Nortt – Endeligt

Sono passati dieci anni ma Nortt sembra ancora più convinto nell’esplorare oscuri e vuoti abissi, ove non risiedono speranza ma solo morte e desolazione.

Perfetta sound track per un viaggio nell’inquietudine e nella disperazione.

Dopo dieci anni di silenzio discografico, Nortt ritorna a raggelarci con la sua arte ricolma di note funeral, black e doom perfettamente miscelate a creare una dark ambient disturbante e lugubre.
Il musicista danese, dopo “Galgenfrist” del 2007, scarnifica ulteriormente il suo suono e con poche note e suoni minimalisti offre nove composizioni lente, profonde, strazianti, da sentire nel profondo del nostro io; è musica che ci porta a un confronto continuo con noi stessi, con le nostre paure, con le nostre vite senza punti di riferimento, con un vuoto interiore difficile se non impossibile da colmare.
Il senso di morte, di abbandono, di tragicità che permeano ogni nota vanno al di là di ogni descrizione su carta, ognuno ha dentro di sé la propria interpretazione di questo mondo, che nelle note di Nortt appare maledetto e in disfacimento morale e materiale.
Pochi suoni all’interno dei brani delineano scenari di sconfinata e lugubre tragicità che raggiungono vette emozionali laceranti: in Afdo un tocco epico aggiunge splendore e magnificenza.
Le atmosfere, già terrifiche fin dall’inizio, raggiungono picchi di gelo e desolazione con il passare dei minuti e gli ultimi tre brani rilasciano segnali di morte non comuni, inerpicandosi su suoni dark ambient che non hanno nulla di umano.
Nortt afferma che negli ultimi dieci anni non ha registrato alcunché in quanto ha vissuto in un mondo dove non aveva necessità di farlo; sono passati dieci anni ma la sua arte sembra ancora più convinta nell’esplorare oscuri e vuoti abissi, ove non risiedono speranza ma solo morte e desolazione. Un grande ritorno!

Tracklist
1. Andægtigt dødsfald
2. Lovsang til mørket
3. Kisteglad
4. Fra hæld til intet
5. Eftermæle
6. Afdø
7. Gravrøst
8. Støv for vinden
9. Endeligt

Line-up
Nortt Everything

NORTT – Facebook

Malet Grace – Humanocide

Ottimo ritorno dei Malet Grace con questo ep intitolato Humanocide, consigliato agli amanti del metal dai gusti classici e progressivi, legati che siano al thrash o all’hard’n’heavy.

Dei Malet Grace vi avevamo parlato in occasione dell’uscita del debutto Malsanity, un ottimo lavoro che riuniva in un unico sound l’irruenza estrema del thrash con i ricami tecnici e le sfumature del metallo progressivo.

Ad oggi la band è tornata ad essere un duo dopo le registrazioni di questo mini cd per l’uscita dalla line up, a distanza di pochi giorni, della sezione ritmica (il batterista Andrea Giovanetti ed il bassista Andrea Paglierini).
Dunque i due fondatori (Gia,paolo Polidoro ed Alessandro Toselli) continuano la loro avventura con il monicker Malet Grace, ripartendo da Humanocide e dalla firma con la Spider Rock Promotion.
Cinque brani più intro per quasi mezzora di musica metal confermano le buone impressioni suscitate dal full length licenziato lo scorso anno, anche se il sound questa volta è meno soggiogato dall’elemento estremo ed è più in linea con il metal classico di ispirazione progressiva.
Ovviamente il thrash metal è presente, specialmente in alcune ritmiche mozzafiato (notevole The Constant Rhyme Of Perseverance) ma in generale la band questa volta lascia all’heavy metal più raffinato e progressivo il compito di introdurre l’ascoltatore nel proprio mondo.
Infatti, le varie Redemption Of Fear e Malerie mi hanno ricordato gli Eldritch più diretti, mentre Sometimes I Need To Die è una ballad in crescendo dalle atmosfere drammatiche, che placa ma non spezza la tensione comune a tutti i  brani presenti su Humanocide.
Ottimo ritorno dunque, e sperando che la band risolva i problemi legati alla line up, consiglio un ascolto agli amanti del metal dai gusti classici e progressivi, legati che siano al thrash o all’hard’n’heavy.

Tracklist
1.The Breath of a Psychotic Misfit
2.Redemption of Fear
3.Malerie
4.Sometimes I Need to Die
5.The Constant Rhyme of Perseverance
6.A Compensation of Souls

Line-up
G. Polidoro – Vocals/Lead and Rhythm guitar
A. Toselli – Lead and Rhythm guitar

MALET GRACE – Facebook

Sonic Prophecy – Savage Gods

Heavy power metal duro come il granito, epico ed oscuro come vuole la tradizione statunitense ma che guarda non poco al vecchio continente.

La Rockshots licenzia il terzo album di questa band statunitense chiamata Sonic Prophecy che si rivela uno dei primi sussulti classici di questo nuovo anno metallico.

Il gruppo di Salt Lake City, fondato nel 2009, ha lavorato non poco in questi primi nove anni di attività e Savage Gods è un enorme macigno metallico, melodico il giusto, pesante ed epico come nella migliore tradizione classica e che, pur mantenendo un approccio europeo, non tradisce le proprie origini.
Quindi come nella migliore tradizione statunitense il sound è pregno di oscurità, non accelera troppo ma dà la sensazione di un mastodontico pezzo di granito metallico, valorizzato dall’ottima interpretazione di Shane Provstgaard dietro al microfono e da assoli classici piazzati qua e là tra i brani.
L’apertura è lasciata alla title track che ci presenta una band compatta e forgiata nell’acciaio, tutto è possente ed oscuro ed il passaggio al singolo Night Terror è quasi obbligato; ottima l’accoppiata Dreaming Of The Storm/Man The Guns, la prima una semi ballad in crescendo, la seconda un brano che ricorda non poco gli Accept, mentre con Walk Trough The Fire si torna a cavalcare epici destrieri nelle pianure della terra metallica, prima di gridare al cielo il coro di A Prayer Before Battle.
I suoni escono puliti, la performance del gruppo è al top e per gli amanti del genere il risultato non può che essere sopra le righe: i Sonic Prophecy ci regalano un ottimo lavoro, e se l’originalità non abita tra lo spartito del gruppo con le varie influenze determinare per la formazione del sound, per i defenders duri e puri brani della caratura di Man And Machine sono chicche da non perdere per nessun motivo.
Heavy power metal duro come il granito, epico ed oscuro come vuole la tradizione statunitense ma che guarda non poco al vecchio continente, consigliato.

Tracklist
1.Savage Gods
2.Night Terror
3.Unhoy Blood
4.Dreaming of the Storm
5.Man the Guns
6.Walk Through the Fire
7.A Prayer Before Battle
8.Iron Clad Heart
9.Man and Machine
10.Chasing the Horizon

Line-up
Shane Provstgaard – Vocals
Darrin Goodman – Guitar
Sebastian Martin – Guitar
Ron Zemanek – Bass
Matt LeFevre – Drums

SONIC PROPHECY – Facebook

Malvento – Pneuma

I Malvento odierni raccolgono idealmente il testimone dell’occult metal italiano, portandolo fieramente lungo il tratto di percorso loro assegnato, con la consapevolezza di chi sa perfettamente che questa strada può essere ancora lunga e foriera di altri lavori di qualità eccelsa come Pneuma.

I campani malvento sono una delle band appartenenti alla scena black metal italiana nate ancora nel secolo scorso, per cui in questo caso è lecito parlare di una realtà collaudata e formata da musicisti esperti.

Una carriera così lunga ha fornito una produzione quantitativamente nella media, considerando che Pneuma è sì solo il quarto full length ma arriva a ben sette anni di distanza dal precedente.
Se prima ho parlato di black metal va doverosamente precisato che, con questo lavoro, si compie una sorta di definitivo distacco dal genere, almeno nella sua versione più canonica, portando a termine un processo iniziato già con Oscuro Esperimento Contro Natura.
Pneuma si snoda così come se si trattasse di un flusso guidato da un’oscura vena esoterica, nel corso del quale il vocalist Zim recita con un sussurro maligno testi in italiano di notevole impatto e profondità, appoggiati su un tessuto sonoro che fonde mirabilmente dark wave e dark ambient conferendo al tutto un senso melodico capace di fare la differenza.
Volendo fare un parallelismo con un’altra realtà nazionale tornata all’attività dopo un lungo silenzio, nel lavoro dei Malvento troviamo diversi punti di incontro, perlomeno a livello di approccio concettuale, con gli ultimi The Magik Way, però a mio avviso il trio partenopeo si rivela superiore proprio perché in grado di provocare un maggiore coinvolgimento emotivo.
A tale riguardo ritengo che tale risultato venga raggiunto proprio grazie a quella componente dark che porta, per esempio, un brano magnifico come Notte a sembrare un’ipotetica versione irrobustita e malevola dei Cure di Pornography; il tutto viene alternato a spunti ambient (con una fenomenale Vortex) che si trasformano nell’ideale colonna sonora di un rituale esoterico.
Non dobbiamo nasconderci dietro la falsa modestia negando che in Italia ci sia la maggiore concentrazione di band capaci di mettere in musica in maniera credibile tali tematiche, perpetuando una tradizione che viene da lontano e che abbraccia trasversalmente in vari generi: i Malvento odierni raccolgono idealmente tale testimone portandolo fieramente lungo il tratto di percorso loro assegnato, con la consapevolezza di chi sa perfettamente che questa strada può essere ancora lunga e foriera di altri lavori di qualità eccelsa come Pneuma.

Tracklist:
1. Pneuma (Intro)
2. Notte
3. La via sinistra
4. L’incanto
5. Vortex
6. Respiro notturno
7. Apuania
8. Le danze
9. Il risveglio (Outro)

Line-up:
Zin – Bass, Vocals
Nefastus – Drums, Guitars
Whip – Synthesizer, Programming

MALVENTO – Facebook

The Negative Bias – Lamentation of the Chaos Omega

Il black metal può risultare efficace sia nella sua forma più scarna e primitiva sia in quelle più trasversali ed inquiete, come lo è questa, quando a fare la differenza sono la credibilità e la competenza dei suoi interpreti.

A conferma di quanto il black metal possa offrire una quantità pressoché infinita di interpretazioni, ecco giungere l’esordio degli austriaci The Negative Bias.

Fin dalle prime note appare evidente come da questo Lamentation of the Chaos Omega ci sia da attendersi grande musica offerta con cura dei particolari e una mirabile misura nel dosaggio dei diversi elementi che ne vanno a comporre il sound.
The Golden Key To A Pandemonium Kingdom è infatti un brano magnifico con il quale il trio viennese di lancia a perdifiato in un’esibizione di odio cosmico che in questo case gode di ottime linee melodiche, così come la successiva traccia Journey Into The Defleshed Paradise (se possibile ancora più bella dell’opener) e che, in seguito, andrà a spaziare anche su territori ambient/avanguardisti senza mai perdere il filo del discorso.
Come si diceva pocanzi, il black può risultare efficace sia nella sua forma più scarna e primitiva sia in quelle più trasversali ed inquiete, come lo è questa, quando a fare la differenza sono la credibilità e la competenza dei suoi interpreti.
I The Negative Bias danno ampie garanzie in tal senso ed offrono un album di raro spessore in ogni frangente, sia quando spingono al massimo i motori (Tormented By Endless Delusions) sia quando arrestano la loro corsa in una sorta di distaccata contemplazione del caos (Cryptic Echoes From Beyond Dimensions).
Lamentation of the Chaos Omega è un album pressoché perfetto, un altro di quelli che avrebbe meritato a posteriori una posiziono di rilievo nelle nostre classifiche di fine anno: I.F.S. ha costruito un progetto destinato a lasciare il segno, perché non è così consueto ascoltare una prima uscita, per quanto ad opera di musicisti di comprovata esperienza, così ben focalizzato in ogni suo aspetto (esecuzione, concept e produzione).

Tracklist:
1 The Golden Key To A Pandemonium Kingdom
2 Journey Into The Defleshed Paradise
3 Tormented By Endless Delusions
4 The Undisclosed Universe Of Atrocities
5 Cryptic Echoes From Beyond Dimensions
6 And Darkness Should Be The End Of Cosmic Faith

Line-up:
I.F.S – Vocals, Lyrics, Concept,
S.T – Studio Strings
Florian Musil – Studio Drums

THE NEGATIVE BIAS – Facebook

Seeds Of Mary – The Blackbird And The Dying Sun

Le prime prediche del reverendo Manson, qualche accenno alla romantica decadenza dei Type O’ Negative e l’hard rock proveniente dalla piovosa Seattle degli Alice In Chains, compongono la struttura su cui poggia il sound del gruppo transalpino, a tratti perfettamente funzionante, in altri un po’ meno.

Nuovo lavoro per i francesi Seeds Of Mary, gruppo proveniente da Bordeaux ed attivo da circa sei anni.

Il quartetto transalpino arriva con The Blackbird and the Dying Sun al quarto lavoro, confermando una buona costanza nelle uscite con nuova musica licenziata praticamente ogni anno dal 2013 poi.
Il nuovo lavoro non si discosta dalle passate uscite seguendo la via tracciata con ancora una volta in primo piano un metal/rock alternativo, pregno di atmosfere gothic, moderne e dalle reminiscenze grunge: le prime prediche del reverendo Manson, qualche accenno alla romantica decadenza dei Type O’ Negative e l’hard rock proveniente dalla piovosa Seattle degli alice In Chains, compongono la struttura su cui poggia il sound del gruppo transalpino, a tratti perfettamente funzionate altri un po’ meno.
Il problema di The Blackbird And The Dying Sun è la prolissità, più di un’ora con le stesse atmosfere e sfumature ripetute all’infinito fanno perdere l’attenzione anche a chi del genere è amante incondizionato.
La prima parte dell’album mostra una band che, con buona padronanza del songwriting, alterna le sue ispirazioni con brani dal taglio più alternativo seguiti da altri più oscuri, con il rock ed il metal moderno che si dividono gli onori di brani come I Am Not Afraid, l’hard rock della seguente Here Comes The Night, il metal moderno della mansoniana Lord Of The Flies e il Seattle sound di Like A Dog.
Come detto, a lungo andare The Blackbird And The Dying Sun si perde un po’ lasciando al rock intimista e dark di Oceanic Feeling la palma di miglior brano della seconda parte del cd.
Un album che, tagliando qualche riempitivo, avrebbe lasciato più ricordi in chi ascolta, ma che per una manciata di buoni brani si porta a casa un giudizio più che sufficiente.

Tracklist
1. I Am Not Afraid
2. Here Comes the Night
3. Lord of the Flies
4. What Have We Done
5. Like a Dog
6. The Blackbird
7. The Dying Sun
8. Sovereign Mind
9. Sense of Sacrifice
10. Oceanic Feeling
11. Vice & Virtue
12. Back to the Woods

Line-up
Jérem – Vocals
Julien – Guitars
Raph – Guitars, Vocals
Eliott – Bass, Vocals
Aaron – Drums

SEEDS OF MARY – Facebook

Avatar – Avatar Country

Gli Avatar si confermano gruppo assolutamente sui generis, forse anche troppo per l’orecchio conservatore di molti ascoltatori di musica metal, i quali potranno sempre rivolgersi ai gruppi che difendono la vera fede metallica in altre sedi, ma qui si fa musica bella ed originale senza barriere né confini.

Siamo arrivati al settimo album della saga targata Avatar, una delle band più originali e sorprendenti che il metal possa annoverare tra le sue fila.

Nato come melodic death metal band, infatti, il gruppo svedese ha cambiato pelle non solo tra un album e l’altro ma addirittura all’interno della stessa opera, lasciando pochissimi punti di riferimento stilistici e passando tra i generi dei più disparati come un ape in un bellissimo prato fiorito.
Capitanati dall’incredibile ugola del singer Johannes Michael Gustaf Eckerström, capace come la musica di trasformarsi a suo piacimento in un singer death ed un attimo dopo lanciare il suo grido di battaglia dai toni power metal, per poi avanzare marziale come un cantante industrial metal, la band ci consegna un concept incentrato sulla storia di un uomo destinato a diventare un re, arrivato nell’arida terra di Avatar per regnare a colpi di metal, vario, alternativo e soprattutto fuori dagli schemi.
L’album parte magnificamente con l’intro Glory To Our King, che lascia spazio al power metal della poderosa Legend Of The King per poi aprirsi al modern southern rock di The King Welcome You To Avatar Country; King’s Harvest è un brano moderno e dalle reminiscenze industrial, mentre A Statue Of The King è un massacro alla Slipiknot, fino al chorus che torna al metal più classico.
Avatar Country è una continua altalena di sorprese, un luna park di emozionante musica moderna che non conosce barriere né confini, suonata in modo impeccabile e non potrebbe essere altrimenti visto i continui cambiamenti di umori e velocità.
King After King è una semi ballad dal tiro tradizionalmente heavy, attraversata da un assolo nella parte centrale, mentre le due parti di Silent Song Of The King concludono l’album: la prima, Winter Comes When the King Dreams of Snow è un’intro atmosferica che ci accompagna verso la seconda parte, The King’s Palace, traccia strumentale che conclude questo ottimo e variopinto lavoro.
Gli Avatar si confermano gruppo assolutamente sui generis, forse anche troppo per l’orecchio conservatore di molti ascoltatori di musica metal, i quali potranno sempre rivolgersi ai gruppi che difendono la vera fede metallica in altre sedi, ma qui si fa musica bella ed originale senza barriere né confini.

Tracklist
1. Glory to Our King
2. Legend of the King
3. The King Welcomes You to Avatar Country
4. King’s Harvest
5. The King Wants You
6. The King Speaks
7. A Statue of the King
8. King After King
9. Silent Songs of the King Pt. 1: Winter Comes When the King Dreams of Snow
10. Silent Songs of the King Pt. 2: The King’s Palace

Line-up
Johannes Michael Gustaf Eckerström – Vocals
John Alfredsson – Drums
Kungen – Guitars
Tim Öhrström – Guitars
Henrik Sandelin – Bass

AVATAR – Facebook

Wojczech / Krupskaya – Wojczech / Krupskaya

La 7 Degrees Records ci presenta uno split in versione 12″ che vede alternarsi due band attive nella scena underground estrema: i tedeschi Wojczech e i britannici Krupskaya.

La 7 Degrees Records ci presenta uno split in versione 12″ che vede alternarsi due band attive nella scena underground estrema: i tedeschi Wojczech e i britannici Krupskaya.

I primi si possono ormai considerare dei veterani della scena death/grind:  la loro data di inizio delle belligeranze risulta il 1993 ed in tutti questi anni il quartetto non è stato certo a guardare, pubblicando una vagonata di split insieme ad altrettante band provenienti dai più svariati paesi e due full length, Sedimente, uscito nel 2005 e Pulsus Letalis, targato 2010.
Il loro sound è un massacrante e moderno death/grind supportato dalla doppia voce, e si spinge in territori vicini al black metal per una buona alternanza di ritmiche ed umori estremi che favoriscono l’ascolto.
Sickening Discretion sa di death metal scandinavo, portato alle estreme conseguenze da un massacro ritmico tipico del grind risultando un brano davvero interessante; una band da seguire e senz’altro da rivalutare per gli amanti del genere che avranno di che sorridere mentre la propria testa comincerà a sanguinare per i colpi inferti dai Krupskaya e dai loro quattro potentissimi brani.
Meno conosciuto e poco incline a lasciare informazioni è invece il gruppo proveniente da Stoke-on-Trent, attivo da una dozzina d’anni, con un curriculum fatto di un paio di lavori e varie compilation, più gli immancabili split da tradizione nel genere, che si rifà ai maestri inglesi Napalm Death.
Quindi eccoci di fronte ad un grind devastante e feroce, suonato da una macchina da guerra estrema che non fa prigionieri e che nella sua poca originalità ha nell’impatto la sua travolgente forza.
La band ci presenta quattro brani,tra i quali Frozen Bodies Against The Wire e Skin Of The Cruciform To Ash risultano devastanti esempio di grind, tra rallentamenti al limite dello sludge e ripartenze fulminee e letali.
Due gruppi molto diversi tra loro ma allo stesso tempo portatori di musica estrema senza compromessi.

Tracklist
1.Wojczech – Burning Solids
2.Wojczech – Sickening Discretion
3.Wojczech – Stunde des Wolfes
4.Krupskaya – Frozen Bodies Against the Wire
5.Krupskaya – A Dawn of Shattered Silence
6.Krupskaya – Theosophical Separation of Earth
7.Krupskaya – Skin of the Cruciform to Ash

Line-up
Krupskaya:
Alex – vocals
Tim – guitar
Ed – drums

Wojczech:
Stephan Gottwald – Drums
Stephan Kurth – Guitars, Vocals
Danilo Posselt – Vocals
Andy Colosser – Vocals, Bass

WOJCZECH – Facebook

KRUPSKAYA – Facebook

Graveyard Of Souls – Mental Landscapes

Chicote dimostra ampiamente d’essere un musicista rispettabile e ciò rende sicuramente gradevole un disco che potrebbe rappresentare, in qualche modo, un punto di svolta per i Graveyard Of Souls, fino ad oggi interpreti onesti ma non di di primissimo piano della materia death doom.

I Graveyard Of Souls sono una band attiva da inizio decennio e con alle spalle già un buon numero di full length.

Questa volta Angel Chicote decide di fare tutto da solo rinunciando al consueto apporto del vocalist Raul Weaver, il quale è sempre stato presente nei precedenti lavori: il risultato è un album interamente strumentale come Mental Landscapes, la cui uscita segue di circa sei mesi quella del precedente Pequeños fragmentos de tiempo congelado.
Tale scelta condiziona inevitabilmente lo sviluppo del sound, che perde per strada le ruvidezze del death doom, non solo per l’assenza del growl, orientandosi verso sonorità più ariose e di buon impatto melodico: ne scaturisce un lavoro senz’altro gradevole, per molti aspetti più riuscito dei suoi predecessori dalla configurazione più canonica, anche se la soluzione integralmente strumentale finisce per favorire una certa ripetitività.
D’altronde, parlando proprio di Pequeños … rimarcavo il fatto che a mio avviso i Graveyard Of Souls offrivano il meglio appunto nelle parti melodiche, mentre la maggior parte dei dubbi sorgeva allorché il duo si spingeva verso sonorità più robuste o ritmate: in effetti, con questa configurazione l’album si mostra più morbido e scorrevole, esibendo alcuni brani davvero molto belli (uno tra tutti il trascinante Eclipse)
Essendoci stata fornita l’occasione di ascoltare i Graveyard of Souls in un’altra veste, non si può fare a meno di apprezzare quest’ultima incarnazione, anche se la soluzione ideale, in futuro, potrebbe essere proprio quella di proseguire su questa linea tornando ad inserire le parti vocali, magari modulandole rispetto ad un’espressione musicale meno estrema.
Chicote dimostra ampiamente d’essere un musicista rispettabile e ciò rende sicuramente gradevole un disco che potrebbe rappresentare, in qualche modo, un punto di svolta per i Graveyard Of Souls, fino ad oggi interpreti onesti ma non di di primissimo piano della materia death doom.

Tracklist:
1.Cloud fields
2.En la oscuridad está nuestro hogar
3.The last dawn of mankind
4.Où sont passés ces jours?
5.Eclipse
6.Way of hell
7.Floating in the amniotic Eden
8.Farvel

Line-up:
Angel Chicote

GRAVEYARD OF SOULS – Facebook

Bleeding Gods – Dodekathlon

L’ascoltatore si rimbocca le maniche ed aiuta Ercole nelle sue leggendarie dodici fatiche, tra sfuriate death/thrash e atmosfere oscure che le orchestrazioni epico guerresche rendono ancora più mastodontiche.

Puntuale arriva la prima bomba death metal del nuovo anno.

A lanciarla è la Nuclear Blast che prende tra le sue fila gli olandesi Bleedings Gods e licenzia il loro nuovo album, Dodekathlon, un epico e monumentale lavoro di death metal old school, tra ritmiche thrash, orchestrazioni e tanto metal estremo made in Netherlands.
Le dodici fatiche di Ercole sono raccontate da questi cinque dei dell’olimpo estremo di chiara ispirazione orange, ma senza tralasciare (specialmente in questo album) di richiamare altri nomi immortali del death epico ed oscuro come i Septic Flesh, gli Hypocrisy, i nostrani Fleshgod Apocalypse e gli ultimi micidiali Kreator.
La band, al secondo lavoro, sforna un gioiellino che nel genere fa piazza pulita, essendo suonato con l’esperienza di musicisti in giro da anni a martoriare strumenti sui palchi di mezzo mondo.
L’ascoltatore si rimbocca le maniche ed aiuta Ercole nelle sue leggendarie dodici fatiche, tra sfuriate death/thrash, atmosfere oscure che le orchestrazioni epico guerresche rendono ancora più mastodontiche: From Feast To BeastBirds Of Hate, dove i Kreator incontrano la band olandese per una jam estrema nella dimora degli dei, Savior Of Crete, l’intermezzo strumentale Tyrannical Blood, che con le sue armonie acustiche accompagnate da un recitato ci introduce alle ultime quattro fatiche, e la sinfonia estrema di Tripled Anger che non lascia scampo, sono i brani da sottolineare in una tracklist che non ha cedimenti.
Con Hound Of Hell si concludono le fatiche del nostro eroe e questo bellissimo lavoro, ma il leggendario guerriero è destinato a fare gli straordinari perché premere nuovamente il tasto play è inevitabile.
Dodekathlon è un’opera bellissima ed emozionante, suonata divinamente e nobilitata da un songwriting di un’altra categoria.

Tracklist
1.Bloodguilt
2.Multiple Decapitation
3.Beloved By Artemis
4.From Feast To Beast
5.Inhuman Humiliation
6.Birds Of Hate
7.Saviour Of Crete
8.Tyrannical Blood
9.Seeds Of Distrust
10.Tripled Anger
11.Hera´s Orchard
12.Hound Of Hell

Line-up
Mark Huisman – Vocals
Ramon Ploeg – Guitar
Gea Mulder – Bass & Backing vocals
Rutger van Noordenburg – Guitar
Daan Klemann – Drums

BLEEDING GODS – Facebook

Funeral Chant – Funeral Chant

Il lavoro scorre via feroce e d’impatto, con la traccia d’apertura che mostra il meglio dei Funeral Chant ed il resto dei brani che si attestano su un livello non dissimile, con il pregio non da poco di rifuggire per quanto possibile la ripetitività.

Esordio per i Funeral Chant, quintetto californiano nato dalle ceneri di un’altra band denominata Dead Man.

Il genere offerto in questi quattro brani abbraccia lo spettro delle sonorità estreme, con il black metal a fungere da base per escursioni su territori death e thrash: il sound è diretto ma non privo di una certa ricercatezza, anche se a livello di produzione la voce sembra provenire dall’abituale sgabuzzino adiacente la sala di registrazione, ma si tratta di un’evenienza cosi frequente che fa pensare più ad una precisa scelta che non ad imperizia.
Detto ciò, il lavoro scorre via feroce e d’impatto, con la traccia d’apertura che mostra il meglio dei Funeral Chant ed il resto dei brani che si attestano su un livello non dissimile, con il pregio non da poco di rifuggire per quanto possibile la ripetitività.
Chiaramente, per emergere in maniera più decisa al prossimo giro sarà necessario approdare ad un sound maggiormente identificabile, oltre che ritoccare alcune sbavature che non impediscono a questo primo passo dei Funeral Chant di rivelarsi piuttosto godibile.

Tracklist:
1. Spiral into Madness
2. Cacophony of Death
3. Flood of Damnation
4. Cosmic Burial
5. Morbid Ways (Repugnant cover)
6. Funeral Chant

Line-up:
Cruel Force: drums
Doom of Old: guitar
† Voidbringer: vocals, guitar
Vomitor: bass guitar

FUNERAL CHANT – Facebook

Dragonsfire – Visions Of Fire

Visions Of Fire risulta un album trascurabile a meno che non siate devoti all’ascolto del solo power metal e le vostre preferenze, anche nel genere, non cadano nel classico palla lunga e pedalare dei gruppi vissuti all’ombra delle band icona.

I power metallers tedeschi Dragonsfire riesumano il loro primo album uscito nel 2008 per la Pure Steel intitolato Visions Of Fire.

La band, attiva da una dozzina d’anni, ha fin qui licenziato questo lavoro più un altro full length intitolato Metal Service, uscito due anni dopo l’esordio, più altri due ep ed uno split con i compagni di bevute Steelpreacher, anch’essi votati all’heavy power metal senza compromessi.
Visions Of Fire risulta un album trascurabile a meno che non siate devoti all’ascolto del solo power metal e le vostre preferenze, anche nel genere, non cadano nel classico palla lunga e pedalare dei gruppi vissuti all’ombra delle band icona.
Il povero Thassilo Herbert, scomparso due anni fa, era un cantante ruvido ed aggressivo ma di poco carisma e monocorde, ed il suo cantato accompagnava una serie di cliché che fanno dell’ascolto un tuffo nel power metal scolastico e acerbo, sicuramente non le credenziali giuste per assicurarsi un minimo di interesse, in tempi in cui il genere non è più tra le preferenze dei fans e le semplici cavalcate con il doppio pedale sono state travolte dall’approccio sinfonico e progressivo dei nuovi eroi del metal dai rimandi classici.
Una proposta, dunque, che non credo possa trovare più estimatori della prima volta in cui questa raccolta di brani ha fatto la sua comparsa sul mercato, anche allora in ritardo sul tabellino dell’interesse dei true defenders.
Wings Of Death, la successiva Dragonsfire Rockxxx, l’epica Burning For Metal e Shine On, non fosse per la voce poco adatta al genere, risulterebbero delle power metal songs d’impatto e vicino a quanto fatto da gruppi come Unrest o Rebellion, pur non andando oltre una sufficienza risicata e meritata solo per un’attitudine ed un impatto che sono le uniche virtù del combo tedesco.

Tracklist
1.Devil’s Road
2.Wings of Death
3.Dragonsfire Rockxxx
4.Burning for Metal
5.Rebellion – The Kingdom of Heaven
6.The Defendant
7.Shine On
8.The Other One
9.Oath of Allegiance

Line-up
Jan Müller – Drums
Matthias Bludau – Guitars
Timo Rauscher – Guitars
Thassilo Herbert – Vocals, Bass

DRAGONSFIRE – Facebook

My Silent Wake – There Was Death

Tutta la vostra attenzione dovrà andare al puro ascolto per questo nuovo album. Non c’è tempo per discutere, i My Silent Wake, come sempre, pensano solo a produrre sensazioni, riuscendoci nuovamente.

C’è del marcio, ma non solo, in There Was Death dei My Silent Wake. Ebbene sì, perché questa band inglese dalla fama sempre maggiore, che ha fatto parlare di sé soprattutto con il riuscitissimo album del 2007, The Anatomy of Melancholy, non si chiude mai ad una sola via stilistica.

Anche in questo nuovo lavoro, l’impatto sonoro che ci viene restituito è molto difficile da etichettare con una definizione ben precisa. Gran punto a favore, certamente, perché l’unica cosa che ci resta da fare è semplicemente aprire le orecchie ed ascoltare. Per tutta la durata dell’album, così come è sempre stato nelle loro corde, c’è una fondamentale vena malinconica, a tratti disperata. Stavolta però, a differenza di tante produzioni precedenti, la malinconia è accompagnata dal vigore e dalla forza sonora a tutti gli effetti. Ma non illudetevi, perché anche quest’ultima è perfettamente in sintonia con l’animo di questa band, ed anzi accentua gli aspetti più crudi della tristezza.
Ascoltando brani come la traccia di apertura A Dying Man’s Wish o Ghost of Parlous Lives, è inevitabile avvertire la sensazione di un vuoto totale che si espande sempre di più. I My Silent Wake riescono ancora una volta a restituirci quest’immaginario al meglio possibile. C’è una grande componente eterea, inafferrabile, che scorre per tutta la durata dell’album.
In questo sta, ancora una volta, la grande forza espressiva oltre che tecnica di questa band.

Tracklist
1. A Dying Man’s Wish
2. Damnatio Memoriae
3. Killing Flaw
4. Ghosts of Parlous Lives
5. Mourning the Loss of the Living
6. There Was Death
7. Walls Within Walls
8. No End to Sorrow
9. An End to Suffering

Line-up
Ian Arkley: Guitar, Vox
Addam Westlake: Bass
Gareth Arlett: Drums
Mike Hitchen: Live guitar and Vox
Simon Bibby: Keys, Vox

MY SILENT WAKE – Facebook

Corrosion Of Conformity – No Cross No Crown

I Corrosion Of Conformity sanno suonare rock pesante e licenziano un altro best seller che si aggiunge alla loro discografia, alzando l’asticella quanto basta per risultare inarrivabili per almeno il 90% dei gruppi odierni.

Pepper Keenan è tornato nel gruppo e i Corrosion Of Conformity tornano a fare hard southern rock stonerizzato come ai tempi di Deliverance e Wiseblood.

Questo, in breve, è quello che troverete sul nuovo lavoro firmato dalla leggendaria band del North Carolina, per molti di nuovo in corsa per il trono del genere, per il sottoscritto mai scesi dallo stesso neppure dopo il precedente lavoro, IX, registrato con la formazione a tre ormai quattro anni fa.
Dunque, dopo una decade al servizio dei Down, il chitarrista e cantante torna a riunire la banda che ha fatto scintille da Deliverance (uscito nel 1994) fino a In The Arms Of God (2005), anche se il capolavoro Blind rimane uno dei più riusciti esempi di alternative metal degli anni novanta, mentre l’ultimo lavoro era un calcio nel deretano hardcore di dimensioni bibliche.
I Corrosion Of Conformity sanno suonare rock pesante e licenziano un altro best seller che si aggiunge alla loro discografia, alzando l’asticella quanto basta per risultare inarrivabili per almeno il 90% dei gruppi odierni, aiutati da uno stato di grazia compositivo e da una voglia ancora intatta di suonare metal come lo si fa negli stati del sud, soffocati dal caldo, morsi da coccodrilli e serpenti e soggiogati da rituali voodoo.
Woody Weatherman, Mike Dean e Reed Mullin, dopo l’ottimo lavoro precedente che ispirava vecchie reminiscenze hardcore, con il nuovo supporto di Keenan, stordito dalla potenza sludge dei Down, tornano a fare quello per cui sono diventati la più grande band statunitense degli ultimi trent’anni tra quelle che non siano uscite dalle strade di Seattle: il loro è un hard rock massiccio, marcio e stonato, animato da una vena southern di livello superiore e No Cross No Crown, grazie ad un lotto di brani che sono la bibbia del southern/stoner metal, è la prova tangibile del fatto con i Corrosion Of Conformity si dovranno fare i conti ancora a lungo, piaccia o meno.
Registrato in North Carolina con il produttore John Custer, l’album è un concentrato di rock pesantissimo alla maniera della band, un via vai di mid tempo mastodontici che mescolano al loro interno almeno trent’anni di rock ‘n ‘roll, per vomitarlo poi in una lava incandescente che esce dalla bocca di un vulcano, pregno di groove come nell’uno due mortale The Luddite / Cast In The First Stone, folgorante inizio di questo lavoro.
La band ci invita a sabba psichedelici ed introspettivi come nella title track, mentre le casse tremano, le cuffie si sciolgono e gli stereo continuano a far girare i cd ma della plastica rimane solo un ammasso di vischiosa ed informe materia.
Wolf Named Crow, Nothing Left To Say, Old Disaster, ma potrei nominarvele tutte come nessuna, sono alcune delle  tracce (ben quindici) che compongono questo ennesimo monumento musicale targato Corrosion Of Conformity, fatelo vostro e segnatelo come migliore album del genere di questo nuovo anno, anche se siamo solo a gennaio …

Tracklist
01. Novus Deus
02. The Luddite
03. Cast The First Stone
04. No Cross
05. Wolf Named Crow
06. Little Man
07. Matre’s Diem
08. Forgive Me
09. Nothing Left To Say
10. Sacred Isolation
11. Old Disaster
12. E.L.M.
13. No Cross No Crown
14. A Quest To Believe (A Call To The Void)
15. Son And Daughter

Line-up
Pepper Keenan – Vocals, Guitars
Woodroe Weatherman – Guitars
Mike Dean – Bass, Vocals
Reed Mullin – Drums, Vocals

CORROSION OF CONFORMITY – Facebook

Inner Hate – Reborn Through Hate

Se gli Inner Hate dovessero mantenere questo livello per un intero full length sarebbe davvero un colpo notevole, quindi il consiglio è quello di non perdersi questo ep attendendo al più presto altre buone nuove da parte di questa ennesima notevole realtà nazionale.

La Sicilia è terra di rock e di metal: i gruppi delle varie scene sparse sul territorio sono stati ampiamente trattati da MetalEyes, che da anni ha dedicato la giusta attenzione alle più meritevoli realtà nate a sud dello stretto.

E’ quindi con piacere che vi presentiamo i thrashers Inner Hate, trio proveniente da Caltanissetta composto da Daniel Ferrara (voce, chitarra), Matt Amodeo (basso) e l’ex Thrash Bombz Vincenzo Lombardi (batteria).
La band si è formata nel 2013 ed ha già dato alle stampe un primo ep, First Hate To The World: Reborn Through Hate, anche per l’entrata in formazione di Lombardi, è un nuovo inizio per gli Inner Hate che, quattro anni dopo, tornano a mietere vittime con il loro metal estremo che si nutre di thrash come di death metal di matrice scandinava, costruendosi un sound personale ed assolutamente coinvolgente.
I quattro brani risultano altrettante esplosioni di adrenalinico metal estremo, old school nell’attitudine, violentissimo nell’impatto e valorizzato da un ottimo lavoro strumentale: nei riff di scuola scandinava troviamo la perfetta commistione con le ritmiche thrash, a formare una sacra alleanza che affianca i Kreator agli Entombed e ai primi Edge Of Sanity.
Funziona alla grande questa fusione di note nata sulle rive del mediterraneo, un patto mortale tra generi “nordici” nel caldo delle terre siciliane, mentre la devastante Time To Kill lascia spazio alla conclusiva title track, un brano perfetto per attendere l’armageddon.
Se gli Inner Hate dovessero mantenere questo livello per un intero full length sarebbe davvero un colpo notevole, quindi il consiglio è quello di non perdersi questo ep attendendo al più presto altre buone nuove da parte di questa ennesima notevole realtà nazionale.

Tracklist
1.Sentenced to Damnation
2.Unholy Cross of Death
3.Time to Kill
4.Reborn Through Hate

Line-up
Mattia Amodeo – Bass
Daniel Ferrara – Guitars, Vocals
Vincenzo Lombardi – Drums

INNER HATE – Facebook

Lorelei – Teni Oktyabrya (Shadows Of October)

I Lorelei ripropongono un gothic doom di matrice fortemente “draconiana” e con un notevole gusto melodico, il che consente loro di offrire con buona continuità brani intensi, intrisi di un sentore malinconico e marchiati con forza dall’imprinting di quella che, ormai, si può definire una scuola vera a propria in ambito doom come quella russa.

I russi Lorelei avevano dato alle stampe una delle opere migliori in ambito gothic doom del 2013 con Ugrjumye Volny Studenogo Morja, e dopo oltre quattro anni ritornano finalmente con il suo successore intitolato Teni Oktyabrya (Shadows Of October).

Anche se quattro anni non sono pochi, tutto sommato le coordinate del sound sono rimaste le stesse, il che non è poi un male, vista l’alta qualità esibita in passato: le variazioni fondamentali riguardano l’ingresso in pianta stabile di un vocalist dedito al growl, nella persona di Alexey Kuznetsov (Locus Titanic Funus), quando invece nel precedente lavoro queste parti erano state affidate in qualità di ospite ad uno dei personaggi più influenti della scena doom moscovita quale è Evander Sinque, e la quasi totale rinuncia all’apporto della voce femminile, relegata ad uno sporadico ruolo di mero accompagnamento.
Nello scambio i Lorelei non ci rimettono e non ci guadagnano, perché tutto sommato Kuznetsov si rivela un ottimo interprete, mentre il venir meno del consueto fraseggio tra la bella e la bestia rende per certi versi meno scontato il tutto, rendendo il tutto però leggermente meno vario.
La band guidata da Alex Ignatovich ripropone un gothic comunque di matrice fortemente “draconiana” e con un notevole gusto melodico, il che consente di offrire con buona continuità brani intensi, intrisi di un sentore malinconico e marchiati con forza dall’imprinting di quella che, ormai, si può definire una scuola vera a propria in ambito doom come quella russa.
Come per il suo predecessore, ai fini di un potenziale sbocco commerciale al di fuori dei confini dell’ex-Urss, Teni Oktyabrya potrebbe soffrire la scelta dei Lorelei di proseguire con la loro autarchia lirica, continuando a sciorinare il tutto in lingua madre, cosa che inevitabilmente qualcosina lascia per strada a livello di immediata fruibilità.
Personalmente ritengo la cosa men che veniale, per cui invito caldamente ogni appassionato ad ascoltare questo bellissimo lavoro, che a mio avviso è un autentico esempio di come debba essere trattata la materia, andando dritti all’obiettivo senza divagazioni di sorta, mantenendo quell’aura tragicamente romantica che magari non sarà una novità ma che, nel contempo, non ci stanca mai di ascoltare: i Lorelei gratificano l’ascoltatore con una serie di brani fluidi e convincenti come Ya – Severniy Veter, la title track, Temnaya Voda e la superba e conclusiva Canticum Angelorum, suggello di un lavoro di notevole qualità.

Tracklist:
1. Into…
2. Ya – Severniy Veter
3. Morskaya
4. Sentyabr
5. I Tiho Vetly Shelestyat
6. Teni Oktyabrya
7. Severniy Bereg
8. Temnaya Voda
9. Noyabr
10. Canticum Angelorum

Line-up:
Alexey Ignatovich – Guitars, Vocals (additional), Songwriting, Lyrics
Marina Ignatovich – Keyboards, Songwriting
Alexander Grischenko – Bass
Egor Loktev – Guitars, Vocals (additional)
Maria Kiverina – Vocals
Alexey Kuznetsov – Vocals

LORELEI – Facebook

Marginal – Total Destruction

Total Destruction convince, il sound rimane ancorato al death metal anche se hardcore e grind lo violentano esaltandone la parte distruttiva, mentre i rallentamenti classici del genere si alternano a sfuriate devastanti come una pioggia di napalm.

L’attivissima Transcending Obscurity ci presenta i Marginal, gruppo belga la cui proposta estrema è un grindcore/crust davvero ben fatto, distruttivo e senza compromessi.

Il quintetto, nato quattro anni fa rilascia questo devastante lavoro composto da mezzora scarsa di metal estremo old school, influenzato dall’hardcore e considerato dal gruppo come la colonna sonora della distruzione totale.
Testi di denuncia contro il sistema corrotto che, come un virus, infetta i governi mondiali e un approccio altamente esplosivo fanno di questo massacro in musica un’ottima sorpresa per i fans del genere, attirati dall’artwork che ricorda non poco i Discharge, idoli incontrastati dei musicisti della scena grindcore (Napalm Death, Extreme Noise Terror).
Total Destruction convince, il sound rimane ancorato al death metal anche se hardcore e grind lo violentano esaltandone la parte distruttiva, mentre i rallentamenti classici del genere si alternano a sfuriate devastanti come una pioggia di napalm.
Il growl è tipico del metallo di morte, profondo e abissale, niente a che vedere con i grugniti a cui ci hanno abituato molte delle band nate negli ultimi tempi, e i brani mantengono una perfetta forma canzone così da essere apprezzati anche dagli amanti del death metal old school.
I dodici brani superano a stento i due minuti, a parte Red Kebab, che per metà della sua durata viaggia nel lento incedere del doom/death per poi cambiare marcia e, come un vento atomico, spazzare via tutto.
Total Destruction, nel genere, è un lavoro riuscito e perfettamente in grado di reggere il confronto con le opere dei colleghi più famosi, sta a voi dargli una chance.

Tracklist
1. Barbarians
2.Delirium Tremens
3.Ruination
4.Impaled
5.Useless Scum
6.I Used to be Intelligent
7.Rat Kebab
8.The Violent Way
9.Leech Invader
10.Fucked Up Society
11.Atom Sapiens
12.Total Destruction

Line-up
Johan – Vocals
Timmy – Guitar
Martin – Guitar/Vocals
Steven – Drums
Rui – Bass

MARGINAL – Facebook

Apparition – The Awakening

The Awakening si può confondere nell’immenso universo del metal sinfonico, ma all’ascolto regala sfumature varie che ne fanno un album personale e meritevole d’attenzione da parte degli amanti dei suoni melodici a sfondo dark/gotico.

Una delle prime uscite targate Wormholedeath di questo nuovo anno si veste di pizzo e merletti, usa il fioretto invece della sciabola e ci delizia con un raffinato metal melodico, dai rimandi gothic/dark, anche se non accentuati come nelle proposte abituali nel metal con voce femminile.

Si parla dell’ultimo lavoro degli Apparition, gruppo proveniente dal Regno Unito che ha i suoi natali addirittura nel 1997, ma che di fatto vede la sua partenza discografica nel 2004, sempre per volontà del bassista David Homer.
Terzo lavoro sulla lunga distanza, una line up che negli anni ha cambiato i suoi protagonisti fino alla formazione che troviamo su quest’ultimo album e che vede lo storico bassista affiancato da Ashley Guest alle pelli, Amy Lewis e Paul ‘Kull’ Culley alle chitarre e Fiona Creaby a regalare emozioni al microfono.
The Awakening non risulta il solito symphonic metal album, anche se brani come la splendida Resonance sono colmi di quelle atmosfere orchestrali che portano inevitabilmente a collocarlo nel genere, anche se la band usa le sinfonie con parsimonia, lasciando al tocco raffinato del piano il compito di rivestire d’eleganza il sound che, spogliato dalle sfumature gotiche e classiche, si avvicina all’hard & heavy con splendidi assoli di scuola tradizionale e ritmiche che esaltano il lato hard rock della musica.
E’ bellissima la voce della cantante, perfettamente a suo agio tra le varie sfumature che regalano questa raccolta di tracce, e perfetta è la produzione che riesce a valorizzare i suoni dei tasti d’avorio, molte volte morbido tappeto su cui si poggiano le canzoni (Eternity).
L’album è piacevole, porta con sé quell’eleganza tutta britannica senza esagerare in suoni bombastici, e lascia al talento vocale della Creaby il compito di portare l’ascoltatore verso la perdizione tra le trame di delicati passaggi dai tenui colori grigio scuri (Home, Twilight) o travolgerlo con parti metalliche dall’appeal magnifico (Hold Back The Night).
The Awakening si può confondere nell’immenso universo del metal sinfonico, ma all’ascolto regala sfumature varie che ne fanno un album personale e meritevole d’attenzione da parte degli amanti dei suoni melodici a sfondo dark/gotico.

Tracklist
1. The Awakening (Intro)
2. Hold Back The Night
3. The Dames Of Darkness
4. The Other Side
5. Resonance
6. The Night An Angel Died
7. Eternity
8. Home
9. Break The Chains
10. Our Story Lives On
11. Twilight
12. As Shadows Play

Line-up
Ashley Guest – Drums
Fiona Creaby – Vocals
David Homer – Bass;
Amy Lewis – Guitars;
Paul ‘Kull’ Culley – Guitars/Sequencing

APPARITION – Facebook