Manach Seherath – Timeless Tales

Esordio sulla lunga distanza per i napoletani Manach Seherath: Timeless Tales risulta un ottimo esempio di metallo epico e tastieristico, ispirato dalle opere dei Virgin Steele.

Dei Manach Seherath vi avevamo parlato tra le pagine metal di In Your Eyes ben tre anni fa, in occasione dell’uscita del primo demo omonimo composto da tre brani, tutti riproposti in questo esordio sulla lunga distanza.

Il gruppo attivo dal 2012 per volere del cantante Mich Crown, arriva finalmente alla pubblicazione di questo intenso lavoro, un notevole esempio di heavy metal melodico ed epicheggiante, strutturato sul gran lavoro delle tastiere e dall’impatto che trova la sua natura nella scuola ottantiana, anche se i suoni e gli arrangiamenti sono assolutamente al passo coi tempi.
La maggiore fonte di ispirazione per la band partenopea sono a mio parere i Virgin Steele: la band di David DeFeis aleggia sulla composizione dei nuovi brani, che si allontanano dalle atmosfere dark che erano rinvenibile nel vecchio demo, per abbracciare il sound dello storico gruppo epic metal statunitense.
Le tracce che compongono la parte inedita dell’album includono una vena epico declamatoria stimolante, con melodie che valorizzano il mood metallico dall’anima epica, mentre i duelli tra tastiere e chitarre sono supportati da una sezione ritmica presente e rocciosa.
The Waters Of Acheron ha un compito introduttivo, mentre si entra nel vivo con The Cursed Collector e la splendida Sword In The Mist, che accelera i ritmi e ci consegna il primo chorus epico.
Chasing The Beast ha nei refrain melodici il suo punto di forza, mentre Asleep: the Legend of a Heart pt.1 è sinfonica quel tanto che basta per farne un brano perfettamente bilanciato tra suoni tradizionali e moderno metal sinfonico.
I tre brani già editi sul primo demo portano alla conclusione questo ottimo lavoro, grazie al quale i Manach Seherath si confermano gruppo da seguire con attenzione e consigliato agli amanti del metal melodico ed epico.

Tracklist
1 – The Waters of Acheron
2 – The Cursed Collector
3 – Swords in the Mist
4 – Chasing the Beast
5 – Asleep: the Legend of a Heart pt.1
6 – Restless: the Legend of a Heart pt.2
7 – Arti Manthano: a Timeless Trilogy pt.1
8 – Timeless: a Timeless Trilogy pt.2
9 – All in All: a Timeless Trilogy pt.3

Line-up
Mich Crown – Vocals
Cyrion Faith – Keyboards
Gianluca Gagliardi – Guitars
Lukas Blacksmith – Bass
Carlo Chiappella – Drums

MANACH SEHERATH – Facebook

Greyfell – Horsepower

Qui si degustano i fiori del male, come diceva un connazionale dei Greyfell, e il tutto è pervaso da un dolce incantesimo malvagio, che vive di groove pesante e voli nelle varie sfere grazie alle tastiere e synth.

Un’avanguardia, per sua definizione, è un qualcosa che va avanti, marca il sentiero per chi da dietro la vuol seguire, fa nascere cose che ancora non c’erano.

I francesi Greyfell fanno questo e tanto altro, con un suono composto da elementi conosciuti ed usati ma totalmente rielaborati in una sintesi davvero molto efficace. Prendete per quanto riguarda le chitarre un suono ribassato ma non lentissimo, uno sludge doom tanto per intenderci, aggiungete un cantato molto alla Pentagram a volte basso a volte possente, un basso sgusciante, una batteria psichedelica e tastiere che permeano l’atmosfera che vi circonda, e sarete forse arrivati ad un decimo del suono di questi francesi. Il loro particolare impasto sonoro è una psichedelia profondamente altra, dove tutto non è ciò che sembra, e lo scenario muta in continuazione. Certamente vi sono elementi riconoscibili e tutto l’impianto non è totalmente inedito, ma è il tocco dei Greyfell che lo rende una cavalcata davvero senza freni in mezzo agli dei serpenti generati dal grembo di funghi allucinogeni. Non è tanto la potenza, che è tanta, ma è la saturazione mentale che generano nell’ascoltatore, i Greyfell ti catturano la mente e ti fanno volare lontano, ti scagliano per spiegarla meglio. Il disco che esce per Argonauta Records è totalmente fato in autonomia, e il suono è costruito molto bene, in maniera molto chiara e sequenziale come fosse un film. Qui si degustano i fiori del male, come diceva un connazionale dei Greyfell, e il tutto è pervaso da un dolce incantesimo malvagio, che vive di groove pesante e voli nelle varie sfere grazie alle tastiere e ai synth, aggiunti in questo disco, una scelta che ha pagato moltissimo. Molto intenso, molto etereo, una prova di vera avanguardia.

Tracklist
1. The People’s Temple
2. Horses
3. No Love
4. Spirit of the Bear
5. King of Xenophobia

Line-up
Boubakar – Bass
Thierry – Drums
Clément – Guitars
Hugo – Vocals

GREYFELL – Facebook

Pissboiler – In The Lair Of Lucid Nightmares

I Pissboiler possiedono un’indole irrequieta che li porta ad esplorare territori contigui al funeral con grande proprietà e fluidità.

Gli svedesi Pissboiler sono un’altra delle interessanti novità portati alla luce dalla Third I Rex.

Il trio scandinavo esordisce su lunga distanza con questi In The Lair Of Lucid Nightmares, lavoro la cui base di partenza è un funeral doom che viene ampiamente contaminato da una componente sludge, oltre che da pulsioni droniche che trovano eccellente sfogo nell’ultima traccia.
L’interpretazione dei Pissboiler  è comunque abbastanza ortodossa nell’opener Ruins of the Past, dove il sound si trascina con tutto il suo penoso carico di dolore , senza far venire meno la caratteristica principale del genere che è la reiterazione di accordi dolentemente melodici.
Questi svedesi, però, possiedono un’indole irrequieta che li porta ad esplorare territori contigui al funeral con grande proprietà e fluidità, e il tutto viene evidenziato nei disturbati dieci minuti di Pretend It Will End, nel corso dei quali i suoni si fanno più aspri ma senza che scemi l’atmosfera ottundente che avvolge l’intero lavoro.
La lunga traccia finale Cutters, come detto, è un delirio drone rumoristico che attrae e respinge allo stesso tempo, un aspetto che diviene tratto comune quando la componente claustrofobica finisce per soffocare gli sporadici spunti melodici.
Ma questo è un modo di intendere la materia funeral che non fa sconti, andando a scavare nelle carni esacerbando il dolore invece che lenirlo: i Pissboiler con In The Lair Of Lucid Nightmares dimostrano che non c’è un modo giusto od uno sbagliato di approcciare il genere, perché a fare la differenza è sempre il filo sottile, eppure ugualmente solido come quelli tessuti da un ragno, che riesce indissolubilmente a unire il sentire dei musicisti con quello degli ascoltatori.

Tracklist:
1. Ruins of the Past
2. Stealth
3. Pretend It Will End
4. Cutters
Line-up:
Pontus Ottosson – Guitars
Karl Jonas Wijk – Drums, Guitars
LG – Vocals (lead), Bass

PISSBOILER – Facebook

Loch Vostok – Strife

Non credo che con questo settimo album i Loch Vostok troveranno il successo, ma sicuramente vanno tenuti in considerazione per la buona qualità dei loro lavori ed un pizzico di originalità che nel genere certo non guasta.

Poco conosciuti dalle nostre parti, tornano i death metallers svedesi Lock Vostok con il settimo lavoro della loro già lunga carriera.

Una band dal sound che per molti non sarà né carne né pesce, ma se avete buone orecchie per sentire vi troverete al cospetto di una band di death metal melodico, dal taglio progressivo e moderno alternato a rabbiose e devastanti parti più classicamente estreme.
Nato all’alba del nuovo millennio il quintetto di Uppsala, capitanato dal cantante e chitarrista Teddy Möller, ha attraversato questi primi anni del nuovo secolo creando musica estrema di buon livello con album che, senza essere, dei capolavori hanno sempre mantenuto una buona qualità.
Anche questo nuovo Strife viaggia sui binari di un sound che unisce in modo sagace le atmosfere descritte in precedenza, mantenendo un impatto estremo ed un appeal melodico sufficiente a non perdersi all’interno del platter, arrivando tranquillamente alla fine tra ritmiche core che si alternano a veloci ripartenze, solos di estrazione classica, atmosfere progressive e metallo dal piglio doom che affiora tra i brani più oscuri.
Ottimo l’uso delle voci: come ormai di prassi in questi generi si alternano growl, scream rabbiosi e clean vocals molto belle a seconda del mood dei brani in continuo sviluppo così da non dare (come la musica) sicuri punti di riferimento.
Non ci si annoia tra le note di Strife, i Loch Vostok sono aperti ad ogni ispirazione, mantenendo un’attitudine estrema che risulta l’arma vincente delle ottime Summer, Yurei, Ventilate e Consumer.
A tratti la band sembra ispirata da una versione melodic death dei Nevermore, ma sono attimi di un songwriting vario ed interessante.
Non credo che con questo settimo album i Loch Vostok troveranno il successo, ma sicuramente vanno tenuti in considerazione per la buona qualità dei loro lavori ed un pizzico di originalità che nel genere certo non guasta.

Tracklist
1. Babylonian Groove
2. Summer
3. The Apologists Are The Enablers
4. Cadence
5. Forever
6. Yurei
7. Purpose
8. Ventilate
9. Consumer
10. Expiry Date Of The Soul Of Man

Line-up
Teddy Möller – Lead vocals, guitars
Jimmy Mattson – Bass, vocals
Niklas Kupper – Guitars, vocals
Fredrik Klingwall – Keyboards
Lawrence Dinamarca – Drums

LOCH VOSTOK – Facebook

Sufffer In Paradise – Ephemere

I Suffer In Paradise tornano dopo circa un anno e mezzo con un nuovo lavoro che conferma ampiamente ciò che era già più di una sensazione, ovvero quella di trovarci al cospetto di una band in grado di fornire un’interpretazione superlativa del funeral doom melodico.

Dopo il bellissimo esordio su lunga distanza This Dead Is World, risalente al 2016, che riprendeva in parte il materiale edito nel demo uscito all’inizio di questo decennio, i Suffer In Paradise tornano dopo circa un anno e mezzo con un nuovo lavoro che conferma ampiamente ciò che era già più di una sensazione, ovvero quella di trovarci al cospetto di una band in grado di fornire un’interpretazione superlativa del funeral doom melodico.

Come era prevedibile, anche per l’appartenenza ad un filone musicale nel quale non si è molto inclini a soverchie variazioni sul tema (e per chi lo ama questo è pregio e non difetto), il trio russo si stabilizza sulle coordinate del precedente lavoro, prendendo quali riferimenti maestri del genere quali Ea, Skepticism e Profetus e per restare in area ex sovietica, anche i mai abbastanza rimpianti Comatose Vigil.
Ephemere si rivela così un album di rara bellezza e profondità, con i ragazzi di Voroneh che si dimostrano in grado di imprimere ad ognuna delle sei lunghe tracce (più outro) quel dolente afflato melodico che eleva il funeral a forma d’arte musicale suprema: se la title track, posta in apertura, rappresenta l’ideale manifesto musicale dei Suffer In Paradise, è affidato alla successiva My Pillory il compito di scaraventare l’ascoltatore in quegli abissi di disperazione propedeutici ad una catartica risalita.
The Swan Song of Hope inizia portando con sé il marchio dei migliori Worship, con il valore aggiunto di arrangiamenti tastieristici che sono il tratto comune fondamentale dell’intero lavoro e che, nello specifico, rende questo brano qualcosa di una bellezza a tratti insostenibile; con The Wheels of Fate il sound si inasprisce nella parte finale mentre The Bone Garden e Call Me to the Dark Side riconducono il tutto ad un piano di funesta accettazione di un dolore che, seppur latente, è compagno fedele dell’esistenza di ciascuno.
Posso solo aggiungere che, a fini statistici, è un peccato che nel suo lungo peregrinare attraverso l’Europa il cd inviato dalla Endless Winter sia arrivato solo poco prima della fine dell’anno, perché Ephemere avrebbe meritato l’inserimento nella lista delle miglior uscite del 2017, con menzione quale opera di punta del settore funeral, ma in fondo chi se ne importa: quello che importa è l’aver ricevuto la conferma che i Suffer In Paradise hanno tutti i crismi per raccogliere l’eredità dei Comatose Vigil e degli Abstract Spirit (sperando sempre che entrambe le band si rifacciano vive, prima o poi), perpetuando la tradizione di recente consolidamento del funeral doom russo.

Tracklist:
1. Ephemere
2. My Pillory
3. The Swan Song of Hope
4. The Wheels of Fate
5. The Bone Garden
6. Call Me to the Dark Side
7. Outro

Line-up:
A.V. – Guitars, Vocals
Defes Akron – Keyboards, Drum programming
R. Pickman – Bass

Rotting Kingdom – Rotting Kingdom

Licenziato dall’attivissima Godz Ov War, questo ottimo mini cd è composto da tre brani medio lunghi che formano una lunga litania oscura di death metal old school.

Tre brani bastano ai Rotting Kingdom per presentarsi al meglio sulla scena doom/death mondiale con il loro ep di debutto omonimo.

Licenziato dall’attivissima Godz Ov War, questo ottimo mini cd è composto da tre brani medio lunghi che formano una lunga litania oscura di death metal old school, ricco delle atmosfere dark e malinconiche che hanno fatto la fortuna dei My Dying Bride, probabilmente il gruppo che più ha ispirato la musica del combo statunitense.
Vario e colmo di riferimenti ai primi passi delle storiche band del genere, i Rotting Kingdom non dimenticano che il doom ha una sua origine classica, e Pentagram e Solitude Aeturnus si mescolano alle trame estreme e romantiche della sposa morente e dei primi Paradise Lost come si evince dalla seconda traccia, The Castle Of Decay, brano incentrato su passaggi più tradizionali rispetto alle atmosfere dark e decadenti dell’iniziale Adrift In A Sea Of Souls.
Il riff ripetuto che annuncia la conclusiva Demons In Stained Glass porta venti di morte sul sound del gruppo e si intensificano le ritmiche per quella che è la traccia più death metal del lotto.
Ovviamente nei suoi dieci minuti di durata i rallentamenti non mancano, con richiami agli olandesi Asphyx (maestri in queste sonorità), ed un finale che sfuma lento e inesorabile, creando un’atmosfera di paziente attesa per un prossimo full length assolutamente da non perdere.
Votata alla parte più atmosferica del death metal, la band americana, formata alla scuola europea, è una delle migliori novità del genere di questo inizio anno: per gli amanti di queste sonorità un album da non perdere.

Tracklist
1.Adrift In A Sea Of Souls
2.Castle Of Decay
3. Demons In Stained Glass

Line-up
Anton Escobar – Vocals
Kyle Keener – Guitar
Chuck Mcintyre – Bass
Clay Rice – Guitar
Brandon Glancy – Drums

ROTTING KINGDOM – Facebook

Monolithe – Nebula Septem

Ancora una volta i Monolithe fanno centro, dimostrando che si può conservare la propria identità anche apportando diverse variazioni al tema portante, che resta pur sempre l’ideale accompagnamento sonoro dei viaggi intrapresi dalla nostra immaginazione al di là del tempo e dello spazio.

Sono passati quindici anni da quando i Monolithe pubblicarono il proprio album  d’esordio.

Ci volle relativamente poco perché la band francese, guidata da Sylvain Bégot, si ritagliasse un suo status di culto presso gli estimatori del funeral doom, soprattutto perché a livello concettuale, invece di ripiegarsi sulle sventure terrene, tentava di elevarsi verso un sentire cosmico con risultati ugualmente angoscianti, a ben vedere.
Ogg, ad accompagnare il leader, tra i membri originari è rimasto solo l’altro chitarrista Benoît Blin, visto che per la prima volta i Monolithe non si avvalgono della voce di Richard Loudin, cosicché in Nebula Septem le parti vocali sono state registrate da Sebastien Pierre (Enshine, Cold Insight), mentre in sede live il ruolo verrà assunto dal terzo chitarrista Remi Brochard.
Come si può intuire dal titolo siamo arrivati alla settima puntata su lunga distanza per la band transalpina (alla cui discografia vanno aggiunti anche i due Interlude, importanti Ep usciti tra Monolithe II e Monolithe III) e tale numero ricorre in maniera puntuale sia nel numero dei brani che nella loro durata, ma al di là di questi aspetti, è confortante constatare come la cadenza di uscite ormai annuale non abbia per nulla scalfito la qualità degli album.
Nebula Septem per certi versi sorprende, perché se in Epsilon Aurigae certe aperture progressive potevano far presagire un ulteriore incremento della componente melodica, il suono al contrario pare addirittura inasprirsi, senza che venga comunque mai meno la propensione atmosferica e l’afflato cosmico che è tratto distintivo dei Monolithe.
Se IV resta, anche a detta dello stesso Bégot nel corso dell’interessante documentario Innersight, l’album più riuscito nella discografia dei nostri, qui andiamo molto vicini al raggiungimento di quel livello, sebbene sia da mettere subito in chiaro che, per un’assimilazione soddisfacente, sono necessari diversi ascolti, in modo da riuscire a cogliere ogni volta sfumature diverse pur se racchiuse in un “monolite” sonoro molto compatto, eretto dalle tre chitarre e sostenute da un eccellente lavoro tastierisco, dal growl magnifico di Pierre e da una base ritmica molto più attiva e in evidenza rispetto alle abitudini del genere.
Del resto la collocazione dei Monolithe nell’ambito del funeral doom appare più una convenzione che non una reale fotografia delle loro attuali sonorità, definibili più correttamente come un metal estremo cosmico e avanguardista, non troppo distante per approccio neppure da certe forme di black/space atmosferico.
Nebula Septem, per come è strutturato, va assorbito nella sua interezza, perché parlare dei singoli brani sarebbe abbastanza inutile: basti sapere comunque che almeno i primi ventotto minuti sono superlativi (dovendo scegliere mi prendo l’accoppiata Burst in the Event Horizon / Coil Shaped Volutions), mentre l’incipit da videogame di Engineering the Rip potrebbe risultare spiazzante per cui è bene dire che il tutto dura ben poco, prima che la galassia musicale denominata Monolithe ricominci ad abbattersi come di consueto sull’ascolatore, fino a chiudere i giochi con lo strumentale Gravity Flood, spruzzato di elettronica all’avvio e poi melodico e dolente come da copione doom.
Ancora una volta i Monolithe fanno centro, dimostrando che si può conservare la propria identità anche apportando diverse variazioni al tema portante, che resta pur sempre l’ideale accompagnamento sonoro dei viaggi intrapresi dalla nostra immaginazione al di là del tempo e dello spazio.

Tracklist:
1. Anechoic Aberration
2. Burst in the Event Horizon
3. Coil Shaped Volutions
4. Delta Scuti
5. Engineering the Rip
6. Fathom the Deep
7. Gravity Flood

Line-up
Benoît Blin – Guitars
Sylvain Bégot – Guitars, Keyboards, Programming
Olivier Defives – Bass
Thibault Faucher – Drums
Rémi Brochard – Guitars, Vocals
Matthieu Marchand – Keyboards

Sebastien Pierre – Vocals

MONOLITHE – Facebook

Into Coffin – The Majestic Supremacy Of Cosmic Chaos

Gli Into Coffin con questo album si elevano al livello dei più funesti cantori dei peggiori incubi dell’uomo.

Credo che una delle ipotesi più terrorizzanti per ogni essere umano sia l’eventualità di risvegliarsi all’interno di una bara collocata circa sei piedi sottoterra …

E’ normale, quindi, che una band denominata Into Coffin sia autrice di un sound annichilente, capace di rendere tangibile il senso di soffocamento e la disperata alternanza tra il parossismo ed il deliquio che precede una morte vera e mai cosi invocata.
Questi tre figuri provenienti da Marburg mettono in scena due lunghi brani per una mezz’ora scarsa di death/black doom asfissiante, spaventoso nel suo monolitico incedere: un qualcosa che davvero riesce a scuotere anche la coscienza più assopita, attirandola in un vortice di alienazione al quale non è possibile sottrarsi.
I rallentamenti morbosi sono propedeutici ad un crescendo inarrestabile, una colata di lava che pare risalire le pendici vulcaniche, partendo da uno stato semisolido per divenire incandescente e ridurre in cenere tutto ciò che incontra sul suo passaggio
The Majestic Supremacy Of Cosmic Chaos è un epche possiede quel quid in più rispetto ad offerte di simile tenore: devo ammettere che questa forma di doom, per quanto apprezzabile, l’ho sempre ritenuta alla lunga piuttosto prevedibile in virtù della totale assenza di sbocchi o aperture atmosferiche, ma gli Into Coffin vanno al di là di ogni tipo di considerazione di genere, perché l’intensità che viene espressa in ogni attimo del lavoro è a dir poco sorprendente, e probabilmente ineguagliabile in un’offerta di questo tipo.
In sede di presentazione il trio tedesco viene associato ad una band seminale come gli Winter ma, a mio avviso, il loro valore va ben oltre, e sono certo di non esagerare.
Gli Into Coffin con questo album si elevano al livello dei più funesti cantori dei peggiori incubi dell’uomo e a questo punto, per completare il luttuoso cammino, conviene fare un passo indietro andando a recuperare il full length del 2016 intitolato Into a Pyramid of Doom, uscito sempre per Terror Of Hell Records.

Tracklist:
1. Crawling In Chao
2. The Evanescence Creature From Nebula’s Dust

Line-up:
G. – Bass & Vocals
J. – Drums
S. – Guitars & Vocals

INTO COFFIN – Facebook

Lady Beast – Vicious Breed

L’impatto e l’attitudine non mancano, le canzoni ci sono e, pur con le influenze ben in mostra, Vicious Breed funziona rivelandosi un buon ascolto per i fans vecchi e nuovi dell’heavy metal più classico.

Heavy metal is the law … da Pittsburgh, Pennsylvania, alla conquista dei cuori metallici di tutto il mondo i Lady Beast con Vicious Breed ci regalano mezzora di metallo classico duro come la roccia che si trova sul monte dove i fabbri forgiano le spade per gli dei del metallo pesante.

Capitanati dalla vocalist Deborah Levine, classica singer d’acciaio come le eroine degli anni ottanta e lontana dagli stereotipi delle vocalist odierne, più modelle che vere streghe metalliche, i Lady Beast arrivano con Vicious Breed al terzo lavoro sulla lunga distanza dopo aver dato alle stampe due album omonimi ed un ep.
Heavy metal che più classico non si può, tra crescendo maideniani, riff taglienti alla Judas Priest e mid tempo pesanti come gli spadoni tenuti dalle braccia di muscolosi semidei, guerrieri dell’eterna lotta tra il bene e il male, combattuta in un mondo parallelo dove l’unica colonna sonora possibile alle vicende narrate sono i Saxon di Strong Arm Of The Law, gli Iron Maiden di Killer ed i Judas Priest di British Steel.
Ho detto tutto, il sound di Vicious Breed è quanto di più scontato troverete in giro per l’underground metallico, il problema che di questa musica non ci si stanca mai, la band tiene il passo con una raccolta di buoni brani e la voglia di rispolverare il giubbotto di pelle con le toppe d’ordinanza è forte, dopo appena due o tre brani.
D’altronde lo scopo dei Lady Beast è quello di suonare heavy metal nel modo più puro possibile e ci riesce bene grazie ad un’ottimo rifferama che fa di alcuni brani delle piccole gemme di musica dura come The Way, Get Out e la potentissima title track.
Un album che diverte ed incatena allo stereo dall’inizio alla fine: l’impatto e l’attitudine non mancano, le canzoni ci sono e, pur con le influenze ben in mostra, Vicious Breed funziona rivelandosi un buon ascolto per i fans vecchi e nuovi dell’heavy metal più classico.

Tracklist
1. Seal The Hex
2. The Way
3. Lone Hunter
4. Always With Me
5. Get Out
6. Every Giant Shall Fall
7. Sky Graves
8. Vicious Breed

Line-up
Deborah Levine – Vocals
Andy Ramage – Guitars
Chris Tritschler – Guitars
Greg Colaizzi – Bass
Adam Ramage – Drums

LADY BEAST – Facebook

Ilienses Tree – Edda

Una band del genere è assolutamente pronta a giocarsi la carta del full length, lo dicono la qualità della musica creata e la cura nei dettagli che emergono all’ascolto di Edda.

Gli Ilienses inaugurano con l’ep Edda la collaborazione con la Maculata Anima Rec.

La band sarda offre un metal che ha nei passaggi doom/death il proprio punto di forza, e l’orgoglio di appartenere ad una terra leggendaria si rispecchia in un sound estremo ma fortemente epico: queste sono le caratteristiche che rendono peculiare il sound degli Ilienses Tree, i quali come valori aggiunti immettono un ottimo songwriting ed un guerresco approccio alla materia estrema, che divengono poi i tramiti per un elegante viaggio lungo la storia secolare dell’isola.
Edda è un’opera interessante e ricca di sonorità che passano dal doom/death classico al death/black, e resta incollata perfettamente al padiglione uditivo grazie a tremende sfuriate estreme, in un mastodontico marciare tra mid tempo nei quali l’epicità dilaga, con non pochi riferimenti ad alcune leggende del panorama death/doom metal: ritroviamo così i primi Anathema e Paradise Lost arricchiti da una solennità che ricorda i Primordial, e Candlemass /Penance nelle jam di doom metal classico.
Tutto ciò rende tutti i brani che compongono Edda dei potenziali classici all’interno dei quali le citazioni esaltano l’atmosfera di brani epici ed oscuri come Ragnarok o Agony, cuore nero e pulsante sangue di questo album.
Una band del genere è assolutamente pronta a giocarsi la carta del full length, lo dicono la qualità della musica creata e la cura nei dettagli che emergono all’ascolto di Edda.

Tracklist
1.Edda
2.The Birth
3.Ragnarok
4.Agony
5.Dark Age

Line-up
Maurizio Meloni – Vocals
Claudio Kalb – Bass
Simone Milia – Guitar
Francesco Carboni – Guitar
Giammarco Vacca – Drums

ILIENSES TREE – Facebook

Exterior Palnet – Dorsa

Dorsa rappresenta l’esordio per la band di Zagabria, capace di fare centro al primo colpo con questo breve ma intenso lavoro intriso di un’aura cosmica.

Gli Exterior Palnet fanno parte di una scena croata che, riguardo al black metal, sta cominciando a fornire segnali interessanti.

Dorsa rappresenta l’esordio per la band di Zagabria, capace di fare centro al primo colpo con questo breve ma intenso lavoro intriso di un’aura cosmica, parzialmente debitore nei confronti di innovatori quali Deathspell Omega e Blut Aus Nord, ma ugualmente in possesso di una cifra personale che resta ben impressa dal primo all’ultimo minuto dell’opera.
Come sempre accade, lo spartiacque in album di questo genere è costituito dal grado di intensità che i musicisti si rivelano in grado di immettere nel loro sound: fin dalle prime note Dorsa fa presagire che il viaggio interstellare sarà periglioso ma ricco di soddisfazioni, veleggiando senza interruzione tra le sette tracce che lo compongono.
Sia nei momenti più riflessivi sia quando fanno girare i motori a pieni giri, gli Exterior Palnet danno la sensazione di possedere un innato controllo della materia e, oggettivamente, una traccia come II è una delle cose migliori ascoltate in tempi recenti in ambito black metal, esaltata poi da una registrazione ottimale per la quale i ragazzi croati si sono affidati agli studi di registrazione di Brad Boatright in quel di Portland.
Volendo fare i pignoli, potrebbe non trovare consensi unanimi l’uso della voce, che è una sorta di recitato urlato in stile Mr.Curse degli A Forest Of Stars, ma sinceramente si tratta solo di un dettaglio, all’interno di un disco che convince e sorprende sempre più dopo ogni ascolto, ed è davvero incredibile dover sopportare i continui piagnistei di chi rimpiange i bei tempi andati, quando mai come in questo periodo storico ci sono state così tante band capaci di offrire album di livello superiore alla media.
Dorsa è uno di questi, regalato da una band la cui provenienza da una nazione dalla ridotta tradizione in materia di metal estremo, paradossalmente, favorisce un approccio meno vincolato a modelli ben definiti: da ascoltare come se si trattasse della soundtrack di un film ambientato nello spazio, ma ovviamente senza il canonico happy ending.

Tracklist:
1. I
2. II
3. III
4. IV
5. V
6. VI
7. VII

Line-up:
Josip Vladić – Drums, Songwriting
Bruno Čavara – Guitars, Bass, Percussion, Songwriting
Mario Bošnir – Keyboards
Tomislav Hrastovec – Vocals, Lyrics

EXTERIOR PALNET – Facebook

Tribulation – Down Below

Un album per le anime notturne, ispirato e coinvolgente, sempre in bilico tra death metal melodico e dark rock.

Una gradita sorpresa è questo nuovo album degli svedesi Tribulation, attivi dall’alba del nuovo millennio prima come Hazard e poi dal 2004 con l’attuale monicker, con il quale hanno dato alle stampe una manciata di lavori minori e quattro full length di cui questo Down Below è sicuramente il migliore.

Il death metal pregno di attitudine black degli esordi infatti si è trasformato in un metal dalle tinte horror, che prende dal death l’oscurità e la pesantezza in qualche ritmica, ma lascia alle melodie dark il compito di rendere sempre più convincente la proposta del gruppo.
Il sound di questo lavoro, infatti, si potrebbe tranquillamente annoverare tra il death metal melodico, ricamato di neri pizzi dark rock, valorizzato da riff doom dark ed atmosfere melanconicamente horror.
A tratti nei brani affiora una raffinatezza compositiva che non ti aspetti e che fa di brani come The Lament o Lady Death dei perfetti esempi di dark rock appesantiti dalla componente metal, quel tanto che basta per accontentare i fans dei primi Katatonia, dei Sentenced o dei Sisters Of Mercy.
La band lascia fuori dal suo mondo inutili parti in clean per lasciare ad uno scream profondo il compito di accompagnare la musica, e la scelta non può che risultare felice, mantenendo intatta la parte estrema che lotta con le splendide melodie dark/evil di Cries From The Underworld e soprattutto Lacrimosa, brano top di questo nuovo lavoro targato Tribulation.
Death metal e dark rock, un connubio di certo non originale ma che nel sound di Down Below trova una dimensione consona, nobilitato dalle splendide melodie create da una band che mantiene alta la qualità della sua proposta con The World, brano alla Fields Of The Nephilim che lascia spazio al gran finale, con Here Be The Dragon e le sue oscure sinfonie dark.
Un album per le anime notturne, ispirato e coinvolgente, sempre in bilico tra death metal melodico e dark rock, pregno di splendide atmosfere horror ed oscuro quanto basta per piacere incondizionatamente a chi si bea del freddo abbraccio delle tenebre.

Tracklist
01. The Lament
02. Nightbound
03. Lady Death
04. Subterranea
05. Purgatorio
06. Cries From The Underworld
07. Lacrimosa
08. The World
09. Here Be Dragons

Line-up
Johannes Andersson – Bass, Vocals
Adam Zaars – Guitars
Jonathan Hultén – Guitars
Jakob Johansson – Drums

TRIBULATION – Facebook

 

Abysmal Grief – Blasphema Secta

Gli Abysmal Grief hanno sempre fatto della creatività e dell’immaginario il proprio punto di forza, e questo, per chiunque sia in odore di metal, o soprattutto di doom, è un vero toccasana.

Dopo vent’anni di attività, gli Abysmal Grief dimostrano di non essere ancora paghi per il cammino tracciato e, dopo aver ascoltato questo nuovo album, Blasphema Secta, non possiamo che rallegrarcene.

Sicuramente nessun fan si aspettava passi indietro da parte della band genovese, che ci regala ancora un doom di altissima qualità e dagli scenari sempre più tetri.
Il fattore magia domina per tutta la durata del disco, aiutato dall’utilizzo di violini e sintetizzatori, ma non solo. È proprio il lato oscuro a soggiogarci fin dall’intro, preannunciando che ne saremo immersi fino alla fine. Gli Abysmal Grief hanno sempre fatto della creatività e dell’immaginario il proprio punto di forza, e questo, per chiunque sia in odore di metal, o soprattutto di doom, è un vero toccasana. Ogni intermezzo dai tratti gotici comunica solennità mista a vero e proprio terrore, come nella esemplare When Darkness Prevails, che non lascia spazio a fraintendimenti e rappresenta letteralmente la manifestazione di spiriti indomiti.
La gran varietà strumentale e vocale di ogni brano è scandita dalla batteria e da riff di chitarra in grado di causare talvolta potenti scapocciate, talvolta un clima cupo ma mai banale. Blasphema Secta rispecchia perfettamente ciò che viene annunciato già dalla copertina: l’esaltazione e la ritualità del male. Proprio ciò che cerca chi ascolta gli Abysmal Grief.
Una chicca da non perdere di vista per gli amanti del genere: il doom degli Abysmal Grief percorre sempre una strada propria, aprendosi ad orizzonti inediti.

Tracklist
1. Intro (The Occult Lore)
2. Behold the Corpse Revived
3. Maleficence
4. Witchlord
5. When Darkness Prevails
6. Ruthless Profaners

Line-up
Lord Alastair – Bass
Lord of Fog – Drums
Regen Graves – Guitars
Labes C. Necrothytus – Keyboards, Vocals

J.D. Overdrive – Wendigo

Wendigo non conquisterà il mondo ma si fa ascoltare che è un piacere, quindi preparate le borracce ed addentratevi nel deserto virtuale dei J.D. Overdrive, ma solo se sapete cosa vi aspetta dal genere in questione.

Lo stoner non è più ormai da anni un genere solo americano, perché il successo dei gruppi della Sky Valley tra la fine degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio ha portato la sabbia del deserto sulle sponde atlantiche della vecchia Europa e da lì a posarsi sui muri degli edifici delle metropoli, dalla penisola iberica fino ai paesi dell’est.

E proprio dalla Polonia arrivano i J.D. Overdrive, quartetto attivissimo sul mercato con ben quattro lavori sulla lunga distanza, un ep ed uno split in nove anni: Wendigo è dunque il nuovo lavoro del quartetto, una dimostrazione di stoner che piacerà non poco agli amanti dei suoni desertici, rafforzati dalla band con dosi massicce di metal e sfumature southern, per una proposta alquanto dinamitarda.
Il basso pulsante, le chitarre ribassate e la voce rabbiosa sono le prime avvisaglie di una battaglia a colpi di hard rock, con cui la band trasforma le fredde strade dell’Europa dell’est in interminabili pianure desertiche a sud degli States.
Monocorde quanto volete, ma pesante come il sole di mezzogiorno nel deserto e pericoloso come un crotalo risvegliato dai vostri lamenti mentre, Wendigo è un buon lavoro, magari legato a doppio filo con quelli dei gruppi storici, ma arcigno e massiccio quanto basta per farci male.
New Blood, la seguente Burn Those Bridges, il southern metal malatissimo di Hold That Thought, l’irresistibile Witches & Spies sono i brani migliori dell’album, e Kyuss, Down, Corrosion Of Conformity e Black Label Society appaiono quali band di riferimento per i rockers polacchi.
Wendigo non conquisterà il mondo ma si fa ascoltare che è un piacere, quindi preparate le borracce ed addentratevi nel deserto virtuale dei J.D. Overdrive, ma solo se sapete cosa vi aspetta dal genere in questione.

Tracklist
1.The Creature is Alive
2.Protectors of All That is Evil
3.Hangman’s Cove
4.New Blood
5.Burn Those Bridges
6.Wasting Daylight
7.Hold That Thought
8.Witches & Spies
9.Every Day is a New Hole to Dig
10.Flesh You Call Your Own

Line-up
Wojtek ‘Suseł’ Kałuża – Vocals
Michał ‘Stempel’ Stemplowski – Guitars
Łukasz ‘Jooras’ Jurewicz – Drums
Marcin ‘Stasiu’ Łyźniak – Bass

J.D. OVERDRIVE – Facebook

Hetman – Sewn From The Ashes Book

Questa interpretazione del pagan black metal appare davvero accattivante, perché tutto sommato rifugge gli stilemi consueti trovando una sua peculiarità senza smarrire le coordinate di base del genere.

E’ ancora l’Ucraina ad offrire una nuova ottima one mand band che si muove in ambito black, anche se tecnicamente ad aiutare il bravo Cerberus ci sarebbe l’altrettanto  valido Storm alla batteria.

Comunque sia, questo progetto denominato Hetman arriva al terzo full length, un traguardo che, come spesso accade, ci fornisce elementi decisivi per determinare il valore di una band.
Ebbene, questa interpretazione del pagan black metal appare davvero accattivante, perché tutto sommato rifugge gli stilemi consueti trovando una sua peculiarità senza smarrire le coordinate di base del genere; addirittura mi spingerei a dire che inserire gli Hetman nel black metal è quasi una forzatura, visto che in certi momenti semmai uno dei riferimenti che emergono con più decisione sono gli Amorpohis, senza dimenticare chiaramente la lezione dei Bathorìy, al netto dell’uso dello screaming e di periodiche sfuriate in blast beat, che costituiscono i soli elementi che giustificano la collocazione nel genere.
Chiarito tutto ciò, non resta che ascoltare Sewn From The Ashes Book (tenendo conto che il tutto avviene in madre lingua e che la stessa band e il titolo dell’abum e dei brani si presentano al pubblico in cirillico) e ciò non si rivela affatto tempo perso, perché Oleksiy Bondarenko si dimostra un musicista di notevole spessore, sia per un songwriting vario e sempre orientato ad agganciare l’attenzione dell’ascoltatore, con passaggi di ampio respiro melodico ed il valore aggiunto di un pacchetto esecuzione/produzione inattaccabile.
Volendo trovare un piccolo difetto al lavoro si può dire solo che, dopo il magnifico trittico inziale The Gateway / The Seventh Heaven / How Quiet on Earth! How Quiet!… l’album tende a scemare leggermente di livello ed intensità, ma direi più per “colpa” della qualità eccelsa di questi brani che non per la pochezza dei restanti.
Poco male, visto quanto di buono Cerberus è in grado di offrire agli appassionati del metal dalle sfumature pagan black, i quali troveranno negli Hetman un nuovo gradito nome da appuntarsi sul proprio taccuino virtuale

Tracklist:
1.Брама (The Gateway)
2.Сьоме небо (The Seventh Heaven)
3.Як тихо на землі!Як тихо… (How Quiet on Earth! How Quiet!..)
4.Грудочка Землі (The Pile of Soil)
5.Пам’ятай хто ми (Remember Who We Are)
6.Доторкнись до каміння в степу (Touch the Stones in the Steppe)
7.Горде слово (The Proud Word)
8.В серце кожного (To the Heart of Everyone)

Line-up:
Oleksii Bondarenko – All instruments and vocals

Dreamgrave – Monuments

Musica da maneggiare con cura, forte, metallica ma allo stesso tempo delicata e melanconica, tanto da mostrare un lato gotico destabilizzato da sferzate di metal estremo progressivo.

Musica da maneggiare con cura, forte, metallica ma allo stesso tempo delicata e melanconica, tanto da mostrare un lato gotico destabilizzato da sferzate di metal estremo progressivo.

Tanta, tantissima carne al fuoco per questa band proveniente dall’Ungheria, al secolo Dreamgrave, quintetto arrivato al terzo lavoro con questo ep di tre brani inediti più un paio in versione live, tra cui la title track.
La band di Budapest festeggia quest’anno i dieci anni di attività, non molto prolifica invero con un solo full length alle spalle (Presentiment) ed un demo, prima di questo favoloso mini cd che ci presenta un gruppo davvero fuori dal comune.
Il metal progressivo mostra il lato più melanconicamente romantico con passaggi dark/gotici, stravolge lo spartito con inserti jazzati, con il tutto nobilitato dall’intervento del violino, strumento classico e di folklore per antonomasia della cultura musicale magiara; inoltre, l’uso ben dosato di voci che vanno da quella maschile pulita, al growl, fino a quella gotico operistica femminile crea un turbinio emozionale davvero suggestivo: tre brani per ventitré minuti di musica senza barriere né vincoli, all’insegna dell’originalità con il picco qualitativo negli undici minuti progressivi della magnifica The Passing Faith In Others.
Nello spartito di Monuments convivono Dream Theater, Nightwish, Opeth ma non solo, sta a voi scoprire le tante sfumature e sorprese che questa fantastica band ha in serbo per voi, aspettando un nuovo album sulla lunga distanza che si preannuncia un’opera da non perdere assolutamente.

Tracklist
1.Drop the Curtain
2.Monuments
3.The Passing Faith in Others
4.Monuments (live)
5.Black Spiral (live)

Line-up
Dömötör Gyimesi – Vocals, guitars
Mária Molnár – Vocals
Tamás Tóth – Drums
Krisztina Baranyi – Violin
Péter Gilián – Bass

DREAMGRAVE – Facebook

Nortt – Endeligt

Sono passati dieci anni ma Nortt sembra ancora più convinto nell’esplorare oscuri e vuoti abissi, ove non risiedono speranza ma solo morte e desolazione.

Perfetta sound track per un viaggio nell’inquietudine e nella disperazione.

Dopo dieci anni di silenzio discografico, Nortt ritorna a raggelarci con la sua arte ricolma di note funeral, black e doom perfettamente miscelate a creare una dark ambient disturbante e lugubre.
Il musicista danese, dopo “Galgenfrist” del 2007, scarnifica ulteriormente il suo suono e con poche note e suoni minimalisti offre nove composizioni lente, profonde, strazianti, da sentire nel profondo del nostro io; è musica che ci porta a un confronto continuo con noi stessi, con le nostre paure, con le nostre vite senza punti di riferimento, con un vuoto interiore difficile se non impossibile da colmare.
Il senso di morte, di abbandono, di tragicità che permeano ogni nota vanno al di là di ogni descrizione su carta, ognuno ha dentro di sé la propria interpretazione di questo mondo, che nelle note di Nortt appare maledetto e in disfacimento morale e materiale.
Pochi suoni all’interno dei brani delineano scenari di sconfinata e lugubre tragicità che raggiungono vette emozionali laceranti: in Afdo un tocco epico aggiunge splendore e magnificenza.
Le atmosfere, già terrifiche fin dall’inizio, raggiungono picchi di gelo e desolazione con il passare dei minuti e gli ultimi tre brani rilasciano segnali di morte non comuni, inerpicandosi su suoni dark ambient che non hanno nulla di umano.
Nortt afferma che negli ultimi dieci anni non ha registrato alcunché in quanto ha vissuto in un mondo dove non aveva necessità di farlo; sono passati dieci anni ma la sua arte sembra ancora più convinta nell’esplorare oscuri e vuoti abissi, ove non risiedono speranza ma solo morte e desolazione. Un grande ritorno!

Tracklist
1. Andægtigt dødsfald
2. Lovsang til mørket
3. Kisteglad
4. Fra hæld til intet
5. Eftermæle
6. Afdø
7. Gravrøst
8. Støv for vinden
9. Endeligt

Line-up
Nortt Everything

NORTT – Facebook

Malet Grace – Humanocide

Ottimo ritorno dei Malet Grace con questo ep intitolato Humanocide, consigliato agli amanti del metal dai gusti classici e progressivi, legati che siano al thrash o all’hard’n’heavy.

Dei Malet Grace vi avevamo parlato in occasione dell’uscita del debutto Malsanity, un ottimo lavoro che riuniva in un unico sound l’irruenza estrema del thrash con i ricami tecnici e le sfumature del metallo progressivo.

Ad oggi la band è tornata ad essere un duo dopo le registrazioni di questo mini cd per l’uscita dalla line up, a distanza di pochi giorni, della sezione ritmica (il batterista Andrea Giovanetti ed il bassista Andrea Paglierini).
Dunque i due fondatori (Gia,paolo Polidoro ed Alessandro Toselli) continuano la loro avventura con il monicker Malet Grace, ripartendo da Humanocide e dalla firma con la Spider Rock Promotion.
Cinque brani più intro per quasi mezzora di musica metal confermano le buone impressioni suscitate dal full length licenziato lo scorso anno, anche se il sound questa volta è meno soggiogato dall’elemento estremo ed è più in linea con il metal classico di ispirazione progressiva.
Ovviamente il thrash metal è presente, specialmente in alcune ritmiche mozzafiato (notevole The Constant Rhyme Of Perseverance) ma in generale la band questa volta lascia all’heavy metal più raffinato e progressivo il compito di introdurre l’ascoltatore nel proprio mondo.
Infatti, le varie Redemption Of Fear e Malerie mi hanno ricordato gli Eldritch più diretti, mentre Sometimes I Need To Die è una ballad in crescendo dalle atmosfere drammatiche, che placa ma non spezza la tensione comune a tutti i  brani presenti su Humanocide.
Ottimo ritorno dunque, e sperando che la band risolva i problemi legati alla line up, consiglio un ascolto agli amanti del metal dai gusti classici e progressivi, legati che siano al thrash o all’hard’n’heavy.

Tracklist
1.The Breath of a Psychotic Misfit
2.Redemption of Fear
3.Malerie
4.Sometimes I Need to Die
5.The Constant Rhyme of Perseverance
6.A Compensation of Souls

Line-up
G. Polidoro – Vocals/Lead and Rhythm guitar
A. Toselli – Lead and Rhythm guitar

MALET GRACE – Facebook

Iconic Eye – Into The Light

Manca forse il brano trainante, ma in generale Into The Light mantiene un songwriting di buon livello e degno di un ascolto interessato da parte del fans dell’hard rock melodico.

Si torna a parlare di AOR, il genere melodico per antonomasia della grande famiglia dell’hard rock e del metal.

Questa volta si vola nel regno Unito e precisamente a Wolverhampton, casa degli Iconic Eye, fondati dal chitarrista Greg Dean prima come progetto personale poi, col tempo, trasformatisi in band a tutti gli effetti.
Il primo album intitolato Hidden In Plain Sight, uscito due anni fa, vedeva all’opera due cantanti, Lee Small (Shy, Snowfall, Skyscraper) e Tim Dawkes, mentre dopo due anni la band britannica torna in pista con questo nuovo lavoro intitolato Into The Light che vede un cambio importante dietro al microfono, dove troviamo la cantante Jane Gillard a rendere ancora più melodica la proposta del gruppo di Greg Dean.
Into The Light è composto da undici brani di hard rock melodico, a tratti pomposo, in altri frangenti più diretti ma sempre legato al sound di scuola britannica nelle tracce dove le tastiere sono protagoniste, divenendo più americano quando la band decide di indurire il suono quel tanto che basta per tornare agli anni ottanta ed alla lezione impartita dei gruppi della West Coast.
La Gillard, in possesso di una voce perfetta per il genere, non fa certo rimpiangere i due bravi cantanti che l’hanno preceduta e l’album nella sua interezza si fa apprezzare.
Manca forse il brano trainante, quello che negli anni d’oro sarebbe stato l’hit da un milione di dollari (o in questo caso, di sterline) ma in generale Into The Light mantiene un songwriting di buon livello e degno di un ascolto interessato da parte del fans dell’hard rock melodico.

Tracklist
1.Am I the One
2.You Make It
3.Those Tears Won’t Last
4.Let It Rain Down
5.Black Country Lady
6.Better Place
7.Black Heart
8.All She Needed
9.Thanks for the Memories
10.Don’t Stop Me From Leaving
11.Never Get Through the Night

Line-up
Jane Gillard – Vocals
Greg Dean – Guitars, Keyboards
Robin Mitchard – Guitars
Michael Dagnall – Bass
Adrian Scattergood – Drums

ICONIC EYE – Facebook