Otehi – Garden Of God

Garden Of God non è un disco da fruire velocemente, quanto un qualcosa da godere e da lasciare che ti cada dentro ascolto dopo ascolto, perché non è musica comune fatta per intrattenere, ma comunica qualcosa agli abissi che ci portiamo dentro.

Gli Otehi sono un gruppo romano che parte dallo stoner per andare molto lontano. Il loro suono è un lento e possente incedere di suggestioni sciamaniche messe in musica, come un nativo che ti prende per mano dopo aver mangiato un peyote.

Garden Of God è una mostra di delizie, e i cinque pezzi che fanno parte del disco sono tutte ottime composizioni, si prendono il tempo che devono per arrivare a destinazione, ma in realtà la destinazione non ce l’hanno, perché è il viaggio l’importante, il vero scopo del tutto. Esplorare attraverso il suono, la psichedelia arriva e si maschera, cambiando i contorni di ciò che pensavamo sicuro, cambia il gioco rendendolo più vero. Gli Otehi sono un gruppo che si differenzia per la sua impronta personale, per fare un desert stoner connotato e strutturato molto bene nel quale ogni nota ha la sua importanza, ed è una scala verso il cielo. Nato nel 2011, questo trio ha sempre portato avanti con convinzione un certo tipo di discorso musicale, riuscendo a trovare una via personale e potente. Ascoltando Garden Of God si capisce che la musica pesante può benissimo sposare la psichedelia, un matrimonio alchemico che cambia la composizione chimica di chi lo ascolta e di chi lo suona. Garden Of God non è un disco da fruire velocemente, quanto un qualcosa da godere e da lasciare che ti cada dentro ascolto dopo ascolto, perché non è musica comune fatta per intrattenere, ma comunica qualcosa agli abissi che ci portiamo dentro. Fare musica da meditare per un gruppo stoner è un gran bel obiettivo e questi ragazzi lo hanno centrato in pieno.

Tracklist
1.Sabbath
2.Naked God
3.The Great Cold
4.Verbena
5.Purified
6.Esbath

Line-up
Domenico Canino – Guitar, Effects, Voice & Tribal Instruments
Maciej Wild Mikolajczyk – Bass, Voice, Effects & Tribal Instruments
Corrado Battistoni – Drums, Percussions

OTEHI – Facebook

Rusty Bonez – Wrath

La devozione del gruppo per i Corrosion Of Conformity fa perdere qualcosa in termini di personalità, ma non inficia la riuscita di un album che presenta una manciata di brani a tratti trascinanti.

Il caldo opprimente che sprigiona Wrath, primo album dei Rusty Bonez sembra davvero arrivare da qualche posto sperduto del deserto americano, e invece siamo nell’altrettanto assolata Grecia, terra di paesaggi brulli e pietrosi a picco sul mare che hanno visto le gesta di dei e semidei.

In Wrath, però, di storie epiche e leggendarie non ce  n’è neanche l’ombra: il sound del gruppo proveniente da Atene rispecchia in toto l’hard rock stonerizzato di matrice statunitense, ovviamente potenziato da dosi massicce di heavy stoner.
Il quartetto ci fa aspettare quasi tre minuti, con l’intro Ball’n’Chains, prima che il vulcano erutti e la lava cominci a scendere impietosa giù dalla montagna a scaldare la pianura desertica dove i quattro intonano la title track, brano che ha nel riff sabbathiano e il refrain alla Corrosion Of Conformity i suoi punti di forza.
La band americana diventa protagonista assoluta tra le trame di Wrath, i Rusty Bonez la citano fregandosene altamente dell’originalità, a tratti stonerizzando ancora di più l’atmosfera con iniezioni psichedeliche di matrice Kyuss, mentre il southern metal prende per mano il doom e insieme ci regalano un gioiellino come Scream Of Souls, inizio di un trittico di brani dall’alto potenziale che comprende le trascinanti King Of The Road e il singolo Nameless Hero.
C’è tempo per un ulteriore impennata hard rock con Burn The Sun prima che il crescendo di Grub concluda questo buon esordio firmato Rusty Bonez.
Wrath è un album che farà innamorare gli amanti delle sonorità descritte, e se la devozione del gruppo per i Corrosion Of Conformity lascia qualcosa in termini di personalità, non inficia la riuscita di un album che presenta una manciata di brani a tratti trascinanti.

Tracklist
1.Ball’n Chians
2.Wrath
3.Broken Mold
4.Scream Of Souls
5.King Of The Road
6.Nameless Hero
7.Goldmann Shagged
8.Stoned Skin
9.Burn The Sun
10.Grub

Line-up
Nondas Emmanouil – Vocals
Kostas Karapetsas – Guitar
Jojos Silivridis – Bass
Alexandros Varsanis – Drums

RUSTY BONEZ – Facebook

Natas – Delmar

Delmar fu il primo lavoro degli argentini Natas, e per molti fu un disco epocale perché portava con sé la scoperta di un suono che stava nascendo in quel momento e che aveva le sue radici nel passato ma guardava in maniera diversa al futuro.

Delmar fu il primo lavoro degli argentini Natas, e per molti fu un disco epocale, perché portava con sé la scoperta di un suono che stava nascendo in quel momento e che aveva le sue radici nel passato ma guardava in maniera diversa al futuro.

La Argonauta Records di Genova ci propone la ristampa rimasterizzata dai nastri originali di questo grande disco, ai tempi per la Man’s Ruin Records. I Natas (leggete al contrario e troverete il marchio di fabbrica del più longevo manager della storia del rock), furono per lo stoner desert quello che i Sepultura furono per il death, ovvero mostrarono che anche in paesi diversi da quelli canonici si produceva un ottimo stoner, fatto in maniera innovativa e con una grande impronta personale. Dischi come questo sono stati possibili solo in quegli anni, che sono stati forse l’ultimo periodo veramente creativo della musica e non solo. In Delmar c’è tutto, dalle cose più Kyuss a passaggi fortemente grunge nella loro essenza. Questo disco è prima di tutto un viaggio, un’esperienza psichedelica con i Natas come sciamani che ci guidano in territori sconosciuti. Riascoltando Delmar possiamo ritrovare quel tocco magico, quella freschezza dell’onda marina che ti tocca sul bagnasciuga durante un rosso tramonto. I Natas sono un gruppo che evoca magia attraverso una musica che porta lontano, e forse questo album è stato il loro momento migliore, anche se i dischi successivi sono molto buoni, ma Delmar è un pilastro, un peyote da prendere quando si vuole, perché soddisferà sempre, ora ancora di più con i suoni ancora più nitidi. La capacità compositiva di questi argentini stupisce ancora adesso, e si capiscono ora la forze e l’influenza che hanno avuto su molti gruppi che li hanno seguiti. Dopo venti anni è ancora potentissimo e bellissimo.

Tracklist
1. Samurai
2. 1980
3. Trilogia
4. I Love You
5. Soma
6. Mux Cortoi
7. Delmar
8. Windblows
9. El Negro
10. Alberto Migré

Line-up
SERGIO CH. – GUITARRA Y VOCALS.
WALTER BROIDE – BATERIA.
GONZALO VILLAGRA – BASS.

NATAS – Facebook

El Rojo – 16 Inches Radial

I Kyuss hanno figliato moltissimo, lasciando un’eredità pressoché enorme, e questi calabresi partono dallo stesso deserto, ma ne creano uno tutto loro davvero magnifico per un debutto che lascia a bocca aperta.

Gruppo stoner desert dalla Calabria, un suono caldissimo ed avvolgente che vi darà grande piacere.

Gli El Rojo nascono a Morano Calabro nel 2016, sono un gruppo di amici molto legati fra loro e fanno uno stoner hard rock di alta qualità. Hanno il passo dei Kyuss, ovvero uno stoner rock molto desertico ma hanno anche una serie di soluzioni sonore da hard rock, senza disdegnare qualche passaggio maggiormente psichedelico. Non c’è una cosa in particolare che risalta subito, la loro peculiarità è dare una sensazione di musica di cui non puoi fare a meno, soprattutto per chi ama questo genere. Gli El Rojo arrivano perché è il loro momento, e ascoltandoli lo si percepisce chiaramente: 16 Inches Radial è un disco affascinante e dal suono che ti induce in tentazione. Il gruppo calabrese ti fa percepire una sensazione di appagante soddisfazione sonora e ti induce ad ascoltare il disco più volte, rientrando nella non grande casistica dei gruppi predestinati. Non si può sapere se questi ragazzi faranno carriera nella scena, certo è che far uscire un debutto così è assai notevole. Ci sono delle cose da mettere a posto, e vanno perfezionate certe piccolezze, nell’ottica del massimo miglioramento possibile, ma stiamo parlando di un gruppo che nell’ultima traccia del disco, Red Sand, assomiglia in certi passaggi ai Doors, tanto per capire dove stiamo andando a parare. I Kyuss hanno figliato moltissimo, lasciando un’eredità pressoché enorme, e questi calabresi partono dallo stesso deserto, ma ne creano uno tutto loro davvero magnifico. Un debutto che lascia a bocca aperta.

Tracklist
1.Pontiac
2.Trigger
3.BSS
4.El Rojo (Instrumental)
5.Psilocybe
6.Red Sand

Line-up
Evo Borruso – Vocals
Fabrizio Vuerre – Guitar
Luigi Grisolia – Guitar
Pasquale Carapella – Bass
Antonio Rimolo – Drums

EL ROJO – Facebook

Solaris – L’ Orizzonte Degli Eventi

Ristampa del primo lavoro dei romagnoli Solaris che fanno uno stoner rock desertico in italiano, votato all’occulto e alla metafisica.

Ristampa del primo lavoro dei romagnoli Solaris che fanno uno stoner rock desertico in italiano, votato all’occulto e alla metafisica.

Il suono che ci propongono i ragazzi romagnoli è un qualcosa che nasce nello stoner ma soprattutto nell’innovativa tradizione di gruppi italiani come i Timoria ed i Ritmo Tribale, anche se il tutto è profondamente frutto del gruppo. I Solaris sono anche un’ottima sintesi di quanto di meglio ci sia stato negli ultimi venti anni in un certo sottobosco musicale italiano. Questo ep è stato appunto ristampato in un’edizione limitata di 200 copie, grazie al buon successo avuto nella prima edizione. L’ascolto infatti è molto piacevole, il suono è ipnotico ed incalzante, come se fosse un trip lisergico in mezzo ad una terra molto calda, e il cantato in italiano valorizza enormemente il tutto. I testi parlano di storie viste attraverso un velo mitico, ma anche una lontananza molto vicina, e hanno bisogno della loro musica per essere capiti. A livello compositivo il lavoro è notevole, e e lo si sente in ogni frangente, e la musica si sposa benissimo con le parole. I Solaris non sono affatto un gruppo comune, questo ep lo grida ed è un’altra prova che a cercarlo abbiamo un underground unico in Italia, solo che a volte è più facile cercare altri prodotti in giro di minore qualità. Dentro questo ep c’è anche tanto sentimento, tanta voglia di vedere il leviatano per capire fino in fondo, senza fermarsi ad apparenze digitali. C’è un gusto di antico in questo disco, di pagano e di forte come l’odore dei boschi. Ascoltateli e fatevi un’idea, non vi stancherete di questo ep.

Tracklist
1.Luna
2.Nottetempo
3.Erode
4.Leviatano
5.Specchio

Line-up
Alberto Casadei
Paride Placuzzi
Lorenzo Bartoli
Alan Casali

SOLARIS – Facebook

Mos Generator – Shadowlands

Sia su disco che dal vivo è sempre una gioia incontrare i Mos Generator, e questa ultima fatica è forse il loro miglior lavoro, che è un po’ la frase che quasi tutti i musicisti vorrebbero sentirsi dire.

Sono tornati i Mos Generator e sono cambiati, in meglio se possibile.

Il gruppo americano è sempre stato fautore di un buon stoner rock, un ponte fra anni settanta, ottanta e oltre, ma in questo disco aumenta la velocità e la consapevolezza di fare un qualcosa di unico ed originale. Con quello che ha prodotto e anche grazie al suo fedele seguito, il gruppo di Tony Reed non dovrebbe dimostrare più nulla, ma anche grazie allo smisurato amore che ha il leader per la musica, il discorso musicale compie un ulteriore passo in avanti, andando a ripescare molto dal passato, ma anche dotandosi di passaggi molto più oscuri come suggerisce il titolo. In Shadowlands si può trovare un suono indurito e un grande odore di southern rock, che è sempre stato presente nei lavori dei Mos Generator, ma qui è in misura maggiore rispetto al passato. La loro musica è sempre molto bilanciata ed equilibrata e trovano sempre la giusta miscela musicale, anche grazie ad una produzione davvero efficace. Le composizioni sono sempre interessanti e con un trama ritmica interessante che ne rende piacevole l’ascolto: la conoscenza musicale del trio è notevole, e anche fra di loro si sente che si trovano molto bene. Non è certo un disco innovativo, ma il prodotto di un gruppo che ha un’identità ben definita e porta avanti con successo un discorso musicale di impatto e molto piacevole. Ci sono anche momenti nei quali si rimane piacevolmente stupiti da cosa esce fuori da Shadowlands scoprendo un qualcosa di ricco. A volte ricordano il meglio dei Kiss fuso con una bella e robusta selezione del meglio del rock americano. Insomma, sia su disco che dal vivo è sempre una gioia incontrare i Mos Generator, e questa ultima fatica è forse il loro miglior lavoro, che è un po’ la frase che quasi tutti i musicisti vorrebbero sentirsi dire.

Tracklist
01. Shadowlands
02. The Destroyer
03. Drowning In Your Loving Cup
04. Stolen Ages
05. Gamma Hydra
06. The Blasting Concept
07. Woman Song
08. The Wild & Gentle Dogs

Line-up
TONY REED – guitar, vocals, keyboards, assorted instruments
SEAN BOOTH – bass
JON GARRETT – drums

MOS GENERATOR – Facebook

Beesus – Sgt. Beesus And The Lonely Ass Gangbang

Sgt. Beesus And The Lonely Ass Gangbang è un disco dalle mille sfaccettature, possiede un amplissimo respiro vitale, e riporterà indietro ai fasti degli anni novanta, quando questo noise bastardo ha sfornato opere molto particolari, con i Beesus che non avrebbero sfigurato nemmeno allora.

I Beesus sono un gruppo che suona un noise grunge con attitudine punk hardcore, ed il risultato è molto buono e vario, come si usava fare ai tempi dei dischi dei Primus o compagnia rumoreggiante.

Il bello di questo disco è il suo essere sinuoso, totalmente musicale ed immediato, anche se ha soluzioni sonore davvero originali e di altro livello. I Beesus non suonano solo per stupire con repentini cambi di genere o di tempo, ma fanno musica per generare sensazioni, e lo fanno in maniera zappiana, portando l’ascoltatore su di un livello lisergico e di piacere, dove la percezione cambia e si amplia. I riferimenti musicali sono moltissimi, da Zappa appunto ai Beastie Boys, ma il tutto è molto Beesus. Il gruppo ci porta in un territorio caleidoscopico, che cambia come in un viaggio psichedelico, ma non c’è tanto di questo ultimo genere, quanto una musicalità molto pronunciata che si espande ad ogni ascolto, tanto da far diventare davvero difficile eleggere un genere prevalente, e non sarebbe nemmeno giusto farlo. Il presente disco è stato scritto e prodotto soprattutto in tour, dopo l’uscita di Rise Of The Beesus, e quindi riporta molta della caoticità che viene introdotta anche dal titolo. L’uscita è stata possibile grazie alla campagna di raccolta fondi fatta su Pledgemusic, e bisogna dire che gli ascoltatori ci hanno visto molto bene, premiando gli sforzi di un grande gruppo. Sgt. Beesus And The Lonely Ass Gangbang è un disco dalle mille sfaccettature, possiede un amplissimo respiro vitale, e riporterà indietro ai fasti degli anni novanta, quando questo noise bastardo ha sfornato opere molto particolari, con i Beesus che non avrebbero sfigurato nemmeno allora.

Tracklist
1.Intro
2.El Dude
3.Dubblegum Boom Metla
4.Ñuña Y Freña
5.Reichl
6.I Don’t Wanna Be
7.Junk Around
8.Beaux
9.Outro

Line-up
Jaco – Vocals
Pootchie – Guitars/Vocals
Johnny – Bass
Mudd – Drums/Vocals

BEESUS – Facebook

Earthless – Black Heaven

Lo stoner rock degli Earthless è sempre stato molto piacevole, ma qui tocca forse le vette più alte della loro lunga carriera, perché c’è qualità, passione, potenza e veemenza in questo stoner rock molto fisico, dove si continua la tradizione della psichedelia pesante americana, con lunghe jam potenti e lisergiche che portano lontano.

Quarto disco per i californiani Earthless, in giro dall’ormai lontano 2001. La maggiore novità è data dal fatto che a differenza degli altri dischi questo ha la maggior parte delle canzoni cantate dal chitarrista Isaiah Mitchell, che ha un voce molto adatta al genere.

La cosa è nata spontanea all’interno del gruppo, un cambiamento naturale che non va a snaturare nulla, anzi. Rimangono sempre le cavalcate di psichedelia pesante che hanno sempre contraddistinto la band. Un’altra novità, anche se minore rispetto alla prima, è che il gruppo ha un tiro maggiormente rock rispetto al passato, facendo emergere le sue radici profonde. Gli Earthless devono moltissimo ai Cream, e hanno sempre affermato che senza di loro non ci sarebbe stato nulla. Ascoltando Black Heaven si capisce molto bene questa loro affermazione. La band americana ci mette molto del suo e produce un disco davvero molto godibile e forte, potente e composto di lunghe canzoni che sono jam infuocate sotto il sole della California. Con il trasferimento di Isaiah Mitchell da San Diego, base del gruppo, al nord della California, il gruppo è passato dal vedersi e provare spesso al diradare le occasioni di fare musica insieme. Ciò non ha tolto nulla, anzi ha agito come un rasoio di Occam, andando a perfezionare ulteriormente taluni passaggi. Lo stoner rock degli Earthless è sempre stato molto piacevole, ma qui tocca forse le vette più alte della loro lunga carriera, perché c’è qualità, passione, potenza e veemenza in questo stoner rock molto fisico, dove si continua la tradizione della psichedelia pesante americana, con lunghe jam potenti e lisergiche che portano lontano. Un gran bel disco da una band che si migliora costantemente e che intrattiene molto bene l’ascoltatore.

Tracklist
1. Gifted by the Wind
2. End to End
3. Electric Flame
4. Volt Rush
5. Black Heaven
6. Sudden End

Line-up
Mario Rubalcaba
Isaiah Mitchell
Mike Eginton

EARTHLESS – Facebook

Black Road – Black Road

Black Road tiene il passo senza grossi scossoni, il gruppo intona nenie doom tossiche e stregate da pozioni stoner, la chitarra vomita riff sabbathiani e solos hard & heavy che eruttano lava blues, mentre la singer ci trascina ipnotizzati in danze diaboliche.

La nuova ondata dei gruppi dai richiami vintage non si ferma solo all’hard rock classico ma, scavando nel tenebroso e mistico underground, il successo di band come Blues Pills ed Avatarium ha dato nuova linfa anche a quelle realtà che lontano dai riflettori suonano rock psichedelico, doom ed abbondantemente stonerizzato.

I Black Road per esempio sono un quartetto di Chicago fondato da solo un paio d’anni, la discografia vede il 2017 come anno zero, con un live e questo ep in uscita a pochi mesi l’uno dall’altro.
Black Road esce in cassette e vinile per la label olandese DHU Records, mentre la nostrana BloodRock Records curerà un’edizione limitata in cd.
L’album è composto da sei brani nei quali il doom e lo stoner incontrano l’hard rock e la psichedelia, facendo piccoli viaggi mistici a ritroso fino ai primi anni settanta con partenza dalla stazione chiamata From Hell, opener che avanza a passo lento e possente, dove il canto della sirena Suzi Uzi segue lo scorrere lavico delle note.
Black Road tiene il passo senza grossi scossoni, il gruppo intona nenie doom tossiche e stregate da pozioni stoner, la chitarra vomita riff sabbathiani e solos hard & heavy che eruttano lava blues, mentre la singer ci trascina ipnotizzati in danze diaboliche.
Il singolo Bloody Mary e la conclusiva title track sono pregne di umori vintage che, a tratti, tornano come in una vorticosa macchina del tempo verso gli anni novanta e ad un buon mix di doom e stoner tra Cathedral e Kyuss.
Un primo lavoro che sicuramente merita l’attenzione degli appassionati ai quali i è vivamente consigliato.

Tracklist
1.From Hell
2.Bloody Mary
3.Morte
4.Morte (Coda)
5.Red
6.Black Rose

Line-up
Casey Papp – Bass
Robert Gonzales – Drums
Tim M. – Guitars
Suzi Uzi – Vocals, Piano

BLACK ROAD – Facebook

Kayleth – Colossus

Il disco è molto piacevole da ascoltare e lo si può fare a lungo e ripetutamente senza che susciti mai noia o pesantezza auricolare: i Kayleth sono un gruppo davvero capace e producono il loro album migliore, che piacerà molto a chi ama la musica pesante che viaggia in alta atmosfera.

Nuovo disco per una delle realtà italiane più interessanti per quanto riguarda il panorama stoner, i veneti Kayleth.

Secondo disco su Argonauta Records per questi veterani attivi dal 2005. Colossus sancisce una maturazione molto completa e che regala un gruppo al suo apice creativo, dopo essere cresciuti disco dopo disco, attraverso un miglioramento costante e potente. Il disco si snoda attraverso uno space stoner delicato, dove le melodie sono sviluppate con grande gusto e consapevolezza di poter sempre suonare la cosa giusta. Il disco suona Kayleth al cento per cento, e anche grazie ad un’ottima produzione riesce ad arrivare molto bene nel cervello e nel cuore di chi lo ascolta. I Kayleth sviluppano gli argomenti che hanno sempre trattato e li portano ad un altro livello, dove la loro musica possa elevarsi ulteriormente. Ci sono momenti del disco che sono pervasi da un sentire stoner molto vicino al grunge, con ottimi ritornelli e canzoni molto al di sopra della media. In apparenza la musica dei Kayleth potrebbe sembrare semplice e priva della benché minima complessità, mentre invece non è affatto facile produrre questo tipo di suono senza avere il discorso molto chiaro in testa. Uno degli aspetti che rendono molto interessante il tutto è il grande lavoro delle tastiere e dei synth, un elemento che è arrivato nel divenire del gruppo, perché in partenza non era presente, e porta ulteriore profondità al suono. Il disco è molto piacevole da ascoltare e lo si può fare a lungo e ripetutamente senza che susciti mai noia o pesantezza auricolare: i Kayleth sono un gruppo davvero capace e producono il loro album migliore, che piacerà molto a chi ama la musica pesante che viaggia in alta atmosfera.

Tracklist
01 – Lost in the swamp
02 – Forgive
03 – Ignorant Song
04 – Colossus 05 – So Distant
06 -Mankind’s Glory
07 – The Spectator
08 – Solitude
09 – Pitchy Mantra
10 – The Angry Man
11 -The Escape
12 – Oracle

Line-up
Massimo Dalla Valle: Chitarra
Alessandro Zanetti: Basso
Daniele Pedrollo: Batteria
Enrico Gastaldo: Voce
Michele Montanari: Synth

KAYLETH – Facebook

Deadly Vipers – Fueltronaut

Ad un primo distratto ascolto il disco potrebbe sembrare banale, mentre sale di tono con il passare del tempo, potendo cogliere in modo più attento le notevoli linee melodiche.

I francesi Deadly Vipers sfornano un buon disco di stoner fuzz psych dalle forti radici e capace di coinvolgere; la materia trattata non è inedita o particolarmente originale, ma il gruppo di Perpignan svolge un ottimo lavoro e ci porta nella psichedelia più pesante.

Ogni pezzo è composto per portare l’ascoltatore in un posto lontano e ha un forte sapore desert. Accelerazioni, dilatazioni, momenti di estasi sonora, oppure ritornelli che ti si conficcano in testa, confermando quanto di buono ci sia in Francia al momento per quanto riguarda la musica pesante. Più che l’arrivo qui l’importante è il viaggio, assaporare sensazioni del tuo cervello che muta peso e sostanza. La produzione è molto buona, permette di gustare il gruppo al massimo e risente in maniera assai positiva della masterizzazione in Texas da parte di Kent Stump dei Wo Fat. Infatti siamo in quei luoghi in cui il deserto diventa allucinazione e le percezioni diventano altro da sé. Ad un primo distratto ascolto il disco potrebbe sembrare banale, mentre sale di tono con il passare del tempo e degli ascolti, potendo cogliere in modo più attento le notevoli linee melodiche. I Deadly Vipers sono un gruppo notevole e fanno una psichedelia  fuzz che merita molta attenzione, piacevole e molto ben suonata.

Tracklist
1.Fuel Prophecy
2.Universe
3.Doppelganger Sun
4.The Prey Goes On
5.Stalker
6.Meteor Valley
7.Supernova
8.Dead Summer
9.River of Souls

Line-up
Fred: Vocals
David: High Fuzz
Thomas: Low Fuzz
Vincent: Drums

DEADLY VIPERS – Facebook

Supernaughty – Vol.1

Hard rock, stoner e sonorità novantiane nate dalle parti di Seattle, fanno parte del background dei nostri, ottimi interpreti di un sound che può essere sicuramente annoverato tra gli esempi più riusciti di alternative metal/rock dell’ultimo periodo.

Nati come cover band degli dei Black Sabbath, i nostrani Supernaughty giungono al debutto sulla lunga distanza tramite l’Argonauta Records.

La band toscana si impone all’attenzione del pubblico underground con questi sette brani che formano una raccolta di umori ed ispirazioni che, pur partendo da una base sabbathiana, si crogiolano nel pieno dell’ultimo decennio del secolo scorso.
Hard rock, stoner e sonorità novantiane nate dalle parti di Seattle, fanno parte del background dei nostri, ottimi interpreti di un sound che può essere sicuramente annoverato tra gli esempi più riusciti di alternative metal/rock dell’ultimo periodo.
L’elemento sabbathiano alla quale la band si ispira per il monicker (Supernaut, da Vol.4) è un’influenza che rimane soggiogata dalle forti ispirazioni stoner/grunge, almeno all’ascolto dei brani presenti sull’album, che succhiano linfa vitale dai Queen Of The Stone Age, Kyuss ed Alice In Chains.
L’album parte al meglio con il singolo Mistress, un brano dai riff pesantissimi e che mette subito in chiaro le intenzioni dei quattro rockers toscani: prendere per mano l’ascoltatore e portarlo in giro per il deserto della Sky Valley, mentre è già tempo di Bad Games, traccia che bilancia dosi di Alice In Chains e stoner rock in egual misura.
Il cantato di Angelo Fagni è melodico quel tanto che basta per aiutare i brani ad entrare in testa con facilità, in contrasto con i riff a tratti monolitici come in The Slicers e nel lento incedere di Andy’s Abduction.
Notevole e acida Kiss Of Death, che si muove lasciva tra le dune del deserto, psichedelica ed a tratti ipnotica, mentre Y.A.T. lascia a Fuck’n Drive il compito di chiudere tra fuochi d’artificio stoner & roll questo ottima mezzora di rock di battente bandiera tricolore.
Un buon esordio che non mancherà di soddisfare gli amanti del genere ed occhio ai live del gruppo, qualcosa mi dice che sul palco i Supernaughty siano una bomba.

Tracklist
1. Mistress
2. Bad Games
3. The Slicers
4. Andy’s Abduction
5. Kiss the Death
6. Y.A.T.
7. Fuck’n Drive

Line-up
Filippo Del Bimbo – Guitars
Alessio Franceschi – Drums
Angelo Fagni – Vocals, Guitars
Luca Raffon – Bass

SUPERNAUGHTY – Facebook

Roadkillsoda – Mephobia

Citazioni più o meno famose e cliché che nutrono di già sentito i brani, fanno di Mephobia un album godibile, e se un po’ di ripetitività lascia che qualche sbadiglio affiori verso la fine dell’ascolto, il tutto viene bilanciato dal almeno tre ottime tracce.

Quando si parla di Romania riguardo al metal viene spontaneo pensare al gothic ed al doom, generi che nel paese balcanico  vengono espressi in maniera qualitativamente alta.

Quindi i Roadkillsoda fanno parte di una scena (quella stoner rock) che sicuramente non fa pensare alle foreste ed ai castelli immersi nelle valli e sulla cime dei Carpazi, ma al caldo delle pianure americane: il quartetto di Bucarest infatti suona musica desertica, hard rock stonerizzato e, come da trend, alimentato da una vena nostalgica tra rock settantiano e alternative proveniente dagli anni novanta.
Niente di nuovo sotto il sole della capitale rumena, ma estremamente funzionale a quello che il gruppo vuole trasmettere, ovvero hard rock diretto, stonato e vintage.
In giro da ormai un po’ di anni, la band ha dato alle stampe quattro album, compreso quest’ultimo lavoro intitolato Mephobia, e ha avuto i suoi inevitabili aggiustamenti per quanto riguarda la formazione ed arriva carica e sul pezzo per farci sognare ancora di sabbia scaldata dal sole, crotali dai sonagli impazziti e lunghe camminate persi nel caldo asfissiante della Sky Valley.
Citazioni più o meno famose e cliché che nutrono di già sentito i brani, fanno di Mephobia un album godibile, e se un po’ di ripetitività lascia che qualche sbadiglio affiori verso la fine dell’ascolto, il tutto viene bilanciato dal almeno tre ottime tracce (Prometheus, Casuality e la psichedelica Dip).
I soliti Kyuss e Queen Of The Stone Age, con un po’ di Black Label Society a metallizzare quanto basta il suono di Mephobia, sono i primi nomi di una lunga lista di influenze accostabili al gruppo rumeno, ma se del genere non potete fare a meno i Roadkillsoda vi sapranno tenere buona compagnia.

Tracklist
1.Prometheus
2. Bipolar
3.Consequences
4.Easy
5.Casualty
6.Legless
7.Order
8.Dip
9.Backhander
10.Tonight
11.Trust

Line-up
Mircea Petrescu “Hotshot Eagle” – Vocals
Mihnea Ferezan “Panda Elixir” – Guitars
Victor “Vava” Ferezan – Bass
Mihai Nicolau “Baby Jesus” – Drums

ROADKILL SODA – Facebook

Drive By Wire – Spellbound

La maturità compositiva è fuori discussione, il gruppo è già da tempo pronto per essere conosciuto dal grande pubblico e questo disco è un fantastico biglietto da visita.

Tornano gli olandesi Drive By Wire al loro decimo anno di attività, festeggiato con la ristampa su Argonauta Records del loro disco The Whole Shebang.

Il nuovo Spellbound ci mostra il gruppo nel suo massimo splendore, con un suono che è un felice incrocio di desert rock, stoner e molto blues, soprattutto nell’attitudine e nell’incedere. I Drive By Wire fanno molto bene e con più ruvidezza ciò che i Blue Pills hanno portato alla ribalta con il loro suono, e anche gli olandesi hanno una splendida voce femminile a guidarli, quella di Simone Holsbeek, bravissima a coprire una moltitudine di registri, versatile e calda. Il gruppo ci guida nel suo mondo, fatto di mistero, blues e note ruvide, con una voce calda e sognante che ci porta a seguirla sotto la luce della luna, benedicendo il femmineo. Si viene trascinati in questo sabba desertico da una musica che si fonde benissimo con la voce di Simone, e che raggiunge vette che pochi gruppi nel genere hanno saputo toccare. La qualità media del disco è molto alta, le tracce sono legate l’una all’altra non tanto da un concept, quanto da una comune visione che si esplica in una musica fortemente influenzata dal blues. Proprio quest’ultimo è il mojo principale di questo disco e la sua presenza è fortissima, sia nella composizione che nello spirito dell’album. Il coinvolgimento dello spettatore è una delle peculiarità maggiori degli olandesi, riescono a stimolare la tua curiosità e ti portano con un groove ipnotico. I riferimenti ci sono ma è tutto molto personale ed originale. I Drive By Wire riescono inoltre a dare una propria personale versione del desert rock che è una delle migliori in assoluto in giro, e questo disco è da primi dieci ascolti desertici da fare. La maturità compositiva è fuori discussione, il gruppo è già da tempo pronto per essere conosciuto dal grande pubblico e Spellbound è un fantastico biglietto da visita.

Tracklist
1. Glider
2. Where Have You Been
3. Mammoth
4. Apollo
5. Blood Red Moon
6. Superoverdrive
7. Van Plan
8. Lost Tribes
9. Devil’s Fool
10. Lifted Spirit
11. Spellbound

Line-up
Simone Holsbeek
Alwin Wubben
Jerome Miedendorp de Bie
Marcel Zerb
Rene Rutten

DRIVE BY WIRE – Facebook

Lost Moon – Through The Gates Of Light

La band sforna un lavoro intenso ed originale, perché le influenze ben presenti vengono rimodellate dal trio creando una gettata hard rock/stoner a tratti pesantissima.

A dispetto dei detrattori e dei metallari duri e puri che hanno visto gli anni novanta come la morte dei suoni classici in favore di approcci più moderni e cool, questo decennio rimane il più importante per lo sviluppo della musica rock insieme agli anni settanta, un periodo di rinascita che ha portato all’attenzione degli ascoltatori una manciata di scene diventate, con il tempo, ispirazioni primarie per i gruppi del nuovo millennio.

Dall’hard rock al metal estremo, passando per il grunge, lo stoner ed il metal moderno, l’ultimo decennio del ‘900 per chi ha avuto la fortuna di viverlo musicalmente rimarrà il fulcro di quello che, in seguito, si è sviluppato.
I Lost Moon sono nati verso il finire di quel periodo e da lì hanno sviluppato il loro sound per mezzo di tre album (Lost Moon del 2001, King Of Dogs del 2007 e Tales Form The Sun licenziato tre anni fa) e ora tornano con questo nuovo lavoro, Through The Gates Of Light ottimo esempio di hard stoner rock che da quel prende lo spirito e qualche ispirazione e, grazie ad un songwriting vario, ci regalano trentacinque minuti di musica di grande livello.
I due fratelli Paolucci (Stefano – chitarra e voce – e Pierluigi – batteria),  con il fido Adolfo Calandro (basso), prendono in ostaggio lo stoner rock e lo lasciano tra le mani dell’hard rock settantiano, la psichedelia ed il southern rock e, con la guida dell’alternative metal, lo torturano fino trasformarlo in un’entità anomala ed impossibile da descrivere in senso assoluto.
La band sforna un lavoro intenso ed originale, perché le influenze ben presenti vengono rimodellate dal trio creando una gettata hard rock/stoner a tratti pesantissima.
Si passa così dalle digressioni tooliane della strumentale Through The Gates Of Light, ai Black Label Society e Kyuss della successiva Dawn, dalle sferzate metalliche di Prayer a Pilgrimage, brano che rispecchia il credo musicale dei Lost Moon esibendo una panoramica esaustiva su tutte le sfumature della loro musica.
Sempre Black Label Society ed Alice In Chains li ritroviamo in I Got A Drink e in Light Inside, mentre un sitar beatlesiano apre la conclusiva Visions, canzone che ricorda le armonie acustiche degli Zeppelin.
Album davvero bello, Through The Gates Of Light è l’imperdibile ultimo sussulto dell’anno per quanto riguarda il genere.

Tracklist
1.Through the Gates of Light
2.Dawn
3.Prayer
4.Pilgrimage
5.I Got Drunk Again
6.Light Inside
7.The Day we Broke the Spell
8.Visions

Line-up
Stefano Paolucci – Guitars .Vocals
Pierluigi Paolucci – Drums
Adolfo Calandro – Bass

LODT MOON – Facebook

Wasted Theory – Defenders Of The Riff 2017 Edition

I Wasted Theory sono semplicemente uno dei gruppi più divertenti e rumorosi che potrete trovare in giro, e Defenders Of The Riff è un disco completo e da sentire dall’inizio alla fine, possibilmente consumando droghe ed alcool.

Ristampa con bonus tracks del secondo disco dei Wasted Theory, ad opera dell’italiana Argonauta Records.

Wasted Theory sono semplicemente uno dei gruppi più divertenti e rumorosi che potrete trovare in giro, e Defenders Of The Riff è un disco completo e da sentire dall’inizio alla fine, possibilmente consumando droghe ed alcool. Il rumore ci salverà, ed in particolare quello di questi americani del Delaware è davvero bello pieno e invita ad un ascolto ripetitivo. Le radici del loro suono sono da ricercare all’indietro nei Kiss e in gruppi come in Thin Lizzy, ovvero rock and roll bastardo, per poi ridiscendere fino a band come High On Fire ed altri, però più duri. I Wasted Theory hanno un suono sudista, che unito ad una fortissima ironia rende molto bello il tutto. Nel loro suono si può adirittura rintracciare qualcosa di blues, ma più che altro nella loro maniera di porsi ed in alcuni giri di chitarra. Il titolo rende benissimo ciò che ascolterete, dato che i riff qui sono tutti validissimi e raggiungono pienamente il loro scopo. Ci sono momenti più veloci, altri più lenti e pesanti, ma ciò che non manca mai è quella sensazione di divertimento e di ascolto di un gruppo che è totalmente in controllo, e che si diverte talmente che straripando lo trasmette al suo pubblico. Certe ripartenze sono degne dei migliori Karma To Burn, ma i Wasted Theory sono di maggior coinvolgimento e comprensione. Southern rock e metal, hard rock, stoner, desert ed un pizzico di heavy metal classico sono solo alcuni degli ingredienti di questo buonissimo moonshine potente ed inebriante. Nel 2016 molti addetti ai lavori hanno incluso questo disco nella loro list di migliori uscite dell’anno, ed in questa ristampa potrete gustare due killer cover di un brano degli Alabama Thunderpussy ed uno dei Nazareth. Lunga vita ai difensori del riff.

Tracklist
1.Get Loud or Get Fucked
2.Black Witch Blues
3.Atomic Bikiniwax
4.AmpliFIRE!
5.Gospel of Infinity
6.Belly Fulla Whiskey
7.Under The Hoof
8….And The Devil Makes Three
9.Throttlecock
10.Odyssey Of The Electric Warlock
11.Rockin’ is Ma Business (ALABAMA THUNDERPUSSY)
12.Changin’ Times (NAZARETH

Line-up
Brendan Burns,
Larry Jackson Jr.
Andrew Petkovic
Rob Michael

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Rise Of The Wood – First Seed

Il sound di First Seed è tutto meno che una sorpresa per gli ascoltatori del genere, il gruppo orange spacca i timpani con una serie di riff scavati nella roccia sabbathiana, passati a fil di spada sopra dirigibili persi nei cieli degli anni settanta e strafatti con radici trovate sotto la sabbia nella Sky Valley.

Pesante come il mammouth raffigurato in copertina, arriva sul mercato First Seed, primo lavoro degli olandesi Rise Of The Wood, quintetto dedito ad uno stoner ispirato dall’hard rock settantiano e dalla musica desertica statunitense.

Niente di nuovo sotto il sole a picco sulle pianure sotto il livello del mare, trasformate dalla band in un meno confortevole deserto aldilà dell’oceano.
Il sound di First Seed è tutto meno che una sorpresa per gli ascoltatori del genere, il gruppo orange spacca i timpani con una serie di riff scavati nella roccia sabbathiana, passati a fil di spada sopra dirigibili persi nei cieli degli anni settanta e strafatti con radici trovate sotto la sabbia nella Sky Valley.
Potenza e melodia, molte parti acustiche, sfumature ed atmosfere che passano dal vintage al moderno con facilità sorprendente e tanto rock stonato fanno dell’album una buona partenza per i Rise Of The Wood, i quali ignorano  chi li accusa di poca personalità e vanno per la loro strada con una manciata di brani (Red Snake, Hell Yeah, Loner Jack e Rise Of The Wood) che spingono la tracklist su un livello più che buono, forte di questo alternare stoner pressante e potente e hard rock.
Nol Van Vliet e compagni giocano con i cliché del genere con buona pace di chi cerca la chimera dell’originalità: First Seed è un buon lavoro di genere, piacevole e potente il giusto per trovare consensi a prescindere se siete amanti dello stoner o fedeli ascoltatori dell’hard rock suonato negli anni settanta.

Tracklist
1.Red Snake
2.Hell Yeah
3.After This I’ll Is Never
4.Slab City
5.Hyperspeed
6.The Dark
7.Loner Jack
8.Liberate
9.war Inside
10.Rise Of The Wood
11.Faded Horizon

Line-up
Nol Van Vliet – Vocals
Jeff Teunissen – Guitars
Ronald Boonstra – Guitar
Alex Wijnhorst – Bass
Erik stolze – Drums

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Thungur – No Going Back

No Going Back si sviluppa lungo undici brani di hard rock moderno, dai rimandi stoner e psichedelici, americano di ispirazione, pesante nelle ritmiche e dal groove bene in evidenza.

Arrivano all’esordio sulla lunga distanza i rockers svedesi Thungur, nati tre anni fa e con due lavori minori alle spalle, la raccolta di singoli The Village Sessions e l’ep The Cage, licenziati nel 2015.

No Going Back si sviluppa lungo undici brani di hard rock moderno, dai rimandi stoner e psichedelici, americano di ispirazione, pesante nelle ritmiche e dal groove bene in evidenza.
La parte psichedelica, anche se rimane in ombra rispetto alle influenze hard rock. porta il sound su territori cari ai Tool, mentre fanno capolino nei brani più leggeri accenni al post grunge.
Ne esce un lavoro magari poco originale ma sicuramente d’impatto, specialmente quando la band decide di picchiare con forza sugli strumenti senza rinunciare alla melodia (White Lies, Pink Champagne).
Il quartetto di Malmö (ma con un vocalist islandese, Kristjan Samuelsson) non impiega molto a convincere gli amanti del rock pesante da rotazione televisiva, con le allusioni ai Tool che si ammorbidiscono quando il sound si sposta verso i Nickelback o si stonerizza con l’influsso dei Kyuss, mentre No Going Back scorre liscio sino alla conclusione tra brani più pesanti, altri più intimisti o valorizzati da buone melodie.
Ancora il singolo Animals, la ballad acustica Breathe Under Water e la pesantissima e cadenzata Trigger fanno dell’album una buona uscita per quanto riguarda queste sonorità, anche se la strada per una definitiva affermazione è ancora lunga come quelle che separa il Nordeuropa dall’America.

Tracklist
1.White Lies
2.Abandon
3.Nightmare
4.Pink Champagne
5.Animals
6.Rainmaker
7.Temptation
8.Breathe Under Water
9.Bay Harbour
10.Trigger
11.Skin [ink]

Line-up
Kristjan Samuelsson – Vocals, Guitar
Bjorn Stegerling – Guitar
Roger Nielsen – Bass, Vocals
Andreas Albihn – Drums

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Howling Giant – Black Hole Space Wizard: Part 2

L’unione delle due parti dell’album (la prima è uscita lo scorso anno) farebbe di Black Hole Space Wizard un lavoro di culto almeno per gli amanti dei viaggi musicali.

Nashville, Tenneessee, in un anno imprecisato tra il 2010 ed il 2014, tre ragazzi furono invitati sul disco volante apparso vicino alla loro tenda.

Quando tornarono a terra, ancora sbalorditi e sopresi da quell’avventura fondarono una band chiamata Howling Giant, era il 2014 appunto.
Dopo tre anni i tre musicisti americani arrivano al traguardo del terzo ep, la seconda parte del concept Black Hole Space Wizard, un viaggio doom psichedelico tra lo spazio e la mente, ancora probabilmente in trip dopo l’esperienza sull’oggetto volante non indentificato.
Mezz’ora di musica rock traviata da allucinate atmosfere space stoner, l’album si dipana così in una lunga jam divisa in sei capitoli, sei trip, sei acidi trovati sulla nave interstellare che ha portato Tom Polzine, Roger Marks e Zach Wheeler in giro per l’universo.
Ora non si sa bene se i tre abbiano raggiunto una tale pace interiore, magari dovuta al contatto con menti superiori o perché si siano trovati al cospetto di diavolerie chimiche provenienti da un altro pianeta con effetti devastanti sulla mente, fatto sta che brani come l’opener Henry Tate o i sette minuti da viaggio mentale di Visions sono un micidiale cocktail space/psych/stoner rock da urlo di Munch.
L’unione delle due parti dell’album (la prima è uscita lo scorso anno) farebbe di Black Hole Space Wizard un lavoro di culto almeno per gli amanti dei viaggi musicali.

Tracklist
1.Henry Tate
2.The Pioneer
3.Visions
4.The Forest Speaks
5.Circle of Druids
6.Earth Wizard

Line-up
Tom Polzine – Guitar and Vocals
Roger Marks – Bass and Vocals
Zach Wheeler – Drums and Vocals

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