più rassicurante.
Vengono rappresentati frammenti di luce, a tratti abbacinante, che vivono nella nostra mente lo spazio della vita di una lucciola, prima d’essere oscurati dall’inquietudine e dal senso di costante inadeguatezza di fronte al mistero dell’esistenza: un qualcosa che ogni mente dotata di n minimo di raziocinio non può fare a meno di provare.
Melodie struggenti sono la colonna sonora di una vita in frantumi, la cui catarsi finale però non avviene necessariamente con l’autoannientamento, ma può giungere anche attraverso un azzeramento del proprio vissuto propedeutico ad una nuova rinascita.
Di certo l’ascolto di un album dei Dreariness non è mai né semplice né banale: questa è musica che provoca non poco turbamento, anche se le sonorità meno aspre rispetto al più classico depressive favoriscono un approccio meno ostico per chi dovesse approdare a Fragments con un background meno estremo.
Quasi un’ora di musica sognante, che la voce di Tenebra trasforma sovente in un incubo dal quale il risveglio, però, potrebbe rivelarsi tutt’altro che una liberazione, è il magnifico contenuto di un album dall’elevato impatto emotivo, nel quale ogni passaggio è funzionale allo scopo e dove The Blue ( traccia “novembrina” non solo per il titolo) e In The Deep Of Your Eyes catturano qualche consenso in più nella mia personale scala di gradimento, prima che la splendida Catharsis chiuda il lavoro quale autentico manifesto concettuale reso ancor più potente dall’utilizzo della nostra lingua.
I Dreariness confermano e rafforzano con Fragments il loro status di band capace di produrre musica di bellezza cristallina, ammantata da una spessa coltre di oscurità ed inquietudine: francamente, oggi, non credo ci sia in giro un’altra realtà, in questo specifico settore, capace di trasmettere con eguale forza e cristallina bellezza un tale senso di senso di prostrazione e smarrimento.

Tracklist:
1. Starless Night
2. The Blue
3. Essence
4. In the Deep of Your Eyes
5. Somnium
6. No Temporary Dreams
7. Catharsis

Line-up:
Tenebra – Vocals
Grìs – Guitars, Bass, Keys
Torpor – Drums

DREARINESS – Facebook

Insonus – Nemo Optavit Vivere

La capacità di variare le sfumature stilistiche da parte degli Insonus, rende Nemo Optavit Vivere un lavoro di un certo interesse.

Ep d’esordio per gli Insonus, duo italiano che va ad inserirsi nell’affolata scena black metal.

La maniera per farsi notare in questo specifico settore, tralasciando la remota possibilità che qualcuno che riesca ad introdurre particolari elementi innovativi nel proprio sound, è sicuramente quella di intepretare la materia in maniera coerente e competente, anche se non sempre si rivela ugualmente utile a raggiungere lo scopo.
Gli Insonus, in ogni caso, il loro compito lo svolgono in maniera egregia, con la proposta di un black che in certe parti sembra spingere più sul versante depressive, mentre in altre rimane nell’alveo della tradzione, il tutto però sempre con una buona propensione nel creare linee melodiche capaci di attrarre l’attenzione del’ascoltatore.
Proprio la capacità di variare le sfumature stilistiche da parte del duo, rende Nemo Optavit Vivere un lavoro di un certo interesse, proprio perché offre la sensazione di una ricerca musicale che va oltre la ripoposizione fedele degli stlemi del genere.
Così, se The Solution è una bella traccia nello stile dei migliri Arckanum, Bury Me esplora n manira decisa il versante depressive, con un andatura più rallentata ed il canonico scraming disperato a fare da corollario; Nihist Manifesto è un brano che, dopo un’introduzione pacata, diviene inarrestabile quando le ritmiche si fanno a trati parossistiche, mentre Life Hurts A Lot More Than Death è un pregevole episodio di matrice ambient.
L’ep indica senz’altro buone doti compositive da parte degli Insonus e gli scostamenti stilistici denotano il lodevole tentativo di non apparire eccessivamente calligrafici, cosa che riesce loro piuttosto bene: a mio avviso il brano più focalizzato ed incisivo è The Solution, ma anche i restanti risultano degni di una certa attenzione. Un esordio decisamente positivo.

Tracklist:
1. The Solution
2.Bury Me
3.Nihilist Manifesto
4.Life Hurts A Lot More Than Death

Line-up:
R. – Guitars, Additional Vocals, Songwriting
A. – Vocals, Lead guitars, Bass, Programming, Arrangements

INSONUS – Facebook

Karg – Weltenasche

Il black metal avrà sempre un senso e, soprattutto, vita ancora molto lunga, finché verrà interpretato da chi possiede la sensibilità compositiva di V. Wahntraum.

Karg è la creatura solista di V. Wahntraum, conosciuto anche come J.J. all’interno degli ottimi Harakiri For The Sky: un progetto travagliato nel suo decennale snodarsi, così come la personalità del musicista che lo conduce e che, tra varie vicissitudini,anche personali, pare aver trovato oggi una sua nuova dimensione con l’uscita di questo bellissimo Weltenasche.

Dopo i primi dischi , contraddistinti da un black metal dalle ampie sfumature ambient prima, e depressive poi, il musicista austriaco è approdato ad una forma che solo apparentemente si può considerare più canonica ma che, semmai, è solo maggiormente efficace e capace di colpire nel segno senza dover percorrere vie traverse.
E’ difficile, infatti, imbattersi nel genere in un lavoro così lungo eppure privo di momenti di stanca o di riempitivi: anche quando il nostro rallenta o varia la velocità di crociera, abbandonandosi a momenti acustici o più rarefatti, tutto appare perfettamente inserito in un disegno compositivo focalizzato su un costante scambio emotivo tra musicista ed ascoltatore.
D’altronde è percepibile dall’intensità di brani che, ad eccezione dell’acustica Spuren im Schnee, sono marchiati da un crescendo di pathos, mix tra rabbia, disperazione e rassegnazione, quanto in Weltenasche non ci sia nulla di costruito essendo ogni nota il naturale sbocco della creatività di un’anima tormentata.
Talvolta pare addirittura di ascoltare una versione dall’impatto più esasperato dei primi lavori degli Alcest, laddove melodie sognanti si sposano fluidamente con le sfuriate in blast beat (Solange das Herz schlägt…), in altri momenti è un afflato poetico a prendere la scena (MMXVI/Weltenasche) ma è soprattutto una reazione liberatoria ad un disagio interiore che prepara il terreno a brani splendidi come Crevasse, Alles wird in Flammen stehen e …und blicke doch mit Wut zurück.
Non è certo il genere musicale a fare il musicista, ma semmai il contrario, ed il black metal avrà sempre un senso e, soprattutto, vita ancora molto lunga, finché verrà interpretato da chi possiede la sensibilità compositiva di V. Wahntraum.

Tracklist:
1. Crevasse
2. Alles wird in Flammen stehen
3. Le Couloir des Ombres
4. Tor zu tausend Wüsten
5. Spuren im Schnee
6. Solange das Herz schlägt…
7. …und blicke doch mit Wut zurück
8. (MMXVI/Weltenasche)

Line-up:
V. Wahntraum Guitars, Vocals

KARG – Facebook

Winterheart – Nothingness

Rispetto a certi stilemi del genere viene meno un certo minimalismo, per cui troviamo un sound relativamente dinamico e valorizzato da una produzione all’altezza rispetto agli standard richiesti.

Terzo album per gli ungheresi Winterheart, band che si cimenta con un black metal atmosferico ma dai tratti sovente molto vicini al depressive.

In effetti, il senso di disperazione che viene evocato con buona continuità dal gruppo di Budapest è accentuato da vocals che, in più di un caso, mostrano un chiaro stampo DSBM, talvolta spinte fino all’eccesso come in Kill Me.
Rispetto a certi stilemi del genere viene meno un certo minimalismo, per cui troviamo un sound relativamente dinamico e valorizzato da una produzione all’altezza rispetto agli standard richiesti.
Ciò consente di godere appieno delle diverse sfumature, in primis un buon lavoro chitarristico che non si limita al consueto tremolo offrendo, invece, più di uno spunto notevole di matrice solista od acustica.
Tra i brani spicca Cancer, grazie ad un andamento vario e vicino per attitudine ai lavori più datati dei Nocte Obducta, e la successiva Forgive Me, dall’incedere doloroso segnato da una slendida linea melodica, ma non sono da sottovalutare neppure le altre tracce, come Aldozat, cantata in madre lingua. 
Insomma, Nothingness è davvero un lavoro di pregio che svolge appieno il suo compito, ovvero quello di trascinare l’ascoltatore nel gorgo di nichilistico sconforto di cui i suoni dei Winterheart sono intrisi.

Tracklist:
1. Intro
2. Áldozat
3. Kill Me
4. Drifting Away
5. Cancer
6. Forgive Me
7. Meghalok
8. Emlékek

Line-up:
Gábor Szalai – Vocals, Bass
Zsolt Géczy – Guitars
Péter Nagy – Drums
Ádám Tóth – Vocals, Guitars

WINTERHEART – Facebook

Atom – Spectra

Rispetto ad altri progetti di stampo simile, Atom mantiene ben salde le radici nel black metal, genere che viene sviscerato un po’ in tutte le sue sfumature

Per la one man band Atom, l’ep Spectra arriva due anni dopo Horizons, un buon full length del quale avevo avuto l’occasione di parlare su IYE.

Rispetto a quel lavoro le coordinate stilistiche non cambiamo ma, semmai, vedono una valorizzazione dei loro aspetti migliori: il black metal atmosferico proposto da Fabio, musicista cesenate che è dietro il monicker Atom, è piuttosti diretto non perché banale, ma in quanto raggiunge lo scopo senza indulgere in tentazioni avanguardistiche o sperimentali.
Sia nelle parti più aspre, con le consuete accelerazioni ritmiche, sia in quelle più riflessive, il filo conduttore melodico è sempre in primo piano, rendendo questa mezz’ora scarsa di musica un’altra buona dimostrazione di capacità compositive.
Rispetto ad altri progetti di stampo simile, Atom mantiene comunque ben salde le radici nel black metal, genere che viene sviscerato un po’ in tutte le sue sfumature, operazione che avviene in maniera efficace in Night Sleeper, dove in un lasso di temo relativamente breve scorrono pulsioni depressive, postblack, epic e vocals che spaziano da evocative parti corali a stentorei passaggi pulite per arrivare, poi, al consueto screaming.
Proprio questo, come nel precedente lavoro, continua ad essere un aspetto dolente, rivelandosi di qualità inferiore al contesto strumentale nel quale viene inserito: talvolta viene esasperato in stile DSBM (Spectra), in altri momenti diviene più canonico ma stranamente risulta un po’ troppo effettato e relegato sullo sfondo a livello di produzione (Dasein).
Come in Horizons si rivela molto efficace il lavoro chitarristico nelle sue diverse sembianze, il che impreziosisce un album che denota un ulteriore passo avanti per un progetto in possesso di tutti i crismi per ritagliarsi un minimo di spazio vitale in un settore congestionato come non mai e nel quale, nonostante molti la pensino diversamente, il livello medio si sta decisamente alzando.

Tracklist:
1. Spectra
2. Night Sleeper
3. Dasein

Line-up:
Fabio – Vocals, Guitars, Drum programming

ATOM – Facebook

Yhdarl – A Prelude to the Great Loss

L’ennesima epifania di un talento per il quale una sorta di compulsività espressiva non va minimamente a discapito della qualità delle diverse proposte.

Un preludio alla grande perdita: per raccontare gli stati d’animo che accompagnano questo tragico momento c’è bisogno di uno dei massimi cantori moderni di tutto ciò che rappresenta il dolore, il disagio esistenziale, la disperazione e l’alienazione di chi è condannato, suo malgrado, a trascorrere l’esistenza su questo pianeta.

Il suo nome è Déhà, lo abbiamo testato fin troppe volte ed in mutevoli forme per nutrire dei dubbi sul suo valore, e anche questa volta non delude, utilizzando quale mezzo uno dei suoi innumerevoli progetti, Yhdarl, dove si accompagna alla musicista francese Larvalis Lethæus.
Il monicker in questione rappresenta l’ incarnazione più prolifica del musicista belga e, forse, anche quella in cui riesce davvero compiutamente a racchiudere tutte le sue oscure visioni, proprio perché, ascoltando con attenzione A Prelude to the Great Loss, si riescono a cogliere sfumature, provenienti dagli altri suoi progetti, che vengono espresse come sempre in maniera mirabile.
L’ep regala una mezz’ora complessiva di musica, suddivisa in due brani complementari ma diversi per approccio ed intensità: la furia parossistica che spesso contraddistingue Unblessed Hands è sintomatica di un dolore che pare non trovare vie d’uscita ed è il punto d’incontro tra la furia distruttiva dei COAG, il nichilismo dei Merda Mundi ed il rabbioso sgomento degli Imber Luminis, mentre ben diverso è l’impatto emotivo provocato da Primal Disgrace, laddove il dolore ottundente degli Slow va a fondersi idealmente con la poetica malinconica dei We All Die (Laughing).
Il tutto viene accompagnato dalla cangiante e sempre convincente interpretazione di Déhà e dai vocalizzi strazianti di Larvalis Lethæus, elemento vieppiù disturbante in un ambito che di rassicurante e confortevole di suo ha già ben poco.
Gli Yhdarl rappresentano l’ennesima epifania di un talento per il quale una sorta di compulsività espressiva non va minimamente a discapito della qualità delle diverse proposte, un qualcosa che trova ben pochi eguali nella storia recente della musica, non solo di quella circoscritta al metal.

Tracklist:
1. Unblessed Hands
2. Primal Disgrace

Line-up:
Déhà – All instruments, Vocals
Larvalis Lethæus – Vocals, Piano

YHDARL – Facebook

Pale From Sunlight – Love Was Never An Option

L’elemento di interesse per i Pale From Sunlight risiede nella maggiore rarefazione delle atmosfere, che non sono mai banali e che, alla fine, riescono ad indurre quel senso di ineluttabile ed interminabile sconforto che il DSBM intende riversare sull’ascoltatore.

Depressive black dagli Stati Uniti con il duo Pale From Sunlight, all’esordio con questo primo lavoro su lunga distanza dopo l’Ep omonimo uscito solo lo scorso febbraio.

L’interpretazione del genere vede Krullnaag e Vemetrith alle prese con i consueti suoni venati di dolore ottundente che dividono la scena con l’altrettanto canonica voce straziante.
L’elemento di interesse per i Pale From Sunlight risiede, dunque, nella maggiore rarefazione delle atmosfere, che non sono mai banali e che, alla fine, riescono ad indurre quel senso di ineluttabile ed interminabile sconforto che il DSBM intende riversare sull’ascoltatore.
Peccato solo che la produzione non riesca a valorizzare appieno il buon lavoro compositivo, ma chi ama tali sonorità ormai ha già fatto abbondantemente l’orecchio a questo aspetto
I cinque brani di Love Was Never An Option appaiono comunque tutti piuttosto efficaci anche se, per gusto personale, ho molto apprezzato la conclusiva Last Sunset, in pratica un esibizione di funeral depressive capace di convogliare in un sol colpo tutto il disagio esistenziale che, ciascuno a modo proprio, entrambi i generi intendono convogliare.
Buona prova comunque per una band che si piazza con buona disinvoltura sulla scia della migliore scuola americana che vede Xasthur e Dhampyr quali portabandiera.

Tracklist:
1. River Oaks
2. ‘Til Death Does His Part
3. Anxious Revelations
4. Out of Reach
5. Love Was Never an Option
6. Last Sunset

Line-up:
Krullnaag – All instruments
Vemetrith – Vocals

PALE FROM SUNLIGHT – Facebook

Bethlehem – Hexakosioihexekontahexaphobia

L’ultimo disco dei Betlehem, pur non essendo imprescindibile, mostra un progresso rispetto al materiale più recente pubblicato dalla storica band tedesca.

Nell’ascoltare il settimo album dei Bethlehem, a vent’anni di distanza esatti dall’esordio “Dark Metal”, non si può fare a meno di cogliere quanto la band tedesca abbia mutato nel frattempo le proprie coordinate stilistiche.

Il black-doom degli esordi è lontano nel tempo ma è anche vero che, paradossalmente, il sound ha subito gran parte delle proprie mutazioni nel corso del primo decennio, mentre il gap stilistico tra l’ultimo full-length originale (“Mein Weg”, del 2004) e quest’ultimo parto è decisamente più ridotto, non volendo tener conto della breve parentesi di fine decennio con Kvarforth al microfono, culminata con la controversa riedizione del “S.U.I.Z.ID. album” e il successivo rigurgito black dell’Ep “Stönkfitzchen”.
Hexakosioihexekontahexaphobia è un disco che mostra sicuramente un volto più raffinato e maturo dei Bethlehem: infatti, qui il leader e unico superstite della formazione originale, Jürgen Bartsch, si preoccupa soprattutto di presentare, assieme alle immancabili tracce dai tratti sperimentali, brani soprattutto in grado di catturare l’attenzione senza sforzi sovrumani da parte degli ascoltatori.
Questo almeno è quanto avviene per le prime due tracce (Ein Kettenwolf greint 13:11-18 e Egon Erwin’s Mongo-Mumu), all’insegna di un dark metal piuttosto sinuoso che l’idioma tedesco rende ancor più decadenti nel loro incedere, ma indubbiamente è il quarto brano, Gebor’n um zu versagen, che si candida come uno dei picchi dell’album, grazie ad un refrain decisamente azzeccato.
Nazi Zombies mit Tourette-Syndrom (titolo notevole), riporta la band su territori sperimentali con risultati altalenanti, mentre Spontaner Freitod, dopo un furioso avvio, si trasforma ben presto in un limaccioso brano dai tratti doom.
La bella ed evocativa Höchst alberner Wichs riporta l’album ad un sound in linea con la sua parte iniziale, e l’azzeccato strumentale Ich aß gern’ Federn e la più intimista Letale Familiäre Insomnie confermano la bontà di tale scelta.
Dopo una non troppo efficace Kinski’s Cordycepsgemach, è Antlitz eines Teilzeitfreaks che ha il compit di chiudere un album che sicuramente trae giovamento dalla buona prestazione vocale di Guido Meyer de Voltaire, valido sia nelle parti pulite sia in quelle “harsh”
In definitiva, quando una band, che in passato ha fatto dell’originalità della proposta il proprio vessillo, risulta più convincente proprio nella parti maggiormente fruibili è inevitabile porsi qualche domanda ma, come detto in fase di introduzione, proprio la maturità esibita dal trio finisce per compensare, senza però riuscire a rimpiazzarla, la carica innovativa degli esordi facendo sì che, in effetti, i brani più ambiziosi ed intricati nella loro costruzione alla fine risultino soprattutto cervellotici.
In questo senso l’assimilazione del lavoro non viene agevolata da una durata che supera l’ora, anche se nel complesso si può affermare che Hexakosioihexekontahexaphobia non è certo un disco deludente e, in ogni caso, mostra un passo avanti rispetto al materiale più recente pubblicato dai Bethlehem.
Buono, ma non imprescindibile, quindi, con nota di demerito per una copertina francamente insulsa oltre che di pessimo gusto …

Tracklist:
1. Ein Kettenwolf greint 13:11-18
2. Egon Erwin’s Mongo-Mumu
3. Verbracht in Plastiknacht
4. Gebor’n um zu versagen
5. Nazi Zombies mit Tourette-Syndrom
6. Spontaner Freitod
7. Warum wurdest du bloß solch ein Schwein?
8. Höchst alberner Wichs
9. Ich aß gern’ Federn
10. Letale familiäre Insomnie
11. Kinski’s Cordycepsgemach
12. Antlitz eines Teilzeitfreaks

Line-up:
Jürgen Bartsch – Guitars, Electronics, Bass, Keyboards
Florian “Torturer” Klein – Drums, Samples
Guido Meyer de Voltaire – Vocals, Bass

BETHLEHEM – Facebook

Imber Luminis – Imber Aeternus

Un disco che va ascoltato con la giusta predisposizione d’animo, pena il rischio di rifiutarlo non appena i suoni si intristiscono e la voce di Déhà esprime senza alcuna mediazione le sensazioni di uno spirito lacerato da un dolore che non può essere in alcun modo lenito né sopportato.

Ci sono al mondo persone particolarmente in gamba, capaci di ottimizzare al massimo il proprio tempo per dedicarsi a molteplici attività, e il fatto che ci riescano pure con buoni risultati crea un senso di leggera frustrazione a chi fatica nell’organizzarsi in maniera decente una normalissima esistenza.

Il caso in esame è quello del musicista belga Déhà, che i lettori dotati di migliore memoria ricorderanno d’aver trovato anche nelle recensioni dei Deos, degli Slow e dei C.O.A.G..
Il fatto sorprendente non è solo che tutti questi lavori fossero accomunati da una qualità non comune ma risiede soprattutto nella varietà dei generi trattati, aspetto che depone a favore della versatilità compositiva di Déhà: infatti, se nei Deos, in compagnia di Daniel Neagoe, il genere prescelto era un death-doom di ottima fattura, con il monicker Slow spostava le coordinate sonore verso un funeral altrettanto convincente mente come C.O.A.G., in maniera invero sorprendente, si cimentava con le velocità esasperate del grindcore.
Imber Luminis ci mostra un ulteriore volto del musicista di Mons e, anche se è sempre il doom la base di partenza, in effetti questo è, tra tutti i lavori citati, quello che mostra le maggiori sfaccettature stilistiche.
Due brani lunghissimi, ciascuno ben oltre i venticinque minuti, conducono l’ascoltatore in un viaggio che prende l’avvio con le note dai tono quasi sognanti, ai confini dello shoegaze, di Imber, per poi spostarsi progressivamente, sia nel corso dello stesso brano sia in particolare con la successiva traccia Aeternus, verso una sofferenza priva di filtri, urlata nel vero senso del termine, facendo impallidire in tal senso anche i più estremi esponenti del depressive.
Un’interpretazione vocale sentita, volutamente eccessiva fino a lambire i confini del kitsch, porta l’album a livelli di disperazione quasi parossistici, il tutto assecondato da un impianto sonoro che mette costantemente in primo piano l’impatto emotivo, per un risultato finale francamente stupefacente.
Un disco che va ascoltato con la giusta predisposizione d’animo, pena il rischio di rifiutarlo non appena i suoni si incupiscono e la voce di Déhà esprime senza alcuna mediazione le sensazioni di uno spirito lacerato da un dolore che non può essere in alcun modo lenito né sopportato.
Un altro lavoro splendido per l’indaffarato musicista belga e, peraltro, questa degli Imber Luminis non è detto che sia l’ultima delle sue molteplici incarnazioni; quantità e qualità, non sono invero in molti ad unirle con tale disinvoltura in campo artistico …

Tracklist:
1. Imber
2. Aeternus

Line-up:
Déhà – All instruments, Vocals

IMBER LUMINIS – Facebook

Dreariness – My Mind Is Too Weak To Forget

Il “depressive-blackgaze” proposto dai Dreariness si dipana in maniera naturale mantenendo sempre viva la tensione emotiva.

A pochi mesi dall’uscita dell’ottimo “Fade Away Gradually, My Hope …” dei Misere Nobis, ritroviamo Gris e Torpr alle prese con un nuovo progetto denominato Dreariness.

I nostri non si appiattiscono sulle posizioni della band madre ma presentano, con Mind Is Too Weak To Forget, un intrigante mix tra sonorità depressive, post-rock e shoegaze; provate a sottrarre agli Alcest le loro atmosfere più sognanti facendoli piombare in una sorta di incubo senza possibilità di risveglio, sostituendo la voce cantilenante di Neige con lo screaming disperato e lancinante della vocalist Tenebra: questa, approssimativamente, è la descrizione di ciò che ci si deve attendere da questo lavoro dei Dreariness.
Sicuramente l’uso della voce in questo disco costituirà per alcuni una sorta di linea di confine: ci sarà chi apprezzerà il contenuto musicale ma non riuscirà probabilmente ad accettare un’interpretazione dello screaming di matrice depressive ancor più estremo del solito; al contrario, chi proverà a superare questa barriera troverà come meritato premio la possibilità di assaporare pienamente le atmosfere emozionanti di Mind Is Too Weak To Forget.
Essendo quest’ultimo il mio caso, posso confermare che la prestazione di Tenebra è davvero eccellente per la sua efficacia nel veicolare in maniera adeguata il dolore e il senso di disagio esistenziale racchiuso nei testi e nei suoni condivisi con i propri compagni d’avventura.
Come detto il connubio di atmosfere, al quale si può attribuire l’etichetta di “depressive-blackgaze”, avviene in maniera naturale, tanto che l’intero lavoro pare non risentire neppure di una durata considerevole (oltre un’ora), mantenendo sempre viva la tensione emotiva che trova, peraltro, una delle sue massime espressioni proprio nella lunga title-track posta in chiusura.
Insomma, benché l’ascolto di Mind Is Too Weak To Forget si riveli tutt’altro che una passeggiata, con l’esaurirsi delle sue ultime note, il primo impulso che giunge è quello di immergersi nuovamente in queste atmosfere affascinanti e disturbanti allo stesso tempo, dimostrando l’indubbio valore di questo ottimo album.

Track-list :
1. Reminiscences
2. Coming Home
3. My Last Goodbye
4. Madness
5. Dysmorphophobia
6. Lost
7. One Last Wish
8. My Mind Is Too Weak To Forget

Line-up :
Tenebra – Vocals
Gris – Guitars, Bass, Keys
Torpor – Drums

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