Fister – No Spirit Within

I Fister esibiscono quella che è l’essenza stessa dello sludge, una musica che è l’ideale punto d’incontro tra la rabbia del noise e dell’hardcore e l’immaginario cupo del doom.

I Fister sono esponenti dell’affollata scena sludge doom statunitense: attivi da una decina d’anni hanno già immesso sul mercato una miriade di ep e split album, oltre a quattro full length dei quali l’ultimo è questo No Spirit Within.

Il trio di Saint Louis aveva ulteriormente scaldato motori già sufficientemente rodati con la recente uscita in coppia con i Chrch e, con questo album, conferma ampiamente quanto abbiamo imparato a conoscere in questi anni: lo sludge doom dei Fister è ruvido, sporco e cattivo, ogni parvenza melodica viene bellamente disconosciuta lasciando semmai a sporadici e dissonanti assoli chitarristici il compito di delineare qualcosa che non sia solo un ottundente assalto sonoro.
I Fister sono decisamente meglio quando decidono di rallentare parzialmente i ritmi, facendo sì che i brani assumano una consistenza più densa e ben più minacciosa rispetto a quando viaggiano a velocità più sostenute: emblematico in tal senso è un brano come I Am Kuru, episodio di terrificante potenza che dal vivo immagino possa creare un’onda d’urto degna della deflagrazione di un ordigno.
Per finezze e ricami stilistici meglio rivolgersi altrove: i Fister esibiscono quella che è l’essenza stessa dello sludge, una musica che è l’ideale punto d’incontro tra la rabbia del noise e dell’hardcore e l’immaginario cupo del doom: quando il tutto si traduce in un album come No Spirit Within, per quella fascia di ascoltatori selezionata ma fedele la gratificazione è assicurata.

Tracklist:
1. Frozen Scythe
2. Disgraced Possession
3. Cazador
4. I Am Kuru
5. No Spirit Within
6. Heat Death
7. Star Swallower

Line-up:
Kirk Gatterer – Drums
Marcus Newstead – Vocals (additional), Guitars
Kenny Snarzyk – Vocals (lead), Bass

FISTER – Facebook

Ekpyrosis – Primordial Chaos Restored

Una bomba doom/death metal ispirata dai primi anni novanta e dalle cose migliori delle due principali scene estreme: quella statunitense e quella scandinava.

Una bomba doom/death metal ispirata dai primi anni novanta e dalle cose migliori delle due principali scene estreme: quella statunitense e quella scandinava.

Gli Ekpyrosis sono un combo estremo proveniente dalla Lombardia, hanno iniziato la loro attività cinque anni fa e hanno dato alle stampe due demo un ep e soprattutto il full length Asphyxiating Devotion, licenziato lo scorso anno.
Tornano con un nuovo ep, composto da quattro brani più la cover di Devoured Death degli Incantation (una delle maggiori ispirazioni del gruppo), di monolitico doom/death metal intitolato Primordial Chaos Restored, in uscita per la Terror From Hell Records.
Il quartetto nostrano è protagonista di una prova che conferma tutto il bene scritto per il precedente lavoro sulla lunga distanza, il nuovo ep può senz’altro essere considerato come un’appendice delle nove tracce che componevano Asphyxiating Devotion.
Anche quest’opera mostra ancora una volta le capacità di questa creatura estrema, bravissima nel ripercorrere le strade battute dai gruppi storici con personalità ed un impatto straordinario.
Monolitici e pesantissimi passaggi doom sono investiti da tempeste di death metal classico: Abyssal Convergence, opener di questo ep, ne è l’esempio lampante, un lento prepararsi alle scudisciate che arrivano inesorabili, in un altalena tra l’incedere di un moloch musicale di stampo doom e le accelerazioni di stampo death. La sezione ritmica detta tempi ed atmosfere, assecondata dal growl catacombale e dalla chitarra che vomita riff serrati e lunghe litanie, lungo le quali le corde sanguinano come in un interminabile via crucis estrema (Instigation Of Entropy).
Primordial Chaos Restored è un buon modo per non perdere l’attenzione degli amanti del genere, in attesa del nuovo album che probabilmente non tarderà ad arrivare.

Tracklist
1. Abyssal Convergence
2. Instigation Of Entropy
3. Conception From Nothingness
4. Chaos Condensing
5. Devoured Death (Incantation cover)

Line-up
Nicolò Brambilla – Vocals, Guitar
Marco Teodoro – Vocals, Guitar
Gianluca Carrara – Bass, Backing Vocals I
Ilaria Casiraghi – Drums

EKPYROSIS – Facebook

Solstice – White Horse Hill

Un’atmosfera imponente per una band esperta. In White Horse Hill c’è tutto il necessario per un ascolto coinvolgente.

Il profumo della grandezza e della tradizione mitologica ha sempre accompagnato i Solstice nella loro carriera, e continua a farlo senza perdere un colpo nel nuovo White Horse Hill.

La band inglese ha ormai al suo attivo un grandissimo numero di lavori in ormai 27 anni di attività, ma non si lascia intaccare nel suo spirito, rispolverando con il proprio inconfondibile stile epico tra il doom e il power metal, gli splendori raggiunti in album come Halcyon (1996) e New Dark Age (1998), ma non solo.
In questo nuovo album i Solstice hanno messo tutti gli elementi che li caratterizzano e di cui si è parlato all’inizio. Lungo tutto il disco, la solennità e l’autorità delle chitarre regnano sovrane, insieme all’inconfondibile tocco della batteria di Rick Budby. White Horse Hill rende sicuramente giustizia al passato della band, la quale vuole forse dirci in questo modo che il presente merita altrettanto rispetto e interesse.
Vi sono pezzi molto evocativi quali To Sol a Thane, con la sua intro di chitarra che può essere definita al tempo stesso da pianto funebre e da celebrazione regale, o Behold, a Man of Straw, dalla breve durata e prettamente riflessiva, ma che non stona per nulla con l’attitudine dei Solstice.
Riguardo la (relativamente) breve durata del disco, gli stessi componenti della band hanno dichiarato di averlo fatto perché “preferiamo la qualità alla quantità, e la maggior parte delle band oggi rilasciano album che durano oltre 70 minuti per alimentare il mercato dei CD”. Un intento sicuramente nobile per una band mai scontata nella sua storia, e che non vuole certo iniziare oggi ad esserlo.

Tracklist
1. III
2. To Sol a Thane
3. Beheld, a Man of Straw
4. White Horse Hill
5. For All Days, and for None
6. Under Waves Lie Our Dead
7. Gallow Fen

Line-up
Richard M. Walker – Guitars
Rick Budby – Drums
Andy Whittaker – Guitars
Paul Kearns – Vocals
Ian Buxton – Bass

SOLSTICE – Facebook

Shrine Of The Serpent – Entropic Disillusion

Nel caso degli Shrine Of The Serpent, piuttosto che della nascita di una nuova stella, è meglio parlare dell’apparizione di un nuovo buco nero musicale, la cui densità del sound tende inevitabilmente all’infinito.

Avevamo incontrato gli Shrine Of The Serpent in occasione dello split album con i Black Urn, ricevendone impressioni più che positive.

Il passaggio dalle due tracce proposte l’anno scorso (per quanto lunghe) ad un full length di quasi un’ora di durata nasconde più di un insidia, ma il trio di Portland non ha certo fatto calcoli e ci regala uno sludge/death doom che non fa sconti e non lascia dubbi o incertezze sui biechi intenti che animano i nostri.
Entropic Disillusion si dipana seguendo pulsioni che riportano ai primissimi Cathedral, come detto anche in occasione dello split (dal quale viene recuperata la mortifera Desecrated Tomb), con variazioni sul tema che non sono previste da alcun copione, il che significa l’ascolto di un riffing sordo e martellante a sostenere il growl del chitarrista e fondatore della band Todd Janeczek.
Tutto questo piace e non poco, visto che gli Shrine Of The Serpent triturano note senza soluzione di continuità, concedendo solo alcuni sprazzi pseudo melodici di chitarra, compressi tra il limaccioso incedere di un sound che è linfa per l’appassionato e veleno puro per chi ama già poco di suo il doom, figuriamoci in queste vesti.
L’ambient drone di Returning è la pausa attiva che introduce alla rara pesantezza dei riff di Epoch of Annihilation, alla quale segue, quasi ne fosse l’ideale prosecuzione, la conclusiva Rending the Psychic Void.
Cathedral di Forest Of Equlibroium (scremati da ogni tentazione psichedelica, però), certo, ma anche Winter, Evoken o gli stessi più recenti Bell Witch, confluiscono in un monolite che non lascia scampo sotto ogni aspetto, inclusa la splendida copertina.
Nel caso degli Shrine Of The Serpent, piuttosto che della nascita di una nuova stella, è meglio parlare dell’apparizione di un nuovo buco nero musicale, la cui densità del sound tende inevitabilmente all’infinito.

Tracklist:
1. Descend into Dusk
2. Hailing the Enshrined
3. Hope’s Aspersion
4. Desecrated Tomb
5. Returning
6. Epoch of Annihilation
7. Rending the Psychic Void
Line-up:
Todd Janeczek Guitars, Vocals (2014-present)
See also: Aldebaran, Roanoke, ex-Anger Management, ex-Authority Fights Majority, ex-Tenspeed Warlock
Chuck Watkins Drums (2015-present)
See also: Anon Remora, Ephemeros, ex-Uzala, Bird Costumes, Litter Bearer, ex-Graves at Sea, ex-SubArachnoid Space
Adam DePrez Guitars, Bass (2015-present)
See also: Eosphoros, ex-Lung Molde, ex-Triumvir Foul, ex-Sod Hauler

Bison – Earthbound

Ci sono dischi che, pur non essendo epocali, sono molto validi e rappresentano un’importante pietra miliare per un certo tipo di suono: questo è il caso dell’ep di debutto Earthbound dei canadesi Bison.

Ci sono dischi che, pur non essendo epocali, sono molto validi e rappresentano un’importante pietra miliare per un certo tipo di suono: questo è il caso dell’ep di debutto Earthbound dei canadesi Bison.

Il loro debutto del 2007 è ora ristampato dalla No List Records, ed è il viatico al prossimo tour europeo dei Bison, che però non passeranno per lo stivale. Il disco colpisce ora come ieri per la sua potenza, per le ardite soluzioni sonore che non rendono mai il suo svolgimento ovvio o scontato. In certi passaggi il combo canadese ricorda i Mastodon, ma il tutto è sempre molto originale. I Bison sono uno dei pochi gruppi che coinvolgono l’ascoltatore e rendono naturale muovere la testa su è giù. Il loro suono è molto compatto e corposo come un buon vino rosso, sia quando vanno più veloci che quando parti più lente. In un genere come il loro sarebbe facile essere scontati ma questo è un gruppo unico e molto al di sopra degli altri. Qui l’intensità si coniuga ad una capacità compositiva che riesce a cogliere differenti sfumature di musica pesante. Le canzoni dei Bison sono stanze da esplorare sia perché gli elementi sono molti, sia perché ci si diverte molto nel farlo. Earthbound è del 2007 ma suona come un qualcosa di molto attuale, e lo sarà ancora per molto tempo. Un debutto come questo ep non è fattibile per molte band mentre loro sono riusciti a migliorare ancora, progredendo ad ogni album. Un ascolto che non farà epoca ma che fa molto rumore, ed l’importante è questo.

Tracklist
1 Stokasaurus
2 Wartime
3 Dark Skies Above
4 The Curse
5 Cancer Rat
6 Earthbound

Line-up
JAAMES
DAAN
SHAANE
MAATT

BISON – Facebook

Beneath Oblivion – The Wayward and the Lost

Un’ora abbondante di musica dolente, che si trascina senza alcuna parvenza di accelerazione, regalando a tratti aperture melodiche che non sollevano l’animo ma contribuiscono ad affliggerlo ulteriormente.

“Questa è la litania lacerante e mortifera che si viene a creare se si uniscono due reagenti sonori come lo sludge più torbido e il funeral doom. Colonna sonora ideale per un Western post apocalittico.Un impasto sonoro con brevetto a stelle e strisce, che solo dei dannati bifolchi dell’Ohio potevano partorire.”

Rubo questo brillante commento al mio amico Alberto “Morpheus”, anima della pagina facebook Doom Heart, che ha fotografato come meglio non si sarebbe potuto fare il contenuto di The Wayward and the Lost, terzo full length dei Beneath OBlivion, band di Cincinnati che ormai da oltre un decennio affligge gli appassionati di doom con le proprie sonorità plumbee e limacciose.
Ci sono voluti ben sette anni per dare un seguito al precedente From Man To Dust, ma come spesso accade l’attesa non è stata vana, perché Scotty T. Simpson e soci hanno partorito un devastante monolite che, come già detto, appare l’ideale punto d’incontro tra lo sludge ed il funeral doom.
L’equilibrio permane lungo quest’ora abbondante di musica dolente, che si trascina senza alcuna parvenza di accelerazione, regalando a tratti aperture melodiche che non sollevano l’animo ma contribuiscono ad affliggerlo ulteriormente, come accade con gli stupendi passaggi chitarristici di Liar’s Cross, dove i nostri si spingono dalle parti dei Mournful Congregation d’annata (quindi non quelli relativamente più ariosi dell’ultimo The Incubus Of Karma).
Ma nel suo complesso The Wayward and the Lost non lascia molto spazio a barlumi di luce, con un sound che si snoda con la lentezza di una colata lavica prossima alla solidificazione: cupo, sofferto e sovrastato spesso dalle aspre vocals del chitarrista e fondatore delle band, l’album raccoglie il meglio delle sfumature del doom di matrice estrema per convogliarle un un’unica lunga marcia verso a lidi nebulosi ed indefiniti, un approdo nel quale vanno a convergere le varie pulsioni che animano i migliori dischi doom, come lo è quello offerto dai Beneath Oblivion.

Tracklist:
1. The City, A Mausoleum (My Tomb)
2. Liar’s Cross
3. The Wayward and the Lost
4. Savior-Nemesis-Redeemer
5. Satyr

Line-up:
Scotty T. Simpson – Guitars, Vocals
James Rose – Drums
Allen L. Scott II – Guitars, Samples
Keith Messerle – Bass

BENEATH OBLIVION – Facebook

NIHILI LOCUS – Lyaeus Nebularum

Interessante retrospettiva sui Nihili Locus, band che si mise in una certa evidenza negli anni novanta con un death dagli influssi doom e, in parte, black.

La Terror From Hell pubblica questa interessante retrospettiva sui Nihili Locus, band italiana che si mise in una certa evidenza negli anni novanta.

La raccolta comprende tutti i brani pubblicato nella sua storia dal gruppo piemontese, comprendendo quindi il singolo Sub Hyerosolyma (1992), il demo …Advesperascit… (1994) e soprattutto l’ep …Ad Nihilum Recidunt Omnia (1996), più due brani inediti registrati nel 1997.
Sono proprio i tre brani contenuti in …Ad Nihilum Recidunt Omnia ad aprire la compilation, rappresentando quello che, all’epoca, pur con tutte le variabili di una produzione perfettibile, era parso un notevole primo approccio per una band che possedeva le potenzialità per diventare uno dei nomi di punta a livello nazionale in ambito death doom.
Questo non si è verificato, purtroppo, anche perché dopo diverse vicissitudini ed una lunga stasi la band si sciolse nel 2003 per poi riprendere vita cinque anni dopo con una formazione a tre che compose quello che sarebbe dovuto essere il primo full length, Mors, che di fatto però non vide mai la luce.
Come detto il fulcro dell’album sono Silvara e le due parti di Memoriam Tenere, brani nei quali il Nihili Locus dimostravano d’essere sulla strada giusta per giungere alla quadratura di un death/black doom ricco di spunti notevoli e piuttosto vario sotto diversi aspetti, incluso l’utilizzo della voce femminile; Lyaeus Nebularum non segue, come forse sarebbe stato più auspicabile, un ordine cronologico nella collocazione dei brani in tracklist, per cui dopo le tracce di …Ad Nihilum Recidunt Omnia troviamo le due che erano presenti in Sub Hyerosolyma, dove il sound viveva ancora di un’accentuata dicotomia tra le parti melodiche e quelle death tout cort, per poi giungere alla più compiuta scrittura di…Advesperascit… , dove un brano come Canto (of a Nightly Jewel) attirava fatalmente nel gorghi più profondi del death doom.
I due inediti, infine, sono evidentemente frutto di registrazioni approssimative e provvisorie, tali da rendere inopportuno ogni possibile giudizio; d’altro canto, anche se in misura decisamente meno accentuata, la produzione dei lavori dei Nihili Locus non è mai stata ottimale, impedendo peraltro di attenuare le sbavature a livello strumentale e, soprattutto, le stonature dei contributi vocali femminili (ma, d’altro canto, nei primi anni novanta non era facile trovare nel nostro paese qualcuno che fosse in grado di gestire al meglio tutto il processo di incisione e registrazione di un album metal).
L’operazione risulta nel complesso assolutamente utile e gradita: vediamo se il tutto possa essere propedeutico, magari, alla sospirata pubblicazione di Mors o ancora meglio di materiale di nuovo conio, visto che ufficialmente i Nihili Locus risultano ancora attivi, per cui sperare non costa nulla.

Tracklist:
1. Memoriam Tenere
2. Silvara
3. Memoriam Tenere (Rigor Mortis)
4. Ancient Beliefs Forgotten
5. Deathly Silence Nebulae
6. Gloomy Theatre of Ruins
7. Canto (of a Nightly Jewel)
8. Dance of the Crying Soul
9. …Advesperascit…
10. Buio/XII Touches
11. Tectum Nemoralibus Umbris
12. Lugubri Lai
13. La Notte Eterna
Tracks 1-2-3 taken from ‘…Ad Nihilum Recidunt Omnia’ MCD
Tracks 4-5 taken from ‘Sub Hyerosolyma’ EP
Tracks from 6 to 11 taken from ‘… Advesperascit…’ Demo
Tracks 12-13 never released before (recorded in 1997)

Line-up:
Bruno Blasi – vocals
Valeria De Benedictis – guitars, keyboards, vocals
Mauro Veronese – guitars, vocals
Massimo Currò – bass
Roberto Ripollino – drums, vocals
Simone Fanciotto – keyboards

NIHILI LOCUS – Facebook

Hell Obelisco – Swamp Wizard Rises

Il disco degli Hell Obelisco è il frutto della collaborazione fra musicisti maturi e di esperienza che si divertono a fare musica e a spandere bordate musicali a destra e manca.

Il disco degli Hell Obelisco è il frutto della collaborazione fra musicisti maturi e di esperienza che si divertono a fare musica e a spandere bordate musicali a destra e manca.

I ragazzi vengono da Bologna e sono tutti dei veterani delle scene musicali pesanti, che hanno pensato di mettersi insieme e di fare quello che preferiscono. Il loro debutto è un concentrato di potenza e di pesantezza, con una forte influenza southern e una grande visione musicale d’insieme. I componenti degli Hell Obelisco provengono da gruppi come Addiction, Monumentum, Schizo, Tying Tiffany, Evilgroove e The Dallaz, per cui di esperienza musicale se ne trova in abbondanza. Ascoltando Swamp Wizard Rises si riassapora quel gusto per la musica pesante che si trova sempre più raramente, a partire dalla cure nel confezionare il suono, grazie anche alle sapienti mani di Para del Boat Studio e Paso dello Studio 73. Il disco funziona molto bene, ogni canzone è di alto livello e ciò che colpisce di più è la  completa padronanza della materia. I riferimenti musicali sono molti e svariati, dai Pantera allo sludge più southern, ma l’impronta degli Hell Obelisco è molto forte. Tutto è bello in questo album di debutto a partire dalla fantastica copertina ad opera di Roberto Toderico, che ha collaborato a stretto contatto con i componenti del gruppo, facendo portare le loro personali visioni del mago della palude. Un grande contributo è dato dall’affiatamento fra i vari membri della band, dato che si conoscono da venticinque anni. Un disco che diverte e che rende un gran servigio alle tenebre che ci portiamo dentro, noi che amiamo la musica pesante ed oscura.

Tracklist
1.Voodoo Alligator Blood
2.Teenage Mammoth Club
3.Escaping Devil Bullets
4.Earth Rage Apocalypse
5.Biting Killing Machine
6.Death Moloch Rising
7.Dead Dawn Duel
8.High Speed Demon
9.Black Desert Doom

Line-up
Andrew – Front Row Mammoth
Doc – Six Sludge Strings
Fraz – Seven Doomed and Lowered Strings
Alex – Behind The Skins

HELL OBELISCO – Facebook

W.A.I.L. – Wisdom Through Agony into Illumination and Lunacy vol. II

Quello dei finlandesi W.A.I.L. è un approccio decisamente trasversale alla materia estrema, definibile in qualche modo progressivo nel senso che i frequenti cambi di ritmo e di umore, all’interno di due brani che assommano complessivamente un’ora di durata, depone a favore di una costruzione del sound in costante divenire.

Quello dei finlandesi W.A.I.L. è un approccio decisamente trasversale alla materia estrema, definibile in qualche modo progressivo nel senso che i frequenti cambi di ritmo e di umore, all’interno di due brani che assommano complessivamente un’ora di durata, depone a favore di una costruzione del sound in costante divenire.

Partendo da una base soprattutto doom, questo quintetto dà un seguito dopo ben nove anni al primo full length avente lo stesso titolo, Wisdom Through Agony into Illumination and Lunacy, continuando con questa sua seconda parte a percorrere i sentieri lirici basati su un un concept filosofico piuttosto profondo nonché intricato, basato sostanzialmente sulla volontà di dimostrare che bene e male non sono entità a sé stanti bensì fortemente interconnesse tra loro, smentendo quello che di fatto è un meccanismo mentale precostituito della mente umana.
Se il concept non è semplice da decrittare non è che la musica sia da meno, anche se in effetti i W.A.I.L. cercano sempre di dare un senso logico ad ogni svolta sonora, offrendo anzi in più di un caso passaggi dalle parvenze melodiche.
La descrizione di un’opera cosi strutturata è quanto mai complessa e dagli esiti improbabili, per cui non resta che godersi queste due lunghe tracce che sicuramente sono in grado di soddisfare gli ascoltatori più esigenti, tra il black doom piuttosto ruvido della prima parte di Through Will to Exaltation Whence Descent into a Bottomless Black Abyss, che nel suo lungo finale si stempera in liquidi passaggi acustici, e il doom atmosferico dell’incipit di Reawakening through Anguish into Gestalt of Absolute, nella quale sono racchiusi anche cinque minuti di delicato neoclassicismo pianistico, prima di chiudere il lavoro con una dissonante cavalcata.
Un gran bel lavoro, dunque, a patto d’avere la pazienza necessaria per lavorarlo per un tempo commisurato alla sua ritrosia nello svelarsi durante i primi approcci.

Tracklist:
1. Through Will to Exaltation Whence Descent into a Bottomless Black Abyss
2. Reawakening through Anguish into Gestalt of Absolute

Line-up:
A.E. – Guitars, vocals
S.F. – Drums, percussions, bass, additional solo guitars, kantele, recorder, didgeridoo, synthesizer, grand piano
J.I. – Bass, recording, mixing, mastering
P.R. – Main vocals
L.L. – Violin
Main vocals on “Absolute” and all vocals on “Reawakening” by A.E.

Et Moriemur – Epigrammata

Un tocco di solennità ed un altro di malignità per questa band ceca, che esibisceun ottimo potenziale ancora però da esprimere a pieno.

Gli Epigrammata sono dei componimenti in versi usati dai poeti latini perlopiù per elogi funebri. Su questa scia si muovono gli Et Moriemur, band della Repubblica Ceca di recente formazione, con un ep e tre full-length all’attivo (compreso quest’ultimo).

Ascoltando Epigrammata ci si trova immersi in quell’universo funebre d’altri tempi. Nonostante ciò, per tutta la durata del disco, non si avverte mai una sensazione di pesantezza o noia, e grande merito va ai musicisti in egual misura per aver creato un’atmosfera coinvolgente e a tratti magica. La solennità la fa da padrona, ma va di pari passo con una giusta dose di death/doom che rasserena gli animi più metallari all’ascolto.
Una intro molto azzeccata come Introitus spalanca le porte ad uno scenario evocativo che ha probabilmente il suo picco in Dies Irae, brano variegato ma in pieno accordo con lo stile di Epigrammata. Il monito lanciato dagli Et Moriemur assomiglia tanto ad un “memento mori”, e l’idea che si ha alla fine dell’ascolto è quella che il messaggio sia passato anche più del necessario.
Per concludere, con Epigrammata la band ceca ha calcato molto più la mano sulla magnificenza rispetto all’album precedente, datato 2014, che invece valorizzava soprattutto la loro componente death. Il risultato è di alto livello ma resta l’impressione che gli Et Moriemur esprimano il loro meglio in chiave diabolica piuttosto che sacrale. Resta da vedere se la strada tracciata con quest’album verrà proseguita oppure no, e in che modo.

Tracklist
1. Introitus
2. Requiem Aeternam
3. Agnus Dei
4. Dies Irae
5. Offertorium
6. Communio
7. Libera Me
8. Absolve Domine
9. Sanctus
10. In Paradisum

Line-up
Zdeněk Nevělík – Vocals, Keyboards
Michal “Datel” Rak – Drums
Aleš Vilingr – Guitars
Karel “Kabrio” Kovařík – Bass

ET MORIEMUR – Facebook

Altars Of Grief – Iris

Iris gode di una produzione eccellente, che ne esalta sia i toni cupi che le parti più aggressive, e favorisce quell’amalgama tra i musicisti che è uno dei segreti della riuscita di questo lavoro, senza dimenticare ovviamente l’alchimia di una band autrice dell’opera perfetta, un qualcosa che accade solo a pochi nell’arco di un’intera carriera.

I canadesi Altars Of Grief sono nati nel 2013, fondamentalmente come progetto estemporaneo per Evan Paulson e i suo compagni, per poi diventare di fatto per tutti loro la band principale nella quale convogliare ogni sforzo.

Se già il full length d’esordio forniva segnali incoraggianti sul potenziale del gruppo ed il successivo split con i Nachtterror rafforzava non poco tali impressioni, è con il meraviglioso Iris che i ragazzi dello Saskatchewan esplodono letteralmente, dando alle stampe quello che rischia seriamente d’essere in assoluto uno degli album migliori di quest’anno.
Gli Altars Of Grief non sono da considerarsi una doom band nel senso più puro del termine, visto che gli influssi black entrano pesantemente in scena a livello ritmico, creando così un’alternanza tra momenti  ruvidi ed altri relativamente melodici resa con grande fluidità e, soprattutto, sempre avvolta da una cappa di disperazione che aleggia su tutto il lavoro (il piano emotivo sul quale si snoda il disco è quello di Canto III degli Eye Of Solitude, tanto per fornire un esempio tangibile).
Del resto il concept su cui si basa Iris non lascia spazio a bagliori di ottimismo, in uno snodarsi di testi che raccontano di malattia, abbandono, morte e disincanto religioso, divenendo parte integrante e fondamentale dell’album e non solo un grazioso orpello.
La bravura della band canadese risiede appunto nel suo riuscire a sintetizzare al meglio ogni diverso aspetto di una proposta artistica curata nei particolari, esibendo anche il contributo in buona parte dei brani del violoncellista Raphael Weinroth-Browne, abile con il suo strumento a fornire quell’ulteriore tocco decadente ad un album che sovente scorre rabbioso, prima di stemperarsi in momenti di struggente malinconia.
Isolation inaugura l’opera nella maniera migliore, rivelandosi un brano di rara intensità nel quale possiamo già apprezzare l’ottima alternanza tra growl e clean vocals offerta dall’ottimo ed espressivo Damian Smith, andando a creare un percorso di dolorosa bellezza, mentre Desolation è una sorta di quintessenza del black doom, nel suo scorrere su ritmiche forsennate ma sempre intrise di quel sentire dolente che è il tratto dominante dell’intero lavoro.
La title track cambia registro, avviandosi con un incedere che ricorda le migliori band di death doom melodico ma è uno spunto che si riscontra soprattutto in tale frangente, perché le sfuriate in doppia cassa subentrano impetuose a creare quel carico di insostenibile tensione emotiva che si confà alla perfezione ad un brano nel quale il racconto trova il suo climax emotivo, evocato anche da una splendida linea chitarristica.
Qui si chiude il trittico iniziale, fatto di canzoni di un livello tale da rendere il resto dell’album impercettibilmente meno efficace ma, come detto, ciò è dovuto alla bellezza di quelle tracce, perché già Broken Hymns fa capire che l’album non scenderà mai al di sotto di quella soglia di eccellenza che gli Altars Of Grief, soprattutto nella persona del principale compositore Evan Paulson, hanno costruito con pazienza nel corso egli anni, mettendo la loro ispirazione al servizio di un sound vario ma sempre contraddistinto da un’intensità capace di fare la differenza.
I nostri fanno tesoro delle proprie radici canadesi e, così, nel loro sound possiamo trovare qualche riferimento a connazionali di un certo peso come i magnifici Woods Of Ypres, a livello musicale, mente gli Into Eternity di un album drammatico come The Incurable Tragedy, probabilmente, hanno aperto una strada importante nella costruzione di un concept terribilmente crudo, per la sua espressione dello sgomento di fronte al dolore legato alla malattia, al terrore provocato dalla paura della morte e all’angoscia derivante da tutte le incognite di un “dopo” tanto auspicato quanto temuto.
Iris gode di una produzione eccellente, che ne esalta sia i toni cupi che le parti più aggressive, e favorisce quell’amalgama tra i musicisti che è uno dei segreti della riuscita di questo lavoro, senza dimenticare ovviamente l’alchimia di una band autrice dell’opera perfetta, un qualcosa che accade solo a pochi nell’arco di un’intera carriera.

Tracklist:
1. Isolation
2. Desolation
3. Iris
4. Broken Hymns
5. Child of Light
6. Voices of Winter
7. Becoming Intangible
8. Epilogue

Line-up:
Donny Pinay – Bass, Vocals (backing)
Zack Bellina – Drums, Vocals (on track 5)
Evan Paulson – Guitars, Programming, Vocals (backing)
Damian Smith – Vocals
Erik Labossiere – Guitar, Vocals (backing)

Cello on tracks 1, 4, 5, 6 and 7 written and performed by Raphael Weinroth-Browne
Track 8, “Epilogue” written and performed by Raphael Weinroth-Browne

ALTARS OF GRIEF – Facebook

Lychgate – The Contagion in Nine Steps

La terza opera della band albionica incute soggezione, non tanto per la mole quanto per la grande quantità di idee, di personalità, di suoni presenti nei sei brani; un vortice di atmosfere vincolate a un suono funeral e black molto personale, cangiante e che non ha eguali nell’attuale scena musicale.

La terza opera della band albionica incute soggezione, non tanto per la mole quanto per la grande quantità di idee, di personalità, di suoni presenti nei sei brani; un vortice di atmosfere vincolate a un suono funeral e black molto personale, cangiante che non ha eguali nell’attuale scena musicale. Sono attivi dal 2013 con l’omonima opera e nel 2015 avevano rifinito la loro idea di musica con Antidote for the Glass Pills, ma ora con questa opera raggiungono un ulteriore livello di arte.

Tutti i testi e la musica sono opera di Vortigern (J.C.Young), drummer in un vecchio progetto black greco, i The One, autori nel 2008 di un buon lavoro come I,Master, che ora suona la chitarra, mentre le vocals sono appannaggio di un grande artista come Greg Chandler (mastermind degli Esoteric); l’unione tra questi due artisti ha generato una creatura sinistra e affascinante che con questa terza opera ci lascia attoniti di fronte alla grandeur, alla magnificenza del loro suono che si nutre di tanti ingredienti per mostrare la propria forza: aromi gotici, heavy-progressive, funeral doom, black impregnano tutti i brani che sono scritti con grande ispirazione. L’uso dell’organo, del piano e del mellotron aggiunge grande potenza, maestosità e teatralità fino dall’opener Republic (per un gioco di suggestioni l’inizio mi ha ricordato il film horror del 1971 – L’abominevole dr. Phibes, con un grande Vincent Price) che incede lenta squarciata dal growl di Chandler a rivaleggiare con il suono oppressivo dell’organo. Un sound stratificato, avanguardistico, permea Unity of Opposites dove oscure linee di basso conducono la danza e permettono all’organo di ricamare suoni in sottofondo; il tocco romantico e lunare dei riff di chitarra accende Atavistic Hypnosis (brano magnifico), che si snoda per quasi nove minuti, coinvolgendo fortemente in un’atmosfera oscura e surreale. Ispirato dal libro The Invincible di Stanislaw Lew (anche i russi Below the Sun sono stati ispirati da questo autore con lo splendido Alien World del 2017) l’opera procede con gli strali dark di Hither Comes the Swarm, altro brano dove giganteggia l’organo e nel quale si assiste all’unica breve sfuriata black nel senso classico del termine, e con The Contagion, dai toni aspri e personali. La più breve Remembrance con toni corali e con una melodia carica di spiritualità chiude un’opera d’arte di gran livello, il cui ascolto è necessario per nutrire il proprio spirito di grandi sensazioni.

Tracklist
1. Republic
2. Unity of Opposites
3. Atavistic Hypnosis
4. Hither Comes the Swarm
5. The Contagion
6. Remembrance

Line-up
A.K. Webb – Bass
S.D. Lindsley – Guitars
T. J. F. Vallely – Drums
J. C. Young “Vortigern” – Guitars
Greg Chandler – Vocals

LYCHGATE – Facebook

Tarasque – Innen Aussen

Per una mezzora veniamo travolti dalla forza dello sludge, mentre tramortiti e confusi arranchiamo aiutati da un lento incedere doom metal oscuro ed intimista, e da scudisciate violentissime che lasciano abrasioni sulla nostra pelle e sulla nostra anima.

Per una mezzora veniamo travolti dalla forza dello sludge, mentre tramortiti e confusi arranchiamo aiutati da un lento incedere doom metal oscuro ed intimista, e da scudisciate violentissime che lasciano abrasioni sulla nostra pelle e sulla nostra anima.

Loro sono un trio tedesco, formato da ex componenti di Unrest, Forced to Decay e Horseman, uniti sotto il monicker Tarasque con cui licenziano questo inno sludge metal intitolato Innen Aussen, con i suoi cinque brani nei quali un sound ossessivo e rabbioso si alterna ad atmosferiche parti doom/stoner, per un approccio estremo notevole.
Un muro sonoro su cui passeggiano le nostre paranoie, mentre le chitarre urlano dolore alternandosi ai disperati vocalizzi e si respira aria di soffocante dramma, in un’atmosfera sempre in bilico tra rabbia e sconforto.
E’ bellissima Karoshi, a mio avviso il brano più riuscito di Innen Aussen, un crescendo estremo coinvolgente dove gli strumenti all’unisono creano un’atmosfera malsana e putrida, ma è tutto l’album che galleggia in una palude dove resti umani toccano le nostre membra stanche ed ormai pronte a lasciarsi andare alla morte, risucchiati nel fango letale di un sound oppressivo come in Trümmerfeld o nella conclusiva Staub und Zeit.
Lavoro difficile da apprezzare in poche battute, Innen Aussen riserva gradite sorprese agli amanti del genere che gli riserveranno un po’ del loro tempo.

Tracklist
1.Pluveophil
2.Trümmerfeld
3.AllesNichts
4.Karoshi
5.Staub und Zeit

Line-up
Gerrit – Vocals, Guitars
Martin – Bass
Hanno – Drums

TARASQUE – Facebook

Anguish – Magna Est Vis Siugnah

Un intenso e arcano profumo di doom impregnato di death si sprigiona fin dalle prime note di Magna Est Vis Siugnah degli svedesi Anguish, che ci presentano una terza opera vibrante, intensa e oscura.

Un intenso e arcano profumo di doom impregnato di death si sprigiona fin dalle prime note della terza opera completa degli svedesi Anguish, che dopo aver prodotto due full length (Through the archdeamon’s head del 2012 e Mountain del 2014) per Dark Descent, esordiscono per High Roller con un album intenso e vibrante.

Sei brani dall’alto minutaggio e dall’andamento solenne e dolente creano un bel disco che cresce con gli ascolti e ci dona momenti carichi di atmosfera; i musicisti sembra che ci vogliano far immergere in antichi rituali e basta dare un’occhiata alla bella cover per cogliere tale suggestione. La musica, che può ricordare in alcuni tratti i Candlemass, è ricca di belle parti chitarristiche, si nota una ricerca di suoni e momenti non scontati. La title track nel suo alternarsi di riff e accordi tratteggia parti tragiche e veementi, aiutata anche dal growl del vocalist J.Dee, carico ed espressivo; i toni più estremi di Of the Once Ravenous con l’incedere solenne e ipnotico mostrano un lato introspettivo molto intenso tipico di partiture death doom di alta classe. La band non ricerca strade facili, è molto concentrata e ispirata, crea atmosfere opprimenti e angoscianti in tutti i brani avvolgendoli in una coltre dark e plumbea dove non filtra nessun raggio di luce (Requiescat in Pace). Le note addolorate di Elysian Fields of Fire con il loro lento incedere marchiano nel fuoco il doom della band, così come il pesante suono di organo e il vibrante guitar sound di Our Daughters Banner suggellano un’opera solida da parte di questi artisti scandinavi.

Tracklist
1. Blessed Be the Beast
2. Magna est vis Siugnah
3. Of the Once Ravenous
4. Requiescat in Pace
5. Elysian Fields of Fire
6. Our Daughters Banner

Line-up
J.Dee – Vocals,bass
Rasmus – drums
David – guitar
LInus -guitar

ANGUISH – Facebook

Convocation – Scars Across

Quattro brani per cinquanta minuti, quattro litanie che penosamente si trascinano verso un luogo indefinito e nebuloso, così come accade, consapevolmente o meno, all’esistenza di ognuno.

Ancora dalla Finlandia ci giungono echi di sonorità cupe e introspettive.

La maniera di esprimere un disagio, più o meno accentuato, in quelle lande ha avuto diversi volti in passato, partendo dal dark più melodico per spingersi al funeral o ad altre forme di doom più estreme, il tutto attraverso il talento innato di musicisti in grado di rappresentare quel mood malinconico che, giusto o sbagliato che sia, viene associato ad un intero popolo.
Quello scelto dai Convocation è un qualcosa di non troppo catalogabile, anche se il doom sicuramente ne costituisce la base preponderante: del genere troviamo infatti le cadenze rallentate e l’incedere contrassegnato da rari quanto significativi barlumi di luce, andando in tal senso verso le forme di funeral più oltranziste, in linea con le sonorità delle band d’oltreoceano (Loss, Lycus e Disembowelment, come suggerito dalla bio) piuttosto che di quelle nordeuropee, anche se talvolta si palesano spunti che rimandano agli immensi Colosseum del compianto Juhani Palomäki.
Quattro brani per cinquanta minuti, quattro litanie penosamente si trascinano verso un luogo indefinito e nebuloso, così come accade, consapevolmente o meno, all’esistenza di ognuno.
L’onere della parte strumentale è tutto di Lauri Laaksonen , che conosciamo per la sua militanza nei Desolate Shrine, death metal band invero nella media, mentre il growl, efficace e mortifero come deve essere, è affidato a Marko Neuman, vocalist anche nei notevoli Dark Buddha Rising: il connubio appare perfettamente oliato e in grado di esprimere il genere ai suoi massimi livelli, ribadendo come detto il primato finnico in questo campo .
Disposed apre l’album offrendo quasi un quarto d’ora di funeral magnifico, andando a raggiungere quei picchi emotivi ricercati dagli appassionati, mentre la successiva Ruins Of Ourselves appare più movimentata, con alcuni accenni di clean vocals e dissonanze che occupano parte della scena.
In Allied POWs si possono apprezzare ottimi squarci di chitarra solista, all’interno di un sound che si fa parzialmente più melodico e arioso, mentre la conclusiva title track ritorna in qualche modo al punto di partenza, portando il sound ai toni più cupi di Disposed, salvo il magnifico ed evocativo crescendo finale che suggella un lavoro spledido e per certi versi inatteso.
Non sorprende, invece, il fatto che i Convocation siano stati scovati dalla label italiana Everlasting Spew che, all’insegna dei pochi ma buoni, continua ad offrire uscite di grande spessore riconducibili alle forme di metal meno commerciali e convenzionali.

Tracklist:
1. Disposed
2.Ruins Of Ourselves
3.Allied POWs
4.Scars Across

Line-up:
Lauri Laaksonen – all in struments
Marko Neuman – vocals

www.facebook.com/ConvocationDoom

Affasia – Adrift In Remorse

Adrift In Remorse è una pietanza che scotta nelle mani dell’ascoltatore. Va domata e compresa, ma una volta fatto questo si può felicemente non tornare più indietro.

Se questo è l’inizio, possiamo metterci comodi e gioire. Adrift In Remorse è il primo album in studio della band statunitense Affasia: cinque ragazzi che hanno dato vita a questo progetto nel 2012 e che finalmente passano dalle parole ai fatti e ci mostrano cosa sono capaci di fare.

Per quanto le etichette possano essere in molti casi restrittive in campo musicale, come in questo caso, lo stile degli Affasia è molto vicino al melodic death metal, e lo dimostrano con ogni pezzo di questo primo album. Il numero dei brani è molto ridotto, infatti sono solo quattro, ma questa scelta verrà sicuramente apprezzata dai più procedendo con l’ascolto, visti gli alti livelli raggiunti dalla band in termine di qualità musicale, versatilità e bravura dei musicisti, e ultimo ma non meno importante, la varietà del suono in ogni parte del disco. Si direbbe che è stato sfatato il precetto “melius abundare quam deficere”.
La band americana irrompe nella scena metal creando atmosfere talvolta struggenti, talvolta fatate. Il tutto sempre e comunque nel segno del doom senza sconti, anzi. La strada intrapresa dagli Affasia nasce probabilmente da una passione per band come i Paradise Lost o, ancor più precisamente, My Dying Bride. La differenza è che gli Affasia stanno nel mezzo e contemporaneamente al di fuori di questi due approcci.
È un progetto musicale da scoprire dando grande merito a tutti i componenti della band, tra i quali, è bene ricordarlo, figura anche Tony Petrocelly, batterista anche degli ottimi Construct Of Lethe.

Tracklist
1. Another Host
2. Dissolute
3. Brittle Sentiment
4. As You Never Were

Line-up
Adam Coffman – Keyboards
Jason Jennings – Guitars
Nick Lucente – Bass
Noah Cabitto – Vocals
Tony Petrocelly – Drums

AFFASIA – Facebook

Black Royal – Lightbringer

Non esiste un momento di pace o di luce, i Black Royal sono stati creati per far male, trattandosi di una creatura estrema che prende forza dagli Entombed e dai Black Sabbath e dopo averli accoppiati li tramuta in un mostruoso e pesantissimo esempio di death/sludge.

Una bomba sonora che esploderà sulle vostre teste, devastante e pesantissima, un masso che dal punto più alto del monte dove sono state scritte le tavole della legge del metal estremo rotolerà fino alle pianure, distrutte dal passaggio dell’enorme sasso che prende forza ad ogni metro.

Lightbringer è il debutto sulla lunga distanza dei finlandesi Black Royal, gruppo di Tampere in cui mi ero imbattuto in occasione dell’ uscita dell’ep The Summoning PT 2, seconda parte appunto di un concept iniziato nel 2015.
La Finlandia che non si legge sui giornali, quella votata alla violenza, al suicidio ed all’alcolismo, veniva raccontata dai Black Royal tramite un death/stoner metal al limite dello sludge e sconquassato da accelerazioni di stampo death che chiamare devastanti è un’eufemismo.
Anche sulla lunga distanza il combo finlandese non delude e ci investe con tutta la sua immane potenza e pesantezza, Cryo-Volcanic ci travolge con cascate laviche di death metal, rallentato, morboso e drogato di stoner/sludge, Salvation ci spinge verso l’abisso, mentre Pentagram Doctrine è una traccia malatissima e disturbante, così come la title track.
Non esiste un momento di pace o di luce, i Black Royal sono stati creati per far male, trattandosi di una creatura estrema che prende forza dagli Entombed e dai Black Sabbath e dopo averli accoppiati li tramuta in un mostruoso e pesantissimo esempio di death/sludge.
Ancora Dying Star e New World Order, che lascia ad un coro femminile pinkfloydiano il compito di avvicinarvi alla fine con lo strumentale Ou[t]roboros, sono le bombe sonore fatte esplodere da questi quattro pericolosissimi musicisti, prima che l’album si chiuda e la calma torni a regnare nel vostro mondo che non vi parra più così sicuro.
Lightbringer è un mostro, un disturbato e pericoloso esempio di metal estremo da consumare con la giusta cautela, gli effetti collaterali sono devastanti e non dite che non vi avevo avvertito.

Tracklist
1. Cryo-Volcanic
2. Self-Worship
3. Salvation
4. Denial
5. Pentagram Doctrine
6. Lightbringer
7. The Chosen
8. Dying Star
9. New World Order
10. Ou[t]roboros

Line-up
Jukka – Drums, percussion
Pete – Bass, backing vocals, acoustic guitar
Riku – vocals
Toni – Guitars, backing vocals

BLACK ROYAL – Facebook

Green Druid – Ashen Blood

Doom nella sua forma più tradizionale ma il tutto è intriso di stoner, di aromi acido lisergici, di ipnotismo, di momenti inquieti e parti più introspettive; il quadro definitivo lascia storditi, desiderosi di assaggiare sempre più queste note per assaporare meglio ogni momento.

Eccellente debutto di questo quartetto statunitense di Denver, attivo dal 2015, con un demo autoprodotto riproposto in toto in questa opera prima.

Lode alla Earache che ha messo sotto contratto questi musicisti alla loro prima esperienza con i Green Druid: otto brani intensi, lunghi, alcuni lunghissimi fino a diciotto minuti, dove le idee non mancano, le atmosfere sono cangianti, vibranti con la loro alternanza di chiaroscuri e saliscendi emozionali.
La base è doom nella sua forma più tradizionale ma il tutto è intriso di stoner, di aromi acido lisergici, di ipnotismo, di momenti inquieti e parti più introspettive; il quadro definitivo lascia storditi, desiderosi di assaggiare sempre più queste note per assaporare meglio ogni momento.
Vengono in mente gli Sleep per la loro capacità di mantenere alta la tensione durante le interminabili jam soffocate da un sole incandescente come in Cursed Blood, la più lunga del lotto, dove un riff reiterato pone le basi per le divagazioni sia solistiche sia di atmosfera e qui l’interplay tra le due chitarre rivaleggia con le clean vocals filtrate e salmodianti, a creare immagini di una carovana in lento movimento verso acidi abissi: un brano notevolissimo da sentire assolutamente. In Agoraphobia, altri quattordici minuti, le trame acido lisergiche prendono il sopravvento fino dall’inizio e l’atmosfera, apparentemente più distesa, alternando momenti psichedelici e doom si carica lentamente di tensione con basso e chitarre a condurre la danza verso orizzonti completamente stonati.
Ogni brano ha caratteristiche proprie mantenendo inalterati gli ingredienti di base, Dead Tree sforna un riff da far tremare le montagne, Rebirth ricorda i momenti soffocanti degli ultimi Electric Wizard, stritolando le viscere e Ritual Sacrifice è sinistra e carica di suspence, mantenendo le promesse del titolo.
Per essere un’opera prima le sensazioni sono eccellenti, i musicisti hanno idee e una buona personalità, i brani sono fluidi, convinti e convincenti, attraggono e lasciano ottime vibrazioni: dal vivo potrebbero essere una assoluta rivelazione.

Tracklist
1. Pale Blood Sky
2. Agoraphobia
3. Dead Tree
4. Cursed Blood
5. Rebirth
6. Ritual Sacrifice
7. Nightfall

Line-up
Ryan Skates – Bass
Ryan Sims – Drums
Graham Zander – Guitars
Chris McLaughlin – Vocals, Guitars

GREEN DRUID – Facebook

Dautha – Brethren of the Black Soil

I Dautha danno alle stampe un esordio su lunga distanza magnifico, capace di unire l’incedere dolente ed il cupo incombere di un fato ineluttabile, proprio del funeral, con la struttura heavy delle radici doom, andando a creare un ibrido di qualità inestimabile.

I Dautha sono una band svedese che, dopo l’assaggio offerto con il demo Den förste del 2016, scende nell’agone del doom classico con un album destinato per il suo valore a porre sotto una luce ben più vivida questi ottimi musicisti scandinavi.

Brethren of the Black Soil regala quasi un’ora di doom al quale non manca nulla, infatti, per consentire ai Dautha di essere accostati ai connazionali Candlemass senza rischiare d’essere denunciati per lesa maestà
Il gruppo di Norrköping è composto da elementi di comprovata esperienza, anche in ambito doom, tra i quali il più noto è forse Lars Palmqvist, clean vocalist degli Scar Symmetry, e questo consente ai nostri di dare alle stampe un album ambizioso in quanto persegue obiettivi musicali e lirici tutt’altro che banali: se musicalmente parte da una base che prende le mosse dai semi piantati nella metà degli anni ’80 da Leif Edling e poi germogliati nei decenni successivi facendo maturare i suoi luttuosi frutti, anche a livello concettuale il lavoro si distingue per la ricerca di tematiche che affrontano le radici in avvenimenti storici del remoto passato, pur non rinunciando a mettere in primo piano le tematiche inerenti la morte (appunto dautha, in svedese antico) e tutto ciò che ne consegue.
Nel parlare di Brethren of the Black Soil non si può non partire però dalla title track, che non è solo la traccia più lunga dell’album con il suo quarto d’ora di durata, ma è una vera e propria gemma intrisa di epico lirismo come non capitava di ascoltare da tempo in quest’ambito; oltre al riferimento già citato con gli illustri connazionali, in questo caso i Dautha ci riportano anche ai Procession più ispirati, per un fatturato complessivo dal raro carico evocativo.
Se questo brano è il picco più alto dell’album, ci sono altri quaranta minuti abbondanti con i quali i Dautha regalano doom metal al suo massimo livello, con The Children’s Crusade e Bogbodies, dai tratti più funerei e vistosamente rallentati ed emotivamente impattanti, e Hodie Mihi, Cras Tibi, Maximinus Thrax e In Between Two Floods (valorizzata da un chorus splendido) maggiormente movimentate, rapportando sempre l’aggettivo al genere suonato.
I Dautha danno alle stampe un esordio su lunga distanza magnifico, capace di unire l’incedere dolente ed il cupo incombere di un fato ineluttabile, proprio del funeral, con la struttura heavy delle radici doom, andando a creare un ibrido di qualità inestimabile.

Tracklist:
1. Hodie Mihi, Cras Tibi
2. Brethren of the Black Soil
3. Maximinus Thrax
4. The Children’s Crusade
5. In Between Two Floods
6. Bogbodies

Line-up:
Ola Blomkvist – guitar/lyrics
Erik Öquist – guitar
Lars Palmqvist – vocals
Emil Åström – bass
Micael Zetterberg – drums

DAUTHA – Facebook