Kayleth – Colossus

Il disco è molto piacevole da ascoltare e lo si può fare a lungo e ripetutamente senza che susciti mai noia o pesantezza auricolare: i Kayleth sono un gruppo davvero capace e producono il loro album migliore, che piacerà molto a chi ama la musica pesante che viaggia in alta atmosfera.

Nuovo disco per una delle realtà italiane più interessanti per quanto riguarda il panorama stoner, i veneti Kayleth.

Secondo disco su Argonauta Records per questi veterani attivi dal 2005. Colossus sancisce una maturazione molto completa e che regala un gruppo al suo apice creativo, dopo essere cresciuti disco dopo disco, attraverso un miglioramento costante e potente. Il disco si snoda attraverso uno space stoner delicato, dove le melodie sono sviluppate con grande gusto e consapevolezza di poter sempre suonare la cosa giusta. Il disco suona Kayleth al cento per cento, e anche grazie ad un’ottima produzione riesce ad arrivare molto bene nel cervello e nel cuore di chi lo ascolta. I Kayleth sviluppano gli argomenti che hanno sempre trattato e li portano ad un altro livello, dove la loro musica possa elevarsi ulteriormente. Ci sono momenti del disco che sono pervasi da un sentire stoner molto vicino al grunge, con ottimi ritornelli e canzoni molto al di sopra della media. In apparenza la musica dei Kayleth potrebbe sembrare semplice e priva della benché minima complessità, mentre invece non è affatto facile produrre questo tipo di suono senza avere il discorso molto chiaro in testa. Uno degli aspetti che rendono molto interessante il tutto è il grande lavoro delle tastiere e dei synth, un elemento che è arrivato nel divenire del gruppo, perché in partenza non era presente, e porta ulteriore profondità al suono. Il disco è molto piacevole da ascoltare e lo si può fare a lungo e ripetutamente senza che susciti mai noia o pesantezza auricolare: i Kayleth sono un gruppo davvero capace e producono il loro album migliore, che piacerà molto a chi ama la musica pesante che viaggia in alta atmosfera.

Tracklist
01 – Lost in the swamp
02 – Forgive
03 – Ignorant Song
04 – Colossus 05 – So Distant
06 -Mankind’s Glory
07 – The Spectator
08 – Solitude
09 – Pitchy Mantra
10 – The Angry Man
11 -The Escape
12 – Oracle

Line-up
Massimo Dalla Valle: Chitarra
Alessandro Zanetti: Basso
Daniele Pedrollo: Batteria
Enrico Gastaldo: Voce
Michele Montanari: Synth

KAYLETH – Facebook

Infamous Sinphony – Manipulation

Indimenticabile esordio, nel panorama underground americano di fine anni Ottanta, imperdibile per gli amanti del thrash più estremo e brutale, nero e tirato.

Una leggenda. Truci e feroci. Grezzi e violentissimi, soprattutto per gli standard degli Eighties.

Da Los Angeles, gli Infamous Sinphony (è questa la grafia originaria del nome), esordirono nel 1989 su demo tape, con un prodotto volutamente sgraziato e lancinante, peraltro ottimamente registrato. La band si era fatta le ossa con anni di gavetta e concerti di spalla a Exploited, Beowulf, DRI, Blast ed Adolescents. Questa vicinanza a band hardcore punk andò molto ad influenzare il suono sporco ed estremamente rude, oscuro e orrorifico, del quintetto californiano. Manipulation presentava in tutto sedici velocissime tracce, che spingevano il thrash americano di allora in una direzione quasi proto-grind, con appena un paio di rallentamenti, più prossimi al doom. Sotto il profilo vocale, facevano sembrare Wattie degli Exploited un edulcorato maestro di sensibilità canora, il che già la dice lunga a proposito della loro furia cieca: pezzi che paiono un vero assalto all’arma bianca, senza tregua ed all’insegna di una insistita corrosività musicale. Puro underground, insomma. Dopo quella granitica e fulminante cassetta ed una fase di oblio, il gruppo si è riformato, incidendo altri dischi. Tuttavia – nella memoria di chi scrive, come in quella di molti thrashers – è vivo, quasi soltanto, il ricordo del formidabile Manipulation, ristampato poi su CD prima dalla Wild Rags e poi dalla Xtreem Music, nel 2014, con tre bonus-track.

Track list
– Manipulation
– Let’s Move to Another Planet
– Process of Denial
– Siamese Twins
– Outa the Black
– Cadavers-n-stiffs
– Dead Bumble Bees
– Get Out
– Sniveller
– Retribution
– Executioner
– Meth Lab
– Anti-buse
– Persian Gulf
– Blood Orgy
– Incapacitated

Line up
Greg Raymond – Vocals
Paul Leoncini – Guitars
J-sin Platt – Guitars
Anthony Chuck Burnhand – Drums
Scott Nelson – Bass

1989 – Autoprodotto

Eschatos – Mære

Ascoltare questo ep per chi apprezza il post black/metal è un passo fondamentale, in attesa che giunga auspicabilmente quanto prima un nuovo full length che potrebbe definitivamente far brillare come una supernova il nome degli Eschatos.

Mi sto sempre più convincendo che, alla fine, la quantità di grande musica che ci perdiamo sarà infinitamente superiore a quella che riusciamo ad intercettare.

Allora diventa una questione di mera fortuna imbattersi in un lavoro come questo ep dei lettoni Eschatos, band con due full length all’attivo che a occhio e croce sembrano essere passati del tutto inosservati dalle nostre parti.
Quindi siamo costretti a cominciare, volenti o nolenti, dal fondo, con Mære e le sue due lunghe tracce che squarciano ogni velo su una band dal talento enorme.
Intanto revisioniamo l’etichetta affibbiata agli Eschatos: progressive black metal vuol dire tutto e niente, perché in realtà del genere nato tra fiordi e le foreste della Norvegia troviamo prevalentemente l’attitudine, alcune sfuriate ritmiche e lo screaming che la stupefacente Kristiana Karklina esibisce all’interno di un’ interpretazione teatrale e a tratti spasmodica.
Mære consta di due soli brani per un fatturato complessivo di poco superiore ai venti minuti ma dal peso specifico notevole: Luminary Eye Against the Sky è un lento crescendo che può ricordare per impostazione gli olandesi Dool, benché con caratteristiche di base più metal e con un parossismo vocale che culmina con il disperato ripetuto urlo “is my death”.
The Night of the White Devil è una traccia divisa in tre parti, con la prima che pare ripartire da dove era terminato il precedente brano con l’isterica reiterazione della frase “I step into the sun with face covered in blood“, preludio ad un incedere più atmosferico e melodico che asseconda uno sviluppo ritmico che con il trascorrere dei minuti si increspa e si placa senza soluzione di continuità: gli Eschatos manipolano la materia con la spiccata personalità della band di livello superiore, esaltata dall’apporto di una vocalist fuori dal comune alla quale offre talvolta un valido supporto il più profondo growl del tastierista Marko Rass (anche se quello di Kristina non è affatto da meno per ferocia).
La band lettone proviene come detto da due lavori di buona fattura che non le è valsa ancora la fama che pare meritare incondizionatamente, fosse solo in base a quanto offerto in Mære; ascoltare questo ep per chi apprezza il post black/metal è un passo fondamentale, in attesa che giunga auspicabilmente quanto prima un nuovo full length che potrebbe definitivamente far brillare come una supernova il nome degli Eschatos.

Tracklist:
1. Luminary Eye Against the Sky
2. The Night of the White Devil (part I, II and III)

Line-up:
Kristiana Karklina — vocals
Edgars Gultnieks — guitars
Martinš Platais – guitars, bass, keyboards
Tomass Bekeris — bass,
Edvards Percevs — drums,
Marko Rass — keyboards, organ, effects, vocals.

ESCHATOS – Facebook

Crescent – The Order Of Amenti

Una continua e crescente tensione viene portata al massimo da brani pieni di malvagità, tutti medio lunghi ed elaborati quel tanto che basta per farne otto dimostrazioni di pura malvagità fatta musica.

Non é sicuramente il primo album estremo che come tematiche si concentra sulle atmosfere misteriose ed oscure dell’antico Egitto, ma dalla sua questo mastodontico e devastante album ha nell’origine dei suoi creatori quel di più che lo rende ancora più affascinante.

Infatti proprio dai vicoli più nascosti del Cairo nascono i Crescent, notevole creatura estrema che picchia forte il pugno sul tavolo della scena underground mondiale con The Order Of Amenti.
Persi così nell’inferno egiziano veniamo travolti dal blackened death metal del quartetto, a tratti supportato da sinfonie oscure che rendono ancora più soffocante il sound che raccoglie in sé una serie di riff che richiamano la tradizione locale, in un turbinio di musica estrema che arriva improvvisa come una tempesta di sabbia nel deserto.
L’album è una discesa terrorizzante nel profondo degli inferi, dove statue di divinità avvolte tra le spire di rettili letali, sono di guardia ai segreti di una civiltà che ancora difende, tra leggende e verità, la sua misteriosa esistenza.
I Crescent ci vanno giù pesante, seguendo la strada già tracciata con il primo album (Pyramid Slaves) e portando male in musica come e meglio di tanti act più famosi.
Una continua e crescente tensione viene portata al massimo da brani pieni di malvagità, tutti medio lunghi ed elaborati quel tanto che basta per farne otto dimostrazioni di pura malvagità fatta musica.
Stupende si rivelano Obscuring The Light, Beyond The Path Of Amenti e la conclusiva In The Name Of Osiris, che vi trascineranno in un clima maligno, valorizzato da un metal estremo che avvicina le proposte di Nile e Behemoth e le ingloba in un sound che tocca vette di rabbrividente atmosfericità: un’opera oscura da far vostra senza riserve.

Tracklist
1.Reciting Spells to Mutilate Apophis
2.Sons of Monthu
3.Obscuring the Light
4.Through the Scars of Horus
5.The Will of Amon-Ra
6.Beyond the Path of Amenti
7.The Twelfth Gate
8.In the Name of Osiris

Line-up
Moanis Salem – Bass
Amr Mokhtar – Drums
Ismaeel Attallah – Guitars, Vocals
Youssef Saleh – Guitars

CRESCENT – Facebook

Emphatica – Metamorphosis

Metamorphosis fa parte di quelle opere di musica totale, che lasciano stupefatti, un’esperienza di viaggio che ci fa perdere in una marea di suoni e sensazioni molte volte difficili da interpretare.

Emphatica è la creatura di Gerardo Sciacca, musicista campano dal grande talento che, con il suo progetto solista, nel giro di poco più di due anni ha dato alle stampe ben sette lavori, di cui quattro nel 2014 (“Winterscape”, “Atlas Of The Universe”, “Minimal Clouds” e Metamorphosis), per lo più strumentali ai quali probabilmente l’etichetta di symphonic metal sta stretta, almeno per i canoni del genere.

Metamorphosis fa parte di quelle opere di musica totale, che lasciano stupefatti, un’esperienza di viaggio che ci fa perdere in una marea di suoni e sensazioni molte volte difficili da interpretare; musica senza tempo che esce fuori dai binari dell’usa e getta, ormai abitudine anche nei generi meno popolari, e si eleva ad opera d’arte.
Ho immaginato, all’ascolto dell’album, di attraversare il corridoio di un museo, volgendo lo sguardo alle opere esposte, ora quadri, ora sculture, ed accomunando ad ognuna di esse un momento di questo capolavoro, così che la musica di Gerardo potesse avere un volto, un paesaggio, una storia.
Di solito queste sensazioni si manifestano leggendo, nel raffigurarsi volti e luoghi descritti dallo scrittore che il lettore, senza volerlo, disegna nella sua mente, proprio per dare una fisionomia a personaggi ed eventi: sensazioni che la musica racchiusa in Metamorphosis esalta, portando l’ascoltatore a lavorare di fantasia.
Molto vicino ad un’opera classica, questo lavoro non aggiunge elementi sinfonici al metal, ma li amalgama sapientemente, facendo risultare il tutto un’unica stupenda sinfonia di musica a 360°, e creando un mastodontico caleidoscopio di suoni dove la voce risulterebbe superflua, come se potesse rompere l’incantesimo, fragile opera di cristallo di cui la conclusiva The Time Traveler è un manifesto di celestiale armonia di note.
Un album consigliato a tutti gli amanti della buona musica: tra le sue note (tanto per darvi dei riferimenti) ho rinvenuto echi di progressive settantiano, gothic, metal prog, qualche digressione elettronica e naturalmente musica classica, il tutto amalgamato per creare un lavoro sublime. Non lasciatevelo sfuggire.

Tracklist:
1.The Abstract Manifesto
2.Metamorphosis
3.Once In A Lifetime
4.Northern Stars
5.Anima
6.The Eyes Of Darkness
7.The Time Machine
8.The Time Traveler

Line-up:
Gerardo Sciacca- All Instruments

EMPHATICA – Facebook

Sar Isatum – Shurpu

L’album viaggia piuttosto bene, magari senza guizzi indimenticabili ma corrosivo il giusto per tenersi lontano da svenevolezze assortite, mantenendo ben saldo il carico di gelida ferocia che il genere richiede.

Il symphonic black continua ad essere interpretato con buon proprietà un po’ in tutti i continenti e se appare comunque difficile poter rinverdire i fasti del passato, le band che vi si dedicano lo fanno con grande competenza e risultati apprezzabili .

Vedremo se i capostipiti della specie, ovvero i Dimmu Borgir (almeno per quanto riguarda l’approccio al genere più pomposo e ammiccante), saranno in grado di riprendere in mano lo scettro con l’album di prossima uscita dopo una pausa creativa piuttosto lunga, ma per ora vale la pena di prestare attenzione a band dall’inferiore pedigree ma dalle sicure capacità.
E’ questo il caso dei Sar Isatum, gruppo del Colorado che sembra comunque provenire dall’altra parte dell’oceano per approccio: Shurpu è il primo album per questi buoni epigoni della scena scandinava di fine secolo, prendendo come riferimenti band dall’impatto sinfonico ma ben più ortodosso come i primi Emperor, i Limbonic Art o gli stessi Dimmu Borgir fino ad Enthrone Darkness Triumphant.
L’album viaggia piuttosto bene, magari senza guizzi indimenticabili ma corrosivo il giusto per tenersi lontano da svenevolezze assortite, mantenendo ben saldo il carico di gelida ferocia che il genere richiede: è anche grazie ad un lotto di tracce di buona intensità (tra le quali citerei l’opener autointitolata e le furiose Black Gate e Gormandizer) che i nostri riescono ad imprimere un marchio sufficientemente personale in un ambito nel quale è arduo schiodarsi da certi stilemi.
I Sar Isatum arricchiscono il tutto con un immaginario che riporta alla civiltà sumera, con tanto di sfumature orientaleggianti che si manifestano anche nei momenti più burrascosi: un elemento in più che contribuisce a rendere appetibile questo buonissimo primo passo per il gruppo di Denver.

Tracklist:
1. Sar Isatum
2. Chenoo
3. Black Gate
4. Gormandizer
5. Celestial Diaspora
6. Vanaspati
7. Halls of Pestilence

Line-up:
Gadreel – Guitars
Memitim – Keyboards
Cannibal Chris – Bass
JP Dalkhu – Drums
Demothi – Vocals

SAR ISATUM – Facebook

No-Chrome – Feel The Rust

Questo lavoro rimarrà nei vostri principali ascolti per un bel po’, specialmente se siete affascinati dalla vita on the road e dalle atmosfere che il mondo delle motociclette sa regalare, ovviamente con il rock, quello duro, ignorante e alcolico, a farvi da colonna sonora.

Entrate nel vostro garage, togliete il telo alla vostra preziosa motocicletta, accendete il motore ed alle prime note di Burning Nipples, opener di questo esplosivo lavoro targato No-Chrome, date gas e lasciate che la gomma posteriore lasci tanto del suo battistrada sull’asfalto del vostro cortile.

Hard rock, rock’n’roll, qualche sfumatura southern capace di trasformare le strade del Piemonte nella Route 66 e Feel The Rust è servito: sporco, cattivo, irriverente con le sue regole e i suoi riti di una vita on the road.
I No-Chrome arrivano come missili sulle loro Harley dalla provincia di Cuneo, suonano rock duro, prima come cover band, poi con brani loro, che vanno a comporre nel 2009 l’ep Among The Dust.
Nel 2011 l’uscita dell’album Carburator permette alla band di aprire per Adam Bomb, Strana Officina e le rockers svedesi Crucified Barbara, mentre il tempo non concede tregua come la pioggia di ritorno da un viaggio su due ruote e siamo già a questi ultimi due anni e al completamento di Feel The Rust.
Rock’n’roll ipervitaminizzato da scariche hard rock, pelle in perenne sudorazione da birra e asfalto, bocca che si asciuga dal vento che ci schiaffeggia il viso sporco di polvere, ed ecco che siamo già nel vortice rock creato da brani assolutamente irresistibili come Drink Before To Die, Godzilla, con il basso che pulsa e segue il ritmo dei pistoni che scivolano nel cilindro in Carburator e nel ritmo festaiolo di Summer Boobies.
Non ci sono semafori ne autovelox, l’album tiene alte velocità, con la mano che non ne vuol sapere di mollare l’acceleratore e i brani che a turno ci esaltano fino all’inno conclusivo Masterpiece Of Rock’n’Roll.
Assolutamente da vivere, questo lavoro rimarrà nei vostri principali ascolti per un bel po’, specialmente se siete affascinati dalla vita on the road e dalle atmosfere che il mondo delle motociclette sa regalare, ovviamente con il rock, quello duro, ignorante e alcolico, a farvi da colonna sonora.

Tracklist
1.Burnin Nipples
2.Drink Before To Die
3.Godzilla
4.Carburetor
5.Summer Boobies
6.Rabbit Kill Again
7.Raise Your Hate
8.Motor Pinball
9.Bleeding On The Rockfalls
10.Masterpiece Of Rock’n’roll

Line-up
Luca Peirone (Hellbastard) – Vocals, Guitars
Gianluca Fruttero (Hollywood Mostriciattoli) – Bass
Alessandro Dalmasso (Dalma) – Drums

NO-CHROME – Facebook

Black Wizard – Livin’ Oblivion

Per gli amanti dei suoni old school i Black Wizard, con il loro heavy rock d’alta scuola vario e potente, sono una band da annotare sul biglietto della spesa in questo inizio di 2018.

Una band che non faticherà a trovare nuovi estimatori con il suo nuovo lavoro è quella dei canadesi Black Wizard, il cui sound infatti pesca a piene mani dalla tradizione heavy metal e hard rock a cavallo tra gli anni settanta ed il decennio successivo, alla quale saggiamente i musicisti nord americani aggiungono dosi letali di stoner rock così da renderne l’approccio squisitamente retrò ma molto cool.

Siamo arrivati al quarto album di una carriera iniziata sui banchi di scuola e che ha portato i quattro amici ad unirsi in una band nel 2008, per poi esordire due anni dopo con l’album omonimo; Young Wisdom è il secondo lavoro uscito nel 2013 ,  seguito da un live e dal precedente New Waste licenziato due anni fa.
Livin’ Oblivion non porta con sé grossi cambiamenti, ma non è quello che si cerca da un gruppo come i Black Wizard, quindi chi ama l’heavy rock pregno di umori vintage e potenziato da dosi massicce di doom e stoner non avrà di che lamentarsi all’ascolto di questa apoteosi di riffoni ultra heavy.
Come sul precedente album il sound varia mantenendo una buona alternanza tra brani più orientati verso l’heavy metal, altri splendidamente doom (bellissima James Wolfe) e, come la title track, avventurosi tuffi nello stoner di fine millennio.
L’album non fa prigionieri, anche quando la furia metallica si placa e il gruppo ci regala una perla sabbathiana come Cascadia, brano semi acustico che prelude alla veloce Portraits.
Continua fino alla fine questa altalena tra atmosfere doom e heavy/stoner metal, con la conclusiva Eternal Illusion a donare gli ultimi botti di questo gran bel lavoro.
Per gli amanti dei suoni old school i Black Wizard, con il loro heavy rock d’alta scuola vario e potente, sono una band da annotare sul biglietto della spesa in questo inizio di 2018.

Tracklist
1. Two Of These Nights
2. Feast Or Famine
3. James Wolfe
4. Livin Oblivion
5. Cascadia
6. Portraits
7. Poisoned Again
8. Heavy Love
9. Eternal Illusion

Line-up
Eugene Parkomenko – Drums
Adam Grant – Vocals, Guitars
Evan Joel – Bass
Danny Stokes – Guitars

BLACK WIZARD – Facebook

Dirty Shirt – FolkCore DeTour

Una grande festa dal vivo di metal e di folk romeno, una gioia per le orecchie e per le gambe.

Un progetto musicale davvero interessante, già bello sulla carta, che poi diventa un qualcosa di bellissimo nella pratica, e soprattutto nella musica.

I Dirty Shirt sono un gruppo romeno di metal moderno molto fresco e conosciuto in patria, ma hanno anche girato fuori dalla loro nazione. Questo disco dal vivo è il risultato di una trionfale tournée in patria con l’Ansamblul Transilvania, un’orchestra di folclore della Transilvania, la splendida regione romena che è diventata famosa come patria del Conte Dracula, ma che è molto più di quello. L’unione dei due gruppi riesce benissimo, come si può ascoltare nel disco, che è un perfetto esempio di come due flussi di energia in apparente contraddizione abbiano invece tante cose in comune ed insieme ne escono entrambi potenziati. La forza dei Dirty Shirt sta nella loro capacità di creare groove metallici freschi e potenti, di grande forza dal vivo. L’orchestra transilvana porta nel loro suono una ventata di folclore romeno che è già molto metal di par suo. Il concerto vive di momenti anche molto differenti fra loro, con un pubblico trascinato dai gruppi e trascinante di per sé, che diventa esso stesso un’entità ben precisa che partecipa al concerto. Stupisce la nuova veste dei brani dei Dirty Shirt e gli arrangiamenti dell’Ansamblul Transilvania che sono molto azzeccati e calzano a pennello. Metal e folk verace vanno perfettamente a braccetto, e come in una osmosi si scambiano reciprocamente vita e fluidi, creando una nuova entità totalmente inedita e molto potente, che ha nella dimensione live la sua ragion d’essere. Da tempo non si ascoltava un disco così potente dal vivo, caldo ed interessante in ogni suo frangente. Questo lavoro è stato pianificato e preparato nei minimi dettagli, e ciò si evince nella cura riposta e nell’andare oltre i propri limiti. FolkCore DeTour è un disco che mostra un percorso mai battuto in precedenza dal metal romeno, e che lascia davvero una grande gioia dentro e dietro di sé. L’album è molto divertente e non si riesce a stare fermi mentre lo si ascolta: il progetto è perfettamente riuscito, anzi è andato oltre le più rosee aspettative.

Tracklist
1. Rapsodia Romana
2. Ciocarlia
3. Moneyocracy
4. Dulce-i Vinu’
5. Cobzar
6. Ride
7. Freak Show
8. UB
9. Balada
10. Manifest
11. Rocks Off
12. My Art
13. Dirtylicious
14. Hungarian Dance No.5
15. Mental Csardas
16. Hotii
17. Maramu’
18. Calusarii
19. Saraca Inima Me
20. Bad Apples

Line-up
Dan «Rini» Craciun : vocals
Robert Rusz : vocals
Mihai Tivadar : keys, guitars
Cristian Balanean : guitars
Dan Petean : guitars
Pal Novelli : bass
Vlad «X» Toca : drums
Cosmin Nechita : violin

DIRTY SHIRT – Facebook

Wolfhorde – The Great Old Ones

Gradevole ep offerto dai Wolfhorde, i quali omaggiano con un brano ciascuno Finntroll, Moonsorrow ed Amorphis, ovvero le più importanti tra le band che ne hanno influenzato il sound.

Anche se un ep contenente tre cover di norma non dovrebbe trovare cittadinanza su queste pagine, facciamo un eccezione visto l’ambito abbracciato  da questo lavoro.

La band che si cimenta con la riproposizione di un brano ciascuno di Finntroll, Moonsorrow e Amorphis si chiama Wolfhorde, è ovviamente finlandese e si lancia un questa operazione per omaggiare fin dal titolo  (The Great Old Ones)  quelli che sono stati i gruppi che hanno fornito un impronta al loro sound.
Indubbiamente qui troviamo tre maniere ben diverse nel maneggiare la materia folk all’interno del metal estremo, a partire dagli Amorphis per i quali tale elemento è sicuramente parte integrante del loro stile, ma certo in maniera meno esplicita di quanto non lo sia per i Moonsorrow e tanto meno per i Finntroll.
Il trio di Keuruu va comunque a pescare giustamente nelle prime opere dei propri numi tutelari offrendoci la loro versione della title track di Jaktens Tid dei campioni dell’humppa metal, Kylän Päässä da Voimasta ja kunniasta, secondo album di una delle più grandi band contemporanee (almeno per quanto mi riguarda ) e Sign from the North Side, tratta addirittura da The Karelian Isthmus, full length d’esordio per quello che diverrà poi una dei nomi di punta in assoluto nella terra dei “thousand lakes”.
Le versioni sono interessanti in quanto ben eseguite e comunque non risultano insipide fotocopie degli originali, nel senso che i Wolfhorde hanno cercato per quanto possibile di conferire una loro impronta a ciascun brano; ovviamente, al di là di questo gradevole passaggio interlocutorio, per la band non resta che trarre il meglio dalla lezione dei “great old ones” per cercare, nel prossimo futuro, se non di raggiungerne  il livello (molto difficile) almeno di avvicinarlo, e noi non possiamo che augurarcelo con loro.

Tracklist:
1. Jaktens Tid (Finntroll cover)
2. Kylän Päässä (Moonsorrow cover)
3. Sign from the North Side (Amorphis cover)

Line-up:
Nuoskajalka – Bass
Hukkapätkä – Vocals, Drums, Percussion
Werihukka – Guitar, Traditional instruments, Keyboards

WOLFHORDE – Facebook

Riffocity – Under A Mourning Sky

Under A Mourning Sky non può certo distinguersi per l’originalità, ma è un album suonato e prodotto molto bene, e se siete fans degli Iced Earth il consiglio è di cercarlo e farlo vostro, non ve ne pentirete.

Ecco un caso nel quale il monicker del gruppo (Riffocity, sinceramente bruttino) potrebbe frenare gli appassionati di thrash metal al momento di un primo ascolto, per poi farli stropicciare gli occhi davanti all’ottimo album di debutto sulla lunga distanza, dal titolo Under A Mourning Sky.

Prodotto dal gruppo con l’aiuto di Bob Katsionis (Firewind), il lavoro vede i Riffocity impegnati in un heavy/thrash statunitense dall’atmosfera drammatica ed oscura, dura come l’acciaio e melanconica come i più suggestivi momenti di un capolavoro come Something Wicked This Way Comes degli ormai storici Iced Earth.
E alla band di Jon Schaffer i Riffocity si ispirano maggiormente per questo album che a tratti entusiasma per la sagacia con cui la band passa da sfuriate metalliche pesantissime, ricamate da solos granitici ma oltremodo melodici, e da ritmiche mozzafiato a emozionanti brani nei quali il cantante Thomas Trampoyras può dare sfoggio della sua naturale somiglianza vocale con il Barlow di Melancholy (Holy Martyr) o Watching Over Me.
Da qui la band greca parte per la sua (poco) personale rivisitazione del thrash metal d’oltreoceano, e oltre agli Iced Earth tra le trame del disco escono in maniera marcata i soliti Metallica ed una vena progressiva che porta i Riffocity a costruire tracce lunghe ed assortite di cambi di tempo e ottime parti strumentali che vedono salire in cattedra i due chitarristi (Dimitris Kalaitzidis e George Lezkidis).
L’album sfiora l’ora di durata ma consiglio di non scoraggiarsi perché merita comunque di essere ascoltato per intero, dedicando particolare attenzione a Fortunes Of Death, alla devastante From Inside the Arrows Come, a Perish Unloved e alla conclusiva Above The End.
Under A Mourning Sky non può certo distinguersi per l’originalità, ma è un album suonato e prodotto molto bene, e se siete fans degli Iced Earth il consiglio è di cercarlo e farlo vostro, non ve ne pentirete.

Tracklist
1. Hail Thy Father
2. Arnis Oblivion
3. Bitter Sunday
4. Fortunes of Death
5. This Eternal Secret Lies Above
6. From Inside the Arrows Come
7. Isolation
8. Perished Unloved
9. Under a Mourning Sky
10. Above The End

Line-up
Thomas Trampoyras – Vocals
Dimitris Kalaitzidis – Guitars, Backing Vocals
Giorgos Lezkidis – Guitars
Panos Sawas – Bass

Current Line-up
Thomas Trabouras-Vocals
Dimitris Kalaitzidis-Guitars and Backing Vocals
George Lezkidis-Guitars
Panos Savvas-Bass Guitar
Tasos Daimantidis -Drums

RIFFOCITY – Facebook

Mortis Mutilati – The Stench Of Death

Pur senza possedere un forte impulso innovativo, il nome Mortis Mutilati si fa ricordare per un’interpretazione musicale delle pulsioni più oscure dell’animo umano tutt’altro che inflazionata, con il suo incedere tragico e allo stesso tempo decadente.

Della one man band francese Mortis Mutilati ci si era già occupati diversi anni fa in occasione del precedente full length Mélopée funèbre.

Macabre, che in passto ha militato in ottime band come Azziard, Moonreich e The Negation, tra le altre, porta avanti da anni un idea di black metal molto personale benché nel complesso priva di particolari spunti sperimentali.
Il punto di forza del sound offerto è un buon gusto melodico che va ad intersecarsi con un mood drammatico e intenso, che abbraccia sonorità che vanno dal dsbm fino al doom, e non è un caso se lo stesso musicista parigino definisce il suo stile funeral black metal.
The Stench Of Death è il quarto full length che va ad aggiungersi ad una discografia finora impeccabile, con il nostro che, dopo i primi anni in perfetta solitudine, ha iniziato recentemente ad avvalersi di contributi da parte di altri musicisti, tra i quali in particolare quello del chitarrista Rokdhan: questo finisce inevitabilmente per arricchire un sound che ha le sue fondamenta nel black metal ma da lì si muove per costruire un qualcosa di più composito, che attinge parimenti dal doom più catacombale come da quella dark wave che andò ad influenzare i Katatonia della superba coppia The Discouraged Ones / Tonight’s Decision.
Macabre possiede un notevole gusto melodico che favorisce la fruizione di un lavoro lungo ma ricco di momenti dal forte impatto emotivo, coincidenti per lo più con i passaggi maggiormente ragionati all’interno di brani bellissimi come Echoes From The Coffin, Onguent Mortuaure e Invocation A La Momie, oltre che nella lunghissima Portrait Ovale.
Pur senza possedere un forte impulso innovativo, il nome Mortis Mutilati si fa ricordare per un’interpretazione musicale delle pulsioni più oscure dell’animo umano tutt’altro che inflazionata, con il suo incedere tragico e allo stesso tempo decadente che va a comporre un quadro stilistico ben rappresentato graficamente dalla copertina horror/vintage.

Tracklist:
1.Nekro
2.Echoes From The Coffin
3.Crevant-Laveine
4.Regards D’outre Tombe
5.Onguent Mortuaure
6.Portrait Ovale
7.Homicidal Conscience (feat. Devo Andersson)
8.Invocation A La Momie
9.L’odeur du Mort
10.Ecchymoses

Line-up:
Macabre – All instruments, Bass, Vocals

Guests:
Rokdhan – Guitars
Asphodel – Vocals (female)
Devo – Guitars (lead) (track 7)

Plurima Mundi – Percorsi

Percorsi è un magnifico spaccato di musica contemporanea: abbiatene cura, perché questa è arte nel senso più autentico del termine.

A conferma di come il rock progressivo sia la musica che, in tutte le sue centinaia di atmosfere e sfumature, più di ogni altra ha nobilitato la scena musicale italiana dal 1970 ad oggi, vi presentiamo Percorsi, seconda opera dei Plurima Mundi, creatura musicale del violinista e compositore Massimiliano Monopoli che, con l’aiuto di Massimo Bozza (basso), Grazia Maremonti (voce), Silvio Silvestre (chitarra), Lorenzo Semeraro (pianoforte) e Gianmarco Franchini (batteria) e dei testi scritti da Maria Giuseppina Pagnotta, dà un seguito alla prima opera Atto I risalente al 2009.

Ovviamente l’opera valorizza non poco il violino del maestro pugliese, specialmente nel bellissimo brano di apertura, la suite strumentale Eurasia, un crescendo entusiasmante di musica che dal classico passa al rock, mentre per godere della notevole interpretazione della cantante Grazia Maremonti bisogna attendere la successiva e progressiva E Mi Vedrai… Per Te.
Partiture lazz, intro che ricordano gli Yes (L… Tu Per Sempre), fughe strumentali che riportano alla mente la P.F.M,, sono parte integrante del bagaglio storico musicale immesso in questi cinque brani, anche se la personalità dei Plurima Mundi è fuori discussione, con le loro poetiche sonorità capaci di ipnotizzare l’ascoltatore.
La musica dei Plurima Mundi è un magico insieme di note provenienti da generi diversi ma inglobate in un sound progressivo che mantiene il suo approccio classico, così da ricordare i maestri settantiani, cambiando sfumature ed atmosfere in ogni passaggio e con il violino che si confronta con gli altri strumenti in un virtuale duello sullo spartito.
Percorsi, seconda bellissima opera di Massimiliano Monopoli e della sua splendida creatura, è un magnifico spaccato di musica contemporanea: abbiatene cura, perché questa è arte nel senso più autentico del termine.

Tracklist
1.Eurasia
2.E Mi Vedrai…Per Te
3.L…..Tu Per Smpre
4.Male Interiore…La Mia Età
5.L…Tu Per Sempre Single version

Line-up
Massimiliano Monopoli – violino
Grazia Maremonti – voce
Massimo Bozza – basso
Silvio Silvestre – chitarra
Gianmarco Franchini – batteria
Lorenzo Semeraro – pianoforte

PLURIMA MUNDI – Facebook

Premarone – Das Volk Der Freiheit

A due anni dal bello e tenebroso Obscuris Vera Involvens, arriva un disco che lascerà spiazzate anche le menti più aperte, e potrebbe essere facilmente l’uscita dell’anno italiana nel campo della musica pesante e pensante.

Tornano nell’etere le pesanti e psichedeliche note dei Premarone, notevolissimo gruppo psych doom alessandrino.

A due anni dal bello e tenebroso Obscuris Vera Involvens, arriva un disco che lascerà spiazzate anche le menti più aperte, e potrebbe essere facilmente l’uscita dell’anno italiana nel campo della musica pesante e pensante. Das Volk Der Freiheit è la colonna sonora più adeguata alla crepuscolare fine che noi chiamiamo vita, alla nostra folle corsa verso una distopica dittatura dove noi saremo felici di essere tecno zombie. Questa opera è davvero un capolavoro di musica sociale, nel senso che riesce a cantare la nostra italianità attraverso i nostri difetti e le nostre quotidiane tragedie. L’Italia è un paese terribile, tanto bello quanto bastardo e corrotto, molle e sempre con dei soldi in mano insieme al cazzo che non si rizza nemmeno più. I Premarone ci portano in giro per la nostra psiche collettiva, ispirandosi ad un altro bellissimo viaggio lisergico del passato, il debutto della krautrock band German Oak, una comune hippie di cinque membri di Dusseldrorf, che registrò un disco eccezionale sulla Germania in un bunker. I Premarone partono da lì per spaziare tantissimo, usando la formula della jam, e ci regalano molta gioia e molta inquietudine. Das Volk Der Freiheit è un viaggio potentissimo che va affrontato senza paure, bisogna immergersi in questo lungo flusso di coscienza dove si può ritrovare il gusto del krautrock nell’esplorare senza timore, la forza del doom, il cantato in italiano con stile molto Cccp e Disciplinatha, per raccontare ciò che viviamo ogni giorno. La bellezza di questo lavoro è la sua totale e brutale sincerità, riuscendo ad arrivare dove è difficile spiegare, in quell’intrico di merda e sangue che è l’Italia. La produzione è curata assai bene, supporta benissimo la narrazione. Ci sono anche droni e momenti di stasi, anche perché questo disco ha una fisicità molto importante, è come viaggiare su un tappeto magico e ci sono cose sotto e sopra di te. I Premarone sono dei fantastici narratori, non perdono un colpo, dilatano e restringono il campo visivo del nostro terzo occhio a loro piacimento, spiegando in forma quasi subliminale concetti altresì difficilmente esplicabili. Un disco di psichedelia pesante fatto per farci pensare e per portarci lontano, sopra questo mare di dolorosa plastica tricolore.

Tracklist
1.Intro – Mani pulite
2.Parte I – D.V.
3.Interludio – Interferenze
4.Parte II – D.F.

Line-up
Pol – Bass
Ale – Drums
Fra – Guitars, Vocals
Mic – Keyboards

PREMARONE – Facebook

Garhelenth – About Pessimistic Elements & Rebirth of Tragedy

I Garhelenth propongono un buon black metal devoto alla scena scandinava, molto cupo, dai ritmi mai eccessivamente sostenuti e con una propensione verso il DSBM che affiora di tanto in tanto nel corso dei brani.

Eccoci di fronte ad un non così consueto album di black metal offerto da una band di origine araba.

Infatti i Garhelenth sono un duo formatosi a Teheran anche se, attualmente, Hilnorgoth e Sagroth risiedono in Armenia, nazione nella quale sicuramente il genere può essere suonato e sviluppato senza le problematiche esistenti al riguardo in gran parte dei paesi mediorientali.
About Pessimistic Elements & Rebirth of Tragedy è il secondo full length per i Garhelenth e ci mostra una band decisamente a proprio agio nel proporre un buon black metal devoto alla scena scandinava, molto cupo, dai ritmi mai eccessivamente sostenuti e con una propensione verso il DSBM che affiora di tanto in tanto nel corso dei brani.
L’album è piuttosto breve ma ficcante il giusto, rivelandosi meritevole d’attenzione ben oltre gli aspetti prettamente legati alla curiosità derivante dalla desueta provenienza geografica.
Indubbiamente l’ortodossia stilistica esibita limita abbastanza le variazioni sul tema, anche se in brani come Self-Humiliation e To Impersonal Mankind certi rallentamenti, uniti a vocals più lancinanti, conferiscono come detto un’aura depressive che non stona affatto, soprattutto se poi quale contraltare troviamo una traccia incalzante come Moral to Pessimist.
Quello preso in esame è sicuramente un buon lavoro che va a collocarsi nella media, invero piuttosto elevata, delle offerte che vengono portate alla nostra attenzione nell’ultimo periodo.

Tracklist:
1. Pessimistically (Abolish the Idols)
2. Destruction of the Will
3. Foolish Conscience
4. Self-Humiliation
5. To Impersonal Mankind
6. Moral to Pessimist
7. Perspective of Exorbitant

Line-up:
Hilnorgoth – Guitars, Vocals
Sagroth – Guitars

GARHELENTH – Facebook

Nadir – The Sixth Extinction

The Sixth Extinction si rivela opera di una band di sicuro spessore, composta da musicisti che hanno sempre sotto controllo lo sviluppo del sound, spesso sufficientemente accattivante e melodicamente mai scontato.

Nonostante si tratti di una band attiva da oltre un decennio, e addirittura dal secolo scorso se consideriamo la sua precedente incarnazione denominata Dark Souls, gli ungheresi Nadir credo proprio che siano degli emeriti sconosciuti dalle nostre parti.

Forse la loro particolare forma di death doom contaminato da pulsioni sludge e metalcore non rappresenterà qualcosa di epocale, ma non merita certamente d’essere del tutto ignorato.
Infatti, The Sixth Extinction, che è il settimo full length uscito con l’attuale monicker, si rivela fin da subito l’opera di una band di sicuro spessore, composta da musicisti che hanno sempre sotto controllo lo sviluppo del sound, spesso sufficientemente accattivante e melodicamente mai scontato, come dimostra per esempio una traccia magistrale come Fragmented, capace di segnare in maniera importante la prima parte del lavoro.
Dico questo perché, subito dopo la massiccia Mountains Mourn, prende vita la trilogia Ice Age in the Immediate Future (ispirata dal dramma The Tragedy of Man, composto dallo scrittore magiaro Imre Madach a metà dell’800) che sposta le coordinate del sound verso un qualcosa di più elaborato, anche se l’impronta catchy del sound dei Nadir non viene mai meno, con addirittura la terza parte, A Matter of Survival, che assume ritmi decisamente incalzanti prima di piombare poco dopo metà brano in un rallentato e distorto incedere.
Il bellissimo strumentale Les Ruines, infine, esibisce in modo esplicito le qualità compositive di questa ottima band, che mette in scena una traccia conclusiva solenne ed evocativa allo stesso tempo, grazie ad una splendida melodia chitarristica che stempera in più parti il rumorismo sui cui si appoggia un recitato in lingua francese.
Considerando anche che The Sixth Extinction, un lavoro ricco di intuizioni che non risultano troppo diluite all’interno di una durata di poco superiore alla mezz’ora, è collegato concettualmente al suo predecessore Ventum Iam ad Finem Est, potrebbe valere la pena di approfondire la conoscenza con questa band foriera di un’interpretazione del death doom sicuramente non banale.

Tracklist:
1. The Human Predator
2. The Debris Archipelago
3. Fragmented
4. Along Came Disruption
5. Mountains Mourn
6. Ice Age in the Immediate Future: I. Arctic
7. Ice Age in the Immediate Future: II. To Leave It All Behind
8. Ice Age in the Immediate Future: III. A Matter of Survival
9. Les Ruines

Line-up:
Viktor Tauszik – Vocals
Norbert Czetvitz – Guitars
Hugó Köves – Guitars
Ferenc Gál – Bass
Szabolcs Fekete – Drums

NADIR – Facebook

Babel Fish – Follow Me When I Leave

Post rock in linea con quanto offerto nel mondo del rock alternativo in questi anni, intimista e scandito da crescendo che portano ad esplosioni elettriche, con le chitarre che a tratti mostrano tracce sanno di noise e sfumature dark wave.

I modenesi Babel Fish licenziano il loro secondo lavoro, un ep di quattro brani dal titolo Follow Me When I Leave, pregno di sonorità alternative e post rock.

La band nasce nella provincia modenese nel 2015, dall’unione di quattro musicisti dalle svariate esperienze nella scena underground, con lo scopo di portare in giro la propria musica.
Il primo demo è il passo obbligato per Gabriele Manzini (voce, chitarra), Edoardo Zagni (chitarra), Matteo Vezzelli (basso) e Giordano Calvanese (batteria), per dare il via alla storia del gruppo che si snoda tra esperienze live e la scrittura di questo secondo lavoro.
Lo stile offerto è il  post rock, in linea con quanto offerto nel mondo del rock alternativo in questi anni, intimista e scandito da crescendo che portano ad esplosioni elettriche, con le chitarre che a tratti mostrano tracce sanno di noise e sfumature dark wave.
In Follow Me When I Leave troviamo quattro brani per una ventina di minuti in atmosfere di liquido rock alternativo ispirato ai Radiohead, dall’opener Morning Birds fino alla conclusiva title track, con pochi guizzi e tanta maniera; in ogni caso la musica della band modenese potrebbe essere un buona scoperta per i fans del genere, con le note ci passano davanti come se fossero posate delicatamente sul letto di un fiume che sfocia nel mare della scena rock attuale, rischiando però di perdersi tra le onde.

Tracklist
1.Morning Birds
2.TGD
3.Veins
4.Follow Me When I Leave

Line-up
Gabriele Manzini – Voice and Guitar
Edoardo Zagni – Guitar
Matteo Vezzelli – Bass
Giordano Calvanese – Drums

BABEL FISH – Facebook

Oracle – Into The Unknown

Secondo album e bersaglio centrato per gli Oracle, anche perché non si accontentano di tributare il death, ma lo valorizzano con ripartenze al limite del black e mid tempo dal piglio moderno e più in linea con la tradizione statunitense.

Iniziamo col dire, a scanso di equivoci, che questo lavoro è un bellissimo esempio di death metal melodico, duro, estremo ed attraversato da una oscura vena melodica che ormai si fatica ad ascoltare di questi tempi.

Ne sono autori gli Oracle, band proveniente dall’Alabama, terra distante dalla patria di queste sonorità, eppure in questo Into The Unknown si respira l’aria intimista dei migliori act scandinavi che del genere sono inventori e maestri.
Secondo album per loro e bersaglio centrato, quindi, anche perché non si accontentano di tributare il death, ma lo valorizzano con ripartenze al limite del black e mid tempo dal piglio moderno e più in linea con la tradizione statunitense.
Ne esce un album interessante e, se non originale in assoluto, almeno personale e nobilitato da splendide melodie oscure e drammatiche: classico lavoro arrivato troppo tardi per finire sulla playlist di fine anno (è uscito infatti nel 2017),  Into The Unknown si compone di dodici brani per un’ora scarsa di metal estremo, potente, melodico e progressivo, suonato e prodotto a meraviglia, anche se in regime di autoproduzione.
Il quartetto non impiega poi molto ad inchiodare l’ascoltatore al muro con una serie di tracce che non scendono sotto la soglia dell’eccellenza, una serie di emozionanti passaggi tra death metal, black e progressive che si passano il testimone lasciando senza fiato per intensità e songwriting.
Livello tecnico sopra le righe al servizio di brani che, fin dall’opener Caressed By The Hands Of Fate è un susseguirsi di saliscendi che ricordano i Dark Tranquillity e gli Opeth, per poi tornare in America ed avvicinarsi ai Lamb Of God.
Drafted, Why e poi tutte le altre perle di questo album vi porteranno nell’universo degli Oracle per poi cancellare la strada del ritorno e lasciarvi a vagare nel buio profondo alla ricerca di una via per poter tornare.

Tracklist
1.Caressed by the Hands of Fate
2.The Liquid Answer
3.Into the Unknown
4.From Blue to Black
5.1012
6.One by One
7.Drafted
8.Behind Closed Eyes
9.Why
10.A Breathless October
11.Becoming Nemesis
12.As the Worm Turns

Line-up
Ray Ozinga – Bass
BG Watson – Drums
Trey Ozinga – Guitars
Jason Long – Vocals

ORACLE – Facebook

Ayat – Carry On, Carrion!

Dieci pallottole che deflagrano in faccia a chiunque abbia il coraggio di avvicinarsi a questo disco, frenetico, viscerale, urgente, incompromissorio.

Dieci pallottole che deflagrano in faccia a chiunque abbia il coraggio di avvicinarsi a questo disco, frenetico, viscerale, urgente, incompromissorio: Ayat proviene dal Libano, terra instabile, è un duo che proclama di suonare “bulldozer heavy metal” e lo fa con una ferocia senza pari generando brani che si nutrono di black, grind, death con una attitudine punk-hardcore molto pronunciata.

Sono arrivati dopo nove anni a produrre il loro secondo album per la statunitense Moribund Records e il carico d’odio è rimasto invariato, loro rimangono contro ogni “religious establishment” compreso l’Islam e contro il genere umano in genere. La musica è potente, non da un attimo di respiro, è furiosa, i riff si inseguono su blast beat incessanti, che si impastano con le vocals in scream aspre, vomitate che talvolta rallentano in parti salmodiate ancora più sinistre. Brani lunghi che fanno della violenza il loro credo dove si corre a rotta di collo senza soluzione di continuità, qualche rallentamento in verità molto raro, titoli esplicativi e indicativi della rabbia viscerale che scorre nel sangue dei due musicisti. Già dall’opener Raw Power  le carte si svelano e si rimane inebetiti di fronte alla decisione e alla potenza di fuoco dei musicisti; il disco prosegue deciso erogando energia distruttrice e annichilente (I Think I Killed Her, Aysha, Closure Is Boring). Nel quinto brano i toni, pur rimanendo tesissimi, diventano più cadenzati e aprono al “piece de resistence” di Jerusalem, di quasi sedici minuti, diviso in due parti, dove nella prima su una base musicale lenta e quasi marziale sono introdotti samples di vari commentatori statunitensi sull’Islam, su Israele e Palestina, mentre la seconda parte rappresenta la risposta della band a tutti questi commenti e qui i toni tornano a infiammarsi: una volta di più la rabbia e l’odio prendono il sopravvento, spazzando qualsiasi minimo residuo di umanità. In definitiva un concentrato di tensione e violenza per una band come Ayat (in arabo segno o miracolo) che rende la propria arte una ragione di vita.

Tracklist
1. Raw War (Beirut Unveils Her Pussy Once More)
2. Every Time a Child Says “I Don’t Believe in Allah” There Is a Little Allah Somewhere That Falls Down Dead
3. I Think I Killed Her
4. Aisha
5. Fever in Tangiers, or to William
6. Closure Is Boring
7. The Pig Who Had Miraculously Been Spared Decomposition
8. Jerusalem I
9. Jerusalem II
10. The First Art of Arrogance, Part II (The Apocalypse Is but an Ejaculation)

Line-up
Reverend Filthy Fuck – Vocals
Mullah Sadogoat – Guitars, Bass

AYAT – Facebook