Jaw Bones – Wrongs On A Right Turn

Quarantacinque minuti in pieno deserto, anche se le sfumature psichedeliche sono ridotte al lumicino in favore di soluzioni melodiche dirette e sostenute, questo sì, dalle ormai irrinunciabili ritmiche groove.

Stoner rock, e grunge, due dei generi che più hanno condizionato il mercato negli amati/odiati anni novanta, sono indubbiamente fonti inesauribili di influenze d ispirazioni per il novanta per cento delle rock band del nuovo millennio.

L’invasione del nuovo stoner che guarda al southern da una parte ed al grunge dall’altra, per trovare strade alternative alla solita formula, non ha risparmiato la vecchia Europa, ed in particolare i paesi che si affacciano sul mediterraneo, tradizionalmente più “americani” dei metallici stati centro/nord europei.
Da Salonicco arrivano i Jaw Bones, al primo full length licenziato dalla Sliptrick, con un concentrato di esplosivo stoner metal dalle sfumature grunge ed alternative.
Quarantacinque minuti in pieno deserto, anche se le sfumature psichedeliche sono ridotte al lumicino in favore di soluzioni melodiche dirette e sostenute, questo sì, dalle ormai irrinunciabili ritmiche groove.
on voce urlata ed un’attitudine che non nasconde una certa vena hardcore, i Jaw Bones si sono costruiti il loro muro sonoro di pietra stonerizzata e pesante, metal/rock diretto, forse leggermente monocorde, ma perfetto per sbattere capocciate a destra e a manca sotto il palco di qualche festival estivo.
Da segnalare, tra i brani, Communication, The Ride To Nowhere e la conclusiva Song Of The Nightingale, il brano più ricercato dell’album, valorizzato da sfumature che rimandano ai Tool e che chiudono con un’atmosfera progressiva Wrongs On A Right Turn.

Tracklist
01. Communication
02. Disciple
03. Ego Tripper
04. Don’t Bring Me Down
05. Fear
06. Sugar Daddy
07. The Ride to Nowhere
08. Should Know Better
09. Song of the Nightingale

Line-up
George Cobas – Vocals
Jelly Nano – Guitar
Bill – Guitar
Michael Tzoumas – Bass
Vangelis – Drums

JAW BONES – Facebook

Enzo And The Glory Ensemble – In The Name Of The Son

Mettete da parte antipatici luoghi comuni e fate entrare della grande musica a casa vostra.

Il secondo lavoro di Enzo And The Glory Ensemble è un’opera che non sfigura certo tra le migliori uscite di quest’anno, almeno tra le metal opera, trattandosi di un suggestivo concept dalle tematiche cristiane e successore del già bellissimo primo album, In The Name Of The Father, uscito un paio di anni fa.

In The Name Of The Son esce quest’anno tramite la Rockshots per portare la parola del Signore ai metallari dai gusti sinfonici e progressivi, non facendo mancare un’ottima grinta power, epici chorus ed una serie di preghiere in musica dedicate questa volta, al secondo membro della santissima Trinità.
Valorizzato da una serie di illustri ospiti del panorama metal internazionale, tra cui Marty Friedman, Kobi Farhi (Ophaned Land), Ralf Scheepers (Primal Fear), Mark Zonder (Fates Warning), Gary Wehrkamp & Brian Ashland(Shadow Gallery) e con la partecipazione del coro congolese Weza Moza Gospel Choir, l’album è un bellissimo e toccante atto di devozione religiosa, esposta come solo un musicista metal potrebbe fare, regalando atmosfere da colonna sonora, toccanti ballate e cavalcate heavy/power sostenute dalla parte sinfonica, presenza costante nel sound di Enzo Donnarumma.
Ed è così che dopo tanto metal estremo e musica del diavolo, ci immergiamo in questo atto di fede che il musicista nostrano trasforma in una metal opera affascinante, colma di momenti di grande intensità e come detto impreziosita dall’intervento dei tanti ospiti.
Le molte atmosfere di musica tradizionale delle terre dove la più grande storia mai raccontata ha avuto il suo svolgimento porta inevitabilmente al sound degli Orphaned Land, reso ancora più teatrale e sinfonico, mentre l’heavy power è protagonista delle fughe metalliche ed i Saviour Machine meno oscuri aleggiano in diversi momenti di un’opera che se ha in Magnificat il suo momento più alto (liricamente parlando), non manca di stupire con la sua eccitante amalgama tra metal e musica popolare, classica e sinfonica (The Tower Of Babel ricorda non poco le atmosfere di Jesus Christ Superstar in versione metal).
Isaiah 53 è una power metal song arrembante, The Trial una mini suite oscura e cinematografica, esemplificativa della varietà di sfumature in uso, mentre Te Deum ci travolge con i suoi cori, le splendide aperture sinfoniche e l’energia metallica usata a profusione.
L’opera è stata prodotta dal musicista nostrano con l’aiuto di Gary Wehrkamp e masterizzato da Simone Mularoni (una garanzia di qualità) quindi mettete da parte antipatici luoghi comuni e fate entrare della grande musica a casa vostra.

Tracklist

1.Waiting for the Son
2.The Tower of Babel
3.Luke 1:28
4.Psalm 8
5.Glory to God
6.Psalm 133
7.Magnificat
8.Isaiah 53
9.Matthew 11:25
10.The Trial
11.Eternal Rest
12.Te Deum
13.If Not You

Line-up
Enzo Donnarumma – Vocals, Guitars.

ENZO DONNARUMMA – Facebook

Tuna De Tierra – Tuna De Tierra

Le canzoni si protraggono mediamente molto di più rispetto alle durate tradizionali, ma qui il tempo è un concetto davvero relativo e superfluo, bisogna immergersi in queste musiche desertiche senza fretta o cognizione dell’esterno.

Dalla sempre musicalmente fertile Napoli arrivano i Tuna De Tierra con il loro stoner rock desertico, piacevole e psichedelico.

Il loro suono è un’ambientazione sonora di un tramonto nel deserto, o l’esatta descrizione di un viaggio lisergico, con molti riferimenti ai maestri del genere quali sono i Kyuss, i quali hanno asfaltato le strade desertiche per poterle farle percorrere ad altri. Tutto il resto è però opera dei Tuna De Tierra, che hanno un tocco di classe superiore nella loro musica, un gusto quasi bizantino per la perfetta unione tra accordi di chitarra e sezione ritmica, con una voce ipnotica che parla al nostro subconscio. Musica pesante eppure molto eterea e dolce, un ritorno a qualcosa di atavico che vive dentro di noi e che quotidianamente seppelliamo sotto tonnellate di merda. I Tuna De Tierra fanno fondamentalmente musica da meditazione, ci si perde in questo suono pieno di vita e di segreti da scoprire. Il gruppo nasce dalla lunga amicizia fra Alessio De Cicco, alle chitarre e voce, e Luciano Marra al basso, agli albori con Jonathan Maurano alla batteria, poi sostituito da Marco Mancaniello. Il loro esordio discografico è stato l’ep del 2015 EPisode I: Pilot, che già aveva in nuce molto di ciò che possiamo ascoltare qui. Da quell’ep i Tuna De Tierra sono cresciuti dando un maggiore respiro alle loro composizioni, ampliando maggiormente il loro spettro compositivo, trovando sempre soluzioni diverse per i loro suoni. Le canzoni si protraggono mediamente molto di più rispetto alle durate tradizionali, ma qui il tempo è un concetto davvero relativo e superfluo, bisogna immergersi in queste musiche desertiche senza fretta o cognizione dell’esterno. Questa è musica fatta per il piacere di esplorare, e per il piacere del musicista e dell’ascoltatore. Il deserto c’è anche a Napoli, ed è un gran bel deserto.

Tracklist
1.Slow Burn
2.Morning Demon
3.Out of Time
4.Long Sabbath’s Day
5.Raise of the Lights
6.Mountain
7.Laguna

Line-up
Alessio De Cicco – guitar and vocals
Luciano Mirra – bass
Marco Mancaniello – drums

TUNA DE TIERRA – Facebook

Moribundo – Raíz Amarga

Raíz Amarga è un’ottima opera che inserisce di diritto i Moribundo tra i nomi da tenere in considerazione anche nel prossimo futuro in ambito death doom.

Di norma non è che la lingua spagnola associata al rock e al metal mi entusiasmi più di tanto, ma credo che ciò dipenda soprattutto dall’allegria sudata e plastificata della sonorità latino/americane che ci deturpano l’udito in ogni dove, dai supermercati alle autoradio dei troppi “minus-habens” che la sparano a palla lungo le strade delle nostre città; va anche detto che, oltre agli storici Heroes Del Silencio, i trasgressivi Brujeria ed i brillanti Mago De Oz non sono poi molti altri quelli che hanno realmente lasciato il segno esprimendosi nell’idioma ispanico.

I Moribundo, non fosse altro che per il genere suonato, non hanno alcuna chance di sfiorare la popolarità raggiunta questi gruppi, ma trovo che la lingua castigliana si addica invece alla perfezione al loro ottimo death doom melodico: il duo, composto dal polistrumentista Evilead, conosciuto in quest’ambito in quanto membro dei Nangilima e live session con i Famishgod, e dal vocalist Luis Miguel Merino, appartenente alla band death thrashVanagloria , maneggia la materia con grande disinvoltura offrendo oltre mezz’ora di sonorità dolenti e malinconiche ad infiorettare i testi drammatici composti da Mortvs Vyrr.
Le influenze sono disparate ma restano comunque nel solco di una scena iberica che, oltre alle citate band nelle quali è coinvolto Evilead, vede tra le sue punte di diamante Evadne, Helevorn, Autumnal, In Loving Memory e Dantalion: troviamo così due brani melodicamente ineccepibili come Vida ed Antithesis, entrambi dal notevole impatto emotivo enfatizzato da una robusta ma comunicativa interpretazione vocale da parte di Merino, mentre le altre due tracce Suicidio Ilustrado e Luz esibiscono in parte una minore intensità, forse per un andamento meno lineare dovuto a cambi di ritmo e ad interventi pianistici gradevoli ma che finiscono per spezzare, in qualche modo, la tensione creata nella parte iniziale dell’album.
Niente che vada comunque a compromettere la bontà del lavoro nel suo insieme: Raíz Amarga è un’ottima opera che inserisce di diritto i Moribundo tra i nomi da tenere in considerazione anche nel prossimo futuro.

Tracklist:
01. Vida
02. Antitesis
03. Suicidio Ilustrado
04. Luz (Ciego Color)

Line up:
Evilead – All instruments
Luis Miguel Merino – Vocals
Mortvs Vyrr – Lyrics

MORIBUNDO – Facebook

Otherwise – Sleeping Lions

Sleeping Lions è un album dalle potenzialità enormi, l’opera della vita per gli statunitensi Otherwise, staremo a vedere se bastera per arrivare in cima alle preferenze dei rockers dai gusti mainstream.

Riusciranno gli Otherwise a far saltare il banco dell’alternative metal mondiale con questo candelotto di nitroglicerina che, ad ogni brano, esplode e distrugge lasciando solo vittime tra i rockers che bazzicano sul pianeta in questo inizio millennio?

La risposta arriverà con il tempo, vero è che con Sleeping Lions la Century Media piazza sul mercato un esempio di metal alternativo sorprendentemente accattivante, suonato e prodotto come meglio non si potrebbe e sostenuto da una raccolta di canzoni che non lasciano scampo, una più riuscita dell’altra, almeno se pensiamo all’hard rock ed al metal in uso nei circuiti mainstream.
Sleeping Lions arriva come un tornado metallico a rivalutare una scena internazionale in affanno, ancora alla ricerca del gruppo da un milione di dollari, ed è clamoroso come questo arrivi da un gruppo con più di dieci anni sulle spalle ed una manciata di lavori alle spalle.
Il gruppo di Las Vegas se ne esce con l’album della vita, la classica opera dove tutto funziona perfettamente, dall’alternanza tra il fervore metallico e le ruffiane soluzioni dell’alternative rock, che in Sleeping Lions sanno tanto di hard, duro come un’incudine e poco di rock, melodicamente moderno con qualche ispirazione numetal in ritmiche dal sapore groove, ed il singer Adrian Patrick che non sbaglia una strofa o un chorus, risultando l’asso nella manica della band.
Asso pigliatutto, accattivante e grintoso, dall’appeal straordinario che  offre ai giovani rockers mondiali una prestazione scintillante, mentre Ryan Patrick (chitarra/voce), Tony Carboney (basso/voce) e Brian Medeiros (batteria) prendono in mano la scena con soluzioni efficaci, tanta voglia di far male ed un stato di grazia per melodie che non lasciano scampo.
Niente di nuovo, questo è bene chiarirlo, perché gli Otherwise si muovono agevolmente tra il metal/rock statunitense degli ultimi anni, un po’ Alter Bridge, un po’ Linkin Park e tanto hard rock, anche se l’elevata qualità di canzoni come l’opener Angry Heart, l’esplosiva title track o Close To The Gods (Nickelback e U2 uniti sotto la bandiera dell’hard rock) seguite dalle altre nove fialette di nitroglicerina sballottate ed inevitabilmente esplose tre le mani del gruppo, fanno di Sleeping Lions un album dalle potenzialità enormi: staremo a vedere se basterà per arrivare in cima alle preferenze dei rockers dai gusti mainstream.

Tracklist
01. Angry Heart
02. Sleeping Lions
03. Suffer
04. Nothing To Me
05. Weapons
06. Crocodile Tears
07. Close To The Gods
08. Dead In The Air
09. Beautiful Monster
10. Blame
11. Bloodline Lullaby
12..Won’t Stop (bonus track)

Line-up
Adrian Patrick – lead vocals
Ryan Patrick – guitar/vocals
Tony Carboney – bass/vocals
Brian Medeiros – drums

OTHERWISE – Facebook

Stratus Nimbus – Stratus Nimbus

Album da ascoltare immersi nella luce di decine di candele, in una stanza dove il respiro si mischia all’odore di incenso, o persi tra le rocce di polverosi e inviolati canyon, preferibilmente se siete amanti di queste sonorità e perciò abituati a perdervi nei meandri della vostra mente.

Progetto che più underground di così non si può, i tre musicisti dietro al monicker Stratus Nimbus debuttano con questo primo omonimo lavoro incentrato su uno doom/stoner metal psichedelico e diviso tra ispirazioni vintage e allucinazioni portate dalle troppe sostanze illecite consumate, oltre che dall’ascolto dei fondamentali (per il genere) Sleep.

Il gruppo proveniente dalle terre arse dell’Arizona risulta in trip perenne, così come la sua musica vintage e psichedelica, stordita da una neanche troppo velata attitudine space rock , tra gli anni sessanta ed il decennio successivo, periodo d’oro per la musica fumata.
Anche la produzione viaggia nella stessa direzione a ritroso intrapresa dal gruppo, quindi aspettatevi suoni ovattati, voce strascicata lasciata in secondo piano rispetto agli strumenti ed un album che sembra registrato in una caverna aperta su di un canyon, dove gli unici abitanti sono da sempre, pipistrelli e crotali.
Il bello è che Stratus Nimbus sprigiona un minimo di quel fascino vintage essenziale per non passare inosservato (anche se la proposta rimane ai limiti), una raccolta di mistiche tracce che, all’ascolto, fermano il tempo e vi porteranno in un universo parallelo, fluttuando sotto gli effetti allucinogeni di Equality, Can’t Break Free e Galaxy Girl.
Album da ascoltare immersi nella luce di decine di candele, in una stanza dove il respiro si mischia all’odore di incenso, o persi tra le rocce di polverosi e inviolati canyon, preferibilmente se siete amanti di queste sonorità e perciò abituati a perdervi nei meandri della vostra mente.

Tracklist
1.Equality
2.Can’t Break Free
3.A Walk in the Dark
4.Galaxy Girl
5.You Take
6.Rain Jam

Line-up
Tom Davies – Bass
Doug Dowd – Drums, Vocals
Dan Dowd – Guitars

STRATUS NIMBUS – Facebook

Monument – Yellowstone

Yellowstone è stimolante e mai prevedibile, scritto ed eseguito da due musicisti di talento e creatori di multi versi musicali assai interessanti, per ascoltare ma soprattutto per pensare qualcosa di nuovo.

I Monument sono un duo autodefinitosi doom metal, ma lo spettro coperto dalla loro musica è ben più ampio.

Il progetto è nato nel 2015 per mano di Giacomo Greco alla batteria e Guido Oliva alla chitarra e voce, ed è fortunatamente di difficile collocazione musicale. Innanzitutto cantano in italiano, in una maniera quasi strascicata, e danno alla nostra lingua una cadenza molto inusuale, quasi da contrappunto alla musica. Quest’ultima è molto varia, ora più lenta, ora più abrasiva e distorta, sempre molto psichedelica e con una grande componente grunge. Anzi sembra che il grunge qui sia stato destrutturato e disossato, mantenendo però i principi attivi, mutandone le coordinate perché il genere ha lasciato mille eredità e mille rivoli che scorrono sotterranei e che a volte vengono a galla. L’esperimento del duo è ambizioso, nel senso che fanno qualcosa di molto originale, e con un piglio molto deciso, decidendo loro tempi e modi della storia. Loro stessi dicono che il gruppo è nato quasi per scherzo, e che sempre poco seriamente si è inciso il disco, e ciò è importante perché non hanno quell’aura di pesantezza profetica di altri gruppi. A discapito delle loro premesse siamo invece di fronte a uno dei dischi più originali e surreali negli ultimi tempi dell’underground italico. Forse doom, comunque profondi e lenti, ma più di ciò inesorabili, con un’andatura mastodontica e acida, corrodendo ciò che è già corroso, il tutto con epica grazia. I Monument sono solamente i Monument, senza molti riferimenti o menate, incarnano il loro verbo e molto è stato scritto e suonato in questo disco. I testi sono minimali, scarni come haiku ma molto potenti ed evocativi, e si accompagnano molto bene alla musica. Yellowstone è stimolante e mai prevedibile, scritto ed eseguito da due musicisti di talento e creatori di multi versi musicali assai interessanti, per ascoltare ma soprattutto per pensare qualcosa di nuovo.

Tracklist
01. Mars Balaclava
02. Magnitudo
03. Supersesso / Mammuth Man
04. Ronin

Line-up
Giacomo (Drums)
Guido (Guitar/Voice)

MONUMENT – Facebook

Perished – Kark

Atmosferici, ma senza spingersi fino ad un approccio sinfonico, e aspri, ma senza scadere in soluzioni monocordi, i Perished proponevano in maniera esemplare il genere, probabilmente in una forma anche più convincente rispetto a nomi ben più celebrati.

Facciamo un bel passo indietro di circa un ventennio dedicandoci alla ristampa di Kark, primo dei due full length pubblicati dai Perished, band black metal norvegese scioltasi poi nel 2003, dopo la pubblicazione di Seid.

L’attiva etichetta italiana ATMF rimette in circolazione questo lavoro in formato digitale ed in CD (dopo che due anni fa la Darkness Shall Rise si era occupata della riedizione solo come musicassetta) compiendo un’opera di divulgazione e recupero di un album di sicuro valore, passato però in secondo piano all’epoca della sua uscita: comprensibile, se pensiamo che nel 1998a le band di maggior spicco erano reduci da lavori fondamentali come Anthems To The Welkin At Dusk (Emperor), Nemesis Divina (Satyricon) e Enthrone Darkness Triumphant (Dimmu Borgir), con l’attenzione degli appassionati focalizzata essenzialmente su una manciata di nomi di simile levatura.
I Perished proponevano però con grande competenza e buoni esiti un black metal che, tutto sommato, finiva per risultare una via di mezzo tra gli stili delle band citate, peccando in tal senso in peculiarità ma risultando ben più che gradevole o meritevole di una limitata attenzione.
Atmosferico, ma senza spingersi fino ad un approccio sinfonico, e aspro, ma senza scadere in soluzioni monocordi, il quartetto di Hommelvik proponeva in maniera esemplare il genere, a mio avviso in una forma anche più convincente rispetto a nomi ben più celebrati: probabilmente il trovarsi lontano geograficamente dalle due fucine del black metal come Bergen e Oslo ha continuato a rendere i Perished più marginali di quanto avrebbero dovuto.
Con i suoi validi otto brani originali, tra i quali spicca una magnifica Paa Nattens Vintervinger, più le tre bonus track costituite da altrettante tracce provenienti dal demo Through the Black Mist del 1994 (A Landscape Of Flames, quando i nostri si esprimevano ancora in inglese) e dall’ep autointitolato del 1996 (Kald Som Aldri Foer e Gjennom Skjaerende Lys), Kark risulta un lavoro che merita d’essere quantomeno riscoperto, rappresentando una nitida fotografia di quello che nel secolo scorso era il valore delle band cosiddette di retrovia del black metal norvegese.

Tracklist:
1.Introduksjon
2.Imens Vi Venter…
3.Stier Til Visdoms Krefter
4.Paa Nattens Vintervinger
5.Iskalde Stroemmer
6.Og Spjuta Fauk
7.Befri De Trolske Toner
8.Renheten Og Gjenkomsten
9.A Landscape Of Flames
10. Kald Som Aldri Foer
11.Gjennom Skjaerende Lys

Line-up:
Bruthor – Bass
Jehmod – Drums
Ymon – Guitars
Bahtyr – Vocals

Jack Starr’s Burning Starr – Stand Your Ground

Questo è heavy metal nella sua più fulgida espressione, old school nell’approccio ma perfettamente calato nel nuovo millennio, valorizzato da un ottimo lavoro in studio, nobilitato da un songwriting in stato di grazia e da una manciata di musicisti fenomenali: in una sola parola, imperdibile.

Colpaccio della High Roller che licenzia in questa torrida estate Stand Your Ground,  uno degli album heavy metal dell’anno firmato da Jack Starr, ex chitarrista dei Virgin Steele.

Opera maestosa, il settimo sigillo del musicista americano si presenta con un artwork classicamente epico disegnato da Ken (Rainbow, Kiss, Manowar), prodotto da Bart Gabriel, con Kevin Burnes (Dokken, Raven) al mix e Patrick W.Engel al master.
Lo storico chitarrista americano affiancato da un’altra icona del metal classico statunitense, l’ex Manowar Rhino alle pelli e con due assi come il singer Todd Michael Hall ed il bassista Ned Meloni, sforna un album spettacolare che per più di un’ora immerge nelle atmosfere epiche, guerresche e gloriose tipiche del metal nato nel nuovo continente, spogliato da inutili orpelli power e rivestito di armature d’acciaio.
Un apoteosi di riff e solos forgiati da fabbri nel cuore di montagne dimenticate dal tempo, una serie di chorus da cantare al cielo rosso del sangue degli dei, in un delirio metallico chiamato Stand Your Ground, questo ci regalano i Jack Starr’s Burning Starr e questo vorremmo sentire sempre, almeno quando ci avviciniamo da un album heavy epic metal.
Todd Michael Hall è protagonista di una performance straordinaria, trattandosi di un singer dotato di una voce metal fuori dal comune e perfetto narratore delle storie leggendarie e delle epiche avventure che il gruppo mette in musica fin  dall’opener Secrets We Hide, passando per l’epica cavalcata che dà titolo all’opera, brano di una bellezza commovente per intensità, talento melodico e cori che spaccano il cielo per arrivare direttamente agli dei.
Ariosa e dal piglio hard rock è Destiny, dal refrain irresistibile e dal chorus che entra in testa al primo passaggio, mentre arriviamo al brano numero sette prima di riposarci da giorni di battaglia, con la super ballad Worlds Apart che ci accompagna all’accampamento, luccicante delle fiamme dei falò che rischiarano la notte.
L’inizio maideniano di Escape From the Night arriva giusto per non perdere l’altro picco di questo splendido lavoro, We Are One, un crescendo di epica e fiera musica metal che esplode nelle due guerresche tracce (Stronger Than Steel e False Gods) che fanno da preludio alla conclusiva semi ballad To The Ends, intensa, drammatica ed epica conclusione di questo straordinario lavoro.
Questo è heavy metal nella sua più fulgida espressione, old school nell’approccio ma perfettamente calato nel nuovo millennio, valorizzato da un ottimo lavoro in studio, nobilitato da un songwriting in stato di grazia e da una manciata di musicisti fenomenali: in una sola parola, imperdibile.

Tracklist
1. Secrets We Hide
2. The Enemy
3. Stand Your Ground
4. Hero
5. Destiny
6. The Sky Is Falling
7. Worlds Apart
8. Escape From The Night
9. We Are One
10. Stronger Than Steel
11. False Gods
12. To The Ends

Line-up
Todd Michael Hall – lead and backing vocals
Jack Starr – guitars
Ned Meloni – bass guitar
Kenny “Rhino” Earl – drums

Kevin Burnes – additional rhythm, harmony and acoustic guitars

JACK STARR’S BURNING STARR

https://www.youtube.com/watch?v=fwbmQN5YHs8

Bug – O’Brien Shape

Il ponte che unisce la musica rock degli anni settanta, attraversa il decennio successivo e tocca territori novantiani, è ben saldo nella musica dei Bug, autori di un lavoro che lascia presagire ottime potenzialità oltre ad un’originalità di idee che spaziano dal progressive all’alternative.

Si continua ad incontrare ottima musica rock alternativa nella scena underground dello stivale, magari poco seguita o molte volte del tutto ignorata dagli ascoltatori ma indubbiamente foriera di opere di valore.

Noi che di musica underground scritta ne abbiamo fatto una missione, cerchiamo di farvi partecipi dei movimenti musicali che si muovono nel sottobosco italiano ed internazionale, stupendoci ogni volta dell’alta qualità della musica rock creata specialmente sul nostro territorio.
Uscito da un po’ ma arrivato a MetalEyes IYE solo ora, vi presentiamo il primo lavoro dei Bug, quintetto lombardo nato tre anni dalle menti di Jacopo Rossi (chitarra) e Patrick Pilastro (batteria), raggiunti in seguito da Andrea Boccaruso (chitarra, voce), Giorgio Delodovici (voce) e Mattia Gadda (basso).
O’Brien Shape è il loro primo album in versione ep, sei brani per mezzora circa attraversati da umori che vanno dal grunge di Seattle al rock degli anni settanta, per tornare poi all’alternative in una congiunzione di suoni più vicini di quello che molti possano credere.
Quindi il ponte che che unisce la musica rock degli anni settanta, attraversa il decennio successivo e tocca territori novantiani, è ben saldo nella musica dei Bug, autori di un lavoro che lascia presagire ottime potenzialità oltre ad un’originalità di idee che porta a brani come The Tide e O’Brien Shape, tra Pearl Jam e Pink Floyd, mentre gli Alice In Chains dopo la cura Bug passano dall’essere la band più metal della scena grunge (specialmente nei primi due lavori) ad una camaleontica realtà progressiva.
Twice sposta le turbolenze progressive sui Pearl Jam, mentre le ritmiche si muovono tra il funky ed il crossover tipico di metà anni novanta.
Il suono è perfetto, l’album è curato nei minimi dettagli e il gruppo dimostra di saperci fare sia con il songwriting che con i ferri del mestiere, motivo in più per fermarvi, voltarvi all’indietro e cercare O’Brien Shape, non ve ne pentirete.

Tracklist
1.March of the Worms
2.The Tide
3.Chain Stemmed
4.O’ Brien Shape
5.Twice
6.This Flood

Line-up
Patrick Pilastro – Drums
Giorgio Delodovici – Vocals
Jacopo Rossi – Guitars
Andrea Boccarusso – Guitars, Vocals
Mattia Gadda – Bass

BUG – Facebook

Cities Of Mars – Temporal Rifts

Il disco è una summa di come si può fare musica di generi che non brillano per originalità e trovare una propria personalissima via, facendo musica pesante in maniera fantastica.

I Cities Of Mars possiedono un’andatura doom stoner sludge molto superiore rispetto ai gruppi nella media dei generi, e sono venuti dalla Svezia per accompagnarci nel lungo viaggio verso l’inferno.

Il gruppo nasce dall’incontro tra i tre componenti Danne Palm, Christoffer Norén e Johan Küchler, ed insieme arrivano a questo debutto su Argonauta Records. Il disco è una summa di come si può fare musica di generi che non brillano per originalità e trovare una propria personalissima via, facendo musica pesante in maniera fantastica. Come riferimenti possono essere nominati gli Sleep per una certa attitudine sonora, i Mastodon per la voce soprattutto, si sentono ovviamente risuonare i divini Neurosis ma poi tutta la farina è del sacco dei Cities Of Mars. Inoltre questo concept album è un ulteriore capitolo della storia dell’astronauta russa Nadia, partita per una missione segreta su Marte nel 1971, e sparita dopo aver scoperto che Marte è abitato da ere molto antiche, anteriori all’uomo. Nel dipanarsi di questa fiction i Cities Of Mars compongono un’alchimia sonora di grande effetto, sempre con un substrato doom soprattutto nella cadenza, e poi inseriscono mille risvolti diversi, senza molti assoli, orientando la melodia in molte direzioni diverse, riuscendo sempre a non passare per la stessa strada già battuta. L’orecchio esperto nel genere subito non sentirà particolare emozione, ma in poco tempo verrà invece conquistato dal suono di questi svedesi, composto da molte soluzioni diverse, tutte interessanti. Temporal Rifts è un distillato sonoro del meglio della musica pesante fatta con cuore, stomaco e cervello e alza di molto l’asticella per i gruppi e i dischi che seguiranno in questi ultimi mesi del 2017. La formula sonora dei Cities Of Mars è tutta da sentire e garantirà parecchi ascolti, grazie ai mille giri che compie questo distillato musicale negli alambicchi del suono.

Tracklist
1. Doors of Dark Matter Pt 1: Barriers
2. Envoy of Murder
3. Gula, a Bitter Embrace
4. Children Of The Red Sea
5. Caverns Alive!

Line-up
Danne Palm, bass & vox
Christoffer Norén, guitar & vox
Johan Küchler, drums & vox

CITIES OF MARS – Facebook

https://youtu.be/wRIVKceqGPc.

Sparzanza – Announcing The End

Difficile immaginare se questa svolta possa rivelarsi un male o un bene per gli Sparzanza, che sicuramente hanno ha optato per un approccio molto più melodico che in passato, caratteristica che si evince fin dalle prime battute dell’album.

Degli Sparzanza ricordavo la forte componente groove e la furia panteriana incanalata in un sound debitore della scena hard rock statunitense a cavallo tra gli ultimi anni del secolo scorso e questo inizio del nuovo millennio.

D’altronde la storia parla del 1996 come inizio delle attività del gruppo di Karlstad e un esordio discografico targato 2001 (Angels Of Vengeance), una lunga strada che l’ha ha portato fino ai nostri giorni e all’uscita di Announcing The End, nono lavoro di una carriera senza interruzioni ma perennemente nel limbo dell’underground.
La Despotz Records licenzia dunque questa raccolta di brani che fanno del quintetto una nuova hard rock band dalle facili melodie, magari ancora vivacizzate da una leggera componente metal, ma sicuramente più vicina al post grunge che al groove metal dei precedenti lavori.
Difficile immaginare se questa svolta possa rivelarsi un male o un bene per la band, che sicuramente ha optato per un approccio molto più melodico che in passato, caratteristica che si evince fin dalle prime battute dell’album.
Lasciato indietro il groove metal, gli Sparzanza del 2017 puntano il mirino sugli Stati Uniti, da sempre patria musicale del gruppo e brani come Whatever Come May Be o Breathe In The Fire provano a centrare il bersaglio del rock mainstream, in parte riuscendoci.
Chiaramente il meglio arriva dalle tracce in cui il gruppo si ricorda delle sue prime influenze, ed è così che escono potenti canzoni hard & heavy come Damnation e The Dark Appeal.
Quando decidono di andarci giù pesante gli Sparzanza sono una garanzia, tra Pantera, Metallica periodo Black Album, mentre l’anima melodica più evidente in questo lavoro prende spunto dal post grunge, magari non melenso come quello da classifica ma pur sempre pregno di facili melodie radiofoniche.
Una sterzata decisa per provare dopo tanti anni a raggiungere gli ascoltatori del rock che sul mercato conta davvero, ma dagli esiti incerti, specialmente per chi proviene da un passato underground.

Tracklist
1. Announcing The End
2. Damnation
3. One Last Breath
4. Whatever Come May Be
5. Vindication
6. The Dark Appeal
7. Breathe In The Fire
8. The Trigger
9. The One
10. We Are Forever
11. Truth Is A Lie

Line-up
Calle Johannesson – Guitar
Anders Åberg – Drums
Johan Carlsson – Bass
Fredrik Weileby – Vocals
Magnus Eronen – Guitar

SPARZANZA – Facebook

Sinister – Gods Of The Abyss

Un reperto storico ad uso e consumo dei fans accaniti dei Sinister, mentre a tutti gli altri va il consiglio di procurarsi il prezioso full length.

Si torna a parlare di storia del death metal sempre per merito della Vic Records, che ci regala una chicca targata Sinister.

Le presentazioni sarebbero inutili per il gruppo estremo olandese, attivo dal 1990 e con una discografia infinita che conta ben tredici full length con l’ultimo, Syncretism, uscito proprio quest’anno.
Ma la label connazionale degli storici deathsters ristampa per i collezionisti questo demo di quattro brani, scritto dopo il temporaneo scioglimento avvenuto nel 2003.
La storia racconta di due terzi del gruppo alla prese con questi brani per dar vita ad una nuova band, i No Face Slave, poi serviti invece per trovare l’accordo con la Nuclear Blast e l’uscita del capolavoro Afterburner, ancora una volta con in evidenza lo storico monicker.
Di fatto i quattro storici brani furono poi inseriti nell’album seguente, dunque i deathsters che sicuramente lo conoscono sapranno benissimo cosa aspettarsi: ritmiche serrate, blast beat a manetta, una violenza esecutiva fuori dai canoni dello stesso gruppo, ma una qualità molto alta, caratteristica non solo del demo ma anche delle altre tracce presenti su Afterburner.
Diciamo che con Afterburner la band orange si conquistò l’immortalità nel panorama estremo, ma è vero che ancora oggi il death metal old school del gruppo continua imperterrito e a discapito degli anni a mietere vittime.
Un reperto storico ad uso e consumo dei fans accaniti dei Sinister, mentre a tutti gli altri va il consiglio di procurarsi il prezioso full length.

Tracklist
1. The Grey Massacre
2. Afterburner
3. Altruistic Suicide
4. Men Down

Line-up
Aad – vocals
Alex – guitars, bass
Paul – drums

SINISTER – Facebook

Steven Wilson – To The Bone

Detto senza alcuna remora, To The Bone è rappresentazione di pop/rock ai suoi massimi livelli, elegante, accattivante e colto il giusto per riscuotere favori da più parti.

Steven Wilson condivide la sorte di quelli che, quando eravamo ragazzini, venivano costantemente elogiati da professori o dagli altri genitori come esempi di dedizione allo studio, educazione ed ulteriori virtù assortite, finendo loro malgrado per risultare antipatici a più di qualcuno.

Del resto il suo stesso aspetto professorale e la nomea di nuovo Re Mida del prog rock fanno sì che la voglia di coglierlo in fallo superi talvolta la speranza di ascoltare buona musica: con questo suo nuovo album solista, intitolato To The Bone, il musicista inglese prova a fornire altri spunti ai suoi abituali detrattori, abbandonando del tutto o quasi ogni ortodossia di stampo progressive per concedersi digressioni verso i generi più disparati, spingendosi in qualche caso persino ad un utilizzo del falsetto degna della disco music dei tempi d’oro.
La mia impressione è che Wilson, dopo aver ammaliato noi appassionati (anche) di metal con il formidabile In Absentia, nella restante produzione con i Porcupine Tree e in altri progetti abbia sempre goduto di una buona stampa che andava ben oltre l’effettivo valore di album ricchi di forma più che di sostanza, sebbene fosse dotato di una classe superiore alla media non sempre sfruttata a dovere per colpire ed emozionare realmente gli ascoltatori; così, con il fucile ben carico e spianato, mi sono immerso nell’ascolto di quest’album che, come da copione quando si parte armati di cattive intenzioni, mi è piaciuto invece molto proprio in virtù della sua varietà e di una certa voglia di osare.
In sede di presentazione dell’album è stato ipotizzato un parallelismo tra Wilson e Peter Gabriel, accomunando l’approccio stilistico del primo in To The Bone alla svolta che fece a suo tempo l’ex vocalist dei Genesis con So: un paragone, questo, che lì per lì può sembrare quasi un delitto di lesa maestà ma che, a ben vedere, ci può stare a livello di attitudine, ferme restando la diversa caratura complessiva dei due musicisti e soprattutto una differente incisività a livello interpretativo; poi, se la splendida Pariah è un po’ la Don’t Give Up gabrieliana, con relativo supporto di una voce femminile e tematiche non del tutto dissimili, Permanating, con il suo incedere danzereccio può equivalere a Sledgehammer, anche se in realtà sembra trovare più le sue radici nei migliori Style Council.
Qui, in fondo, finisce il gioco dei parallelismi e comincia invece la necessità di valutare con onestà l’operato di un musicista che, effettivamente, possiede la capacità innata di creare melodie fruibili, apparentemente leggere ma capici invece di occupare più a lungo del previsto ampi spazi nella memoria di chi ascolta.
Oltre alle canzoni citate, anche la title track, la hogarthiana Refuge, la tenue Blank Tapes, secondo duetto dopo quello di Pariah con un’interprete entusiasmante come Ninet Tayeb (sempre sia lodato Steven per averci fatto scoprire questa meravigliosa cantante israeliana), la progressiva nel senso più autentico del termine Detonation e la conclusiva Song Of Unborn vivono di un’intensa luce propria, perché se è vero che Wilson in più di un frangente può ricordare questa o quella band più in singoli passaggi che per interi brani (per esempio alcuni break vocali in The Same Asylym richiamano gli Yes di 90125), è innegabile che grazie al suo talento il tutto appare ben lontano dall’essere solo un abile lavoro di taglio e cucito.
Forse l’unico momento dell’album nel quale il nostro esce fuori dal seminato è una inoffensiva Song Of I, con il suo pseudo trip hop, mentre il resto è, diciamolo pure senza remore, una rappresentazione di pop/rock ai suoi massimi livelli, elegante, accattivante e colto il giusto per riscuotere favori da più parti (con esclusione forse delle fasce più retrive di progsters che vedevano in Wilson un possibile successore dei grandi del passato).
To The Bone non è un’opera che lascerà segni profondi nella storia della musica ma è un disco brillante e a suo modo onesto, proprio perché Steven Wilson non si nasconde dietro ad un approccio cervellotico o intellettualoide per giustificare (perché mai dovrebbe?) una svolta decisa verso sonorità più dirette ma tutt’altro che di valore trascurabile.

Tracklist:
1.To The Bone
2.Nowhere Now
3.Pariah
4.The Same Asylum As Before
5.Refuge
6.Permanating
7.Blank Tapes
8.People Who Eat Darkness
9.Song Of I
10.Detonation
11.Song Of Unborn

Line up:
Steven Wilson – Vocals, Keyboards, Guitars, Bass

Paul Stacey – Guitars
Adam Holzman – Hammond, Piano
Pete Eckford – Percussions
Jeremy Stacey – Drums
Ninet Tayeb – Vocals on 3. 7.
Sophie Hunger – Vocals on 9.
Mark Feltham – Harmonica on 1. 5.

STEVEN WILSON – Facebook

Jordablod – Upon My Cremation Pyre

Un notevole esordio da parte di questa band svedese che ci fa conoscere la propria visione del black metal, tramite un’opera avvincente, complessa e personale.

Un lungo viaggio nel profondo cuore del black metal con un’impronta particolare e personale: l’underground, come al solito, non delude e per la sempre attenta Iron Bonehead esordiscono con il primo full i Jordablod, band proveniente da Malmo nel sud della Svezia.

Non molte notizie sulla band: hanno esordito nel 2015 con un EP, seguito nel 2016 da un demo e ora l’opera prima che evidenzia la grande personalità del terzetto, pronto ora anche ad esibirsi live.
Disco non facile da descrivere, sette brani in cui i musicisti sono animati da un sacro fuoco interpretativo dove la scrittura dei brani ha un ruolo importante; la profonda conoscenza della materia black nordica, sia svedese che norvegese, si aggiunge alla passione di chi ama questo suono.
I brani scritti dal terzetto creano, amalgamando black, death, psichedelia e aromi doom, un viaggio dove l’inventiva la fa da padrona, la capacità della chitarra di creare suoni, melodie in un qualcosa di peculiare, un viaggio lungo circa un’ora che non annoia minamamente, anzi, svela ad ogni ascolto nuovi particolari. L’opera ha veramente bisogno di numerosi ascolti per essere capita e valutata appieno. Brani come Chants for the black one e Of fiery passion con la chitarra che elabora suoni visionari e acidi va al di là della comune idea di black metal, con la sezione ritmica che segue traiettorie varie, le vocals sinistre con il loro scream e, il guitar sound penetrante, vario e incisivo incendiano l’atmosfera occulta e visionaria che permea tutto il lavoro; la band, anche quando rallenta i ritmi, per la verità mai comunque velocissimi, incanta con armonie arcane e traiettorie sonore mai scontate (Hin håle). L’omonimo brano finale deflagra in un black doom oscurissimo dove le blasfeme litanie non possono non portare ad una unica invocazione finale …may my deathly mother dance upon my cremation pyre.
Non ci sono riempitivi e il lavoro fa della complessità la sua forza, attirando numerosi ascolti e lasciando sempre soddisfatta la nostra voglia di arte nera. Una copertina molto particolare aggiunge valore a quest’opera prima, figlia di una visione personale e profonda conoscenza della musica estrema.

Tracklist
1. En Route to the Unknown
2. Liberator of Eden
3. Chants for the Black One
4. Hin håle
5. A Sculptor of the Future
6. Of Fiery Passion
7. Upon My Cremation Pyre

JORDABLOD – Facebook

Pulvis Et Umbra – Atmosfear

Atmosfear non si rivela un ascolto facile, perché il sound non si limita mai ad un’unica soluzione: le parti atmosferiche incutono ancora più terrore, mentre le sfuriate estreme alternano veloci e violente parti blackened death metal a più cadenzate ritmiche deathcore.

Tra i meandri estremi nascosti nel nostro paese vivono realtà che si nutrono di ispirazioni tradizionali e moderne, lasciate sfogare in un sound la cui la parola d’ordine è massacro, devastante maligno e senza soluzione di continuità.

Noi italiani, poi, vi aggiungiamo poi quel pò di atmosfere oscure di cui siamo maestri e che rendono le proposte personali in un genere dove la ripetitività è pari alla violenza espressa.
Con i Pulvis Et Umbra, one man band creata dal polistrumentista lombardoDamy Mojitodka che. con questo nuovo lavoro chiamato Atmosfear, giunge al traguardo del terzo full length dopo Reaching The End (2012) ed Implosion Of Pain (2014), ci troviamo al cospetto di un sound che amalgama e alterna death, black e soluzioni moderne dalle tinte horror ed evil, una commistione di atmosfere e sfumature estreme che non lascia scampo.
Aiutato da altri musicisti quasi esclusivamente in sede live, Mojitodka canta e suona tutti gli strumenti, aiutato da Riccardo Grechi per i suoni di batteria e da Lility Caprinae al microfono nella black metal song Crows Belong To Her.
Atmosfear non si rivela un ascolto facile, perché il sound non si limita mai ad un’unica soluzione: le parti atmosferiche incutono ancora più terrore, mentre le sfuriate estreme alternano veloci e violente parti blackened death metal a più cadenzate ritmiche deathcore.
Affiorano melodie nei solos della melodic death metal Darkest Sorrow, ma è solo un attimo prima della caduta nell’abisso con la superba Divinity Or Icon, brano di una fredda malignità che scuote e sconvolge, mentre il demone ci porta via l’anima.
Unica pecca di questo lavoro è la produzione, che a tratti nelle parti più violente tende ad appiattire il suono, mentre la tensione estrema rimane altissima così come la componente oscura.
Hanno del teatrale le sfumature su cui si muove Atmosfear, che infligge l’ultimo mortale colpo con il black/doom della demoniaca Blinded By Thoughts e chiude la porta dell’inferno con l’outro strumentale Predominio Tecnologico.
Un buon lavoro, consigliato agli amanti del metal estremo aperti a più soluzioni stilistiche che portino in ogni caso ad un solo approdo, il male assoluto.

Tracklist
1.The Soul Collectress
2.Atmosfear
3.Crows Belong To Her
4.Virus
5.Darkest Sorrow
6.Divinity Or Icon
7.The Price Of Trust
8.Can’t Handle
9.Blinded By Thoughts
10.Predominio Tecnologico

Line-up
Damy Mojitodka – all instruments / vocals
Mirko Costa – Guitar (session live member)
Francesco Garatti – Guitar (session live member)
Riccardo Grechi – Drums (session live member)

PULVIS ET UMBRA – Facebook

Neun Welten – The Sea I’m Diving

Gli undici brani contenuti in The Sea I’m Diving sono altrettante pennellate dalle tonalità pastello che cullano l’ascoltatore.

I tedeschi Neun Welten ritornano con il loro terzo full length, a ben otto anni di distanza dal precedente Destrunken.

Gli undici brani contenuti in The Sea I’m Diving sono altrettante pennellate dalle tonalità pastello che cullano l’ascoltatore attraverso la voce e la chitarra di Meinolf Müller, il violino ed il piano di Aline Deinert ed il violoncello, la chitarra ed il basso di David Zaubitzer: la profonda connessione con tematiche naturalistiche (in questo caso con l’acqua quale elemento cardine a livello lirico) è percepibile in ogni singolo passaggio in quanto, nonostante l’approdo ad una più tradizionale forma canzone, le modifiche intervenute nel “mondo” dei Neun Welten non hanno affatto stravolto quella che è sempre stata l’essenza primaria della loro forza compositiva.
Momenti di alto lirismo si vanno ad intrecciare, così, con altri nei quali la voce quasi sussurrata di Müller accarezza i timpani; indubbiamente la musica del trio è rivolta a chi vuole trovare un’oasi di pace, pur se virtuale, una sorta di immaginaria radura all’interno della foresta nella quale giacere e meditare, magari consentendo ad un pizzico di malinconia di illanguidire l‘animo.
Il sound dei Neun Welten è pura poesia, ed il gradito inserimento delle parti vocali rende ancor più tangibile tale aspetto facendo sì che canzoni splendide come Drowning, Nocturnal Rhymes, Human Fail e la più post rock oriented In Mourning siano solo i picchi di un’opera da godersi nella sua interezza e con la giusta predisposizione: l’arricchimento, sia morale che musicale, è assolutamente garantito …

Tracklist:
01. Intro
02. Drowning
03. The Dying Swan
04. Cursed
05. Nocturnal Rhymes
06. Floating Mind
07. Earth Vein
08. Lonesome October
09. Lorn
10. Human Fail
11. In Mourning

Line-up:
Aline Deinert : Violin, Piano
David Zaubitzer : Guitar, Cello, Bass
Meinolf Müller : Guitar, Vocals

NEUN WELTEN – Facebook

Buzzøøko – Giza

Noise fatto in maniera intelligente, mai ovvia e con una grande ricerca musicale: potrebbe essere questa in poche parole la sintesi della musica dei Buzzøøko.

Noise fatto in maniera intelligente, mai ovvia e con una grande ricerca musicale: potrebbe essere questa in poche parole la sintesi della musica dei Buzzøøko.

Il loro noise nervoso e frammentato, mai troppo distorto secondo la lezione dei Don Caballero, è frutto di un lavoro certosino e si va a collocare nel solco della scuola noise italiana, che deve molto ai mostri di oltreoceano ma anche a gruppi nostrani, come gli Zu per esempio. Qui la melodia è data dalla somma dei componenti, in un fluttuare continuo tra accelerazioni e sospensioni del tempo. Il basso lancia acuti, mentre le chitarre lanciano segnali mai uguali e la batteria traccia solchi per contenere il tutto. Vi sono molte sfaccettature in questo disco, e per apprezzarlo fino in fondo bisogna riascoltarlo tutto più e più volte, cogliendo sempre di più le sfumature che compongono il disco. In alcuni momenti si può anche ascoltare la rielaborazione personale del grunge da parte dei Buzzøøko, substrato importante di un certo noise. Certamente nel discorso sui generi si può anche nominare il math perché è presente, ma il risultato ed il fine ultimo è il noise, ovvero quel frazionare la melodia e ricostruire il tutto, facendo un cut up sull’originale. In questo i Buzzøøko sono molto bravi, poiché partendo da territori diversi riescono a dare un organicità al loro lavoro. Giza è un disco profondo e con diversi livelli di lettura, i quali esistono a discrezione dell’ascoltatore e dei suoi pregiudizi in fatto di musica. Inoltre i Buzzøøko danno l’impressione di avere tutti i mezzi per fare ancora meglio di questo disco, essendo presenti potenzialità molto forti che danno sicurezza per il futuro. Non è semplice il discorso musicale che portano avanti, soprattutto negli odierni tempi dell’appiattimento musicale e non. Strade sconnesse e tanto da scoprire, questo è quello che ci offrono i Buzzøøko.

Tracklist
1.Jerry The Joker
2.Love Is Indie Hair
3.Gettin’ Sick
4.Lady Led
5.Hollow Man
6.P.s.h.
7.The Riot

Line-up:
Simon – guitar, vocals
Marco – bass
Lorenzo – drums

BUZZOOKO – Facebook

Rapheumet’s Well – Enders Door

Una bella sorpresa, una band ed un lavoro assolutamente da non perdere per gli amanti del death/black sinfonico.

Provenienti dall’underground estremo statunitense, i Rapheumet’s Well fanno parte di quella nutrita schiera di gruppi che segue la via oscura tracciata dai Dimmu Borgir.

Enders Door è il terzo full length del sestetto del North Carolina e, in effetti, il loro symphonic black/death prende ispirazione da quello del gruppo norvegese, per poi trovare una propria caratterizzazione fatta di aperture melodiche, uno straordinario lavoro ritmico ed una neanche troppo velata vena progressiva.
Teatrale, a tratti epico, l’album si nutre di oscure trame sinfoniche, cavalcate metalliche ed atmosfere decadenti, mantenendo un approccio vario, così da non stancare l’ascoltatore donandogli un’opera ben strutturata, suggestiva e a tratti molto affascinante.
Un mondo pieno di sorprese, un album estremo che non rinuncia a melodiche trame intimiste e progressive, per poi asfaltare gli astanti sotto un macigno orchestrale ed estremo.
Parte alla grande Enders Door con l’accoppiata The Traveller e Distress from the Aberrant Planet, brani che strizzano l’occhio felino e malvagio alla band di Shagrath, mentre l’ apice compositivo risulta il trittico sinfonico progressivo Lechery Brought the Darkness, la title track e Prisoner Of The Rift.
Una bella sorpresa, una band ed un lavoro assolutamente da non perdere per gli amanti del death/black sinfonico.

Tracklist
1.The Traveler
2.Distress from the Aberrant Planet
3.The Autogenous Extinction
4.Secrets of the Demigods
5.Lechery Brought the Darkness
6.Enders Door
7.Prisoner of the Rift
8.The Diminished Strategist
9.Nastarian Waltz
10.Ghost Walkers Exodus
11.Killing the Colossus
12.Eishar’s Lament
13.Unveiling the Sapient

Line-up
Jeb Laird – Lead Vocals
Annette Greene – Clean Vocals, Keys
Jon Finney – bass
Brett Lee – Guitar
Hunter Ross – Guitar
Joshua Ward (Nasaru) – drummer, Clean vocals

RAPHEUMET’S WELL – Facebook