Wending Tide – The Painter

The Painter ha il solo difetto d’essere un ep, perché, al termine dell’ascolto, permane forte il desiderio di ascoltare quanto prima del nuovo materiale proveniente da questo bravissimo musicista neozelandese.

Sempre dalla ricca faretra della Naturmacht ecco arrivarci questo notevole prodotto proveniente dell’emisfero australe.

Wending Tide è il nome di una delle non così frequenti realtà musicali provenienti dalla Nuova Zelanda portate alla nostra attenzione: le note biografiche al riguardo sono pressoché nulle per cui altro non dato sapere, se non il fatto che siamo al cospetto di una one man band.
Non resta quindi che parlare della musica offerta, che è un ottimo black metal atmosferico dalla forte impronta nordamericana, cosa che viene esplicitata senza troppi giri di parole fin dai titoli dei due brani centrali Cascading Auburn I e II; uno spiccato senso melodico pervade ognuna delle quattro tracce nelle quali viene offerto uno spaccato esemplare di quel black metal dai tratti sognanti che va talvolta a sconfinare nello shoegaze.
In questi venti minuti scarsi gli Wending Tide offrono splendidi squarci melodici che non possono lasciare indifferenti, anche perché d’altro canto non viene sacrificata la struttura di base del genere, senza rinunciare né allo screaming né alle consuete sfuriate ritmiche atte a sostenere il flusso armonico creato dal tremolo della chitarra.
The Painter ha il solo difetto d’essere un ep, perché giunti alla fine di Pastel Light permane un forte desiderio di ascoltare quanto prima del nuovo materiale proveniente da questo bravissimo musicista neozelandese.

Tracklist:
1. The Painter
2. Cascading Auburn I
3. Cascading Auburn II
4. Pastel Light

Nordlumo – Embraced by Eternal Night

Come spesso accade, la musica che ci giunge dalla Siberia non delude e il misterioso Nordmad riesce nell’intento di produrre un bellissimo lavoro, tramite l’esibizione di un funeral doom melodico ma al contempo molto essenziale.

Nordlumo è il nome di questa nuova one man band proveniente dalla Siberia e dedita al funeral doom.

Come spesso accade, la musica che ci giunge da quelle fredde e lontane lande non delude e il misterioso Nordmad riesce nell’intento di produrre un bellissimo lavoro, tramite un’esibizione del genere melodica ma al contempo molto essenziale.
Sono pochi gli inserti vocali mentre risultano invece pressoché nulli i momenti in cui il sound viene diluito con passaggi ambient o sperimentali: qui tutto è finalizzato alla creazione di una melodia dolente ma d’immediato impatto e, in tal senso, si rivela emblematica la prima traccia, interamente strumentale, The Autumn Fall, la quale prepara il terreno a quello che sarà il fulcro dell’album, la meravigliosa Devotion, oltre 23 minuti di sofferenza pura oltre che sicuro nutrimento per i soli adepti del genere.
E’ sempre un profondo senso di malinconia ad aleggiare per quasi la metà del brano, nel corso del quale il musicista russo mostra anche una certa eleganza nel pizzicare gli strumenti a corde, prima che l’interminabile finale ci scaraventi in un vortice di inalienabile dolore, con la reiterazione di accordi rallentati all’inverosimile.
Altro picco del lavoro è il quarto d’ora intitolato Dreamwalker, brano di chiara impronta Ea che si apre negli ultimi cinque minuti in un meraviglioso crescendo emotivo; non da meno comunque è anche il resto del lavoro, che oltre alla già citata The Autumn Fall, propone la nervosa e più cangiante Scripts e la stupenda cover di Weathered dei Colosseum, sentito e doveroso omaggio al genio musicale del compianto Juhani Palomäki.
Nordmad dimostra d’essere un musicista di grande spessore, regalando un esordio inattaccabile sotto ogni aspetto e dotato di tutti i crismi per lasciare il segno negli appassionati di funeral doom.

Tracklist:
1. The Autumn Fall
2. Devotion
3. Scripts
4. Dreamwalker
5. Millenium Snowfall
6. Weathered (Colosseum cover)

Line-up:
Nordmad – Everything

Ovnev – Incalescence

Un album sicuramente interessante e consigliato a chi ama il black atmosferico dalla forte impronta nordamericana e dalle ben dosate sfumature folk.

Secondo full length per la one man band texana Ovnev, autrice di un buon black metal atmosferico del tutto in linea con le produzioni di casa Naturmacht.

L’etichetta tedesca è probabilmente quella che ha nel suo roster il maggior numero di band e progetti solisti dediti a questa specifica forma di black, che affonda le proprie radici in un sentire naturalistico-ambientale ben radicato nel dna dei musicisti di provenienza statunitense.
West non fa eccezione a questa sorta di regola ed offre un album decisamente valido e ricco di buoni spunti melodici, magari non sempre impeccabile dal punto di vista esecutivo, con qualche sbavatura nel lavoro chitarristico che viene ampiamente compensata da una buona intensità e da quella capacità tipica del genere di veicolare le emozioni in maniera molto diretta e priva di alcun filtro.
I cinque brani si equivalgono per valore rendendo l’ascolto di Incalescence senz’altro gradevole: tra questi credo che sia A Living Resonance l’episodio che meglio esprime il senso del sound marchiato Ovnev, che in questo caso riveste musicalmente una storia fantasiosa ma piuttosto interessante riguardante la scoperta di un ecosistema lussureggiante nascosto nel sottosuolo antartico, creato da forme di vita intelligenti e destinato ad essere rivelato all’umanità, con tutte le conseguenze del caso.
La somma di tutti questi fattori rende l’album sicuramente interessante e consigliato a chi ama il black atmosferico dalla forte impronta nordamericana e dalle ben dosate sfumature folk.

Tracklist:
1. Subterranean Premonitions
2. Icy Incalescence
3. A Living Resonance
4. Oracles of the Eternal Wisdom
5. They Reclaimed the Land

Line-up:
West Everything

OVNEV – Facebook

Nephren-Ka – La Grande Guerre De L’èpice

L’album è un ottimo esempio di quello che nel genere specifico si dovrebbe trovare: tanta tecnica al servizio di un sound coinvolgente e che non dimentica i semplici ascoltatori, lasciando ad altri la mera tecnica da sfoggiare tra musicisti.

Negli ultimi tempi ho avuto modo di ascoltare una manciata di lavori estremi nei quali la mera tecnica esecutiva soffocava letteralmente il lato più atmosferico ed emotivo, creando solo un’insieme di suoni tecnicamente ineccepibili ma freddi e fuori da ogni minima forma canzone.

Questo non succede con l’ultimo lavoro dei Nephren-ka, gruppo transalpino che suona del technical death metal brutale e old school.
Siamo al secondo full length di una carriera iniziata dieci anni fa e che ha visto la band produrre il classico demo di debutto, un ep ed il primo lavoro sulla lunga distanza rilasciato nel 2013 (The Fall Of Omnius).
Ispirato come sempre dai romanzi che formano il ciclo di Dune scritto da Frank Herbert, La Grande Guerre De L’èpice è un ottimo esempio di metal estremo e brutale, tecnicamente ineccepibile ma ben legato ad una trama sonora stabile, così che i brani non scappano all’ascolto a cavallo di cervellotici passaggi strumentali.
Il gruppo francese sa come gestire al meglio un genere come il death metal più tecnico e quindi tutto funziona a meraviglia facendo di La Grande Guerre De L’èpice un lavoro altamente riuscito.
Brani come The Demise of Ix o New Melange For The Real God sono attraversati da un’aura epica che avvicina non poco il sound ai maestri Nile, una delle maggiori influenze del gruppo insieme a Origin e, per la parte maggiormente old school, i Bolt Thrower.
L’album è un ottimo esempio di quello che nel genere specifico si dovrebbe trovare: tanta tecnica al servizio di un sound coinvolgente e che non dimentica i semplici ascoltatori, lasciando ad altri la mera tecnica da sfoggiare tra musicisti: i Nephren-Ka ci sono riusciti dove altri gruppi più blasonati hanno invece fallito, complimenti al gruppo francese.

Tracklist
1.Watch and Learn
2.Plan to Master the Universe
3.The Demise of Ix
4.Proditoris Gloriosa
5.Idar Fen Adijica
6.New Melange for the Real God
7.The Great Spice War
8.Fenring’s Test
9.From High Hopes to Failure Complete
10.Mirror Mirror (Candlemass cover)

Line-up
Laurent Chambe – Vocals/Guitars
Sebastien Briat – Guitars/Backing vocals
Thibault « Zakk » Gosselin – Bass
Thibaud Pialoux – Drums

NEPHREN-KA – Facebook

Sirgaus – L’Amore, L’Ardore e L’Alviano

Un’opera che musicalmente si nutre di rock come di sinfonie orchestrali, di folk come di atmosfere teatrali, e il tutto viene usato da con maestria da Gosetti per dare vita alle storie che si sviluppano accompagnate dalla musica e dalle voci dei suoi protagonisti.

La vena creativa di Mattia Gosetti è lungi dall’ essere esaurita e, a distanza di un anno dall’ultima opera dei Sirgaus (Il Treno Fantasma), torna con una nuova storia raccontata attraverso la musica ed ambientata come sempre tra le montagne e le valli della sua terra, il bellunese.

Accompagnato dalla cantante e consorte Sonja Da Col, Gosetti da vita ad un altro splendido concept, dopo le fortune artistiche di Sofia’s Forgotten Violin licenziato nel 2013, il capolavoro Il Bianco Sospiro della Montagna, uscito a suo nome due anni dopo, ed appunto il precedente lavoro che confermava ancora una volta il talento compositivo del nostro e la bontà del sodalizio artistico con quella che è pure compagna di vita.
Questa volta il polistrumentista veneto fa quasi tutto da solo, aiutato al microfono dalla Da Col, da Diego Gosetti ai cori e dal tenore Matteo Brustolon nei panni di Bartolomeo d’Alviano.
L’Amore, L’Ardore e L’Alviano è dunque un concept che racconta le imprese di quel personaggio, degli eventi portati dal suo passaggio a Cibiana Di Cadore, della fabbricazione e del commercio delle chiavi, iniziato proprio in quel periodo e per cui è conosciuto il paese natale dei musicisti, la leggenda degli Sbroa Fen e la storia d’amore tra un soldato ed una guida paesana.
Ormai Gosetti ha una sua precisa identità artistica, quindi per chi conosce la sua musica, le atmosfere suggestive e le poetiche sfumature sinfoniche e folkloristiche non sorprendono più di tanto, ma ancora una volta ci mettono innanzi ad un musicista senza uguali nel panorama rock/metal, capace di dare vita ad un’opera che regala episodi bellissimi come La Marcia Dell’Alviano, Mi son Veneto, l’epica Mani Nella Neve, la splendida Cibiana, le sfumature folk di Chiavi e Profezie, l’epica sinfonia di La Battaglia Di Rusecco, che ci trasportano nel 1500 tra le case e le viuzze di Cibiana di Cadore, testimoni delle vicende narrate.
Un’opera che musicalmente si nutre di rock come di sinfonie orchestrali, di folk come di atmosfere teatrali, e il tutto viene usato da con maestria da Gosetti per dare vita alle storie che si sviluppano accompagnate dalla musica e dalle voci dei suoi protagonisti.

Tracklist
1.L’Amore, L’Ardore, L’Alviano
2.Il Disegno Suo
3.La Marcia Dell’Alviano, Mi Son Veneto
4.Mani Nella Neve
5.I Boschi Su Deona
6.Cibiana
7.Chiavi E Profezie
8.Tu Proteggi I Sogni Miei
9.I Sbroa Fen
10.Un Amore Di Montagna
11.La Battaglia Di Rusecco
12.La Serenissima Vittoria
13.Ritorno A Cibiana

Line-up
Sonia Da Col – Voce
Mattia Gosetti – Bass, Guitars , Vocals, Orchestral Synth e Programming

Matteo Brustolon – Vocals
Diego Gosetti – Chorus

SIRGAUS – Facebook

Beyond Forgiveness – The Great Wall

The Great Wall arriva tranquillo ad un’abbondante sufficienza, ma lo consiglio solo ai fans accaniti del genere e a chi ha confidenza con i primi vagiti di una scena nata ormai venticinque anni fa nel nostro continente, mentre per i giovani consumatori di symphonic metal bombastico trovo che l’album possa risultare alquanto ostico.

Un altro combo symphonic gothic metal si affaccia sulla scena metallica, questa volta a vele spiegate dal nuovo continente verso la vecchia Europa, terra più ricettiva per questi suoni.

La nave battente bandiera del Colorado ci porta la musica dei Beyond Forgiveness, quartetto attivo da un po’ di anni, ma arrivato sul mercato solo nell’ultimo periodo.
In due anni un singolo, l’ep The Ferryman’s Shore e questo ultimo lavoro, dal titolo The Great Wall, debutto sulla lunga distanza che nulla aggiunge e nulla toglie al genere ma piace per le molte sfumature folk, il sempre presente growl ad accompagnare la voce femminea ed operistica, ed un approccio dark/gotico che ricorda i primi Theatre Of Tragedy.
Il sound dell’album si avvicina alle opere uscite a metà anni novanta, non solo della band che fu di Liv Kristine ma anche quelle della scuola olandese che fanno capolino tra le trame di brani irrobustiti da una componente estrema che va dal growl alle ritmiche.
Una produzione che lascia le orchestrazioni in secondo piano, specialmente quando la sezione ritmica prende il sopravvento, ed una leggera prolissità in qualche brano (Imprisoned, I Will Fight Till The End) sono invece i difetti maggiori di un’opera che decolla per perdere quota a tratti e poi riprendersi lungo il tragitto.
The Great Wall arriva tranquillo ad un’abbondante sufficienza, ma lo consiglio solo ai fans accaniti del genere e a chi ha confidenza con i primi vagiti di una scena nata ormai venticinque anni fa nel nostro continente, mentre per i giovani consumatori di symphonic metal bombastico trovo che l’album possa risultare alquanto ostico.

Tracklist
1.End of Time
2.The Great Wall
3.Sanctuary
4.Imprisoned
5.Interlude
6.Moment of Truth
7.Never Before
8.Dream Before I Sleep
9.I Will Fight Till The End
10.Every Breath

Line-up
Michael Bulach – Drums
Greg Witwer – Guitars, Vocals (backing)
See also: Hell’s Eden, Vital Malice
Richard Marcus – Guitars, Vocals (backing)
Talia Hoit – Vocals

BEYOND FORGIVENESS – Facebook

Vojd – Behind The Frame

Nati dalle ceneri dei Black Trip, si affacciano sul mercato i Vojd con questo ep di due tracce che anticipa il debutto sulla lunga distanza con il nuovo monicker.

Nati dalle ceneri dei Black Trip, band svedese che sotto il segno dell’heavy metal ha licenziato due full length (Goin’ Under e Shadowline tra il 2013 ed il 2015), si affacciano sul mercato i Vojd con questo ep di due tracce che anticipa il debutto sulla lunga distanza con il nuovo monicker.

Sul lato A la veloce e melodica Behind The Frame (canzone che da il titolo al 7″) ci presenta una band rinnovata anche nel suono, che si rivela un hard & heavy tra Def Leppard e Kiss, quindi roba per rocker belli e fatti con un accenno di groove nelle ritmiche che fa tanto cool, anche in una proposta vintage come quella della band svedese.
Ottimi chorus e riff che sprizzano melodia da tutti i pori fanno del sound dei Vojd un buon esempio di heavy metal classico, assolutamente tradizionalista ma furbo quel tanto che basta per non sfigurare anche nello stereo dei giovani dai gusti old school.
Funeral Empire si veste di nero e ci regala un riff sabbathiano nel refrain, per poi lasciare all’assolo melodico tutta la gloria. un buon brano tra heavy metal, reminiscenze doom e qualche sfumatura stoner, un tocco personalissimo nel sound targato Vojd.
Non resta che attendere il full length per avere un quadro più ampio e preciso delle potenzialità del gruppo svedese, anche se le prospettive per un buon lavoro ci sono tutte.

Tracklist
1. Behind The Frame
2.Funeral Empire

Line-up
Peter Stjärnvind – Lead guitar
Joseph Tholl – Bass and lead vocals
Linus Björklund – Lead guitar
Anders Bentell – Drums and percussion

VOJD – Facebook

Slow – V-Oceans

Dall’Aurora alle Tenebre, dal Diluvio al Nulla, per chiudere ineluttabilmente con la Morte: giocando con i titoli dei brani è questo il percorso cosparso di lacrime lungo il quale ci conduce ancora una volta il talento di Déhà.

In occasione della riedizione in vinile e cd da parte della code666 di questo splendido album, riproponiamo la recensione pubblicata nella scorsa estate con la speranza di catturare l’attenzione di qualche nuovo estimatore della musica targata Slow.

Quinto atto per uno dei mille progetti del multiforme Déhà, un artista che non teme rivali stante l’elevatissimo rapporto tra la debordante quantità della musica proposta e la sua sempre stupefacente qualità.
Oceans non viene meno alle aspettative, stavolta, però, facendo esattamente quanto un estimatore del musicista belga si sarebbe aspettato, ovvero dare alle stampe con il monicker Slow qualcosa di molto vicino al disco funeral doom atmosferico definitivo, tramite il quale obbligare ciascuno ad esibire senza alcuna maschera il proprio turbamento ed il dolore sordo e latente che accompagna anche l’esistenza più spensierata.
Senza farsi aiutare in questa occasione dal suo grande amico Daniel Neagoe (ma i due hanno in serbo perle irrinunciabili delle quali parleremo prossimamente), Déhà mette in scena quasi un’ora di note in cui il genere viene sviscerato nella sua veste più toccante, con la lenta e costante reiterazione delle linee melodiche che vanno man mano a modificarsi in maniera impercettibile, per poi arricchirsi di nuovi apporti, strumentali e vocali, prima di esplodere in autentiche tempeste emozionali.
Se in Mythologiae il sound, a tratti, risultava più etereo e, di conseguenza, meno intenso, Oceans ritorna alle sonorità più drammatiche e, se vogliamo, più dirette di Gaia, toccando le vette melodiche alle quali Déhà ci ha abituato nel corso di questi anni.
Il concept verte sull’elemento acquatico per il quale, altra novità in tal senso, Déhà ha delegato la composizione delle liriche alla giovane connazionale Lore Boeykens; l’album scorre appunto fluido come un liquido e privo di interruzioni tra i cinque lunghi brani, portandosi appresso dalla prima all’ultima nota quel marchio musicale che accomuna, al di là delle differenze di genere, progetti come Imber Luminis, Yhdarl, We All Die (Laughing), Deos, Vaer e Maladie, solo per citare quelli dal maggiore potenziale evocativo.
Appare così inutile parlare dei singoli brani, anche se non si può ugualmente fare a meno di notare come nei tredici minuti intitolati Déluge si raggiungano vertici di lirismo inimmaginabili per potenza e drammaticità, amplificati da un growl che non viene mai abbandonato nel corso del lavoro, conducendo l’ascoltatore tra lo stupore provocato da atmosfere basate su tastiere e chitarra e e percosse da una base ritmica tutt’altro che appiattita solo su ritmi bradicardici.
Dall’Aurora alle Tenebre, dal Diluvio al Nulla, per chiudere ineluttabilmente con la Morte: giocando con i titoli dei brani è questo il percorso cosparso di lacrime lungo il quale ci conduce ancora una volta il talento di Déhà, unico nel suo saper trasformare il dolore e lo sgomento in una forma superiore di arte musicale.

Tracklist:
1.Aurore
2.Ténèbres
3.Déluge
4.Néant
5.Mort

Line up:
Déhà – All instruments, Vocals

SLOW – Facebook

Chaos Moon – Eschaton Mémoire

Grande ritorno della USBM band con un lavoro ricco di passione e personalità …opening the cosmic wound.

Una grande atmosfera e una eccezionale cover disegnata da Jef WhItehead (in arte Wrest dei Leviathan), rendono l’ascolto della nuova opera dei Chaos Moon un’esperienza trascendentale e lisergica; il monicker, attivo dal 2004 con il demo Chaos Rituals, contemplava solo la presenza di Alex Poole come mastermind del progetto e abbracciava maggiormente sonorità funeral che, nel tempo, sono state accantonate per un approccio al black metal molto particolare, con una forte propensione nel creare atmosfere insolite e personali.

Ora la band è diventata un quartetto e ci propone in tre brani, per quaranta minuti di musica, un’opera molto intensa, sofferta, con un suono freddo e con atmosfere nebbiose, frutto di un uso sapiente di synth e varia effettistica. La ricerca della band ha portato a concepire un’opera di un livello superiore, dove l’equilibrio tra un’atmosfera malsana, oscura, decadente e un black feroce, retto da un grande drumming, si mantiene costante senza cedimenti. I brani sono ben “costruiti”, sono fluidi, coinvolgenti e colpiscono sia il cuore che l’intelletto. Un magnifico pezzo come Of wrath and forbidden wisdom, nel suo maestoso ed inquietante sviluppo, crea atmosfere che possono ricordare alcuni temi emperoriani; lo scream accompagna in modo espressivo feroci riff che costantemente caricano il brano di oscura energia. La title track divisa in due momenti alterna furioso, ruvido e caotico black con momenti più pacati, condotti da linee di synth gelide e sferzanti. E’ un’opera che deve essere ascoltata nella sua interezza e con particolare attenzione perché le sensazioni che emana hanno un loro personale fascino: è sempre una sfida per il black riuscire a creare, da materiali noti, nuova e grande Arte Nera.

Tracklist
1. The Pillar, the Fall, and the Key I
2. The Pillar, the Fall, and the Key II
3. Of Wrath and Forbidden Wisdom
4. Eschaton Mémoire I
5. Eschaton Mémoire II

Line-up
Esoterica Guitars, Atmosphere
Jack Blackburn Drums
S.B. Guitars, Atmosphere
E.B. Vocals

CHAOS MOON – Facebook

Millennium – Awakening

Un buon talento strumentale e vocale è la chiave della riuscita dei piccoli gioielli metallici che costellano un lavoro davvero bello, specialmente se avete qualche capello bianco in testa e spaventate i nipotini con Eddie in bella mostra come salvaschermo del vostro smartphone.

Heavy metal conosciuto come NWOBHM, quindi assolutamente di origine britannica, è quello che troverete magicamente tra i brani di Awakening. secondo lavoro dei redivivi Millennium.

Nati nei primi anni ottanta il gruppo battente bandiera della Union Jack e capitanato dal singer Mark Duffy, membro originale insieme al batterista Steve Mennell ed in seconda battuta al chitarrista Dave Hardy (entrò nel gruppo due anni dopo), torna con un altro bellissimo album di heavy metal come lo si suonava all’epoca, metallo pesante pregno di solos melodici, orgoglioso, maschio e soprattutto composto da belle canzoni.
Avete presente i primi due album dei Maiden con Paul Di Anno?
Bene, aggiungetevi un tripudio di ritmiche sassoni, qualche accenno al periodo Dickinson fino a Powerslave, una voce che senza sentire il peso degli anni si piazza proprio tra la bestia e Biff ed avrete bello che pronto il ritorno dei Millennium, una sorta di seconda giovinezza iniziata con Caught in a Warzone del 2016, dopo che la carriera della band si interruppe nel lontano 1987 con un solo album omonimo all’attivo.
Dopo aver reclutato il chitarrista Will Philpot ed il bassista Andy Fisher, il gruppo inglese ci fa vedere di che pasta è fatto con questa raccolta di brani supportati da una produzione moderna, che consente di assaporare gli intrecci chitarristici, i chorus che si stampano in testa al primo giro di ruota ed una forma smagliante per quanto riguarda il songwriting, davvero superlativo.
Awakening è un album da sparare nelle orecchie di chi afferma che queste sonorità risultano obsolete, infatti bastano le virtù elencate per far rialzare la testa all’heavy metal, troppo spesso umiliato da produzioni vintage assolutamente inadeguate e da soluzioni power sinfoniche che, con la NWOBHM, c’entrano come i cavoli a merenda.
Un buon talento strumentale e vocale è la chiave della riuscita dei piccoli gioielli metallici come l’opener False Reality, la seguente Rise Above, la marcia metallica dal titolo Searching e la potente Witch Hunt, picchi di un lavoro davvero bello, specialmente se avete qualche capello bianco in testa e spaventate i nipotini con Eddie in bella mostra come salvaschermo del vostro smartphone. , specialmente se avete qualche capello bianco in testa e spaventate i nipotini con Eddie in bella mostra come salvaschermo del vostro smartphone.

Tracklist
1.False Reality
2.Rise Above
3.Searching
4.The Spell
5.Awakening
6.Lies All Lies
7.The Calling
8.Witch Hunt
9.When Mad Men Rule
10.Revolution Calls
11.Possessed

Line-up
Mark Duffy – vocals
Steve Mennell – Drums
Dave Hardy – Guitar
Will Philpot – Guitar
Andy Fisher – Bass

MILLENNIUM – Facebook

Kapala – Infest Cesspool

Se l’intento dei Kapala è quello di far sembrare che il sound provenga direttamente dal pozzo nero (cesspool) da loro evocato, allora l’obiettivo è raggiunto, peccato però che tale operato non sia affatto rappresentativo né delle forme più true del black metal, sia soprattutto di una scena indiana che, anzi, si sta dimostrando negli ultimi anni una delle più vive e brillanti del continente in ambito estremo.

Qualcuno si potrà chiedere come mai i dischi dei quali parliamo noi sono normalmente di buon livello o quanto meno degni di ascolto: forse perché siamo fortunati, visto che la maggior parte delle produzioni che ci vengono sottoposte sono oggettivamente valide, ma soprattutto perché, essendo costretti a tralasciare più di un lavoro meritevole d’attenzione, stante l’impossibilità di far fronte a tutte le richieste, riteniamo sia il caso di non disperdere energie occupandoci delle opere meno riuscite.

Però ogni tanto è il caso di fare un’eccezione, soprattutto quando il prodotto che ci viene sottoposto può rivelarsi fuorviante rispetto ad un certo modo di intendere uno stile o un genere musicale, specialmente per qualcuno che ci si dovesse imbattere per la prima volta.
Sappiamo tutti che non è certo a chi suona black metal che si richiede il confezionamento di album perfetti dal punto di vista delle sonorità e della registrazione, e non più di una settimana fa mi sono trovato ad esprimere un sincero apprezzamento per l’ ultimo disco dei Sortilegia, perfetto esempio di come il genere possa essere suonato in maniera “primitiva” e con una produzione definibile eufemisticamente lo-fi senza che venga meno la possibilità di godere appieno di quella che è la sua vera essenza
Ecco, quel lavoro, se confrontato con questo esordio degli indiani Kapala, sembra quasi un prodotto patinato: non nego che, all’ascolto delle prime note di Infest Cesspool, l’istinto sia stato quello di imprecare per l’improvvisa rottura delle cuffie, salvo poi rendermi conto che il problema risedeva altrove …
Questo terzetto asiatico tenta di mettere in scena un raw black metal così definibile solo nelle intenzioni, visto che il tutto sembra arrivare da una radiolina anni settanta malfunzionante, e ciò rende vana ogni possibile considerazione sulle capacità della band di esprimere un contenuto musicale che resta del tutto inintelligibile lungo i venti minuti dell’ep, chiusi da un outro il cui titolo, Atrocity Cacophony, sembra quasi esprimere una tardiva presa di coscienza.
Se poi l’intento dei Kapala è quello di far sembrare che il sound provenga direttamente dal pozzo nero (cesspool) da loro evocato, allora l’obiettivo è raggiunto, peccato però che tale operato non sia affatto rappresentativo né delle forme più true del black metal, sia soprattutto di una scena indiana che, anzi, si sta dimostrando negli ultimi anni una delle più vive e brillanti del continente in ambito estremo.
In buona sostanza, lo scopo essenziale di questa non-recensione era quello chiarire tale concetto; resta solo da augurarsi che lo “scarrafone” immortalato in copertina, volendolo identificare con i Kapala, possa essere oggetto in futuro di una metamorfosi opposta rispetto a quella di Gregor Samsa …

Tracklist:
1. Intro (To War)
2. Homosapiennihilation
3. Kapalik Hellstrike
4. Thermobarik Spear
5. A. K. S
6. Outro (Atrocity Cacophony)

Line-up:
V. I – Bass, Vocals
S – Drums
A.T – Guitars

KAPALA – Facebook

Anvil – Pounding The Pavement

Non cambia la formula che ha fatto la storia degli Anvil e del metal, quindi, se cercate tutti i cliché tipici del genere, mister Steve “Lips” Kudlow e compari vi hanno accontentato anche questa volta.

Il nuovo anno metallico è appena iniziato e si presenta con il nuovo album degli storici Anvil, il diciassettesimo full length di una lunga storia iniziata all’alba degli anni ottanta per il gruppo canadese, capitanato da quel personaggio simpaticissimo e sopra le righe che è Lips, un rocker che mai si è dato per vinto e che è arrivato nel nuovo millennio con la sua musica.

Non cambia la formula che ha fatto la storia degli Anvil e del metal, quindi, se cercate tutti i cliché tipici del genere, mister Steve “Lips” Kudlow e compari (Robb Reiner, Chris Robertson) vi hanno accontentato anche questa volta.
Pounding The Pavement è un nuovo inno all’hard’n’heavy nella sua forma più grezza, ignorante e se mi passate il termine, rock’n’roll: gli Anvil non conoscono vecchiaia e stanchezza, partono con Bitch In The Box e vi scaricano undici pugni nello stomaco, alternando mid tempo tellurici dal riff scolpito nella sacra montagna dell’heavy metal, veloci partenze hard’n’roll che fanno sbattere la capoccia a Lemmy, giù nel girone infernale delle rockstar, e brani dall’impatto metallico di un tuono prima del diluvio universale.
Non è pane per chi cerca l’originalità, gli Anvil li devi prendere così, amarli per quello che sono e che rappresentano, indipendentemente dal fatto che la musica rock/metal si sia evoluta in tutti questi anni e loro invece stiano ancora lì, a saltare su un palco oggi come nel 1981.
Doing What I Want, Rock That Shit, Black Smoke e via tutte le tracce che compongono questo lavoro, sono ancora una volta 100% Anvil, senza trucchi ne inganni, it’s only rock ‘n’ roll, intransigente, metallico, tripallico ed esagerato.
Qualcuno potrebbe chiedersi se c’è ancora bisogno di album così e la risposta, mentre la gamba si alza e carica un calcio nel deretano, è assolutamente sì.

Tracklist
1. Bitch In The Box
2. Ego
3. Doing What I Want
4. Smash Your Face
5. Pounding The Pavement
6. Rock That Shit
7. Let It Go
8. Nanook Of The North
9. Black Smoke
10. World Of Tomorrow
11. Warming Up
12. Don´t Tell Me (Bonus Track)

Line-up
Steve “Lips” Kudlow – Guitars, Vocals
Robb Reiner – Drums
Chris Robertson – Bass

ANVIL – Facebook

Roadkillsoda – Mephobia

Citazioni più o meno famose e cliché che nutrono di già sentito i brani, fanno di Mephobia un album godibile, e se un po’ di ripetitività lascia che qualche sbadiglio affiori verso la fine dell’ascolto, il tutto viene bilanciato dal almeno tre ottime tracce.

Quando si parla di Romania riguardo al metal viene spontaneo pensare al gothic ed al doom, generi che nel paese balcanico  vengono espressi in maniera qualitativamente alta.

Quindi i Roadkillsoda fanno parte di una scena (quella stoner rock) che sicuramente non fa pensare alle foreste ed ai castelli immersi nelle valli e sulla cime dei Carpazi, ma al caldo delle pianure americane: il quartetto di Bucarest infatti suona musica desertica, hard rock stonerizzato e, come da trend, alimentato da una vena nostalgica tra rock settantiano e alternative proveniente dagli anni novanta.
Niente di nuovo sotto il sole della capitale rumena, ma estremamente funzionale a quello che il gruppo vuole trasmettere, ovvero hard rock diretto, stonato e vintage.
In giro da ormai un po’ di anni, la band ha dato alle stampe quattro album, compreso quest’ultimo lavoro intitolato Mephobia, e ha avuto i suoi inevitabili aggiustamenti per quanto riguarda la formazione ed arriva carica e sul pezzo per farci sognare ancora di sabbia scaldata dal sole, crotali dai sonagli impazziti e lunghe camminate persi nel caldo asfissiante della Sky Valley.
Citazioni più o meno famose e cliché che nutrono di già sentito i brani, fanno di Mephobia un album godibile, e se un po’ di ripetitività lascia che qualche sbadiglio affiori verso la fine dell’ascolto, il tutto viene bilanciato dal almeno tre ottime tracce (Prometheus, Casuality e la psichedelica Dip).
I soliti Kyuss e Queen Of The Stone Age, con un po’ di Black Label Society a metallizzare quanto basta il suono di Mephobia, sono i primi nomi di una lunga lista di influenze accostabili al gruppo rumeno, ma se del genere non potete fare a meno i Roadkillsoda vi sapranno tenere buona compagnia.

Tracklist
1.Prometheus
2. Bipolar
3.Consequences
4.Easy
5.Casualty
6.Legless
7.Order
8.Dip
9.Backhander
10.Tonight
11.Trust

Line-up
Mircea Petrescu “Hotshot Eagle” – Vocals
Mihnea Ferezan “Panda Elixir” – Guitars
Victor “Vava” Ferezan – Bass
Mihai Nicolau “Baby Jesus” – Drums

ROADKILL SODA – Facebook

Magnum – Lost On The Road To Eternity

Lost On The Road To Eternity rimane un’opera al 100% Magnum, quindi consigliata ai rockers amanti delle melodie di scuola Clarkin/Catley, anche se manca in parte quel tocco epico/fantasy per cui la storica band britannica è famosa, ma al ventesimo lavoro non ci si può certo lamentare.

Il ventesimo album dei Magnum è il primo appuntamento importante dell’anno appena iniziato: Bob Catley e Tony Clarkin tornano ad un anno di distanza dalla raccolta di ballads che aveva fatto emozionare i cuori dei fans del gruppo (The Valley Of Tears-The Ballads) e a due dall’ultimo lavoro composto da inediti (Sacred Blood “Divine” Lies).

Lost On The Road To Eternity ha nella partecipazione di Tobias Sammet, come ospite nella title track, la sua più grossa novità, per il resto il nuovo lavoro viaggia con il pilota automatico nel mondo Magnum.
E’ un album riuscito, pregno di melodie sognanti, accenni al progressive, in molti punti cardine orchestrato a meraviglia e cantato ancora una volta da un menestrello che non conosce vecchiaia, almeno nella sua splendida ed inconfondibile voce.
Un’opera che si sviluppa su quasi settanta minuti di musica rock dagli elevati contenuti melodici, ma che non rinuncia ad elettrizzare l’ambiente con riff duri come il ferro e di cui Clarkin è autentico maestro (bellissima in questo senso Without Love).
Poi, dopo un inizio che ci regala il meglio del songwriting firmato Magnum (Show Me Your Hands, Welcome To The Cosmic Cabaret), l’entusiasmo si placa leggermente per una serie di brani di maniera, belli, altamente melodici ma che non accendono la sacra fiamma dell’emozionalità come il gruppo britannico ci ha abituato (Ya Wanna Be Someone e Forbidden Masquerade), ne esce un album che sicuramente verrà apprezzato dai fans del gruppo, ma che risulta leggermente inferiore al suo predecessore, avaro di punti deboli.
Lost On The Road To Eternity rimane un’opera al 100% Magnum, quindi consigliata ai rockers amanti delle melodie di scuola Clarkin/Catley, anche se manca in parte quel tocco epico/fantasy per cui la storica band britannica è famosa, ma al ventesimo lavoro non ci si può certo lamentare.

Tracklist
1. Peaches and Cream
2. Show Me Your Hands
3. Storm Baby
4. Welcome to the Cosmic Cabaret
5. Lost on the Road to Eternity
6. Without Love
7. Tell Me What You’ve Got to Say
8. Ya Wanna Be Someone
9. Forbidden Masquerade
10.Glory to Ashes
11. King of the World

Line-up
Tony Clarkin – Guitars
Bob Catley – Vocals
Rick Benton – Keyboards
Al Barrow – Bass
Lee Morris – Drums

MAGNUM – Facebook

Almyrkvi – Umbra

L’operato di Jónsson colpisce per maturità e qualità e, laddove l’aggettivo atmosferico rischia d’essere utilizzato a sproposito, sicuramente l’interpretazione del genere targata Almyrkvi è molto lontana da quella tradizionale.

Il black metal proveniente dall’Islanda continua ad assumere sempre più importanza di pari passo alle varie sfaccettature che ogni band o progetto solista finisce per esibire.

Almyrkvi è uno degli ultimi frutti di una terra apparentemente arida ed ostile, ma terribilmente ricca dal punto di vista artistico: la band nasce da una costola dei già noti Sinamara, il cui chitarrista Garðar S. Jónsson si fa carico di tutto il comparto compositivo e strumentale, con l’eccezione dalla batteria affidata al già collaudato compagno d’avventura Bjarni Einarsson.
Anche la definizione black metal sta assumendo via via significati differenti a seconda dell’angolazione da cui lo si guardi e, forse, talvolta finisce per apparire addirittura riduttiva: in Umbra, infatti, si rinvengono pulsioni cosmiche e sperimentali che possono rimandare ai Blut Aus Nord ma anche ai più recenti Monolithe (che sicuramente black metal non suonano), il tutto però fatto in maniera così avvincente e personale da raccomandare chi legge a prendere queste citazioni solo come un’indicazione di massima del tipo di sonorità contenute nel lavoro.
L’operato di Jónsson colpisce per maturità e qualità e, laddove l’aggettivo atmosferico rischia d’essere utilizzato a sproposito, sicuramente l’interpretazione del genere targata Almyrkvi è molto lontana da quella tradizionale: qui aleggia costantemente un sentore di gelida minaccia che, quando pare acquietarsi, improvvisamente prorompe in esplosioni repentine, quasi il flusso sonoro corrispondesse a quelle meravigliose anomalie naturalistiche che sono i geyser così diffusi lungo l’irrequieto suolo vulcanico dell’isola.
Parlare delle singole tracce è un esercizio al quale mi sottraggo, ritenendo che Umbra sia un lavoro da ascoltare come se fosse un unico lunghissimo brano; mi limiterò a dire che l’opener Vaporous Flame è forse il momento più morbido e accessibile di un album che, a partire dalla successiva Forlorn Astral Ruins, si trasforma in una terrificante colata di nera lava, alla quale contribuisce il notevole growl di Jónsson, musicista sopraffino al quale il buon Einarsson non fa certo mancare un decisivo supporto ritmico.
Una delle più belle sorprese dell’anno, peccato solo l’aver ascoltato quest’album a classifiche già stilate, perché, per quel che può valere, avrebbe trovato posto davvero molto in alto.

Tracklist:
1. Vaporous Flame
2. Forlorn Astral Ruins
3. Severed Pillars of Life
4. Stellar Wind of the Dying Star
5. Cimmerian Flame
6. Fading Hearts of Umbral Nebulas

Line-up:
Garðar S. Jónsson – All compositions & instruments
Bjarni Einarsson – Drums

ALMYRKVI – Facebook

Uruk – I Leave A Silver Trail Through Blackness

Gli Uruk sono quanto di meglio possiate trovare nell’ambient drone e travalicano i generi, perché parlano un linguaggio universale, questa musica è ricerca, vita e morte, inizio e fine.

Cosa succede nel momento in cui si compenetrano due stili musicali diversi, due cammini effettuati con mezzi differenti ma con lo stesso imperativo di ricercare sempre e comunque ?

Succede che nasce un’entità musicale dalla ben difficile collocazione come gli Uruk, figlia dell’incontro tra Massimo Pupillo, l’immenso bassista degli Zu e nei Triple Sun, e Thighpaulsandra, epica figura già nei Coil, poi con Julian Cope e eminente membro di quell’esoterismo inglese, non solo musicale, che vive da molto tempo. I due si sono sempre ammirati, e questo disco, una suite di circa trentanove minuti, è qualcosa di più di una semplice collaborazione. Il disco è un qualcosa di esoterico, una commistione di ambient e di drone, un ricollegarsi alle nostre origini più ancestrali, come indicato dal nome del gruppo. Uruk era una città della civiltà sumera, narrata nell’epopea di Gilgamesh, ed uno dei maggiori insediamenti della nostra antichità. Gruppi come Zu e i Coil attraverso la loro musica hanno sempre ricercato e smosso qualcosa di antico dentro di noi, scavalcando la nostra modernità e parlando a qualcosa che tentiamo di negare. Proprio come questo disco, che ci mostra un’antichissima storia messa in musica, ovvero la capacità umana di dare un senso differente e personale a dei suoni, semplici come il rumore primordiale. I Leave A Silver Trail Through Blackness fa scaturire dentro ognuno di noi una propria personale interpretazione, ma più di tutto è un portale, un codice di vibrazioni per portarci da qualche altra parte in uno stato alterato di coscienza, obiettivo anche dei live del duo, davvero molto coinvolgenti. Non ci si può approcciare a questo disco aspettandosi della musica come la intendiamo comunemente, perché questo è il senso ancestrale di tale arte. Gli Uruk sono quanto di meglio possiate trovare nell’ambient drone e travalicano i generi, perché parlano un linguaggio universale. Questa musica è ricerca, vita e morte, inizio e fine.

Tracklist
1. I Leave A Silver Trail
2. Through Blackness

Line-up
Massimo Pupillo
Thighpaulsandra

COUNSULING SOUNDS – Facebook

In Vain – Currents

Currents esplode in fuochi artificiali progressivamente metallici e alterna splendide atmosfere avanguardiste a sfuriate estreme.

La nuova scena progressiva che accomuna metal estremo e classico in una più ampia visione musicale, accoglie da più una decina d’anni gli In Vain, gruppo che nello spazio di tre lavori sulla lunga distanza ed un ep si è costruito una solida reputazione, tanto da prestare quattro quinti della band agli storici Solefald nella versione live!

La band norvegese torna con un nuovo album, appunto il quarto, intitolato Currents, un’opera che si avvicina inesorabile alla definizione di capolavoro, un bellissimo quadro musicale che mai come questa volta unisce in maniera quasi perfetta death metal melodico, progressive, epicità e sfumature post rock.
Prodotto da Jens Bogren (Opeth, Dimmu Borgir, Katatonia, Devin Townsend, Kreator, etc) ai Fascination Street Studios e con l’artwork curato dall’artista Costin Chioreanu (Paradise Lost,Enslaved, At The Gates, etc), Currents esplode in fuochi artificiali progressivamente metallici già dall’opener Seekers Of The Truth e alterna splendide atmosfere avanguardiste a sfuriate estreme, dove death e black metal vengono ricamati e colorati di sfumature epiche, armonie e sinfonie orchestrali, così come di riff classici e melodici.
Una serie di ospiti valorizzano con la loro presenza questo inno al progressive moderno di scuola nordica, e tra questi vanno citati Baard Kolstad (Leprous, Borknagar) alla batteria e Matthew Kiichi Heafy (Trivium) e Kristian Wikstøl (From Strength to Strength) alla voce.
Bellissimo ed emozionante, l’album regala momenti di grande musica moderna in Blood We Shed come in As The Black Horde Storms, estrema e matura, varia nel combinare atmosfere differenti in un unico sound, mentre Origin è il brano più rock del lotto ed il sax crimsoniano della conclusiva Standing On The Grounds Of Mammoths fa da prologo ad una parte semiacustica nell’unica traccia spiccatamente settantiana, almeno per i canoni estremi del gruppo norvegese.
Il resto, come scritto, è quanto di meglio il genere possa offrire, con la band che gioca a suo piacimento con ispirazioni legate a nomi come Amorphis, Leprous, Opeth e Solefald, in un vortice di note entusiasmante.

Tracklist
1. Seekers of the Truth
2. Soul Adventurer
3. Blood We Shed
4. En Forgangen Tid (Times of Yore Pt. II)
5. Origin
6. As The Black Horde Storms
7. Standing on the Ground of Mammoths

Line-up
Johnar Håland – Guitars, synth pads, bgv
Sindre Nedland – Lead vocals and clean vocals
Alexander Bøe – Bass
Kjetil Domaas Petersen – Solo guitar
Andreas Frigstad – Vocals

Guest musicians:
Baard Kolstad (Leprous, Borknagar) – Drums
Kristian Wikstøl (From Strength to Strength) – Hardcore vocals
Matthew Kiichi Heafy (Trivium)– Vocals
Simen Høgdal Pedersen – Vocals
Audun Barsten Johnsen – B3 Hammond and church organ
Magnhild Skomedal Torvanger – Violin and viola
Ingeborg Skomedal Torvanger – Cello
Line Falkenberg – Saxophone

IN VAIN – Facebook

Disorder / Distruptor – Underworld

Uno split album che mostra una band dal buon potenziale ma decisamente ancora da sgrezzare (Distruptor) ed un’altra (Disorder) che sembra già pronta a far breccia negli appassionati sia del nuovo che del vecchio continente.

Pur ammettendo che tra i generi estremi il thrash è quello che è sempre stato meno nelle mie corde, devo dire che mi intriga non poco scoprire come venga interpretato in nazioni nelle quali la tradizione per certe sonorità è quanto mai recente, anche per motivi prettamente geografici.

Per esempio questo split album, con il quale la Witches Brew ci propone i nepalesi Disorder ed i peruviani Distruptor, finisce per riconciliarmi non poco con il genere perché, in assenza di qualsiasi parvenza di novità o di variazione sul tema, si viene abbondantemente ripagati dal punto di vista dell intensità e della genuinità dell’approccio.
I Disorder, i quali condividono il monicker con circa un’altra quindicina di band, più o meno aventi lo stesso raggio d’azione stilistico, non sono certo delle mosche bianche in una scena metal nepalese che abbiamo imparato a conoscere in questi ultimi anni, ma fa sempre un certo effetto associare l’immagine degli altipiani e delle vette montuose del pese himalayano per eccellenza con questi quattro assatanati che, nei sei brani a loro disposizione, partono cosi come arrivano, ovvero sparati senza risentire della rarefazione dell’aria.
Il thrash dei Disorder è, manco a dirlo, old school, ma ciò deve essere visto nell’accezione più positiva del termine, perché mi riesce difficile pensare ad una band europea o nordamericana capace di restituire questo sound con la stessa freschezza ed urgenza; non manca comunque qualche digressione, perché se Underworld, il brano che dà il titolo allo split, è un ottima fotografia di quanto appena descritto, troviamo una Aslil Manav Sabhyata che si spinge a lambire in maniera convincente territori hardcore. Detto ciò vale senz’altro la pena di riscoprire il loro unico full length Corrupted Influence, datato 2016.
I Distruptor sono invece praticamente all’esordio, visto che i quattro brani contenuti in Underworld corrispondono alla tracklist del loro demo Social Disorder, uscito all’inizio del 2017. Forse anche per questo il sound risulta un po’ meno pulito ma senza inficiare più di tanto il risultato per questi ragazzi provenienti da Lima, i quali restano ben ancorati a sonorità del secolo scorso ma imbastardiscono il loro thrash con abbondanti iniezioni di death, eleggendo quali propri numi tutelari band come gli Slayer piuttosto che i Testament, tanto per fornire qualche coordinata più chiara. Il tutto sembra decisamente più perfettibile rispetto a quanto offerto dai Disorder, ma le caratteristiche di base (convinzione, genuinità e giusta cattiveria) sono esattamente le stesse e non si può fare a meno di applaudirle.
In definitiva, Underworld è uno split album che mostra una band dal buon potenziale ma decisamente ancora da sgrezzare (Distruptor) ed un’altra (Disorder) che sembra già pronta a far breccia negli appassionati sia del nuovo che del vecchio continente.

Tracklist:
1. DISORDER – Corrupted Influence
2. DISORDER – Devastation
3. DISORDER – Underworld
4. DISORDER – Disorder Unleashed
5. DISORDER – Junga Bahadur Rana
6. DISORDER – Aslil Manav Sabhyata
7. DISTRUPTOR – Social Disorder
8. DISTRUPTOR – Tragedy
9. DISTRUPTOR – Annihilation
10. DISTRUPTOR – Traumatic Death

Line-up:
DISORDER:
Romeo – Bass, Vocals
San Jv – Drums
Pramod – Guitars
Den – Guitars

DISTRUPTOR:
Joel N. – Bass
Frank D. – Drums
Charly War – Guitars (lead)
Abel R. – Vocals, Guitars

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Starsoup – Castles Of Sand

Vario e pieno di soprese, Castles In The Sand passa con disinvoltura da un genere all’altro, mantenendo un filo conduttore che attraversa il concept fino alla sua conclusione.

Bellissimo lavoro progressivo, questo nuovo album del progetto Starsoup del chitarrista russo Alexey Markov, in forza ai Distant Sun.

Castles Of Sand segue di quattro anni il primo album (Bazaar Of Wonders) e risulta una vera sorpresa per chi si crogiola nella musica progressive dalle sferzate metalliche.
Cambi di tempo e d’atmosfere, sfumature orientaleggianti (Brother’s Plea) che valorizzano tastiere pompose e chitarre ruvide, sono le virtù principali di questo tuffo nel metal progressivo che guarda ai Dream Theater come ai Pain Of Salvation, ma si veste di un’anima epico sinfonica alla Ayreon.
E Anthony Lucassen è il vero padrino ed ispiratore del collega moscovita, dotato di un gran talento non solo con la sei corde ma pure dietro al microfono, con un’interpretazione varia e sentita, un tono maschio che dà al lavoro quel carisma necessario per non passare inosservato, anche per i non pochi passaggi folk che arricchiscono la proposta musicale degli Starsoup (Your World Is Dead).
Vario e pieno di soprese, Castles In The Sand passa con disinvoltura da un genere all’altro, mantenendo un filo conduttore che attraversa il concept fino alla sua conclusione, tra ballate acustiche, brani progressivi, impennate heavy metal e rude hard rock, in un arcobaleno di note che non mancheranno di sorprendere gli ascoltatori che con il genere hanno sufficiente confidenza.
Non mi rimane che consigliarne l’ascolto, una vera immersione tra le mille sfumature della musica del buon Alexey Markov e dei suoi Starsoup.

Tracklist
1. The Catcher in the Lie
2. Into the Woods
3. Brother’s Plea
4. Your World Is Dead
5. Rumors of Better Love
6. Escapist
7. Winter in Shire
8. Castle
9. The World That Has Moved On
10. Light Up the Stars
11. Moon on the Shore
12. Road to Sunset

Line-up:
Artem Molodtsov – Bass
Mikhail Sorokin – Drums
Alexey Markov – Guitars, Vocals

STARSOUP – Facebook