The Lord Weird Slough Feg – New Organon

New Organon, rilasciato per la Cruz Del Sur Music, è composto da dieci bellissimi brani che racchiudono l’essenza dell’epic metal, il suo lato più maturo e diretto, non concedendosi mai a facili melodie, ma elaborando un personale approccio ad un genere per niente facile da proporre ad alti livelli.

Tornano Mike Scalzi ed i suoi Slough Feg, con il monicker completo The Lord Weird Slough Feg ed un nuovo album, il decimo di una lunga carriera iniziata nel 1990 a San Francisco.

Il quartetto statunitense con al timone il suo capitano viaggia spedito nelle acque sicure di un sound collaudato che all’epic metal unisce elementi folk, ritmiche per nulla scontate e progressive a supportare tematiche di stampo fantasy.
La band, dal monicker ispirato ad una creatura leggendaria presente nei poemi epici e mitologici irlandesi, rilascia un ottimo lavoro che ne conferma lo status di band di culto, permettendo di arrivare alla doppia cifra in quanto a full lenght con degli album migliori.
New Organon, rilasciato per la Cruz Del Sur Music, è composto da dieci bellissimi brani che racchiudono l’essenza dell’epic metal, il suo lato più maturo e diretto, non concedendosi mai a facili melodie, ma elaborando un personale approccio ad un genere per niente facile da proporre ad alti livelli.
Fin dall’inizio si viene catapultati dal quartetto statunitense in un mondo metallico in cui sua maestà il riff è signore e padrone di un sound che, come da tradizione, è legato all’heavy doom settantiano, pur con la sua forte caratteristica epica che aggiunge sfumature ed ispirazioni di stampo Manilla Road.
L’anima progressiva valorizza il tutto e New Organon risulta un altro ottimo lavoro targato The Lord Weird Slough Feg, grazie ad una serie di brani bellissimi come The Apology, Uncanny e la solare Coming of Age in the Milky Way, folk metal song che disegna nella mente degli ascoltatori piazze popolate di castelli nei giorni di festa.
Un gran bel lavoro questo nuovo capitolo della saga del gruppo di San Francisco che si conferma un valido riferimento per gli amanti dell’epic/heavy/folk metal.

Tracklist
1. Headhunter
2. Discourse on Equality
3. The Apology
4. Being and Nothingness
5. New Organon
6. Sword of Machiavelli
7. Uncanny
8. Coming of Age in the Milky Way
9. Exegesis / Tragic Hooligan
10. The Cynic

Line-up
Mike Scalzi – Vocals / Guitar
Adrian Maestas – Bass
Angelo Tringali- Guitar
Jeff Griffin – Drums

THE LORD WEIRD SLOUGH FEG – Facebook

Thronehammer – Usurper of the Oaken Throne

L’album riesce ad incorporare nelle stesse trame, in modo assolutamente convincente, ispirazioni che vanno dai Bathory, ai Count Raven, dai Celtic Frost ai Saint Vitus, dai Candlemass ai Cathedral, in una sorta di versione sludge dell’epic doom tradizionale.

Un’opera straordinariamente epica ed evocativa, un lungo incedere doom/sludge che non conosce pause ma continua imperterrito nella sua marcia in direzione dell’Olimpo, mentre l’esercito avanza inesorabilmente verso la vittoria o la sconfitta e le note di questo monumentale lavoro accompagnano il passo cadenzato dei guerrieri.

I Thronehammer sono un trio che unisce musicisti provenienti da Germania e Regno Unito e dopo un demo ed uno split, insieme ai Lord Of Solitude, licenziano tramite The Church Within questo monolitico e pesantissimo primo album, intitolato Usurper of the Oaken Throne.
Sette brani per quasi ottanta minuti di musica del destino, davvero suggestiva, pesantissima ed epica al punto di sbaragliare qualsiasi gruppetto tutto scudi e spadoni.
In questo lavoro la parte evocativa ed epica del sound si amalgama perfettamente ad un potentissimo doom/sludge, spesso reso ancora più solenne da tastiere debordanti: la potenza della parte ritmica entra in contatto con un cantato evocativo che accentua l’aspetto epico/guerresco del sound in brani che per lo più superano abbondantemente i dieci minuti.
I diciassette minuti (appunto) dell’opener Behind The Wall Of Frost ci calano in un’atmosfera in cui predomina la forza evocativa di una musica che riesce ad incorporare nelle stesse trame, in modo assolutamente convincente, ispirazioni che vanno dai Bathory, ai Count Raven, dai Celtic Frost ai Saint Vitus, dai Candlemass ai Cathedral, in una sorta di versione sludge dell’epic doom tradizionale.
Il risultato è un lavoro pesantissimo, da affrontare con la dovuta pazienza, cercando di entrare nel mondo creato da Kat Shevil Gillham, Stuart Bootsy West e Tim Schmidt senza perdere nemmeno una nota del loro notevole lavoro.

Tracklist
1.Behind the Wall of Frost
2.Conquered and Erased
3.Warhorn
4.Svarte Skyer
5.Thronehammer
6.Usurper of the Oaken Throne

Line-up
Stuart Bootsy West – Guitars, Synthesizer
Tim Schmidt – Bass, Drums
Kat Shevil Gillham – Vocals

THRONEHAMMER – Facebook

Númenor – Chronicles from the Realms Beyond

Nuova veste e due bonus track per Chronicles from the Realms Beyond, ultimo album degli epic power metallers serbi Númenor

I Númenor son un gruppo epic power metal originario di Belgrado ed attivo dal 2009.

La discografia della band serba, dopo una manciata di ep e split ha preso il volo nel 2013 con la pubblicazione del primo lavoro sulla lunga distanza intitolato Colossal Darkness, seguito da altri due lavori, Sword and Sorcery e Chronicles from the Realms Beyond del 2017.
Ciò di cui parliamo è appunto la riedizione di quest’ultimo bellissimo lavoro, che prevede due bonus track (The Hour of the King e Lords of Chaos), un nuovo libretto ed una nuova copertina creata dall’artista serbo Bob Zivkovic.
L’album vede la partecipazione della session vocalist dei Therion Sandra su due brani (Moria e Beyond the Doors of Night) e l’entrata in formazione del nuovo batterista Marko Milojevic.
Chronicles from the Realms Beyond è un ottimo esempio di metallo epico, dal taglio heavy/power in cui non manca quel tocco sinfonico e black.
Prendendo spunto dalle tematiche fantasy tanto care al genere, l’album parte con l’opener Heart Of Steel proseguendo per sentieri che portano inevitabilmente alla gloria o alla morte.
L’alternanza tra più voci, che passano tra toni evocativi ed altri tipicamente metal e scream black, rende l’ascolto ancora più vario ed interessante con i brani che passano dall’epic sinfonico di Beyond the Doors of Night, al mid tempo dal taglio black metal di Lords Of Chaos, i due punti estremi della musica dei Númenor.
Un lavoro che merita sicuramente l’attenzione degli amanti del genere, tra Blind Guardian, Brimstone e le più classiche band epic metal.

Tracklist
1. Heart of Steel
2. Carven Stone
3. Withing Hour
4. Beyond the Doors of the Night
5. Moria
6. The Hour of the King
7. Lord of Chaos
8. Over the Mountains Cold
9. The Last of the Dragonlords
10. Realms Beyond (Instrumental)

Line-up
Despot Marko Miranovic-Vocals
Srdjan Brankovic-Guitars, Bass
Mladen Gosic-Keyboards
Marko Milojevic-Drums
Zeljko Jovanovic-Second Vocals

NUMENOR – Facebook

Grand Magus – Wolf God

Wolf God si inserisce in una discografia con pochi eguali a livello qualitativo e, considerando che siamo arrivati all’album numero nove per i Grand Magus, tanto di cappello.

Il ritorno dei Grand Magus si intitola Wolf God, atteso dai fans e dagli addetti ai lavori come una delle più importanti uscita dell’anno, almeno per quanto riguarda l’anima più epica del metal odierno.

Perché, parliamoci chiaro: il trio svedese con le sonorità doom/stoner di inizio carriera non ha più nulla a che spartire, perché la band è quanto di più heavy metal si possa trovare in giro oggigiorno, una potentissima e travolgente macchina da riff, scolpiti sulle montagne e cresciuti tra le foreste dove regna il dio lupo.
Ovvio che i mid tempo su cui è strutturato gran parte dell’album porta inevitabilmente a qualche passaggio più rallentato ed evocativo, ma i Grand Magus continuano nel loro dinamismo compositivo che ha caratterizzato l’ultimo periodo, con picchi epici che ne fanno i sovrani del genere (Dawn Of Fire).
La produzione cristallina e potente esalta le caratteristiche dei brani, ed una tracklist impeccabile rende Wolf God un’altra montagna metallica targata Grand Magus: epica, dalle linee melodiche perfettamente inserite in un contesto metallico possente, in cui la voce di Janne JB Christoffersson sembra nata per questo sound.
La virtù maggiore della proposta dei Grand Magus è proprio quella di risultare personale e riconoscibile in un genere tradizionale come l’heavy epic metal, grazie a quel tocco che viene dal passato remoto dei musicisti coinvolti (va ricordato che JB Christoffersson e Ludwig Witt hanno militato negli Spiritual Beggars).
La band svedese si conferma tra i sovrani del genere e rimane poco da scrivere davanti a brani di una forza metallica sovrumana come Wolf God, A Hall Clad In Gold, l’epica To Live and Die in Solitude e la distruttiva e motorheadiana He Sent Them All to Hel: anche Wolf God si inserisce in una discografia con pochi eguali a livello qualitativo e, considerando che siamo arrivati all’album numero nove, tanto di cappello.

Tracklist
01. Gold and Glory
02. Wolf God
03. A Hall Clad in Gold
04. Brother of the Storm
05. Dawn of Fire
06. Spear Thrower
07. To Live and Die in Solitude
08. Glory to the Brave
09. He Sent Them All to Hel
10. Untamed

Line-up
Janne JB Christoffersson – Vocals, Guitars
Mats Fox Hedén Skinner – Bass
Ludwig Witt – Drums

GRAND MAGUS – Facebook

Vultures Vengeance – The Knightlore

Un songwriting di livello e il gran lavoro strumentale non fanno che confermare le ottime sensazioni che avevano destato i lavori precedenti e i Vultures Vengeance ne escono alla grande anche dalla prova su lunga distanza.

Anche per i romani Vultures Vengeance è arrivato il momento del debutto su lunga distanza dopo il primo demo ed un paio di ep (Where The Time Dwelt It uscito nel 2016 e Lyrids: Warning From The Reign Of The Untold pubblicato lo scorso anno) che ne avevano caratterizzato la discografia in questi primi dieci anni di attività.

Il quartetto capitanato dal leader e fondatore Tony T. Steele, impegnato in veste di chitarrista e cantante, lancia il suo grido di guerra tramite otto canzoni pregne di atmosfere epiche che si rifanno alla tradizione metallica anni ottanta, tramite un epic metal duro e puro, una manna per i defenders legati al genere.
Dimenticate quindi soluzioni care al power metal, The Knightlore ci presenta un sound ispirato dalla new wave of british heavy metal e dall’epic di Citith Ungol e Manilla Road, convincente ed orgogliosamente old school.
Fin dall’opener A Great Spark from the Dark la band ci scaraventa in un mondo parallelo, dove onore, sangue ed eroi trovano la loro ideale dimensione, raccontati per mezzo di un sound classico che non farà prigionieri tra gli amanti del genere e dei gruppi citati.
Un songwriting di livello e il gran lavoro strumentale non fanno che confermare le ottime sensazioni che avevano destato i lavori precedenti e i Vultures Vengeance ne escono alla grande anche dalla prova sulla lunga distanza, mentre le chitarre continuano a sanguinare come spade estratte dai corpi dei guerrieri nemici.
Pathfinder’s Call, la title track, la furiosa Dead Men and Blind Fates riecheggiano epiche e metalliche contribuendo a rendere The Knightlore un’opera consigliata a tutti gli amanti del genere.

Tracklist
1. A Great Spark from the Dark
2. Fates Weaver
3. Pathfinder’s Call
4. The Knightlore
5. Lord of the Key
6. Dead Men and Blind Fates
7. Eye of a Stranger
8. Chained by the Night

Line-up
Tony T. Steele – Vocals / Guitars
Matt Savage – Bass
Tony L.A. Scelzi – Guitars
Matt Serafini – Drums

Evangelist – Deus Vult

Album consigliato agli amanti del doom classico, Deus Vult porta avanti la tradizione dei maestri svedesi e chiudendo gli occhi vi sarà chiara la sensazione di essere al cospetto del saio di Messiah Marcolin.

Il cavaliere crociato in ginocchio su un tappeto di resti umani, stanco per le decine di battaglie rende grazia al signore, ancora vivo e pronto per portare la sua parola in terre ostili.

La colonna sonora che rende viva questa immagine non può che essere un potente ed epico esempio di doom metal classico e declamatorio, notevole nelle parti in cui la chitarra si erge a protagonista di solos ispirati, mattatrice di questo ultimo lavoro della misteriosa band chiamata Evangelist.
Poche informazioni provengono dal gruppo polacco, arrivato con Deus Vult al terzo full length in dieci anni di attività, un album classico ed estremamente evocativo in cui non mancano gemme doom di elevato spessore come Memento Homo Mori, Prophecy e la conclusiva Eremitus (Keeper Of The Grail).
Siamo nel doom metal ispirato da Candlemass e Atlantean Codex, potente e ben strutturato dal duo di Cracovia che rimane nell’ombra lasciando alla musica il compito di catturare i fans del genere.
Come accennato il ruolo della chitarra solista è preponderante nell’economia dei brani, ispirata ed emozionale quanto basta perché si possa credere che sanguini come la punta della spada conficcata nel cuore degli infedeli.
Album consigliato agli amanti del doom classico, Deus Vult porta avanti la tradizione dei maestri svedesi e chiudendo gli occhi vi sarà chiara la sensazione di essere al cospetto del saio di Messiah Marcolin.

Tracklist
1.God Wills It!
2.Memento Homo Mori
3.Heavenwards
4.Prophecy
5.The Passing
6.The Leper King
7.Eremitus (Keeper of the Grail)

EVANGELIST – Facebook

Dungeon Wolf – Slavery Of Steel

Slavery Of Steel raggiunge la sufficienza solo per qualche spunto deciso e rabbioso, troppo poco comunque per farsi spazio nell’affollato mondo dell’underground metallico.

I tre Dungeon Wolf, capitanati dal cantante e chitarrista Deryck Heignum, provengono dalla Florida, terra tradizionalmente metallica, specialmente per quanto riguarda la parte estrema della nostra musica preferita, qui invece madre di un gruppo dedito ad un metal tradizionale tra velleità epic, qualche spunto tecnico lodevole, ma tanta approssimazione riguardo al songwriting ed alla voce del leader, che quando si affida al falsetto lascia alquanto a desiderare, un difetto non da poco in un genere nel quale l’interpretazione vocale fa la differenza.

Slavery Of Steel è composto da otto brani per una quarantina di minuti di epico metallo scolpito nella roccia, vario nelle ritmiche, tecnicamente buone, e nei solos che in alcuni casi rasentano lo shred, mettendo in risalto la bravura di Heignum con il proprio strumento, molte volte andando leggermente oltre a quello che richiede il brano.
L’album quindi non è sicuramente esente da difetti, migliorabili con il tempo, ma ad oggi purtroppo causa del poco appeal che brani comunque fortemente epici come l’opener Hidden Dreams o Worker Metal Night riescono ad avere sull’ascoltatore.
Il metal old school dei Dungeon Wolf è pervaso da una forte componente epico guerresca che ricorda Cirith Ungol e Manowar ma si presenta con un gap non indifferente già dalla buffa copertina, con un improbabile cavaliere medievale munito di spadone d’ordinanza e chitarra, ed una sbornia da far passare prima che inizi la battaglia.
Slavery Of Steel raggiunge la sufficienza solo per qualche spunto deciso e rabbioso, troppo poco comunque per farsi spazio nell’affollato mondo dell’underground metallico.

Tracklist
1. Hidden Dreams
2. Last Alive
3. Slavery or Steel
4. Borderlands
5. While the Gods Laugh
6. Dark Child
7. Worker Metal Might
8. Lord of Endless Night

Line-up
Deryck Heignum – Vocals/Guitar
Stan Martell – Bass
Austin Lane – Drums

DUNGEON WOLF – Facebook

Runeshard – Dreaming Spire

Ascoltando Dreaming Spire si viene avvolti da una calda sensazione di epica bellezza e si sta bene, si viene portati in volo da un’aquila e vediamo battaglie, draghi che assaltano castelli, insomma si chiude gli occhi e si sogna, cosa non da poco in questi tempi.

Metal epico, dungeon synth, symphonic black metal, una delle migliori colonne sonore per un videogioco come se ne facevano negli anni ottanta, maestoso e cavalleresco.

Il duo ungherese dei Runeshard, qui al loro debutto, è una delle cose maggiormente originali che potete trovare in ambito metal e non solo. I Runeshard vi prenderanno per mano e vi porteranno in un mondo che è come quello della splendida copertina, draghi, castelli su vette innevate e cavalieri che combattono, insomma cose che piacciono molto a chi ama il metal che si lega al fantasy. Musicalmente la loro proposta è un misto di black metal sinfonico, epic metal e anche una bella dose di dungeon synth, che nei territori dell’est europeo ha sempre avuto una buona diffusione e produzione costante. Questo sottogenere è uno strano ed azzeccato miscuglio di arcaicismo e fantasy messa in musica. I Runeshard vanno però oltre il dungeon synth e fanno una miscela tutta loro di tanti generi e sottogeneri, arrivando ad un risultato notevole, orecchiabile e credibile che ricorda il meglio del sympho black metal degli anni novanta. Questi ungheresi hanno una grande facilità a cambiare registro, facendo canzoni veloci e ben costruire, dove le tastiere sono l’impalcatura sulla quale si innestano felicemente gli altri strumenti per una musica totalmente epica e votata alla narrazione fantasy. Ascoltando Dreaming Spire si viene avvolti da una calda sensazione di epica bellezza e si sta bene, si viene portati in volo da un’aquila e vediamo battaglie, draghi che assaltano castelli, insomma si chiude gli occhi e si sogna, cosa non da poco in questi tempi. Per i Runeshard è un ottimo inizio di una saga che li porterà lontano, e noi con loro.

Tracklist
1.The Coronation
2.Dreaming Spire
3.Crimson Gates
4.Atlantean Sword

RUNESHARD – Facebook

Hexenklad – Spirit Of Stone

Gli Hexenklad sono un gruppo dall’identità ben precisa in grado di regalare momenti notevoli con la sua commistione di folk metal che va ad incontrarsi specialmente con il black metal, e che possiede una epicità davvero molto marcata.

Dal 2014 i canadesi Hexenklad macinano folk metal con forti influenze black, per un suono molto pesante ed interessante, con ottime parti melodiche.

Il Canada, con le sue immense foreste e gli ancora più grandi spazi, è la culla naturale per un gruppo folk metal, ed infatti il chitarrista Steve Grund (SIG:AR:TYR, ex-Battlesoul), fondatore del gruppo insieme al batterista Sterling Dale, ha preso la drastica decisione di vivere nelle foreste di Bancroft nell’Ontario. Componendo in quello spazio libero dal materialismo e dalla vita da città, la musica è sgorgata fuori ed è andata a comporre il debutto Spirit Of Stone. Gli Hexenklad sono un gruppo dall’identità ben precisa in grado di regalare momenti notevoli con la sua commistione di folk metal che va ad incontrarsi specialmente con il black metal, e che possiede una epicità davvero molto marcata. I momenti migliori del disco emergono quando le melodie si aprono e il gruppo canadese regala il meglio con canzoni che coniugano musica pesante e tastiere molto ben congegnate. La voce di Timothy Voldemars Johnston è adatta al progetto musicale del gruppo e contiene in sé un’innata epicità. I tempi del disco sono tutti giusti e non c’è nulla di forzato o di fuori contesto, ma anzi si produce un folk black epic metal di grande presa e sostanza, in una formula molto personale ed originale, dove sono presenti riferimenti a gruppi come i tedeschi Falkenbach, andando poi oltre. In definitiva, il gruppo dell’Ontario è una delle migliori cose uscite ultimamente nel panorama folk metal, anche se il loro debutto è solo del 2017, e recentemente hanno reso noto che stanno lavorando al secondo episodio di una carriera che ha tutti gli elementi per essere ottima.

Tracklist
1.In This Life or the Next
2.To Whom Veer Sinistral
3.At the Ends of Existence
4.Returned
5.At Dusk
6.In Waking Tymes
7.Path to Ruin
8.An Offering

Line-up
Michael Grund – Guitars
John Chalmers – Guitars/Engineer
Timothy Voldemars Johnston – Vocals
Clare B – Keyboards
Jon Kal – Bass
Andrew C – Drums

HEXENKLAD – Facebook

Battleroar – Codex Epicus

I Battleroar sanno maneggiare la materia con sagacia e Codex Epicus non delude le aspettative dei fans dell’epic metal con una serie di brani in linea con le caratteristiche peculiari del genere.

Si torna a parlare di epic metal con il nuovo album dei greci Battleroar, band che ha nelle sue fila il guerriero Gerrit Mutz, inesauribile vocalist dietro al microfono dei Sacred Steel.

Il nuovo album si intitola Codex Epicus, è stato registrato ai Devasoundz Studios di Atene e vede in veste di ospite il cantante e chitarrista dei Manilla Road Mark Shelton, protagonista assoluto sulla splendida Sword Of The Flame, brano oscuro, evocativo e picco qualitativo di questo ultimo lavoro.
Il quinto album nella storia del gruppo non si discosta più di tanto dai suoi predecessori, i Battleroar sanno maneggiare la materia con sagacia e Codex Epicus non delude le aspettative dei fans dell’epic metal con una serie di brani in linea con le caratteristiche peculiari del genere.
Più ruvido rispetto a Blood Of The Legends, precedente album che aveva nel violino di Alex Papadiamntis l’arma in più per rendere ancora più malinconico ed evocativo il sound, Codex Epicus è un ottimo album che possiede tutti i crismi per non deludere i tanti epic metallers sparsi per il mondo, in attesa che la battaglia abbia inizio tra gesta eroiche e gloria perenne.
I brani lenti, epici ed evocativi sono i più gettonati dalla macchina metallica Battleroar, e The Doom Of Medusa è l’altra perla di questo lavoro, con un Mutz all’altezza della sua fama, interpretativo come forse non lo era mai stato sull’album precedente.
Il corno saluta la marcia degli eroi in Palace Of The Martyrs, mentre il crescendo di Enchanting Threnody, epica cavalcata heavy metal, è il terzo gioiellino racchiuso in questo ottimo lavoro targato Battleroar.
Promosso a pieni voti, Codex Epicus non raggiunge i livelli del bellissimo To Death and Beyond… (2008), ma non tradisce sicuramente le attese degli amanti di queste sonorità: alzate le spade e rendete gloria ai Battleroar.

Tracklist
1. Awakening the Muse
2. We Shall Conquer
3. Sword of the Flame
4. Chronicles of Might
5. The Doom of Medusa
6. Palace of the Martyrs
7. Kings of Old
7. Enchanting Threnody
8. Stronghold (CD BONUS TRACK)

Line-up
Gerrit Mutz – Vocals
Kostas Tzortzis – Guitar
Michael Kontogiorgis – Guitar
Sverd – Bass
Greg Vlachos – Drums

BATTLEROAR – Facebook

Amorphis – Queen Of Time

Queen Of Time è l’ideale suggello di una carriera che si sta approssimando ai trent’anni, per un gruppo la cui spinta propulsiva sembra ancora ben lungi dall’essersi esaurita.

Gli Amorphis appartengono a quel novero di gruppi che godono di uno status collocabile a metà strada tra il mainstream e l’underground, trattandosi di una band dalla storia lunga che, magari, non raccoglie consensi oceanici ma comunque in grado di attrarre un numero importante di appassionati, sovente anche al di fuori degli abituali fruitori del metal.

Quello della band finlandese è ormai un trademark consolidato, qualcosa che per qualcuno potrà anche apparire ripetitivo ma che, alla luce della qualità media dei dischi pubblicati, alla fine riduce tutti questi discorsi a semplice aria fritta.
Indubbiamente l’ingresso di un cantante versatile come Tomi Joutsen, a partire da Eclipse nel 2006, ha contribuito a stabilizzare il sound in un death melodico dai richiami epici e folk, perfettamente oliato e incapace di deludere.
Ad ogni buon conto, anche per cercare di tacitare i critici per partito preso, gli Amorphis con questo loro ultimo Queen Of Time hanno provato con un certo successo ad inserire qualche elemento nuovo nel loro sound, pur senza stravolgerlo: ne consegue, così, un lavoro vario nel quale troviamo parti di sax, aperture corali e sinfoniche, duetti con voci femminili, il tutto all’interno di brani che, in diversi chorus, rimandano ai fasti di Eclipse e Silent Waters.
Varietà nella continuità è, quindi, ciò che in sintesi propone il gruppo finnico, il quale, recuperato lo storico bassista Olli Pekka Laine (di recente protagonista anche con i suoi Barren Earth) mantiene un assetto consolidato che consente di sfornare a getto continuo riff e chorus trascinanti, di presa immediata ma non banali, sintomatici di una classe superiore alla media.
Ne scaturiscono dieci brani intensi ed orecchiabili, ruvidi e melodici nel contempo, e interpretati da uno Joutsen ineccepibile (nella speciale classifica combinata clean vocals/growl, oggi Tomi è superato forse dal solo Jon Aldarà), con il supporto di una band precisa come un orologio svizzero e gratificata da un sound di rara pulizia.
Posto che ai campioni del calcio non chiediamo di segnare solo di tacco e in rovesciata, o a quelli del ciclismo di fare le salite su una ruota, così da quelli della nostra musica mi pare lecito che si esigano solo belle canzoni e questo compito essenziale, ma certo non banale, viene assolto al meglio dagli Amorphis, in virtù di una tracklist di rara solidità, priva di punti deboli e con almeno quattro brani meravigliosi: l’opener The Bee, a suo modo un classico, Daughter of Hate, dal refrain indimenticabile all’interno di una struttura piuttosto cangiante, la superhit Amongst Stars, con il duetto tra Joutsen e la divina Anneke van Giersbergen, e la conclusiva Pyres on the Coast, traccia che non è affatto tipica per gli Amorphis, in quanto va ad intrecciare modernismi a pulsioni sinfoniche senza mai smarrire la bussola.
Concludo facendo notare che non è così scontato trovare band capaci di fornite simili prove di efficienza alla quattordicesima prova su lunga distanza, all’interno di una discografia pressoché priva di passi falsi (forse il solo Far From The Sun appare, a posteriori, più debole degli altri lavori): questo splendido Queen Of Time è, quindi, l’ideale suggello di una carriera che si sta approssimando ai trent’anni, per un gruppo la cui spinta propulsiva sembra ancora ben lungi dall’essersi esaurita.

Tracklist:
1. The Bee
2. Message in the Amber
3. Daughter of Hate
4. The Golden Elk
5. Wrong Direction
6. Heart of the Giant
7. We Accursed
8. Grain of Sand
9. Amongst Stars
10. Pyres on the Coast

Line-up:
Tomi Joutsen – Vocals
Esa Holopainen – Guitar
Tomi Koivusaari – Guitar
Olli-Pekka Laine – Bass
Santeri Kallio – Keyboards
Jan Rechberger – Drums

AMORPHIS – Facebook

Cruachan – Nine Years Of Blood

La musica degli irlandesi è folk metal con elementi celtici, momenti vicini al power metal, sfuriate death ed un tocco di melodic black, ma l’ossatura è fortemente celtic folk.

E chi se non un gruppo irlandese poteva essere il padrino del celtic black folk metal? I Cruachan sono in giro dal 1992 e non accennano a lasciare il trono.

Con il loro ottavo album sulla lunga distanza chiudono la trilogia del sangue sulla guerra dei nove anni che si svolse dal 1593 al 1603, conclusasi con la definitiva sottomissione dei nobili irlandesi, e poi nel 1609 si darà vita alla colonizzazione vera e propria dell’Ulster, principale teatro di battaglia della guerra. I Cruachan ne hanno descritto le prime fasi nei due album precedenti della trilogia, Blood on the Black Robe su Candlelight Records, per poi passare sulla tedesca Trollzorn per Blood for the Blood God e il presente Nine Years Of Blood. La musica degli irlandesi è folk metal con elementi celtici, momenti vicini al power metal, sfuriate death ed un tocco di melodic black, ma l’ossatura è fortemente celtic folk. I Cruachan sono molto piacevoli e sono diventati più melodici e strutturati nelle composizioni. Nine Years Of Blood è un disco solido e con molte storie da raccontare con la ferma identità musicale e folclorica del gruppo. La storia narrata è amara, perché parla di una delle tante sconfitte irlandesi, forse la più brutta perché la vittoria era così vicina, ma è materia degli storici discutere sui motivi della sconfitta, ma soprattutto sulle davvero nefaste conseguenze, dato che la dominazione inglese dura ancora. I Cruachan dipingono un ottimo affresco musicale, una vivida lezione di storia e di pathos, e si perdona loro anche la poca inventiva di taluni passaggi musicali, perché qui quello che conta è l’effetto finale. Un’altra battaglia vittoriosa per il gruppo dell’isola verde.

Tracklist
01. I am Tuan
02. Hugh O’Neill – Earl of Tyrone
03. Blood and Victory
04. Queen of War
05. The Battle of the Yellow Ford
06. Cath na Brioscaí
07. The Harp, The Lion, The Dragon and The Sword
08. An Ale Before Battle
09. Nine Years of Blood
10. The Siege of Kinsale
11. Flight of the Earls
12. Back Home in Derry

Line-up
Keith Fay – Vocals, Electric Guitar, Acoustic Guitar
Keyboard, Tin-Whistle, Bouzouki, Mandolin, Bodhrán, Percussion
Kieran Ball – Electric Guitar, Acoustic Guitar
Eric Fletcher – Bass
John Ryan – Violin, Cello, Bowed Bass
Mauro Frison – Drums, Percussion

CRUACHAN – Facebook

HAEGEN – Immortal Lands

Gli Haegen fanno un folk metal epico cantato in inglese ed in italiano, con una propensione verso l’epic metal: le loro composizioni sono molto bilanciate e ben costruite, con una buona interazione fra potenza, velocità e melodia.

Tornano gli Haegen, gruppo folk metal di Osimo, provincia di Ancona.

Questo è il primo disco sulla lunga distanza per questo gruppo che si pone come una i migliori del genere in Italia. Gli Haegen fanno un folk metal epico cantato in inglese ed in italiano, con una propensione verso l’epic metal. Le loro composizioni sono molto bilanciate e ben costruite, con una buona interazione fa potenza, velocità e melodia. La parte folk è molto importante ed è eseguita davvero bene, il lavoro delle tastiere è molto ampio e da un importante valore aggiunto alle canzoni. Una menzione speciale va al flauto di Federico Padovano, che rende giustizia a questo nobile strumento, troppe volte usato a caso nel folk metal. Le canzoni in italiano, secondo un giudizio totalmente soggettivo, rendono molto meglio delle canzoni in inglese, che sono comunque di buon livello, ma il pathos delle canzoni cantate nella lingua madre è notevole. Ad esempio un pezzo come Incubo è molto notevole, con il suo andamento incalzante e il testo molto realistico. Tutta la musica del gruppo marchigiano è costruita per essere eseguita dal vivo, perché già in pratica il disco è alla stregua di un concerto. Come prima prova sulla lunga distanza, dopo l’ep Tales From Nowhere del 2015, questa è sicuramente buona, ci sono ampi margini di miglioramento, poiché ci sono solide basi ed un buon talento compositivo. Immortal Lands è un buon disco di folk metal di un gruppo mediterraneo, infatti si sente molto chiaramente l’influsso melodico differente rispetto alle band nordiche o slave. Un gruppo che fa ballare le anime baldanzose e che è da seguire con attenzione.

Tracklist
1. Stray Dog
2. Legends
3. Gioie Portuali
4. Fighting In The River
5. Incubo
6. Gran Galà
7. The Princess And The Barbarians
8. Bazar
9. The Tale
10. Terre Immortali
11. My Favourite Tobacco

Line-up
Leonardo Lasca: voce
Samuele Secchiaroli: chitarra
Nicholas Gubinelli: basso
Tommaso Sacco: batteria
Eugenio Cammoranesi: tastiera
Federico Padovano: flauto

HAEGEN – Facebook

Visigoth – Conqueror’s Oath

I barbari statunitensi si ripresentano dopo due anni da The Revenant King con un buon lavoro devoto ai canoni dell’epic true heavy metal,roccioso e fiero, ma inferiore allo splendido esordio.

Duri come l’acciaio, i barbari di Salt Lake City si ripresentano dopo l’ottimo debutto del 2015, The Revenant King, con un nuovo disco forgiato con il classico epic true heavy metal.

Le radici sono profondamente immerse nel suono epic americano dei bei tempi e i cinque musicisti ripercorrono con grinta, tenacia e discreta personalità questa strada, sguainando riff devoti e abbastanza memorabili, vocals e chorus rocciosi e carichi di pathos: il loro intento è sincero e convinto, non volendo modificare le regole del genere ma solo scrivere canzoni battagliere e indomite. Otto brani per quaranta minuti di musica dal forte impatto energetico: fin dall’opener Steel and Silver i canoni del genere vengono rispettati, con grandi chitarre che tagliano l’aria con riff e assoli fortemente epici ed il vocalist Jake Rogers che intona fieri inni accompagnato da chorus che esaltano l’atmosfera.Tutti i brani sono di buon livello, tranne forse Salt City, un po’ fuori fuoco e più “easy”, ma le vere punte del lavoro si trovano in Warrior Queen (bel titolo) compatta e decisa nel suo incedere, con un bel interplay di chitarra che ha sentori di NWOBHM e un’interpretazione molto sentita di Rogers. La melodia iniziale di Traitor’s Gate, accompagnata dalle accusatorie vocals, esplode in un tornado irrefrenabile scandito dal chorus vibrante e teso per una song che alza la temperatura della battaglia e sarà memorabile in sede live. La velocissima Blades in the Night continua a infiammare gli animi e non concede tregua attraversata da assoli perentori, mentre la title track è un mid-tempo quasi marziale dove sono ripercorsi con inalterata fierezza i canoni del genere e nel quale non mancano momenti esaltanti, con chitarre tonanti e chorus il cui motto è “sing through our souls like thunder and blood”. Una classica ma splendida cover completa un buon lavoro che a mio parere rimane però al disotto del disco d’esordio.

Tracklist
1. Steel and Silver
2. Warrior Queen
3. Outlive Them All
4. Hammerforged
5. Traitor’s Gate
6. Salt City
7. Blades in the Night
8. The Conqueror’s Oath

Line-up
Jamison Palmer Guitars
Leeland Campana Guitars
Matthew Brown Brotherton Bass
Mikey Treseder Drums
Jake Rogers Vocals

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Unshine – Astrala

Misticismo, ricordi di umanità diversa da quella attuale e con ben altre prerogative, ci fanno immergere dentro questo suono, ricercando qualcosa che possiamo far scaturire dal nostro interiore se lo vogliamo e se troviamo il giusto innesco: Astrala è perfetto per questo, oltre che essere un buon disco di metal.

Gli Unshine sono una band gothic metal a voce femminile proveniente dalla terra promessa del metal chiamata Finlandia.

Attivi dal 2000, Astrala è il loro quarto album sulla lunga distanza; gli Unshine possono essere definiti un gruppo gothic metal, ma c’è molto di più nella loro musica: il loro è uno spirito che parte dal gothic ma con una forte componente epica e fa capolino anche un po’ di folk. Gli Unshine fanno musica al cento per cento finlandese, guidati dalla bellissima voce di Susanna Vesilahti che riesce sempre a trovare il registro giusto per tutte le occasioni, in grande armonia con la parte strumentale. Gli Unshine sono un gruppo metal a tutto tondo, con le idee molto chiare e capaci di produrre dischi molto ben definiti e dalla forte personalità. Dentro Astrala ci sono momenti più veloci ed alcuni maggiormente lenti dalla grande epicità. La loro epica è di ricordo e narrazione di una Finlandia altra, diversa da quella attuale, facente parte di un mondo nel quale la magia e la spiritualità hanno un’importanza ben definita. Le storie degli Unshine sono vite di cose, persone ed entità, e la narrazione è giustamente epica anche grazie al sapiente uso delle tastiere che conferiscono un tono superiore alla musica. Gli Unshine non sono un gruppo prolifico, le loro uscite sono giustamente ben centellinate e diamo loro ragione perché la qualità di questi lavori è sempre alta ed appagante. Misticismo, ricordi di umanità diversa da quella attuale e con ben altre prerogative, ci fanno immergere dentro questo suono, ricercando qualcosa che possiamo far scaturire dal nostro interiore se lo vogliamo e se troviamo il giusto innesco: Astrala è perfetto per questo, oltre che essere un buon disco di metal.

Tracklist
01. Birch Of Fornjot
02. Kainun Kuningas
03. Jack’s Feast
04. The Masks Of Enchantment
05. Pan The One
06. Druids Are A-Coming
07. Slow Moving Creatures
08. Visionary’s Last Breath
09. Suo (Kantaa Ruumiit)
10. The Forest

Line-up
Susanna Vesilahti – vocals
Harri Hautala – guitar, synthesizer
Jari Hautala – guitar
Jukka “Stibe” Hantula – drums
Teemu “Teemal” Vähäkangas – bass

UNSHINE – Facebook

Under Siege – Under Siege

Gli Under Siege conoscono bene il genere e lo addomesticano a loro piacimento e a quello degli ascoltatori, alternando cavalcate cadenzate ed epiche a sfuriate estreme dove le melodie hanno la loro importanza.

Gli Under Siege sono una nuova realtà formatasi un paio di anni fa e che, con questo primo assalto sonoro, si presenta in tutta la sua natura guerresca.

Il quintetto di Palestrina aggiunge al genere un epico incedere ed ottime atmosfere folk con un’opera fornita della personalità necessaria per non farsi dimenticare dopo pochi ascolti.
Partiamo dunque per incontrare la morte o la gloria nei vari scontri che ci guideranno fino alla fine di questi quaranta minuti, dove il death metal melodico scandinavo incontra il power ed il folk: il gruppo si presenta con due brani che rispecchiano in toto il suo credo, Blàr Allt Nam Bànag, dall’intro lasciato alle note folk della cornamusa per poi trasformarsi in un veloce brano melodic death, mentre l’epico accordo iniziale di Warrior I Am si trasforma in una cavalcata death/power che centra il bersaglio e si rivela uno dei brani cardine dell’album.
Gli Under Siege conoscono bene il genere e lo addomesticano a loro piacimento e a quello degli ascoltatori, alternando cavalcate cadenzate ed epiche (Beyond The Mountains) a sfuriate estreme (Invaders) dove le melodie hanno la loro importanza, così come gli interventi della cornamusa che regala un tocco folk/fantasy a tracce come la superba One To Us.
L’album si chiude con le note della ballad d’altri tempi Bright Star Of Midnight, e a noi non rimane che consigliare l’ascolto agli amanti del genere e di gruppi come Amon Amarth ed Ensiferum, dei qiali gli Under Siege sono fieri eredi.

Tracklist
1.Blàr Allt nam Bànag
2.Warrior I Am
3.Time for Revenge
4.Beyond the Mountains
5.Invaders
6.Sotto assedio
7.One to Us
8.Bright Star of Midnight

Line-up
Paolo Giuliani – Vocals, Bagpipes
Daniele Mosca – Guitars, Backing Vocals
GianLuca Fiorentini – Guitars, Backing Vocals
Livio Calabresi – Bass, Backing Vocals
Marzio Monticelli – Drums

UNDER SIEGE – Facebook

Xanthochroid – Of Erthe and Axen Act II

Gli Xanthochroid sono sempre capaci di coinvolgere,  qualunque sia il filone stilistico prescelto, dall’alto della dote  più unica che rara che hanno nell’infondere la propria musica di un pathos cinematografico, consentendo all’ascoltatore di immergersi del tutto nel loro mondo immaginario per ottenerne visioni nitide e quanto mai reali.

Dopo aver ascoltato qualche mese fa la prima parte dell’atteso ritorno degli Xanthochroid, risale alla metà di ottobre l’uscita del secondo capitolo di Of Erthe and Axen.

Come preannunciato dalla band, il sound in quest’occasione riacquista quella magniloquenza sinfonica e, di pari passo, la robustezza metallica che erano state parzialmente sacrificate nel precedente episodio a favore di una comunque efficace vena folk.
In, effetti dopo la puntuale evocatività dell’intro, con Of Aching, Empty Pain la band californiana fa una sorta di riassunto musicale del proprio repertorio, piazzando il classico brano che mescola con brillantezza unica accenni di ritmiche black metal ad ampie aperture melodiche, richiamando anche il tema portante che costituisce il trait d’union della sua discografia.
Con Of Gods Bereft of Grace si entra in un territorio maggiormente inedito, grazie ad un andamento cangiante all’interno del quale trovano posto davvero tutte le pulsioni dei nostri, rassicurando  ampiamente chi poteva temere un inaridimento della vena compositiva di Sam Meador.
Gli Xanthochroid sono sempre capaci di coinvolgere,  qualunque sia il filone stilistico prescelto, dall’alto della dote  più unica che rara che hanno nell’infondere la propria musica di un pathos cinematografico, consentendo all’ascoltatore di immergersi del tutto nel loro mondo immaginario per ottenerne visioni nitide e quanto mai reali.
Walk With Me, O Winged Mother riporta l’opera a toni più rarefatti, con l’intervento di una Ali Meador utilizzata stavolta con parsimonia, questo almeno per qualche minuto prima che il brano monti dal punto di vista sinfonico sino a raggiungere picchi di grande solennità.
Gli ultimi venti minuti del lavoro esibiscono, come d’abitudine per i ragazzi di Lake Forest, un crescendo emotivo che va di pari passo con l’enfasi melodica, e se in Through Chains That Drag Us Downward meraviglia sempre la padronanza con la quale i nostri alternano umori e timbri vocali senza mai perdere il filo del discordo, con Toward Truth and Reconciliation il sound trova la sua maestosa sublimazione accompagnandoci, tra un brivido e l’altro,  ad un finale davvero degno della soundtrack di un film dai connotati epici.
Se Blessed Be With Boils stupiva per il suo essere l’epifania di un talento più unico che raro, questa doppia fatica non delude le attese, confermando appieno il valore di una band che, nel proprio segmento stilistico, ha a mio avviso già superato i propri maestri; volendo cercare il pelo nell’uovo, gli unici minimi dubbi permangono relativamente all’eccessiva dilatazione dei tempi intercorsi tra un full length e l’altro (anche se parzialmente compensata dagli oltre novanta minuti complessivi di Of Erthe and Axen) e alla capacità in futuro di svincolarsi dai temi lirici e musicali della saga di Thanos and Ereptor senza smarrire l’ispirazione (come accadde invece ai Virgin Steele successivamente all’epopea chiusa da “The House Of Atreus – Act 2”).
L’ancora giovane età di Meadow, Earl e Vallefuoco ed il talento cristallino esibito ad ogni uscita sono elementi che consente ragionevolmente di escludere il pericolo di un appannamento a breve termine, per cui non ci resta che godere a lungo e per intero di questo splendido lavoro, per il quale vale davvero la pena di dedicare un’ora e mezza del proprio tempo.

Tracklist:
1. Reveal Your Shape, O Formless One
2. Of Aching, Empty Pain
3. Of Gods Bereft of Grace
4. Of Strength and the Lust for Power
5. Walk With Me, O Winged Mother
6. Through Caverns Old and Yawning
7. Through Chains That Drag Us Downward
8. Toward Truth and Reconciliation

Line-up:
Sam Meador – Vocals, Keyboards, Guitars (acoustic)
Matthew Earl- Drums, Flute, Vocals (backing)
Brent Vallefuoco – Guitars (lead)
Ali Meador – Vocals

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Xanthochroid – Of Erthe and Axen Act I

Of Erthe and Axen Act I è diverso dal suo predecessore, ma resta comunque un altro capolavoro rilasciato da questa band di un livello talmente superiore alla media da rendere persino irritante il fatto che non abbia ancora raggiunto il meritato successo planetario.

Per uno che ha considerato Blessed He with Boils uno dei dischi più belli pubblicati in questi decennio, il ritorno al full length degli Xanthohchroid è stata senza dubbio una splendida notizia che nascondeva però anche un sottile filo di inquietudine.

Infatti, il timore che questi giovani e geniali musicisti americani potessero aver smarrito la loro ispirazione in questi lunghi cinque anni era un qualcosa che ha aleggiato fastidiosamente a lungo nei miei pensieri, spazzato via fortunatamente dalle prime note di Of Erthe and Axen Act I, nelle quali persiste quella stessa e unica vena melodica e sinfonica.
Per parlare di questo nuovo parto degli Xanthohchroid è fondamentale partire dal fondo, non del disco ma delle note di presentazione: infatti i nostri, in un una postilla che in un primo tempo mi ero anche perso, raccomandano ai recensori di valutare l’album quale effettiva prima parte di un’opera che vedrà uscire la sua prosecuzione ad ottobre, e, pertanto, il fatto che il sound possa apparire molto meno orientato al metal e più al folk è motivato da un disegno complessivo che prevede un notevole rinforzo delle sonorità in Of Erthe and Axen Act II.
Tutto ciò è molto importante, perché si sarebbe corso il rischio di accreditare la band di una sterzata dal punto di vista stilistico che, invece, dovrà essere eventualmente certificata come tale solo dopo l’ascolto del lavoro di prossima uscita; detto ciò, appare evidente come quelle audaci progressioni, che fondevano la furia del black metal con orchestrazioni di stampo epico/cinematografico, in Act I siano ridotte all’osso, lasciando spazio ad una componente folk e acustica dal livello che, comunque, resta una chimera per la quasi totalità di chiunque provi a cimentarvisi.
Infatti, i brani che riportano in maniera più marcata ai suoni di Blessed He with Boils sono una minoranza, rappresentata essenzialmente da To Higher Climes Where Few Might Stand, The Sound Which Has No Name, e parzialmente, The Sound of Hunger Rises, laddove si ritrova intatta quella potenza di fuoco drammatica e melodica che rende gli Xanthochroid immediatamente riconoscibili in virtù di una peculiarità che non può essere in alcun modo negata; per il resto, Of Erthe and Axen Act I si muove lungo i solchi di un folk sempre intriso di una malinconia palpabile e guidato dall’intreccio delle bellissime voci di Sam Meador (anche chitarra acustica e tastiere), della moglie Ali (importante novità rispetto al passato) e di Matthew Earl (batteria e flauto).
Detto così sembra può sembrare che questo disco sia di livello inferiore al precedente ma cosi non è: anche nella sua versione più pacata e di ampio respiro la musica degli Xanthochroid mantiene la stessa magia e, anzi, potrebbe persino attrarre nuovi e meritati consensi, rivelandosi per certi versi meno impegnativa da assimilare; quel che è certa ed immutabile è la maturità compositiva raggiunta da una band che si muove ad altezze consentite solo a pochi eletti, andando a surclassare per ispirazione persino quelli che potevano essere considerati inizialmente degli ideali punti di riferimento come gli Wintersun.
Of Erthe and Axen continua a raccontare le vicende che si susseguono in Etymos, mondo parallelo creato da Meador e che nel notevole booklet è illustrato con dovizia di particolari, con tanto di cartina geografica: la storia narrata in questo caso è un prequel rispetto a Blessed He with Boils, ma questi sono particolari, sebbene importanti, destinati a restare in secondo piano rispetto al superlativo aspetto musicale
La formazione odierna ridotta a quattro elementi (assieme ai tre c’è anche Brent Vallefuoco, che si occupa delle parti di chitarra elettrica infarcendo l’album di magnifici assoli) risulta un perfetto condensato di talento e creatività che trova sbocco sia nei già citati episodi più robusti, sia nelle perle acustiche rappresentate da To Lost and Ancient Gardens, In Deep and Wooded Forests of My Youth (per la quale è stato girato dallo stesso Vallefuoco un bellissimo video) e la stupefacente The Sound of a Glinting Blade, che vive di un crescendo emotivo e vocale destinato a confluire nel furente incipit sinfonico della conclusiva The Sound Which Has No Name, andando a creare uno dei passaggi più impressionanti del lavoro.
Se a un primo ascolto l’apparente tranquillità che pervade il sound poteva aver lasciato un minimo di perplessità, il ripetersi dei passaggi nel lettore conferma ampiamente che il valore degli Xanthochroid non è andato affatto disperso, anzi: Of Erthe and Axen Act I è diverso dal suo predecessore, ma resta comunque un altro capolavoro rilasciato da questa band di un livello talmente superiore alla media da rendere persino irritante il fatto che non abbia ancora raggiunto il meritato successo planetario.
Al riguardo, è auspicabile che l’uscita ravvicinata delle due parti di Of Erthe and Axen possa consentire di mantenere viva per più tempo l’attenzione sugli Xanthohchroid, rimediando a questa evidente stortura.

Tracklist:
01. Open The Gates O Forest Keeper
02. To Lost and Ancient Gardens
03. To Higher Climes Where Few Might Stand
04. To Souls Distant and Dreaming
05. In Deep and Wooded Forests of My Youth
06. The Sound of Hunger Rises
07. The Sound of a Glinting Blade
08. The Sound Which Has No Name

Line-up:
Sam Meador – Vocals, Keyboards, Guitars (acoustic)
Matthew Earl – Drums, Flute, Vocals (backing)
Brent Vallefuoco – Guitars (lead), Vocals
Ali Meador – Vocals

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Pagan Altar – The Room Of Shadows

Dopo molti anni, durante i quali si era quasi persa la speranza, ecco tornare quando meno te li aspetti i Pagan Altar, semplicemente un pezzo di storia della NWOBHM.

Fondati nell’ormai lontano 1978, i Pagan Altar, insieme ai Witchfinder General, sono stati uno dei principali gruppi doom all’interno della nuova ondata del metal inglese, negli anni in cjui Britannia dominava i giradischi e gli stadi d’Europa. E tutto ciò avendo inciso solo un demo in quegli anni, ristampato dalla Oracle Records nel 1998 con il titolo Volume 1. Riformatisi nel 2004 grazie alle risposte positive ricevute da pubblico e critica per il disco Lords Of Hypocrisy, gli inglesi hanno continuato con la loro carriera con una buona qualità media, fino ad avere un lungo hiatus tra il 2006 fino all’attuale disco. The Room Of Shadows è un buon album, composto e suonato con eleganza, ricco di ricami barocchi, con forti richiami doom, ma anche una notevole epicità. I Pagan Altar raccontano storie come facevano i menestrelli, musicandole nella maniera giusta per farle arrivare ancora meglio al pubblico. Nel disco si sente molto la loro duplice natura che fa capo sia all’heavy metal classico inglese che al doom, e tutto ciò lo rende piacevolmente fuori dal tempo, perché suona in maniera molto diversa rispetto alle cose che siamo abituati a sentire. Le canzoni scorrono benissimo e si fa davvero fatica a pensare che il lavoro è stato composto tredici anni or sono e che, poi, per mille motivi, non sono riusciti a pubblicarlo se non oggi. E due anni fa è morto vinto dal cancro il cantante Terry Jones, del quale possiamo apprezzare l’ultima performance in questo disco, che acquista inevitabilmente maggiore valore. I Pagan Altar sono un grande gruppo e questo album, molto piacevole e classico in tutti i sensi, conferma la loro bravura. Un ottimo ritorno.

Tracklist
01 Rising Of The Dead
02 The Portrait of Dorian Gray
03 Danse Macabre
04 Dance of the Vampires
05 The Room of Shadows
06 The Ripper
07 After Forever

Line-up
Terry Jones
Alan Jones
Diccon Harper
Andrew Green

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Manilla Road – To Kill a King

Up the hammers, down the nails ! …anche dopo 40 anni risuona fiera la “chiamata alle armi” da parte di Mark “the Shark” Shelton.

In un mondo musicale sempre affannato nel ricercare nuove sensazioni, sempre frenetico nell’accendere e spegnere nuovi generi musicali, è veramente un piacere potersi soffermare e assaporare l’arte di una band attiva da quarant’anni (40!!!).

I Manilla Road del leader Mark “the Shark” Shelton hanno creato un loro suono nel nome del più puro metallo epico di stampo americano, ricco di pathos, oscurità, mai ridondante e purtroppo dallo scarso appeal commerciale.
Strana storia quella dei Manilla Road, sempre sostenuti dai loro fans ma poco considerati a livello commerciale e boicottati da molti ascoltatori ricercanti, forse, un epic metal di più facile impatto; particolare la loro proposta modulata in 17 album ,con alcune vere gemme nel triennio 85-87 (Open the Gates,The Deluge, Mystification), ma con una buona produzione media, varia nel ricercare attraverso il guitar work sempre appassionato, intricato, epicamente melodico e la voce nasale di Mark l’oscura essenza di un suono che non ha trovato moderni epigoni. Le critiche mosse negli anni al leader sono state quelle di non essersi modernizzato con il suo suono, proponendo sempre, con poche variazioni, le stesse atmosfere; sinceramente mi sembra che siano critiche sterili: quando si trova una band che si è creata un proprio sound e rimane coerente con esso, suonando con competenza, passione e sudando “sangue” sui propri strumenti, bisogna solo ammirare e ascoltare con il cuore e non con il cervello. Anche la nuova opera, illustrata da una bella copertina di Paolo Girardi, offrendo dieci nuovi brani per un’ora di durata, ci dimostra come la “penna” dello Squalo, autore di tutti i brani, sia ancora intrisa di particolari idee melodiche intricate ed oscure, con soluzioni atmosferiche intriganti e coinvolgenti; la lunga title track, più introspettiva che classicamente epica, posta in apertura, ha una sentore antico e si conclude con un lungo assolo fluido, ispirato e molto sentito. Fragranze psichedeliche si ritrovano sparse per tutta l’opera (Never Again) mentre i brani più tirati (Conqueror e The Arena) ricordano una volta di più come si deve suonare heavy metal di classe. Dato non scontato, quando si parla dei Manilla Road, anche la produzione è buona, mentre alcune prove recenti ne erano state mortificate (vedi Playground of the Damned del 2011); per rincarare la dose ricordo a chi non si sazia mai di queste sonorità l’uscita del secondo disco del progetto parallelo, gli Hellwell, accreditato all’amico E. C. Hellwell, dove Mark scrive i testi e la musica suonando un heavy più duro, ancora più cupo e orrorifico.
In conclusione, “chapeau” a un artista che alla tenera età di sessant’anni è in grado di emozionare con la sua incontaminata arte!

Tracklist
1. To Kill a King
2. Conqueror
3. Never Again
4. The Arena
5. In the Wake
6. The Talisman
7. The Other Side
8. Castle of the Devil
9. Ghost Warriors
10. Blood Island

Line-up
Mark Shelton – Guitars, Vocals
Bryan “Hellroadie” Patrick – Vocals
Andreas Neuderth – Drums
Phil Ross – Bass

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