Arisen From Nothing – Broken

Nuovo ep per gli Arisen From Nothing, gruppo stunitense che nulla aggiunge alle miriadi di realtà metalliche dai rimandi thrash/core che arrivano dagli States.

Dalla piovosa Seattle, città con un passato musicale importante e non solo per il movimento grunge, arrivano gli Arisen From Nothing ,band che del metal moderno e statunitense porta alta la bandiera con tutti i suoi pregi e difetti.

Metal da MTV, quindi grinta e melodia che si alternano sia nel sound che nella doppia voce, ritmiche che passano da veloci cavalcate new thrash a cadenzate esplosioni core, synth che accompagnano (dando un ruffiano tocco elettronico) gran parte dei brani che si presentano come buoni esempi di college metal.
Questa è musica che non avendo grossi sbocchi artistici deve obbligatoriamente far male, altrimenti il rischio è di non incidere più di tanto e piacere solo ai ragazzini, fruitori più orientati a musica usa e getta.
La band aggiunge un po’ di tutto nel suo cocktail, le influenze passano veloci e nell’ascoltatore attento si fa largo quella sensazione di già sentito che non se ne va più, dall’opener Chaos, passando per American Patriot e Falling From Grace, tre delle cinque tracce che compongono questo ep.
Gli Arisen From Nothing tirano fuori gli artigli solo nella conclusiva Born Hatred, brano thrash metal con sfumature melodic death con un bell’assolo centrale, ma è troppo poco per andare oltre ad un’abbondante sufficienza.
Là fuori ci sarà chi adora questo tipo di sound, noi ci limitiamo a consigliarne l’ascolto a loro e a chi ama il metal moderno dai rimandi thrash/core.

Tracklist
1.Chaos
2.American Patriot
3.Better Off Dead
4.Falling from Grace
5.Born Hated

Line-up
Jessie Brigham, Vocals
Troy Elmore, Guitar
Steven Pontius, Guitar
Eric Hanson, Bass
Brandon Fuller, Drums

ARISEN FROM NOTHING – Facebook

Feronia – Anima Era

Una band imprevedibile, un album bellissimo e perfettamente bilanciato tra eleganza prog ed irruenza metal: Anima Era risulta un debutto straordinario, personale ed ispirato.

Grande musica è quella che ci regalano i Feronia, al loro debutto su Andromeda Relix.

Il quartetto piemontese raggiunge questo primo traguardo con Anima Era, un album di spessore che reinterpreta il rock progressivo tradizionale e l’hard rock con piglio moderno, sia nelle scelte di produzione e degli  arrangiamenti, sia per un’ispirazione alternativa capace di rivestire il sound di un appeal altissimo.
Segnata dalla rimarchevole e personale interpretazione della cantante Elena Lippe, protagonista alla pari di un songwriting ispiratissimo, l’opera si può certamente considerare un concept a sfondo ecologico, con il nostro pianeta, visto come la grande madre che abbraccia e protegge il delicato ecosistema di cui noi, come genere umano, facciamo parte.
Completano la line up dei Feronia il chitarrista Fabio Rossin e la sezione ritmica composta da Daniele Glorgini al basso e Fabrizio Signorini alle pelli, dotati di ottima tecnica individuale al servizio della forma canzone e non per mero esercizio tecnico.
E come un vento che soffia deciso da nord, Anima Era ci travolge con i suoi undici capitoli, sferzanti e passionali, metallici ma alternativamente progressivi, richiamando ispirazioni che appaiono e scompaiono senza soffermarsi troppo, così da non avere un punto di riferimento, ma decine di spunti con i quali la band crea la sua personale rivisitazione del rock progressivo nel nuovo millennio.
Così, dall’opener Priestess Of The Ancient New, si comincia un viaggio nell’arte musicale per toccare temi importanti come ecologia, psicologia, ricerca spirituale e politica, con le note che formano una colonna sonora che ha nelle varie Wounded Healer, Humanist, Dephts Of Self Delusion e Thumbs Up! il fulcro musicale dell’album.
Una band imprevedibile, un album bellissimo e perfettamente bilanciato tra eleganza prog ed irruenza metal: Anima Era risulta un debutto straordinario, personale ed ispirato.

Tracklist
1.Priestess Of The Ancient New
2.Atropos
3.Wounded Healer
4.Garden Of Sweet Delights
5.Humanist
6.Free Flight
7.Innocence
8.Dephts Of Self Delusion
9.Exile
10.Thumbs Up !
11.A New Life

Line-up
Elena Lippe – Vocals
Fabio Rossin – Guitars
Daniele GIorgini – Bass
Fabrizio Signorino – Drums

FERONIA . Facebook

Infernotion – Habits

Habits possiede tutti i crismi per cercare di farsi largo nel mare magnum delle uscite di qualità in campo estremo, grazie anche ad un concept lirico tutt’altro che banale.

Habits è il secondo full length per la one man band tedesca Infernotion.

Il musicista che sta dietro al progetto è uno di quelli che si diverte a cambiare nome a seconda dell’ambito nel quale suona, per cui qui lo conosciamo come Peisestratos: ma al di là del dato anagrafico, di questo album intitolato va segnalata un’adesione più marcata ai modelli scandinavi rispetto a quanto normalmente avvenga in terra germanica.
Ciò non è un male, perché se viene meno un po’ di originalità come contraltare troviamo un’interpretazione all’altezza della situazione, con il berlinese che decide di andare a combattere sul terreno dei Satyricon e relativa genia senza sfigurare affatto.
Il black targato Infernotion si avvale di momenti di ampio respiro che trovano la loro sublimazione in una traccia davvero notevole come Viscious Wishes, ideale cartina di tornasole del buon talento compositivo del nostro, il quale regala un album convincente al 100% e che non fa gridare al miracolo solo perché l’adesione ai propri modelli è in effetti piuttosto fedele, ed è questo l’unico punto sul quale il musicista tedesco è chiamato a lavorare per progredire ulteriormente.
Già così, comunque, Habits possiede tutti i crismi per cercare di farsi largo nel mare magnum delle uscite di qualità in campo estremo, grazie anche ad un concept lirico tutt’altro che banale ed incentrato sull’amara constatazione che il male è annidato dentro ciascuno di noi, con la rovina dell’umanità quale ineluttabile conseguenza. Triste ma vero …

Tracklist:
1. Revelation
2. Center of the World
3. Waiting for Nemesis
4. Viscious Wishes
5. Master of Hypocrites
6. Uniform Will
7. Defective Instinct
8. Profit for the Prophet
9. Evil Incarnate

Line-up:
Peisestratos – Guitars/Vocals
Sven – Session Bassist

INFERNOTION – Facebook

Azziard – Metempsychose

Di Metempsychose colpisce la potenza che viene sprigionata da ogni singola nota , con i rari rallentamenti vicini al doom che hanno la funzione di una breve sosta, utile per riprendere il fiato prima che che la macchina si rimetta in moto con tutto il suo carico di malevola oppressione.

Terzo full length per i francesi Azziard, band alle prese da una quindicina d’anni con un’interessante interpretazione della materia black/death.

Metempsychose è cantato interamente in lingua madre ed è incentrato a livello di tematiche sull’opera del noto psicologo svizzero Carl Jung; vista la materia trattata la musica procede di conseguenza, con l’esibizione di sonorità opprimenti, claustrofobiche ma anche denotate da una produzione efficace, capace di restituire al meglio tale turbinio di sensazioni senza farlo apparire un coacervo di rumori ovattati.
Questo, a mio avviso, aumenta non poco il valore di un album la cui componente death fa approdare a più di un passaggio contraddistinto da riff piuttosto geometrici, ai quali fanno da contraltare ritmiche tipicamente black con il drumming di Anderswo decisamente in evidenza.
Musicalmente gli Azziard non sono sperimentali come gran parte delle band provenienti dalla Francia, ma non per questo il loro black metal si può considerare di semplice assimilazione: le dissonanze non mancano e comunque non viene mai meno in ciascun brano un’aura inquieta e drammatica; anche l’interpretazione vocale del fondatore della band A.S.A. è davvero molto efficace, trovando un’espressiva via di mezzo tra growl e screaming, senza dimenticare in tal senso anche l’apporto degli ospiti Julien Truchan (Benighted) e Psycho (Antilife).
Il quadro complessivo delinea senza ombra di dubbio un album dal notevole impatto e che, sicuramente, è in grado di spingersi fino alle orecchie di chi apprezza il metal estremo, pesante e pensante, al di là delle barriere di genere: Metempsychose è alla fine una gragnuola di colpi che si abbatte sull’ascoltatore senza particolare misericordia, disturbando il giusto il suo già inquieto sonno.
Così, se L’Enfer sembra da subito uno dei brani più impattanti ascoltati quest’anno, Ascension e Unus Mundus ne raggiungono puntualmente la forza dirompente e allo stesso tempo evocativa, rappresentando i picchi di un lavoro di qualità spaventosa, come lo sono la convinzione e la competenza con le quali viene gestito l’approccio al genere.
Se gli Azziard non possono essere considerati degli innovatori, nessuno può togliere loro la patente di interpreti di livello assoluto di un black/death che non ha proprio nulla da invidiare a nomi più celebrati come lo possono essere i per esempio i Behemoth: di Metempsychose colpisce la potenza che viene sprigionata da ogni singola nota , con i rari rallentamenti vicini al doom che hanno la funzione di una breve sosta, utile per riprendere il fiato prima che che la macchina si rimetta in moto con tutto il suo carico di malevola oppressione.
Un gran bel disco, per una band che pare aver trovato la sua definitiva e matura forma espressiva.

Tracklist:
1. Premier Jour
2. L’Enfer
3. L’Anachorète, Dies
4. Ascension
5. Le Meurtre du Héros
6. Second Jour
7. Archétype
8. Unus Mundus
9. Psyché
10. Le Sacrifice

Line-up:
A.S.A. : Vocals
Nesh : Guitars
Anderswo : Drums
Gorgeist : Guitars
Sarnath : Bass

AZZIARD – Facebook

Hoofmark – Stoic Winds

Per le sue caratteristiche è comprensibile che l’album proceda un po’ a strappi, ma nel complesso questo approccio non dispiace affatto per coraggio e creatività.

Il primo full length degli Hoofmark è di fatto la riedizione a cura della Ultraje, etichetta fondata dall’omonima rivista portoghese, del demo uscito nel 2016.

Se ci si chiede se tale operazione, invero molto frequente, abbia una sua valenza la risposta è affermativa, perché l’interpretazione del black metal offerta dal musicista lusitano Nuno Ramos, detentore delle chiavi del progetto, è quanto mai ricca di spunti interessanti.
Di sicuro Stoic Winds non è un album monotematico: infatti possiamo rinvenire il genere rivisto nelle sue diverse forme, tutte in maniera piuttosto convincente sia quando i ritmi si fanno più incalzanti finendo su territori crust punk hardcore, sia quando i rallentamenti spostano la barra verso il doom.
Il colpo di scena arriva però con Dust Trails, quando Nuno assume improvvisamente le sembianze di un Johnny Cash sui generis, piazzando un brano country che magari potrà apparire fuori contesto ma possiede un suo malsano fascino.
In effetti il nostro mostra un’irrequietezza compositiva della quale gli va dato atto e, se il tutto rende il lavoro chiaramente disomogeneo, ha sicuramente il grande pregio di una certa imprevedibilità.
Del resto subito dopo arriva la versione denominata Dust Trails Blazing, che riconduce il tutto su un mid tempo classico mantenendo però un’interpretazione vocale sempre piuttosto anomala per il black metal.
Con tali caratteristiche è comprensibile che l’album proceda un po’ a strappi, ma nel complesso questo approccio non dispiace affatto per coraggio e creatività, anche se l’inedito connubio tra metal estremo e country lascerà perplesso più d’uno.
Così, dopo il black’n’roll notevole di Horror Maximus, Nuno chiude le ostilità con Hoofmarks, una sorta di di manifesto del suo procedere con passo sghembo lungo un sentiero tortuoso ma foriero di scenari cangianti; senza voler spingermi a trovare significati che magari non corrispondono al vero, questo lavoro targato Hoofmark è quanto mai strano, lo-fi per indole ancor più che per resa sonora, e nonostante questo (o forse proprio per questo …) mi sono sorpreso ad apprezzarlo non poco.

Tracklist:
1. Yours Should be a Heavy Casket
2. Amongst a Sea of Darkness
3. Stoic Winds
4. Dust Trails
5. Dust Trails Blazing
6. An Arrow Long Due
7. From the Foot of God’s Throne
8. Horror Maximus
9. Hoofmarks

Line-up:
Nuno Ramos

HOOFMARK – Facebook

Godwatt – Necropolis

Misterioso e onirico, Necropolis non lascia speranze e si presenta come un ‘oscura valanga di note che toccano vette di perdizione senza pari.

Questa volta Moris Fosco (voce e chitarra), Mauro Passeri (basso) e Andrea Vozza (batteria) ci invitano ad un sabba nella città dei morti, avvolti dal buio millenario e dall’odore della morte, unica signora di questi luoghi dimenticati dal tempo.

Appena entrati nelle buie e labirintiche caverne, i tra sacerdoti nostrani ci lasciano al nostro destino, la musica accompagna l’alienante e drammatica ricerca di una via d’uscita che non troveremo mai più, inghiottiti nel buio eterno di questa civiltà parallela dove riposano i morti.
I Godwatt sono tornati dopo L’Ultimo Sole, sorta di compilation che la Jolly Roger aveva licenziato lo scorso anno e che era formata da sette brani ri-registrati da MMXVXMM (uscito nel 2015) più un paio dall’album Senza Redenzione (2013), e Necropolis conferma il gruppo come uno dei migliori interpreti di doom metal tricolore.
Avvolti da una nebbia stoner, anche i nuovi brani (cantati rigorosamente in italiano) formano un monolite metallico pesantissimo: misterioso e onirico, Necropolis non lascia speranze e si presenta come un’oscura valanga di note che toccano vette di perdizione senza pari, una continua alternanza tra heavy doom ispirato agli anni settanta, momenti di nere trame metalliche provenienti dal decennio successivo ed ispirate alla tradizione italiana, e più moderne pulsioni stoner che contribuiscono a rendere il sound pesantissimo e psichedelico.
La title track è l’intro che ci accompagna nelle oscure trame di questo Moloch musicale, che ha momenti di intenso incedere lavico già da Morendo, mentre Siamo Noi Il Male rappresenta tutto il credo musicale del gruppo, nove minuti di metallo che equivalgono ad un asteroide in caduta libera sulle nostre teste, con testi che raccontano di morte ed eterna dannazione.
Necropolis non lascia tempo nè speranza, e La Tua Ora prosegue l’opera, lasciando a Tra Le Tue Carni la palma di brano più heavy rock dell’album, prima che il capolavoro La Morte E’ Solo Tua si prenda la scena.
Tenebre è il primo singolo licenziato dal gruppo per questo lavoro che ci lascia con l’atmosfera stoner di Necrosadico (bonus track della versione in cd), dove i Godwatt si avvicinano allo sludge e noi ormai agonizzanti ci ritroviamo sepolti dalla polvere sollevata dal passaggio in questi abissi di morte e disperazione.
Necropolis è un’altro bellissimo lavoro da parte di questa grande band che tiene alto il vessillo del metal italiano nella sua veste più oscura.

Tracklist
1.Necropolis
2.Morendo
3.Siamo noi il male
4.E’ la tua ora
5.Tra le tue carni
6.La morte è solo tua
7.Tenebre
8.R.I.P.
9.Necrosadico

Line-up
Moris Fosco – Guitars, Vocals
Mauro Passeri – Bass
Andrea Vozza – Drums

GODWATT – Facebook

Myth Of A Life – Chimera

La caratteristica principale del sound del gruppo di Sheffield è la capacità di mantenere un approccio di ispirazione scandinava (primi In Flames, At The Gates), lasciando che ritmiche e sfumature guardino al più moderno metal estremo statunitense senza snaturare l’approccio nordico, come appunto negli In Flames post Clayman.

I Myth Of A Life sono una band di stanza nel Regno Unito, ma di fatto da considerare una band internazionale.

I musicisti coinvolti si rincorrono in una line up volubile, tanto che lo scorso album (She Who Invites) era stato registrato da una formazione che al momento dell’uscita era cambiata di ben quattro elementi con il solo Phil Dellas unico superstite, dietro al microfono.
Il gruppo torna sul finire dell’anno e ancora una volta troviamo non pochi cambiamenti, con il numero di musicisti ridotto a due (Dellas, viene affiancato da William Price al basso e alla chitarra).
Un anno è passato dal precedente full length e i Myth Of Life confermano con questi tre brani più intro la bravura con cui si approcciano al death metal melodico.
Dura poco più di dieci minuti ma Chimera risulta di un’intensità pazzesca: il sound della band mantiene inalterato il mood che aveva caratterizzato i brani di She Who Invictes, quindi grande impatto, ottima tecnica, cavalcate furiose e tanta melodia, con un Dellas sugli scudi tra un rabbioso screaming e un profondo growl.
La chitarra impazza prendendoci per i capelli e trascinandoci senza pietà, i solos melodici suonati a velocità sostenute esaltano, così che la title track si dimostra subito un gran pezzo di granito melodic death.
La caratteristica principale del sound del gruppo di Sheffield è la capacità di mantenere un approccio di ispirazione scandinava (primi In Flames, At The Gates), lasciando che ritmiche e sfumature guardino al più moderno metal estremo statunitense senza snaturare l’approccio nordico, come appunto negli In Flames post Clayman.
Le due tracce che completano l’EP (God Within e The True Face Of Death) confermano l’ottimo trend del gruppo britannico e Chimera non fa che alzare le aspettative sul prossimo full length.

Tracklist
1. Omen
2. Chimera
3. God Within
4. The True Face Of Death

Line-up
Phil ‘’Core’’ Dellas – vocals
William Price – guitars, bass

MYTH OF A LIFE – Facebook

Watain – Trident Wolf Eclipse

La storia parla già per i Watain, che regalano un altro monolite musicale a tutti gli amanti del black.

Il sentiero dei Watain non è mai caritatevole, ma sempre caratterizzato da una forza ed un’energia unica.

Il 2018 si apre così, con Trident Wolf Eclipse, per una band che ha già un suo posto di diritto nella storia del genere nero per definizione, il black metal.
La copertina dell’album, come spesso è consuetudine per la band svedese, si presenta con un (non)colore che più che bianco e nero è nichilisticamente e fieramente grigio. Ed è proprio questo clima di dissacrazione che ritroviamo trasportato in musica per tutto l’album.
Esattamente come un branco di lupi, i Watain mostrano ad ogni nota di essere famelici fino all’estremo. A fare da capobranco, ovviamente, la voce di Erik Danielsson, che sembra nato esattamente per occupare quel ruolo. L’ascoltatore amante della forza distruttiva del black, nonché dei Watain stessi, non potrà che essere felice di isolarsi dal mondo esterno e chiudersi in un tunnel di eccesso sonoro come quello di Trident Wolf Eclipse.
Il brano d’apertura, Nuclear Alchemy, avvisa dal primo secondo chi ascolta su quella che sarà la linea forsennata di tutto il disco. Non c’è da sorprendersi, infatti, che in ben 41 minuti non ci sia un solo secondo di stasi o di angelica riflessione, e nemmeno per qualche intermezzo più melodico. Non è nello stile dei Watain.
In questo nuovo album, la band svedese ha fatto esattamente ciò che sa fare meglio e che ha sempre fatto: eliminare e distruggere con l’odio in corpo fino allo sfinimento. Sicuramente ogni fan sarà entusiasta del fatto che, in 20 anni di carriera, l’attitudine di una band che è un punto di riferimento del genere sia rimasta la stessa.

Tracklist
1. Nuclear Alchemy
2. Sacred Damnation
3. Teufelsreich
4. Furor Diabolicus
5. A Throne Below
6. Ultra (Pandemoniac)
7. Towards the Sanctuary
8. The Fire of Power

Line-up
Erik Danielsson – voice/ bass
P. Forsberg – guitar
H. Jonsson – drums

WATAIN – Facebook

Spoil Engine – Stormsleeper

Stormsleeper, senza far gridare al miracolo, risulta una bella mazzata di modern metal dalle influenze core e, come molte realtà del vecchio continente, con un occhio al death metal melodico, punto fermo del sound europeo in simili contesti.

Quando si parla di metal moderno viene naturale guardare aldilà dell’oceano, mercato che ha sempre vissuto le varie contaminazioni subite dal metal con interesse, decretandone il successo.

Questa volta però parliamo di una band europea, precisamente belga, che ha ottenuto un discreto successo con un paio di lavori passati (Skinnerbox v.07 e Antimatter, usciti rispettivamente nel 2007 e nel 2009) e che dopo varie difficoltà, dovute soprattutto a molti cambi in formazione, torna con un nuovo album (Stormsleeper) licenziato dalla Arising Empire, costola specializzata nelle sonorità moderne del colosso metallico Nuclear Blast.
Stormsleeper, senza far gridare al miracolo, risulta una bella mazzata di modern metal dalle influenze core e, come molte realtà del vecchio continente, con un occhio al death metal melodico, punto fermo del sound europeo in simili contesti.
Valorizzato dall’ottima prestazione della singer Iris Goessens, una leonessa arrivata nel gruppo nel 2015 e diventata in poco tempo il fulcro del sound degli Spoil Engine, l’album si lascia ascoltare lasciando la sensazione d’essere al cospetto di un gruppo magari poco originale, ma assolutamente in grado di catturare l’attenzione dei giovani metallari del nuovo millennio.
Metalcore, melodic death metal e alternative in piccole dosi riempiono di ferocia brani dal tiro micidiale come Disconnect, Doomed To Die e Black Sails, con la Goessens che fa la Gossow in versione modern metal.
Prodotto benissimo, l’album non manca di alternare rabbia estrema e melodia, un saliscendi metallico in cui la cantante fa il bello e cattivo tempo con il picco nella splendida The Verdict, la canzone più sfacciatamente scandinavo di tutto il lavoro.
Se riusciranno a tornare al successo che assaporarono dopo l’uscita di Antimatter lo vedremo, sicuramente Stormsleeper si rivela per il gruppo belga un ritorno assolutamente convincente.

Tracklist
1. Disconnect
2. Silence Will Fall
3. Doomed To Die
4. Weightless
5. Stormsleeper
6. Hollow Crown
7. Black Sails
8. The Verdict
9. Singing Sirens
10. Wastelands

Line-up
Iris Goessens – Vocals
Steven ‘gaze’ Sanders – Lead guitars
Bart Vandeportaele – Guitars
Kristof Taveirne – Bass
Matthijs Quaars – Drums

SPOIL ENGINE – Facebook

017 Modern Metal/Melodic Death 7.70

Sinistro – Sangue Cássia

Terzo full length per i Sinistro, che affinano la propria capacità compositiva donandoci un doom atmosferico, personale, ricco di pathos e tensione, con vocals in portoghese: stupefacenti.

Band in costante e forte ascesa, i portoghesi Sinistro agli albori del nuovo anno consegnano ai nostri padiglioni auricolari il loro terzo full length, sempre per Season of Mist.

Visti dal vivo, di supporto ai Paradise Lost, mi avevano impressionato con un doom intenso e atmosferico accompagnato in modo molto efficace e teatrale dalla voce di Patricia Andrade, che nonostante le minute forme è in grado di ammaliare la platea con i suoi vocalizzi e le sue movenze. La band, con il nuovo Sangue Cassia ha ulteriormente affinato il lato compositivo, ancorando il proprio sound ad un doom molto atmosferico, fluido, sempre carico di tensione ma “addolcito” dalla cangiante vena interpretativa di Patricia, capace di donare a ogni brano un valore aggiunto; fin dai primi splendidi dieci minuti di Cosmos Controle, la parte strumentale molto carica e decisa viene seduttivamente accarezzata da vocals raffinate ed eleganti per creare un’atmosfera calda, trafitta da note di keyboard dal sentore cosmico. Il cantato in portoghese aggiunge una velo di tristezza e di mistero affascinante e la parte strumentale non erige muri di suono, ma spiega la propria possanza in modo calmo e imponente, cercando più l’atmosfera che la forza. I brani, otto, per quasi un’ora di musica, acquistano profondità con gli ascolti, le chitarre ricercano melodie non convenzionali interagendo con le tastiere e, ripeto, l’ interpretazione vocale è stupefacente, così intensa, ricca di pathos (Lotus) da trasportare la musica verso orizzonti sconfinati. Qualche aroma darkwave e cinematografico permea il lavoro, così come le ritmiche trip hop presenti in Nuvem danno un quid in più a questo bel disco.
In definitiva una band personale e il consiglio è quello di non perderla dal vivo, dove potrete gustare al meglio le capacità interpretative di Patricia.

Tracklist
1. Cosmos Controle
2. Lotus
3. Petalas
4. Vento Sul
5. Abismo
6. Nuvem
7. Gardenia
8. Cravo Carne

Line-up
RICK CHAIN – GUITAR
FERNANDO MATIAS – BASS
PAULO LAFAIA – DRUMS
PATRICIA ANDRADE -VOCALS
RICARDO MATIAS – GUITAR

SINISTRO – Facebook

Stillborn – Mirrormaze & Die in Torment 666

Un’opera di ripescaggio assolutamente solo per i fans del gruppo o per chi ama il verbo nero nella sua versione più underground e senza compromessi.

La Godz Ov War ci presenta i primi due album licenziati dagli Stillborn, realtà anticristiana di stanza a Mielec, in Polonia.

Usciti originariamente tra il 1999 ed il 2001, i due lavori in questione risultano l’inizio della carriera musicale del combo polacco, che in seguito darà alle stampe un paio di lavori minori e ben cinque full length di cui Testimonio de Bautismo è l’ultimo malefico parto uscito lo scorso anno.
Vecchi ormai di quasi vent’anni, i due demo difettano di una produzione old school, ma il death/black metal di cui sono portatori tiene bene lo scorrere del tempo. risultando sempre cattivo, maligno ed oscuro.
Una raccolta di brani che ben presenta il sound del gruppo polacco, in linea con la scena estrema dell’est europeo e che alterna sfuriate black metal a più possenti trame death.
L’attitudine e l’impatto sono perfettamente in simbiosi con la nera fiamma che brucia ininterrottamente tra le note di brani  diretti e senza fronzoli e che sputano veleno in pochi minuti.
Un growl più profondo ed uno scream diabolico si danno il cambio portando il verbo satanista in musica, mentre l’oscurità regna tra lo spartito di Crave For Killing e Mirrormaze (da Mirrormaze) o Keep Dying e Millennium Of Hatred (da Die In Torment 666).
Un’opera di ripescaggio assolutamente solo per i fans del gruppo o per chi ama il verbo nero nella sua versione più underground e senza compromessi.

Tracklist
1.Crave For Killing
2.Hefaystos
3.Die In Torment
4.Nailed Hessus
5.Mirrormaze
6.Morphine Laboratory
7.Stillborn
8.Artror City
9.Molestation*
10.Iconoclast* (Mirromaze Era version)
11.Keep Dying
12.Blasphemous Perversion
13.Whore
14.Millenium of Hatred
15.Blood, Chains & Whips
16.Iconoclast (D.I.T.666 Era version)
17.God Is Good

Line-up
Line Up Mirrormaze:
Killer – Guitars, Bass, Vocals
Rafał R. – Drums
Grzegorz O. – Guest Growling
Łukasz P. – Sample

Line Up Die In Torment 666:
Killer – Guitars, Vocals
Rafał R. – Drums
Andrzej T. – Bass
Łukasz M. – Vocals

STILLBORN – Facebook

Gabriels – Over the Olympus – Concerto for Synthesizer and Orchestra in D Minor Op. 1

Il progetto di questo disco è un affrontare l’ignoto, poiché nessuno aveva mai tentato di coniugare in un concerto i synth ed un’orchestra.

Potrebbe sembrare strano, ma ci sono ancora terre musicalmente vergini e piene di rigogliosi frutti che aspettano di essere colti.

Gabriels è molto più di un musicista e qualcosa in più di un compositore, è una mente ed un corpo votati totalmente alla musica, in quanto figlio d’arte e approfondito studioso della musica sia nella sua forma musicale che in quella fisica, come la foniatria. Innumerevoli sono le sue collaborazioni e le cose che ha fatto per la musica, spaziando dalla classica al metal, passando per il prog. Il progetto di questo disco è un affrontare l’ignoto, poiché nessuno aveva mai tentato di coniugare in un concerto i synth ed un’orchestra. Innanzitutto l’ascolto ci rende chiara l’assoluta godibilità di questo connubio, poiché come dice lo stesso Gabriels nell’intervista che ci ha rilasciato, se si trova la forma giusta si può fare tutto, e questo disco ne è la dimostrazione. Il concerto è una sorta di disco sugli dei dell’Olimpo, le loro gesta e le loro vicissitudini, quindi un qualcosa che deve essere rappresentato con maestosità. Il suono moderno del sintetizzatore si sposa molto bene con l’orchestra, e ci rimanda ai fasti sperimentali del prog anni settanta, quando la sperimentazione era la centro di molti percorsi musicali, totalmente scevri da qualsiasi intento commerciale, come è questo disco. La forza, la potenza e la bellezza della musica classica si incontrano con il suono moderno del sytnh per dare vita ad un qualcosa di totalmente nuovo che delizierà le vostre orecchie. Nella composizione l’attitudine è molto metal, poiché il synth viaggia spesso veloce e racchiude in sé ciò che potrebbe fare un gruppo musicale. Si viaggia veloce, ma tutto ha un suo tempo all’interno del disco, non c’è fretta poiché tutto segue un suo percorso ben preciso, e il genio di Gabriels tiene tutto assieme molto bene. Un disco che rimanda ad epoche lontane e ad alcune più vicine, sempre con la musica e l’amore per essa al centro, essendo questo una compenetrazione totale fra pensiero umano e composizione musicale. Musica classica progressiva.

Tracklist
01. Temple Valley (Andante)
02. By The Giant’s Eyes (Moderato)
03. Titans Versus Giants (Andante Con Moto)
04. Through White Clouds (Moderato)
05. The Magical Castle (Adagio)
06. Gods (Allegretto Con Fuoco)
07. Immortals (Epico)
08. Thunderbolts (Moderato)
09. Over The Olympus (Maestoso)

Line-up
Gabriels : composer
Strings Orchestra directed by Yusaku Yamada
Violins 1:
Ayaka Suzuki
Airi Tanaka
Daysuke Watanabe
Emi Inoue
Violins 2:
Goro Hayashi
Akemi Nakano
Kyoko Otonashi
Hitomi Miura
Junko Nakagawa
Violas:
Osamu Okamoto
Noriku Sakamoto
Aimi Ishii
Cellos:
Akane Maeda
Chira Abe
Emi Kimura
Hanako Inoue
Basses:
Izumi Yamamoto
Kaori Watanabe
Iroshi Shiba
Yusaku Godai
Piano:
Giovanni Puliafito
Harp:
Masakatsu Katsura
Percussions:
Hyo Shimizu
Timpani:
Kaori Matsumoto

GABRIELS – Facebook

Man Daitõrgul – Gulkenha

L’auspicio è che Nagh Ħvaëre prosegua il suo cammino cercando di rimediare ai punti deboli evidenziatisi all’ascolto di questo full length, anche perché in quanto espresso dal progetto Man Daitõrgul ci sono diversi aspetti positivi sui quali porre le basi per ripartire.

Non è mia abitudine esprimermi in maniera poco lusinghiera su un disco sottoposto alla mia attenzione: è vero che spesso ciò non si rivela necessario, ma il motivo è che si preferisce dalle nostre parti lasciare spazio alle opere più meritevoli evitando di dedicare tempo e spazio a quello che talvolta viene visto come una sorta di accanimento nei confronti di musicisti che, a prescindere, meritano sempre e comunque il massimo rispetto come persone e come artisti.

Quando è però il musicista stesso a richiedere una recensione, bypassando quella che è la canonica trafila della mail o del comunicato proveniente da label o agenzie di promozione, è una dovere morale quello di acconsentire anche se, non necessariamente, quanto ne verrà fuori avrà connotazioni positive, con la certezza che sia sempre preferibile per chiunque ottenere un riscontro negativo, ma articolato, piuttosto che essere ignorati.
Di questo primo full length della one man band spagnola Man Daitõrgul bisogna innanzitutto dire che siamo di fronte ad un lavoro ricco di buone idee, che vanno dal songwriting al concept stesso, con tanto di lingua immaginaria (il baaldro) creata dalla fervida fantasia di Nagh Ħvaëre, purtroppo non assecondate a dovere a livello di realizzazione a causa di oggettivi e talvolta macroscopici difetti.
Il contenuto di Gulkenha è un black metal dai connotati pagan-epic che funzionerebbe discretamente se non fosse penalizzato da suoni rivedibili e decisamente scolastici per quanto riguarda la chitarra (molto meglio il lavoro tastieristico, per quanto piuttosto lineare) e da un’interpretazione vocale piatta, con un growl recitativo in stile Bal-Sagoth poco espressivo e troppo in primo piano rispetto al sottofondo musicale; purtroppo le cose non vanno meglio quando si tenta un approccio corale con voci pulite, perché per esempio le stonature in Kħazesis Gleivarka e Gulke Nagh non possono essere ignorate, pur con tutta la benevolenza possibile.
Così, alla fine, restano da salvare alcuni interessanti spunti strumentali come l’incipit della stessa Gulke Nagh, che riesce a restituire un po’ di quell’evocatività che dovrebbe essere il tratto distintivo dell’album, almeno prima che siano nuovamente le voci a riprendere il proscenio, e il ritmato incedere di Neħvreskйgaidaŋ, che essendo la traccia di chiusura lascia se non altro un ricordo piacevole del lavoro.
Spiace doverlo dire, ma Gulkenha ha poche speranze di ritagliarsi un minimo di spazio all’interno di una scena musicale cosi vasta e il più delle volte qualificata: un peccato, perché l’idea di partenza è sicuramente valida ma tale scintilla finisce per spegnersi in una trasposizione musicale che si rivela deficitaria.
L’auspicio è che Nagh Ħvaëre prosegua il suo cammino cercando di rimediare ai punti deboli evidenziatisi all’ascolto di questo full length, anche perché, ribadisco, in quanto espresso dal progetto Man Daitõrgul ci sono diversi aspetti positivi sui quali porre le basi per ripartire.

Tracklist:
1. Ħaram am Drokelйa
2. Kħazesis Gleivarka
3. Man Daitõrgul / Slăm Iƥe Kaldrath
4. Bo Sevakaëra na Drokeŋ
5. Togul Daitõren
6. Evaƥ og Ovre Voħrænŋ
7. Gulke Nagh
8. Neħvreskйgaidaŋ

Line-up:
Nagh Ħvaëre – All instruments, Vocals

MAN DAITORGUL – Facebook

Perfect Beings – Vier

I quattro brani, divisi in quattro splendide suite, nella versione in doppio vinile coprono ogni lato per un tuffo nel progressive d’autore, per una volta concepito fuori dalle mode del momento e più in linea con le creazioni dei mostri sacri del progressive rock settantiano.

I progsters statunitensi Perfect Beings le basi per arrivare a questo ultimo lavoro le hanno poggiate già da qualche tempo.

Ryan Hurtgen, Johannes Luley e Jesse Nason creano musica progressiva di altissimo livello da una manciata d’anni, prima con il debutto omonimo, seguito da II, licenziato nel 2015 e ora con Vier, mastodontico album di musica progressiva, come si faceva una volta.
I quattro brani, divisi in quattro splendide suite, nella versione in doppio vinile coprono ogni lato per un tuffo nel progressive d’autore, per una volta concepito fuori dalle mode del momento e più in linea con le creazioni dei mostri sacri del progressive rock settantiano.
Non fraintendetemi, Vier non è affatto un album vintage, lo spartito e la conseguente valanga di note che il gruppo ci riversa addosso ha i piedi ben piantati nel nuovo millennio, così che l’album si cibi di soluzioni moderne ma dall’approccio assolutamente tradizionale, facendone uscire qualcosa di imperdibile per gli amanti del rock progressivo.
Guedra, The Golden Arc, Vibrational e Anunnaki sono i titoli delle quattro suite, divise a loro volta in capitoli e che formano un opera d’altri tempi ma dal mood assolutamente targato 2018, tra bellissime melodie di fiati, digressioni jazzistiche, fughe rock ed un uso delle voci incantevole (Ryan Hurtgen nel suo personale approccio al canto si può certamente definire il nuovo Jon Anderson).
In tutta questa meraviglia sonora dalla durata proibitiva, se non si ha il tempo e la concentrazione necessaria per seguire l’opera nella suo lungo dipanarsi tra atmosfere sulfuree e sfumature fluttuanti, i tre musicisti navigano a vele spiegate verso una consacrazione meritata tra i raffinati e conservatori gusti degli appassionati di progressive rock, regalando la loro personalissima versione della musica di Yes, King Crimson e Genesis.
A tratti sorge il dubbio che l’atmosfera tradizionale di Vier possa far storcere il naso a chi apprezza le nuove sonorità progressive, e che i suoi arrangiamenti e le atmosfere moderne confondano i fans con più di un capello bianco, ma sono dettagli che la bellezza della musica spazza via per lasciare solo la sensazione di essere al cospetto di un album straordinario.

Tracklist
1.Guedra – A New Pyramid
2.Guedra – The Blue Lake Of Understanding
3.Guedra – Patience
4.Guedra – Enter The Center
5.The Golden Arc – The Persimmon Tree
6.The Golden Arc – Turn The World Off
7.The Golden Arc – America
8.The Golden Arc – For A Pound Of Flesh
9.Vibrational – The System And Beyond
10.Vibrational – Mysteries, Not Answers
11.Vibrational – Altars Of The Gods
12.Vibrational – Everywhere At Once
13.Vibrational – Insomnia
14.Anunnaki – Lord Wind
15.Anunnaki – Patterns Of Light
16.Anunnaki – A Compromise
17.Anunnaki – Hissing The Wave Of The Dragon
18.Anunnaki – Everything’s Falling Apart

Line-up
Ryan Hurtgen – Vocals, Piano
Johannes Luley – Guitar, Bass, Production
Jesse Nason – Keyboards
Ben Levin – Drums

PERFECT BEINGS – Facebook

Desecrated Grounds – Lord Of Insects

Lord Of Insects è un album per gli amanti del death/thrash senza compromessi ed è a loro che va consigliato, con tutte le perplessità del caso.

Una nuova band si affaccia sul panorama estremo underground, i finlandesi Desecrated Grounds, quintetto proveniente dalla capitale attivo da tre anni e di questi tempi fuori con il primo album Lord Of Insects.

Death thrash metal con un taglio hardcore è quello che ci propongono i cinque guerrieri, una tempesta senza soluzione di continuità che unisce la potenza del death metal old school e la velocità e violenza del thrash metal suonati con un’attitudine hardcore che ne accentua la pericolosa indole estrema.
Lord Of Insects è un lavoro devastante, ma anche una prova solo a tratti convincente, così che la proposta non può che essere consigliata ai soli fans della violenza in musica.
I difetti non mancano, perché alla lunga l’album soffre di una leggera ripetitività, tipica di quando il sound è un mostro musicale estremo e senza compromessi: manca infatti nei brani quel quid che faccia in modo di ricordarsi di loro, mentre l’album si presenta come un muro sonoro invalicabile.
Il groove fa capolino solo  a tratti (Stabwound Addict) rendendo ancora più profondo il suono, mentre il growl rabbioso risulta monocorde.
Un album che per gli amanti del genere risulterà sicuramente una randellata notevole ed è solo a loro che va consigliato, con tutte le perplessità del caso.

Tracklist
1.The Story Untold
2.Awaken
3.Lord of Insects
4.Stabwound Addict
5.Sewing the Head Back
6.Filth
7.The Death in Me
8.The Manifest
9.Valve

Line-up
Keijo Loisa – Guitars
Erno Hulkkonen – Guitars
Jere Sjöblom – Bass
Jussi Salminen – Vocals
Tapio Christiansen – Drums

DESECRATED GROUNDS – Facebook

Mason – Impervious

A livello di sound poco è cambiato, il gruppo di Melbourne spara nove bordate metalliche veloci e potenti, lasciando da parte qualche sfumatura europea per avvicinarsi sempre più al thrash metal della Bay Area, scelta azzeccata visto il buon risultato.

Ci eravamo occupati dei Mason quattro anni fa sulle pagina riservata ai suoni metallici di In Your Eyes, è giunta l’ora di riparlarne su MetalEyes in occasione dell’uscita del nuovo album, questo devastante esempio di thrash metal tripallico intitolato Impervious.

La line up vede James Benson (voce e chitarra), Steve Montalto (basso) e Nonda Tsatsoulis (batteria) ancora in sella, raggiunti da Grant Burns a formare un quartetto pronto al massacro dall’alto dell’ottimo album che conferma la bontà della proposta dei Mason, una delle migliori realtà del genere a livello underground in arrivo dall’Australia.
A livello di sound poco è cambiato, il gruppo di Melbourne spara nove bordate metalliche veloci e potenti, lascia indietro qualche sfumatura europea per avvicinarsi sempre più al thrash metal Bay Area, scelta azzeccata visto il buon risultato.
Impervious così risulta un thrash metal album con i fiocchi, le influenze di Exodus, Testament e primi Metallica sono ben visibili, ma il genere è questo, prendere o lasciare.
E noi prendiamo con piacere, anche perché i Mason sanno come soddisfare i thrashers dai gusti old school, quindi si viaggia a cento all’ora o si rallenta, ma si rimane nel thrash metal classico tra solos al fulmicotone, ripartenze e frenate e chorus come da copione del genere.
Benson modula la sua voce come si faceva negli States molti anni fa e ne escono brani che sono esplosioni di watti; dopo l’intro Elios è un susseguirsi di saliscendi sulle montagne russe in compagnia del quartetto di Melbourne, che ci spacca le ossa con Burn, Tears Of Tragedy, la title track e Created To Kill.
Niente di nuovo sotto il sole australiano, ma tanta buona musica metal in arrivo a percuoterci senza pietà: i Mason sono tornati più forti che e devastanti che mai

Tracklist
1.Eligos
2.Burn
3.Tears of Tradegy
4.The Afterlife
5.Impervious
6.Cross This Path
7.Sacrificed
8.Hellbent on Chaos
9.Created to Kill

Line-up
Nonda Tsatsoulis – Drums
Jimmy Benson – Vocals, Guitars
Steve Montalto – Bass
Grant Burns – Guitars (lead)

MASON – Facebook

Steve Hackett – Wuthering Nights: Live in Birmingham

Su un nuovo album dal vivo di Steve Hackett non c’è molto da dire, soprattutto se sia chi scrive sia chi legge concorda sul fatto che i miti si possono solo venerare e mai discutere.

Su un nuovo album dal vivo di Steve Hackett ci dovrebbe essere francamente poco da dire, soprattutto se sia chi scrive sia chi legge concorda sul fatto che i miti si possono solo venerare e mai discutere.

Per cui non resta che descrivere quello che, più o meno, è contenuto in questo Wuthering Nights: Live in Birmingham, lavoro che esce anche nel formato Dvd/Blue Ray oltre a quello in doppio cd: a grandi linee ci troviamo di fronte alla scaletta che Steve, con la sua band, ha portato in tour anche dalle nostre parti la scorsa estate, rispettando la stessa ideale suddivisione in due parti, con la prima dedicata ai brani della produzione solista e l’altra a quelli storici dei Genesis.
Rispetto al concerto che ho visto in quel di Vigevano a luglio, ho potuto almeno godermi la prima parte riuscendo ad ascoltare i brani senza dovermi preoccupare di difendermi dai nugoli di zanzare che avevano reso i miei connotati simili a quelli di The Elephant Man (e credo che anche lo stesso Hackett se lo ricordi, visto che a tratti lo si vedeva gesticolare sul palco manco fosse stato il Pete Townsend dei bei tempi …).
In questa prima sessione va rimarcata la riproposizione del brano capolavoro della produzione solista del chitarrista inglese, Shadow Of The Hyerophant, qui con l’apporto sul palco della voce femminile di Amanda Lehmann, oltre a diverse altre ottime canzoni (su tutte Every Day, da Spectral Mornings) e con la chiusura affidata a Eleventh Earl Of Mar, prima delle tracce tratte da Wind And Wuthering, l’album dei Genesis omaggiato nell’occasione per il suo quarantennale.
Il secondo cd è del tutto appannaggio della produzione dello storico gruppo, con la giusta attenzione al lavoro celebrato all’uopo, un disco la cui complessiva sottovalutazione da parte degli stessi fan dei Genesis è dovuta all’inevitabile paragone con quei 5-6 capolavori usciti precedentemente piuttosto che al suo oggettivo valore; e, in effetti il motivo di curiosità è appunto la riproposizione di brani che di solito non trovano molto spazio nelle scalette dei concerti, come Blood On The Rooftops, In That Quiet Earth e One For The Vine, più quella Inside And Out che finì fuori da Wind And Wuthering per essere relegata all’Ep Spot The Pigeon, mentre non è certo una novità l’evergreen Afterglow, che va a fare compagnia alle immortali Firth Of Fifth, The Musical Box e Dance On A Volcano, con il gran finale rappresentato come sempre da Los Endos.
La band che accompagna Hackett è quella ormai rodata da tempo, con magnifici musicisti capaci di assecondarne il sempre magico tocco chitarristico: in particolare, l’idea di rafforzare diverse parti di chitarra con l’ausilio dei fiati si rivela piuttosto azzeccata, andando ad enfatizzare il sound senza penalizzarne l’intensità.
L’unico dubbio in un simile contesto è la voce di Nad Sylvan, la cui timbrica sembra più adatta ai brani risalenti all’epoca Gabriel che non a quella successiva con Phil Collins nel ruolo di cantante e, indubbiamente, nel confronto con questi due giganti il pur bravo vocalist finisce inevitabilmente per soccombere, facendo scemare in alcuni frangenti la magia evocata da molte delle pietre miliari poc’anzi citate.
In ogni caso l’opera, in qualsiasi formato la si voglia prendere in considerazione, è dedicata ai fans più accaniti che non vogliono perdersi proprio nulla del loro musicista preferito; magari qualcuno avrà da eccepire sul fatto che Steve continui a incentrare i suoi concerti principalmente sui brani dei Genesis, ma credo che ne abbia tutti i diritti, non fosse altro che per la credibilità costruitasi nel corso di una carriera sempre foriera di soddisfazioni per gli appassionati, anche grazie ad album di inediti tutt’altro che superflui per qualità e voglia di esplorare nuove frontiere sonore.
Poi sappiamo bene che la dimensione live è una sorta di rito collettivo, nel corso del quale si versa più che volentieri qualche lacrima di commozione nell’ascoltare i classici suonati da chi ha contribuito fattivamente a farli diventare tali, sperando sia chiaro a tutti che ciò può essere solo avvicinato e mai eguagliato dalle pur ottime cover band che continuano a predicare fedelmente il verbo dei Genesis.
Il mito non si discute, si ama:  appunto …

Tracklist:
Disc 1
1. Every Day
2. El Niño
3. The Steppes
4. In The Skeleton Gallery
5. Behind The Smoke
6. Serpentine Song
7. Rise Again
8. Shadow Of The Hierophant
9. Eleventh Earl Of Mar

Disc 2
1. One For The Vine
2. Acoustic Improvisation
3. Blood On The Rooftops
4. In That Quiet Earth
5. Afterglow
6. Dance On A Volcano
7. Inside And Out
8. Firth Of Fifth
9. The Musical Box
10. Los Endos

Line-up:
Steve Hackett – Guitar, Vocals
Roger King – Keyboards
Nad Sylvan – Vocals, Tambourine
Gary O’Toole – Drums, Percussion, Vocals
Rob Townsend – Saxophone, Woodwind, Percussion, Vocals, Keyboards, Bass Pedals
Nick Beggs – Bass, Variax, Twelve String, Vocals
Guests:
John Hackett
Amanda Lehmann

STEVE HACKETT – Facebook

Land Of Damnation – Demon

Primo ep per i campani Land Of Damnation, band dal sound ispirato sia dal death metal melodico che dal più tradizionale heavy metal.

Metal classico e melodic death metal, due generi uniti dal lavoro e dal talento delle storiche band scandinave che, nei primi anni novanta diedero vita alla scena death metal melodica.

Con gli anni il sound ha preso altre direzioni, amalgamandosi con i suoni moderni nati negli States grazie alle svolte stilistiche di Soilwork e, principalmente, In Flames, ma gruppi che continuano ad ispirarsi ai primi esempi di questo storico sodalizio non ne mancano certo, specialmente nell’underground.
I Land Of Damnation, per esempio, debuttano con Demon, ep di quattro brani più intro che esprime tutto l’amore dei musicisti campani per il genere: un buon inizio per il gruppo, visto il tiro dei brani che compongono l’opera.
Nata per volere dei due chitarristi che rispondono ai nomi di Adrian Beppe e Dark Tranquillo nel 2014, la band arriva solo ora al debutto con questo ep che non fa nulla per nascondere la sua natura classica, abbinata al death metal melodico dei primi In Flames e Dark Tranquillity e ad un tocco di oscurità power/thrash alla Iced Earth.
Demon, nella sua attitudine classicheggiante, riesce a toccare le corde giuste specialmente se ad avvicinarsi alla musica di cui è composto sono i fans dei gruppi citati, più ovviamente gli Iron Maiden, padrini del lato più classicamente heavy della title track e della splendida Tearing The Veil, brano top dell’album, perfetto nell’alternare atmosfere maideniane a più oscure e pressanti parti melodic death (grazie anche al growl dell’ospite Gioele Di Giacomo).
E’ più diretta la cavalcata Die, mentre il finale è lasciato alla lunga Harmonia, traccia che tanto sa di Iced Earth periodo Something Wicked This Way Comes.
In conclusione, questo si può definire un inizio promettente: Demon sa come accontentare gli amanti del genere e riesce a rappresentare al meglio un abbondante antipasto al più ricco piatto sulla lunga distanza

Tracklist
1. [Infernal] Intro
2. Land of Damnation
3. Tearing the veil
4. Die
5. Harmònia

Line-up
Adrian Peppe “Smith” – Guitar and Voice
DarkTranquillo J. “Murray” – Guitar
Michele “Svalfio” Alfano – Drums
Luigi “Towt” Smilzo – Bass

Gioele di Giacomo – Growl Vocals in “Tearing the veil”

LAND OF DAMNATION – Facebook

Zom – Nebulos

Nebulos è un disco di incontro e di sintesi di diverse maniere di intendere la musica pesante e non solo, ed è un tentativo molto riuscito.

Gli Zom sono una macchina di riff chitarristici potenti e contenenti un elevato tasso di groove dal gusto forte.

I tre americani provenienti da Pittsburgh non sono certamente un gruppo giovanile e lo si sente molto forte nel disco, hanno una grande esperienza e la usano tutta ed in maniera adeguata. In buona sostanza siamo dalle parti dello stoner fortemente imparentato con il grunge, e non tutti sanno fare questo ibrido, che è tale solo a parole, perché poi viene tutto molto naturale, siamo noi che dobbiamo sempre delimitare il territorio. Il trio è composto da Gero Von Dehn, anche nei Monolith Wielder, gruppo che abbiamo già potuto apprezzare sempre su Argonauta Records, Andrew D’Cagna dei Brimstone Coven e da Ben Zerbe, anche lui gravitante intorno ai Monolith Wielder. Gli Zom sono attivi dal 2014, questo è il loro debutto e sono molto chiari su cosa vogliono essere. Il loro suono è composto da un’importante base chitarristica, con la voce che va ad incastonarsi perfettamente con il lavoro del resto del gruppo, creando un groove molto coinvolgente, che seppur non rappresentando nulla di nuovo riesce ad essere molto incisivo e godibile. Nebulos si rivolge ad una platea ampia di amanti della musica pesante ma non solo, perché anche la componente grunge è ben presente e forma il dna di questo disco. Tutto il disco è pervaso da una consapevole malinconia di fondo, messa mirabilmente in musica e ogni passaggio ha un filo logico. Nebulos è un disco di incontro e di sintesi di diverse maniere di intendere la musica pesante e non solo, ed è un tentativo molto riuscito.

Tracklist
1. Nebulos/Alien
2. Burning
3. Gifters
4. Solitary
5. The Greedy Few
6. There’s Only Me
7. Bird On a Wire
8. Final Breath
9. New Trip

Line-up
Gero von Dehn
Andrew D’Cagna
Ben Zerbe

ZOM – Facebook

Steelpreacher – Drinking With The Devil

Quasi quaranta minuti di suoni che odorano di old school e rock’n’roll ipervitaminizzato come si usava un tempo, mentre i brani scivolano via tra chorus da cantare a squarciagola prima di far volare la propria bottiglia sulla grata.

Dopo lo split con i Dragonsfire e l’uscita del full length Devilution, gli Steelpreacher ritornano sul mercato con il loro lavoro migliore, Drinking With The Devil, licenziato originariamente nel 2008.

Il trio di sfrontati rockers tedeschi è attivo dai primi anni del nuovo millennio, nella loro discografia si contano cinque lavori sulla lunga distanza di cui Drinking With The Devil è il terzo della lista.
La band suona una divertente rivisitazione dell’hard & heavy tradizionale, tra citazioni famose e tanto rock’n’roll, quindi se siete amanti del genere, motociclisti in febbre da raduno o avventori di locali in strade deserte, con tanto di palco dove i gruppi intrattengono gli ospiti dietro a grate che le proteggono dalla pioggia di bottiglie di birra svuotate, gli Steelpreacher sono sicuramente la band che fa per voi.
Riff di potentissimo hard rock, solos heavy, note di blues marcito in fumose cantine ed atmosfere inorgoglite da un approccio old school, sono virtù che ogni rocker dal capello grigio non può non annoverare tra quelle principali di un buon album e Drinking With The Devil da questo lato non sbaglia un colpo.
Ac/Dc (all’irresistibile D.O.A. manca solo la voce del compianto Bon Scott), Motorhead, Saxon, Wasp ed ovviamente gli Accept sono le band da cui gli Steelpreacher hanno pescato per formare il loro sound, che risulta un tributo ai gruppi citati, ma che funziona e come detto diverte non poco.
Quasi quaranta minuti di suoni che odorano di old school e rock’n’roll ipervitaminizzato come si usava un tempo, mentre i brani scivolano via tra chorus da cantare a squarciagola prima di far volare la propria bottiglia sulla grata: gli Steelpreacher ringraziano.

Tracklist
1.Slave to the Cross
2.Hammered and Down
3.Blame It on Booze
4….of War and Vengeance
5.D.O.A.
6.Strung Out
7.Hooked on Metal
8.No One Knows…
9.Hell Bent for Beer
10.Drinking with the Devil

Line-up
Jens “Preacher” Hübinger – lead vocals, guitars
Andy “Mu” Hübinger – bass, lead and backing vocals
Hendrik “Beerkiller” Weber – drums, backing vocals

STEEPREACHER – Facebook