Et Moriemur – Epigrammata

Un tocco di solennità ed un altro di malignità per questa band ceca, che esibisceun ottimo potenziale ancora però da esprimere a pieno.

Gli Epigrammata sono dei componimenti in versi usati dai poeti latini perlopiù per elogi funebri. Su questa scia si muovono gli Et Moriemur, band della Repubblica Ceca di recente formazione, con un ep e tre full-length all’attivo (compreso quest’ultimo).

Ascoltando Epigrammata ci si trova immersi in quell’universo funebre d’altri tempi. Nonostante ciò, per tutta la durata del disco, non si avverte mai una sensazione di pesantezza o noia, e grande merito va ai musicisti in egual misura per aver creato un’atmosfera coinvolgente e a tratti magica. La solennità la fa da padrona, ma va di pari passo con una giusta dose di death/doom che rasserena gli animi più metallari all’ascolto.
Una intro molto azzeccata come Introitus spalanca le porte ad uno scenario evocativo che ha probabilmente il suo picco in Dies Irae, brano variegato ma in pieno accordo con lo stile di Epigrammata. Il monito lanciato dagli Et Moriemur assomiglia tanto ad un “memento mori”, e l’idea che si ha alla fine dell’ascolto è quella che il messaggio sia passato anche più del necessario.
Per concludere, con Epigrammata la band ceca ha calcato molto più la mano sulla magnificenza rispetto all’album precedente, datato 2014, che invece valorizzava soprattutto la loro componente death. Il risultato è di alto livello ma resta l’impressione che gli Et Moriemur esprimano il loro meglio in chiave diabolica piuttosto che sacrale. Resta da vedere se la strada tracciata con quest’album verrà proseguita oppure no, e in che modo.

Tracklist
1. Introitus
2. Requiem Aeternam
3. Agnus Dei
4. Dies Irae
5. Offertorium
6. Communio
7. Libera Me
8. Absolve Domine
9. Sanctus
10. In Paradisum

Line-up
Zdeněk Nevělík – Vocals, Keyboards
Michal “Datel” Rak – Drums
Aleš Vilingr – Guitars
Karel “Kabrio” Kovařík – Bass

ET MORIEMUR – Facebook

REESE

Il video di Perfect Waitings, dall’album Black Russian (Sorry Mom!).

Il video di Perfect Waitings, dall’album Black Russian (Sorry Mom!).

“Le attese perfette non esistono / devi solo correre il rischio”.

Questo il significato del brano, racchiuso nei primi due versi della canzone.

La canzone è un’ esortazione a credere in se stessi e a tentare di realizzarsi, uscendo dalla condizione di eterna attesa e prendendo in mano la situazione.

Il video, realizzato da Luca Sammartin di Produzioni Fantasma, è stato girato in una fredda mattinata del gennaio 2018 nei dintorni di Vicenza, città natale della band.

I REESE suonano un energico alternative rock melodico e moderno, soggetto a diverse influenze.
Dopo un primo periodo di assestamento, la band si è definitivamente formata nel 2010 a Vicenza ed ha pubblicato successivamente due demo ed un EP: “Just Human Words” (demo),”View From The Tree” (demo) e “Under The Carpet” (EP, 2013).

Nel 2014 i REESE hanno vinto alcuni contest locali (nord Italia) per band emergenti e successivamente hanno aperto anche ad artisti di fama internazionale.
Dopo un’incessante attività live, la band è stata impegnata nella realizzazione del primo full length album “Black Russian”, uscito il 27 ottobre 2017 per Sorry Mom!, dal quale sono tratti i primi due singoli “Scarecrow Soldiers” e “Perfect Waitings”, con relativi videoclip.

La band sta attualmente promuovendo l’album con una serie di date Italiane.

www.facebook.com/reesemusic

www.sorrymom.it

Altars Of Grief – Iris

Iris gode di una produzione eccellente, che ne esalta sia i toni cupi che le parti più aggressive, e favorisce quell’amalgama tra i musicisti che è uno dei segreti della riuscita di questo lavoro, senza dimenticare ovviamente l’alchimia di una band autrice dell’opera perfetta, un qualcosa che accade solo a pochi nell’arco di un’intera carriera.

I canadesi Altars Of Grief sono nati nel 2013, fondamentalmente come progetto estemporaneo per Evan Paulson e i suo compagni, per poi diventare di fatto per tutti loro la band principale nella quale convogliare ogni sforzo.

Se già il full length d’esordio forniva segnali incoraggianti sul potenziale del gruppo ed il successivo split con i Nachtterror rafforzava non poco tali impressioni, è con il meraviglioso Iris che i ragazzi dello Saskatchewan esplodono letteralmente, dando alle stampe quello che rischia seriamente d’essere in assoluto uno degli album migliori di quest’anno.
Gli Altars Of Grief non sono da considerarsi una doom band nel senso più puro del termine, visto che gli influssi black entrano pesantemente in scena a livello ritmico, creando così un’alternanza tra momenti  ruvidi ed altri relativamente melodici resa con grande fluidità e, soprattutto, sempre avvolta da una cappa di disperazione che aleggia su tutto il lavoro (il piano emotivo sul quale si snoda il disco è quello di Canto III degli Eye Of Solitude, tanto per fornire un esempio tangibile).
Del resto il concept su cui si basa Iris non lascia spazio a bagliori di ottimismo, in uno snodarsi di testi che raccontano di malattia, abbandono, morte e disincanto religioso, divenendo parte integrante e fondamentale dell’album e non solo un grazioso orpello.
La bravura della band canadese risiede appunto nel suo riuscire a sintetizzare al meglio ogni diverso aspetto di una proposta artistica curata nei particolari, esibendo anche il contributo in buona parte dei brani del violoncellista Raphael Weinroth-Browne, abile con il suo strumento a fornire quell’ulteriore tocco decadente ad un album che sovente scorre rabbioso, prima di stemperarsi in momenti di struggente malinconia.
Isolation inaugura l’opera nella maniera migliore, rivelandosi un brano di rara intensità nel quale possiamo già apprezzare l’ottima alternanza tra growl e clean vocals offerta dall’ottimo ed espressivo Damian Smith, andando a creare un percorso di dolorosa bellezza, mentre Desolation è una sorta di quintessenza del black doom, nel suo scorrere su ritmiche forsennate ma sempre intrise di quel sentire dolente che è il tratto dominante dell’intero lavoro.
La title track cambia registro, avviandosi con un incedere che ricorda le migliori band di death doom melodico ma è uno spunto che si riscontra soprattutto in tale frangente, perché le sfuriate in doppia cassa subentrano impetuose a creare quel carico di insostenibile tensione emotiva che si confà alla perfezione ad un brano nel quale il racconto trova il suo climax emotivo, evocato anche da una splendida linea chitarristica.
Qui si chiude il trittico iniziale, fatto di canzoni di un livello tale da rendere il resto dell’album impercettibilmente meno efficace ma, come detto, ciò è dovuto alla bellezza di quelle tracce, perché già Broken Hymns fa capire che l’album non scenderà mai al di sotto di quella soglia di eccellenza che gli Altars Of Grief, soprattutto nella persona del principale compositore Evan Paulson, hanno costruito con pazienza nel corso egli anni, mettendo la loro ispirazione al servizio di un sound vario ma sempre contraddistinto da un’intensità capace di fare la differenza.
I nostri fanno tesoro delle proprie radici canadesi e, così, nel loro sound possiamo trovare qualche riferimento a connazionali di un certo peso come i magnifici Woods Of Ypres, a livello musicale, mente gli Into Eternity di un album drammatico come The Incurable Tragedy, probabilmente, hanno aperto una strada importante nella costruzione di un concept terribilmente crudo, per la sua espressione dello sgomento di fronte al dolore legato alla malattia, al terrore provocato dalla paura della morte e all’angoscia derivante da tutte le incognite di un “dopo” tanto auspicato quanto temuto.
Iris gode di una produzione eccellente, che ne esalta sia i toni cupi che le parti più aggressive, e favorisce quell’amalgama tra i musicisti che è uno dei segreti della riuscita di questo lavoro, senza dimenticare ovviamente l’alchimia di una band autrice dell’opera perfetta, un qualcosa che accade solo a pochi nell’arco di un’intera carriera.

Tracklist:
1. Isolation
2. Desolation
3. Iris
4. Broken Hymns
5. Child of Light
6. Voices of Winter
7. Becoming Intangible
8. Epilogue

Line-up:
Donny Pinay – Bass, Vocals (backing)
Zack Bellina – Drums, Vocals (on track 5)
Evan Paulson – Guitars, Programming, Vocals (backing)
Damian Smith – Vocals
Erik Labossiere – Guitar, Vocals (backing)

Cello on tracks 1, 4, 5, 6 and 7 written and performed by Raphael Weinroth-Browne
Track 8, “Epilogue” written and performed by Raphael Weinroth-Browne

ALTARS OF GRIEF – Facebook

Coldawn – …In The Dawn

Questo disco è la testimonianza che il black metal può davvero sposarsi con tutto, essere un terreno fertile per molte sperimentazioni e fusioni sonore, ma soprattutto servono la fantasia ed il talento dei musicisti, cosa presente in maniera massiccia in questo caso.

Chi fa parte di una band sa quanto sia difficile provare e suonare, anche se si è vicini di casa o a distanza di pochi chilometri.

Davvero difficile immaginare come sia gestire un gruppo dislocato in tre continenti, ovvero Sudamerica, Europa e Oceania. Eppure, sicuramente grazie al fondamentale aiuto della rete, ecco qui il buon disco di debutto dei Coldawn: la band suona un black metal molto arioso e con forti innesti musicali classici, quasi un’orchestrazione, per poi esplodere in cavalcate in stile blackgaze, una definizione molto alla moda ma che rende abbastanza bene l’idea. Per capire meglio il tutto bisogna assolutamente ascoltare con attenzione questo …In The Dawn, perché racchiude in sé una grande melodia ed un grande lavoro musicale e di composizione. La visione dei Coldawn è grande e potente, questo disco è solo l’inizio di un percorso musicale che sarà fecondo, perché già ascoltando questo lavoro si viene trasportati lontano, si chiudono gli occhi e si va lontano. Il titolo è assai azzeccato, perché tutto il lavoro dà l’impressione di un qualcosa che si apre sotto le prime luci del sole, e la speranza seppur malconcia c’è ancora. I Coldawn disegnano un bell’affresco sonoro, con colori molto particolati e grande sapienza compositiva, dando l’impressione di avere molto da dire. Questo disco è la testimonianza che il black metal può davvero sposarsi con tutto, essere un terreno fertile per molte sperimentazioni e fusioni sonore, ma soprattutto servono la fantasia ed il talento dei musicisti, cosa presente in maniera massiccia in questo caso. Tre continenti, un esordio che fa sognare e che lascia molto soddisfatti.

Tracklist
1.Spectral Horizon
2.My Escape
3.The Essence
4.Only Moments
5.La Primavera No Llegara Esta Vez
6….In the Dawn
7.This: Over
8.My Destiny

Line-up
Ausk
B.
Tim Yatras
B. M.

COLDAWN – Facebook

Against Evil – All Hail The King

Ritorno con il botto per i quattro guerrieri metallici provenienti dalla lontana India, con un nuovo lavoro imperdibile per gli appassionati di heavy metal classico.

Tornano gli indiani Against Evil con il loro debutto sulla lunga distanza intitolato All Hail The King, bellissimo lavoro che segue di tre anni l’ep Fatal Assault, ep che aveva fatto conoscere il quartetto fuori dai confini della loro immensa terra.

Prodotto dalla band, che ha lasciato come in passato il compito al nostro Simone Mularoni di masterizzare e mixare il tutto ai Domination Studio, l’album continua a strabiliare gli amanti dell’heavy metal classico con una serie di brani epici, dai suoni cristallini ed assolutamente irresistibili.
La leggenda di Zoltan, tra spade, scudi e sangue, crea un’atmosfera di epico metallo che ricorda a più riprese le prime battaglie del guerriero degli Hammerfall, anche se gli eroi indiani continuano a mantenere un poco di legame con il thrash metal, genere che aveva caratterizzato il primo ep, all’interno di una valanga di melodie incastonate come diamanti sullo spartito di un album heavy metal quasi perfetto.
Una bella copertina e Jeff Loomis ad impreziosire con la sua chitarra la thrash oriented Sentenced To Death sono dettagli importanti di questa tempesta metallica, assolutamente old school, per niente originale ma entusiasmante, soprattutto se siete fans dell’heavy metal duro e puro.
I musicisti indiani ci mettono pochi minuti a convincervi che siete al cospetto di un lavoro magnifico, il tempo che l’intro Enemy At The Gates lasci spazio all’epico mid tempo di The Army Of Four, seguita dalla title track, primo inno gridato al cielo un attimo prima di buttarsi nella mischia in nome del re.
L’album non ha pause e ci trascina in un delirio di refrain, solos e cori che strappano lacrime di sangue con Stand Up And Fight! che segue la title track alla conquista della gloria eterna.
All Hail The King arriva alla fine in un attimo, lasciandoci con la voglia di ributtarci a capofitto nello scontro accompagnati dalle note che illuminano la notte insanguinata, con We Won’t Stop e Gods Of Metal.
Ritorno con il botto, quinsi, per i quattro guerrieri metallici provenienti dalla lontana India, con un nuovo lavoro imperdibile per gli appassionati di heavy metal classico.

Tracklist
1.Enemy At The Gates
2.The Army Of Four
3.All Hail The King
4.Stand Up And Fight!
5.Sentenced To death
6.Bad Luck
7.We Won’t Stop
8.Gods Of Metal
9.Mean Machine

Line-up
Siri – Vocals, Bass
Sravan – Vocals, guitars
Shasank – Guitars
Noble John – Drums

AGAINST ALL EVIL – Facebook

Pino Scotto – Eye For An Eye

Eye For An Eye è un lavoro arcigno e graffiante, fatto di hard’n’heavy duro e puro, con Pino che torna all’idioma inglese e si circonda di vecchi amici con Dario Bucca al basso e Marco Di Salvia alle pelli e il grande Steve Angarthal che, oltre a suonare la chitarra, riveste il ruolo di coautore ed arrangiatore dei brani presenti sull’album.

Pino Scotto torna in questa primavera 2018 e lo fa come se il tempo e tutte le avventure e le collaborazioni che lo hanno visto protagonista nell’ ultimo ventennio fossero state spazzate via da una tempesta magnetica che fa scorrere il tempo a ritroso fino ai gloriosi anni ottanta, quando l’hard & heavy classico e dalle reminiscenze blues era al suo massimo splendore.

D’altronde, il carismatico cantante è senza ombra di dubbio l’unica vera icona del rock tricolore, e quei temi li ha vissuti in prima persona, in principio con i Pulsar e poi con gli ormai leggendari Vanadium, ancora oggi probabilmente la band più conosciuta fuori dai confini nazionali, parlando di heavy metal e hard rock (e non me ne vogliano le molte e bravissime realtà odierne).
Un nuovo album targato Pino Scotto è quindi da considerare un evento in una scena che, aldilà dell’ottima qualità di cui si può fregiare negli ultimi anni, fatica a trovare un minimo di considerazione in un paese sempre più lontano dalla cultura rock e metal e in tempi nei quali anche la musica è ormai considerata una mera cornice alle nefandezze che riempiono il web.
Eye For An Eye è un lavoro arcigno e graffiante, fatto di hard’n’heavy duro e puro, con Pino che torna all’idioma inglese e si circonda di vecchi amici con Dario Bucca al basso e Marco Di Salvia alle pelli e il grande Steve Angarthal che, oltre a suonare la chitarra, riveste il ruolo di coautore ed arrangiatore dei brani presenti sull’album.
Con la partecipazione come ospite del bluesman Fabio Treves all’armonica, Eye For An Eye è stato registrato all’Asgardh Music Studio di Milano da Steve Angarthal, e mixato e masterizzato da Tommy Talamanca (Sadist) ai Nadir Music Studios di Genova per un risultato a dir poco straordinario, ovvero un album dal taglio internazionale che esalta con il ritorno al sound che ha reso famoso Pino Scotto.
Quasi un’ora di grande hard’n’heavy, quindi, animato da una vena blues marchio di fabbrica del rocker, una prestazione all’altezza dei musicisti coinvolti, con un Angarthal che dimostra ancora una volta il suo talento facendo piangere la sua sei corde, tra solos heavy metal che alzano la temperatura e sanguigni passaggi nei quali la mera grinta lascia spazio all’emozione provocata da un sound forgiato sul delta del grande fiume americano.
La title track, One Against The Other, la diretta Two Guns, le ballate heavy/blues Angel Of Mercy e Wise Man Tale, il rock blues di One Way Out che odora di palude limacciose, alternano classic metal, hard rock e blues in un uno scontro tra tradizione britannica e statunitense, ma con la bandiera tricolore che sventola fiera, almeno questa volta, sullo spartito di queste undici canzoni …. ancora una volta merito di Pino Scotto, e non è una novità.

Tracklist
1.Eye for an Eye
2.The One
3.One Against the Other
4.Two Guns
5.Cage of Mind
6.Crashing Tonight
7.Angel of Mercy
8.Looking for the Way
9.Wise Man Tale
10.There’s Only One Way to Rock
11.One Way Out

Line-up
Pino Scotto – Vocals
Steve Angarthal – Guitars
Marco Di Salvia – Drums
Dario Bucca – Bass

PINO SCOTTO – Facebook

Lychgate – The Contagion in Nine Steps

La terza opera della band albionica incute soggezione, non tanto per la mole quanto per la grande quantità di idee, di personalità, di suoni presenti nei sei brani; un vortice di atmosfere vincolate a un suono funeral e black molto personale, cangiante e che non ha eguali nell’attuale scena musicale.

La terza opera della band albionica incute soggezione, non tanto per la mole quanto per la grande quantità di idee, di personalità, di suoni presenti nei sei brani; un vortice di atmosfere vincolate a un suono funeral e black molto personale, cangiante che non ha eguali nell’attuale scena musicale. Sono attivi dal 2013 con l’omonima opera e nel 2015 avevano rifinito la loro idea di musica con Antidote for the Glass Pills, ma ora con questa opera raggiungono un ulteriore livello di arte.

Tutti i testi e la musica sono opera di Vortigern (J.C.Young), drummer in un vecchio progetto black greco, i The One, autori nel 2008 di un buon lavoro come I,Master, che ora suona la chitarra, mentre le vocals sono appannaggio di un grande artista come Greg Chandler (mastermind degli Esoteric); l’unione tra questi due artisti ha generato una creatura sinistra e affascinante che con questa terza opera ci lascia attoniti di fronte alla grandeur, alla magnificenza del loro suono che si nutre di tanti ingredienti per mostrare la propria forza: aromi gotici, heavy-progressive, funeral doom, black impregnano tutti i brani che sono scritti con grande ispirazione. L’uso dell’organo, del piano e del mellotron aggiunge grande potenza, maestosità e teatralità fino dall’opener Republic (per un gioco di suggestioni l’inizio mi ha ricordato il film horror del 1971 – L’abominevole dr. Phibes, con un grande Vincent Price) che incede lenta squarciata dal growl di Chandler a rivaleggiare con il suono oppressivo dell’organo. Un sound stratificato, avanguardistico, permea Unity of Opposites dove oscure linee di basso conducono la danza e permettono all’organo di ricamare suoni in sottofondo; il tocco romantico e lunare dei riff di chitarra accende Atavistic Hypnosis (brano magnifico), che si snoda per quasi nove minuti, coinvolgendo fortemente in un’atmosfera oscura e surreale. Ispirato dal libro The Invincible di Stanislaw Lew (anche i russi Below the Sun sono stati ispirati da questo autore con lo splendido Alien World del 2017) l’opera procede con gli strali dark di Hither Comes the Swarm, altro brano dove giganteggia l’organo e nel quale si assiste all’unica breve sfuriata black nel senso classico del termine, e con The Contagion, dai toni aspri e personali. La più breve Remembrance con toni corali e con una melodia carica di spiritualità chiude un’opera d’arte di gran livello, il cui ascolto è necessario per nutrire il proprio spirito di grandi sensazioni.

Tracklist
1. Republic
2. Unity of Opposites
3. Atavistic Hypnosis
4. Hither Comes the Swarm
5. The Contagion
6. Remembrance

Line-up
A.K. Webb – Bass
S.D. Lindsley – Guitars
T. J. F. Vallely – Drums
J. C. Young “Vortigern” – Guitars
Greg Chandler – Vocals

LYCHGATE – Facebook

ROME IN MONOCHROME – 27 aprile al Defrag – Roma

Kamelia Production in collaborazione con associazione Defrag è lieta di invitarvi a celebrare l’uscita di “AWAY FROM LIGHT”, primo full lenght dei capitolini Rome In Monochrome, rilasciato dalla label russa Solitude Productions.
Ad aprire la serata due band romane, gli IO e gli Agatunet, dal sound travolgente e viscerale, che prepareranno al meglio gli animi ad accogliere il melanconico, raffinato ed evocativo lavoro dei Rome In Monochrome.
Vi aspettiamo!

– ROME IN MONOCHROME (EtherealAuralDoom/Postrock)
https://www.facebook.com/romeinmonochrome/

– IO (Lavic Sludge/Doom)
https://www.facebook.com/IOfuzz/

– AGATUNET(Ambient/Black Metal)
https://www.facebook.com/Agatunet-218087364892017/

LINK EVENTO
https://www.facebook.com/events/1948772842102991/

– ESPOSIZIONI FOTOGRAFICHE
– LIVE PERFORMANCE
– DJ SET

Dark Veil Productions

ARCA PROGJET

Il video di Arca, dall’album Arca Progjet in uscita ad aprile (Jolly Roger Records).

Il video di Arca, dall’album Arca Progjet in uscita ad aprile (Jolly Roger Records).

Jolly Roger Records è orgogliosa di annunciare che l’omonimo debutto dei piemontesi Arca Progjet, nati da un’ idea di Alex Jorio (batterista Elektradrive) e Gregorio Verdun (basso) affiancati da Sergio Toya alla voce, Carlo Maccaferri alla chitarra e Filippo Dagasso alle tastiere e programmazioni, sara’ disponibile in anteprima da sabato 21 Aprile all’ Acciaio Italiano Festival 8, all’ Arci Tom di Mantova, dove la band si esibira’ insieme a Strana Officina, White Skull, Crying Steel ed altri (info sull’ evento qui). L’ album, un elegante e raffinato hard rock progressive con testi in italiano, vanta ospiti d’eccezione come Mauro Pagani (ex P.F.M. e collaborazioni con artisti come F. De’ Andre’, Timoria, Gianna Nannini, Ligabue,…), Gigi Venegoni e Arturo Vitale (Arti & Mestieri).
Di seguito disponibile il videoclip “Arca”, con Arturo Vitale al sax:

Il disco sara’ disponibile nei formati Lp (prime 100 copie vinile azzurro), Cd e Digitale.
A questo link è possibile effettuare il pre-order dal sito della Jolly Roger Records ed ascoltare 3 brani audio:
http://www.jollyrogerstore.com/release.php?id=73

“Arca Progjet” Tracklist:

1. ARCA
2. META’ MORFOSI
3. REQUIEND
4. BATTITO D’ALI
5. SULLA VERTICALE
6. NEANDERTHAL
7. CIELO NERO
8. DELTA RANDEVOUZ
9. UN. INVERSO
10. POZZANGHERE DI CIELO
11. AQUA (Cd Bonus Track)

Dopo anni bellissimi di musica condivisa insieme a Greg è giunto il momento di regalarci questo album. Il nostro percorso musicale è molto simile ed è sempre stato guidato dalla volontà e la presunzione giovanile di realizzare la nostra musica, sin dagli esordi ai tempi del liceo. Un paio di brani contenuti sono frutto di quegli anni e grazie al riascolto delle vecchie cassette abbiamo avuto modo di ricostruirli riarrangiandoli senza però alterare il sapore compositivo originale. Risalgono al 1993 le mie prime idee sul logo e sul nome ARCA che mi tormentava e la convinzione che, prima o poi , l’avrei utilizzato. Come l’Arca di Noè capace di traghettare uomini e specie animali alla ricerca di un approdo dove ricominciare, la nostra Arcanave ricerca un nuovo pianeta solcando gli spazi con il suo cargo di musica. Ed infatti il brano ARCA è stato il propulsore per tutto il progjetto. E’ stato facile coinvolgere Greg a contribuire con le sue composizioni, posso dire che era fisiologicamente pronto come del resto anche io. Con l’arrivo a bordo di Sergio e Carlo, ottimi artisti, abbiamo completato l’organico e l’ARCA ha preso il volo al cui decollo hanno contribuito anche Eroi del Prog Italiano come Mauro Pagani, Gigi Venegoni e Arturo Vitale regalandoci il loro talento. E’giunto il momento di salire a bordo con noi…buon viaggio! – Alex Jorio

Contatti:
Arca Progjet:
https://www.facebook.com/ARCA-Progjet-1822952744593772/

Jolly Roger Records
http://www.jollyrogerstore.com
https://www.facebook.com/JollyRogerRecords/

Levania – The Day I Left Apart

Il gruppo ferrarese torna con un ottimo lavoro ed un sound in parte rinnovato, spostando le coordinate del metallo dalle reminiscenze gothic metal verso un più moderno e coinvolgente dark rock che si potenzia di elettronica industriale, valorizzato da una particolare cura per arrangiamenti e produzione.

La storia dei Levania si arricchisce di un altro capitolo: il nuovo ep licenziato dalla Sliptrick Records ed intitolato The Day I Left Apart.

Il gruppo ferrarese torna con un ottimo lavoro ed un sound in parte rinnovato, spostando le coordinate del metallo dalle reminiscenze gothic metal verso un più moderno e coinvolgente dark rock che si potenzia di elettronica industriale, valorizzato da una particolare cura per arrangiamenti e produzione.
Dei Lacuna Coil in versione industrial, divisi tra atmosfere estreme e parti più danzereccie che farebbero scatenare un branco di vampiri nel club di qualche oscura metropoli del film Underworld, questi sono i nuovi Levania e quello che sprigionano questi cinque brani racchiusi in The Day I Left Apart.
Still e Fade hanno portato qualcosa del loro progetto elettro/pop Deplacement nella musica dei Levania, l’elettronica quindi prende il sopravvento ma, mentre nella musica del duo si richiamavano il dark rock e la new wave anni ottanta, qui il sound è spogliato di quell’eleganza insita nella musica oscura suonata trent’anni fa per un approccio diretto e metallico, lasciando che l’ottima voce di Ligeia duetti con il growl, per un contrasto bianco/nero sempre in primo piano nei brani che compongono l’album.
I Levania hanno fatto centro e sono pronti a spiccare il volo: Rising, opener straordinaria, apre le danze nel vero senso della parola: tappeti industriali, ritornelli gothic, synth su cui è strutturata la song, fanno parte del mood che torna nei brani successivi, con una Trace dal ritornello che è una vera bomba melanconica, i ritmi forsennati e sintetici di Dried Blood, l’irresistibile ritornello di Total Recall e via fino all’ultima nota della conclusiva Your Eyes And My Fear, brano conclusivo di questa potenziale bomba commerxiale contenente industrial, alternative, dark e gothic metal.
Il sound del gruppo si è sicuramente trasformato non poco, diventando qualcosa di più diretto, moderno, ma dalla presa che risulta fatale, specialmente per chi esce la sera con una sete di sangue da soddisfare.

Tracklist
01. Rising
02. Trace
03. Dried Blood
04. Total Recall
05. Your Eyes And My Fear

Line-up
Ligeia – Lead vocals
Still – Keyboards & Vocals
Richie – Guitars
Fade – Bass
Markus – Drums

LEVANIA – Facebook

Letters From The Colony – Vignette

Un lavoro assolutamente in grado di soddisfare solo chi ama per la tecnica fine a se stessa: i Letters From The Colony sono molto bravi ma non riescono a provocare nessuna emozione.

La Nuclear Blast negli ultimi tempi sembra divertirsi ad alternare ottimi album licenziati da vecchie volpi del metal estremo e nuove promesse, per poi licenziare album sinceramente bruttini come l’esordio del combo svedese Letters From The Colony, intitolato Vignette.

Accompagnato da una copertina vintage che raffigura il cervo nobile, presente in molte leggende nord europee, Vignette non è altro che il solito cervellotico e alquanto pachidermico lavoro di progressive moderno e djent, debitore nei confronti dei Meshuggah, con parti più estreme e intricate ad altre atmosferiche che smorzano la tensione dei brani, una formula trita e ritrita che la band svedese sa strutturare a dovere, ma che risulta glaciale.
Che i musicisti impegnati in questo lavoro sappiano suonare è fuor di dubbio, la tecnica esposta per tutta la durata dell’album è di alto livello, ma come spesso accade in questo genere va ad inficiare la fruibilità delle composizioni.
Meshuggah, Gojira e compagni di merende estreme sono i nomi a cui i Letters From The Colony fanno riferimento, in un lavoro che purtroppo rimane avvinghiato a stilemi abusati e che non decolla, trasformando il leggendario cervo in copertina in un mastodontico e stanco mammut che si trascina stanco e si accascia morente quando le ultime note della title track chiudono l’album.
Un lavoro assolutamente in grado di soddisfare solo chi ama per la tecnica fine a se stessa: i Letters From The Colony sono molto bravi ma non riescono a provocare nessuna emozione.

Tracklist
01. Galax
02. Erasing Contrast
03. The Final Warning
04. This Creature Will Haunt Us Forever
05. Cataclysm
06. Terminus
07. Glass Palaces
08. Sunwise
09. Vignette

Line-up
Alexander Backlund – Vocals
Sebastian Svalland – Guitar
Johan Jönsegård – Guitar
Emil Östberg – Bass
Jonas Sköld – Drums

LETTERS FROM THE COLONY – Facebook

Beyond the Wall of Blues: Jack Bruce e Ginger Baker dopo i Cream

Dopo lo scioglimento dei Cream, a fine anni Sessanta, secondo molta stampa specializzata e diversi giornalisti rock, Jack Bruce e Ginger Baker – rispettivamente basso e batteria, si sa, della band che rese famoso Eric Clapton – avrebbero disperso il proprio genio, in una miriade di dischi solisti e di troppi progetti, fra loro stilisticamente disomogenei.

Questo, almeno, quel che fin da allora di solito si dice. Forse, però, la verità può essere anche un’altra. E la parola chiave per accedervi, al posto di dispersività – potrebbe risultare versatilità musicale. O anche intraprendenza artistica. Proviamo qui a riscrivere, pertanto, una storia che si crede a torto esser nota. O, peggio ancora, sepolta.
Cominciamo da Jack Bruce: l’effervescente e talentuoso bassista, che suonava il proprio strumento come fosse una chitarra, iniziò la carriera solista con Things We Like, passando dal British Blues al neonato Jazz Rock davisiano. Per il disco, uscito nel 1970, volle non casualmente alla chitarra l’astro nascente John McLaughlin, di lì a poco fondatore della Mahavishnu Orchestra. L’anno dopo (1971), Bruce lavorò con John Marshall, ex batterista dei Nucleus (poi nei Soft Machine). L’intenzione era chiara: portare avanti e nello stesso tempo oltrepassare, in direzione fusion, l’eredità di Bluesbreakers, Cream e John Mayall. Ad ogni buon conto, Bruce non dimenticò del tutto il rock, partecipando al classico Berlin di Lou Reed (1973), grande capolavoro di art-glam sinfonico-orchestrale del decennio, e dando vita con Leslie West e Corky Laing dei Mountain ad un sodalizio molto più hard rock (indimenticabile la calda performance di Live ‘n’ Kickin’, nel 1974). Il sentiero da percorrere, anzi la strada maestra, era tuttavia per Bruce quella del jazz rock, sia quello mutante e provocatorio di Frank Zappa (Overnite Sensation, uscito nel 1973 con la collaborazione, tra gli altri, di Jean-Luc Ponty al violino) sia nelle vesti di solista (il suo nome del resto lo precedeva insieme alla fama). Videro così la luce due dischi che la critica ha sbagliato grossolanamente a voler dimenticare in fretta: How’s Tricks (registrato nel 1976, pubblicato nel 1977) e Jet Set Jewel (1978), due ottimi lavori di fusion settantiana, incisi con il ricercatissimo drummer Simon Phillips e con un tastierista tanto abile quanto sempre sottostimato e sacrificato a più altisonanti nomi, Tony Hymas (poi con Jeff Beck, negli anni Ottanta). Né Bruce si fermò qui, collaborando nel 1979 con il grande sassofonista inglese John Surman, in quegli anni (anche nei SOS e con Terje Rypdal) impegnato a individuare inediti punti di contatto tra il free jazz nordeuropeo e l’elettronica tedesca.

Nel 1980, Bruce – insieme a Billy Cobham ed al tastierista David Sancious (autore, con A Forest of Feelings, di uno dei più bei dischi di space prog americano di sempre) – licenziò il fenomenale I’ve Always Wanted to Do This, un capolavoro assoluto di hard/fusion, un album da ritenere giustamente storico: fresco e fantasioso, tecnico e potente, melodico e ritmico (lo si ascolti nella ristampa della Esoteric). Nel 1981, con Allan Holdsworth ed altri, Bruce fu poi nei riformati Soft Machine di Land of Cockayne, altro lavoro da riscoprire, senza pregiudizi o paraocchi. Sempre nel 1981, Bruce suonò il basso nel fantastico Tilt di Cozy Powell, ancora una volta tra hard e fusion – i suoni sono molto alla Jan Hammer – con il validissimo apporto di Sancious alle tastiere.
Gary Moore, nel 1982, volle quindi Bruce bassista (insieme a Neil Murray, ex Gilgamesh e futuro Black Sabbath) nel suo eccellente Corridors of Power: per l’ex Cream fu l’occasione di ritornare al blues e in particolare all’hard rock metallizzato di scuola britannica. Nel medesimo anno Bruce ebbe anche modo di scoprire le nuove tecnologie elettroniche allora imperanti nel Regno Unito (erano gli anni di gloria del synth-pop): dapprima collaborò infatti con l’ex vocalist degli Yes, Jon Anderson, al suo Animation, gioiellino di new wave sintetica (1982), e di lì a breve fornì la propria versione del pop elettronico con l’album solista Automatic (1983), realizzato con i fedeli Hymas e Phillips: molto progressive in certe aperture, che conservano ancora oggi intatto tutto il loro fascino e non perdono soprattutto mai di vista l’anima rock di fondo (a differenza di quanto accadde allora a molti).
Ancora nel 1983, Bruce partecipò insieme ad un altro immenso bassista, Jeff Berlin, a Road Games, mini-LP di Holsdworth, successivamente rinnegato dall’autore. Tutte queste collaborazioni, tuttavia, lo confermavano, al di là della classe fuori discussione, come un session-man non appariscente. Al quel punto, il suo migliore disco solista restava forse Out of the Storm, apparso nel novembre 1974, per la RSO, impreziosito dalla splendida chitarra di Steve Hunter (Detroit, Alice Cooper, Lou Reed fra i tanti). Seguirono dunque sei anni anni di ritiro dalle scene, di solitudine e di problemi. Solo nel 1989 il bassista scozzese ne uscì, tornando alla grande al suo maggiore amore, il jazz rock, con lo stupendo A Question of Time, affiancato da uno stuolo di musicisti illustri, tra i quali gli amici Allan Holdsworth e Tony Williams: il disco è moderno e tradizionale insieme, attestazione di coerenza e integrità artistica, dall’altissimo spessore qualitativo. In seguito, prima che la morte ce lo strappasse, nel 2014, il lavoro migliore di Bruce è stato, probabilmente, Moonjack (1995), un particolare funk sperimentale per sole tastiere, non privo di reminiscenze mutuate dai Manfred Mann o dai Lifetime dei tempi che furono. Assai interessante altresì la partecipazione a Industrial Zen (2006) di John Mc Laughlin, manifesto della nuova fusion del terzo millennio, con scenari digitali e campionatori Hi-tech, freddi sintetizzatori Yamaha ed ospiti illustri: Bill Evans (Miles Davis), Gary Husband (Level 42) e Vinnie Colaiuta (Zappa). In questo disco, Bruce mette in mostra un variopinto suono ottantiano e brillanti passaggi di basso alla Jaco Pastorius (periodo Weather Report e Word of Mouth). Il degno epitaffio d’una carriera superba.
Dal canto suo, scioltisi i Cream, Ginger Baker, uno dei big five della batteria del Novecento (insieme naturalmente a John Bonham, Tony Williams, Keith Moon e Neil Peart), si buttò prima nei Blind Faith (1969), quindi fondò i suoi Air Force: due grandi dischi di jazz rock nel 1970 (tre con il postumo Live in Offenbach) e ben tre sassofonisti in formazione. Tra il 1971 e il 1972, mentre stava lavorando alla realizzazione del suo esordio da solista con Stratavarius, l’eclettico e formidabile batterista fece la conoscenza di Fela Kuti e con quest’ultimo realizzò tre lavori che di fatto crearono l’afro-beat, sorta di ponte tra Oriente e Occidente, tra rock e Africa, armonizzazioni anglo-americane e ricerche ritmiche sincopate: a dire poco storico il Live che i due incisero in particolare nel 1972: qui il batterista dei Blues Incorporated di Alexis Korner e dei Cream riportava letteralmente a casa il retaggio di Art Blakey, Elvin Jones e Max Roach, aprendosi con ciò alle modalità strumentali dei percussionisti africani, coadiuvato dalla chitarra elettrica di Peter Animasbaun e da una nutrita sezione fiati, che dialoga con i poliritmi delle congas, riscoperte in quegli anni anche da Santana.
Nel 1973 Baker suonò la batteria in Band on the Run dei Wings di Paul McCartney e l’anno dopo si buttò in un nuovo super-gruppo, i Baker Gurvitz Army, con ex membri di Gun e Three Man Army: il primo disco, uscito per la Vertigo nel 1974, offre un entusiasmate ed incandescente hard prog, tra i migliori di tutto il decennio, autenticamente spettacolare e libero dai vincoli commerciali. Aiutati dal cantante Snips (ex Sharks) e dal geniale tastierista-sintetista fusion Peter Lemer (Seventh Wave e Gong) al mini-moog, i BGA registrarono successivamente il più blues Elysian Encounters (1975) e il più melodico Hearts on Fire (1976), ambedue per la piccola Mountain Records. Si sciolsero per lo scarso successo incontrato.

Nel 1979, Baker entrò a far parte dei rinati Atomic Rooster di Vincent Crane e nel 1980 degli space-rockers Hawkwind, nel magnifico Levitation. Uscito tuttavia dal gruppo di Dave Brock, il batterista si ritirò a vita privata, riemergendone solo anni dopo, in Album (1986) dei Public Image Limited del funambolico John Lydon, che lo volle membro di una vera all-star band, comprendente Steve Vai alla chitarra, Bill Laswell al basso, Ryuichi Sakamoto alle tastiere, Ravi Shankar al violino e Tony Williams alla seconda batteria. Fu in quell’occasione che Baker, conosciuto Laswell, decise di voler collaborare con lui nel progetto newyorkese No Material (1989): un album dal vivo, davvero molto post, intriso di funk obliquo e dissonante, destrutturato e a tratti quasi atonale (collabora non a caso il sassofonista Peter Brotzmann, alfiere del più coraggioso free jazz tedesco (altri nomi al riguardo: Anima e Annexus Quam, sia detto per inciso).
Per il resto, Ginger Baker ci ha lasciato numerosi dischi solisti, nessuno dei quali in verità davvero indimenticabile. Sono rimaste invece realmente nella memoria le sue infuocate esibizioni dal vivo a Monaco di Baviera (1972 e 1987), Berlino (1978) e Milano (1980 e 1981), oggi tutte ristampate su CD e pertanto di nuovo disponibili. Concerti davvero indescrivibili, da avere a tutti i costi. Inoltre, Baker ha collaborato anche con Bill Frisell, Andy Summers, Jens Johansson (Silver Mountain, Dio, Malmsteen, Stratovarius, Mastermind, Allan Holdsworth e Rainbow) e BBM (in trio, con il grande Gary Moore e l’amico ritrovato Jack Bruce). L’ultimo grande disco di Ginger Baker resta senz’altro African Force (2001), capace di riprendere e portar avanti, a ormai trent’anni di distanza, il discorso avviato tempo addietro con il nigeriano Fela Kuti. E dimostrando quanto il connubio rock e Africa, tutt’oggi, abbia ancora da dire e da dare. I pezzi di African Force attualizzano altresì il messaggio di Peter Green (End of the Game, 1970) e di Stuart Copeland (l’estroso The Rhythmatist, 1985), due dei musicisti britannici che tra i primi precedettero (Green) e seguirono (Copeland) la via indicata da Baker e Kuti. Né si possono o devono dimenticare, al riguardo, i concerti tenuti in Zaire nel 1974 da James Brown. A proposito di Kuti, va infine rammentato che mentre Baker si rivolgeva al post-punk e alla dark-wave eterodossa dei PIL, nel 1986, il musicista africano si esibiva a Detroit con gli Egypt 80, continuazione ed aggiornamento di quanto fatto con l’ex batterista dei Cream nel 1971.

Gnaw Their Tongues – Gendocidal Majesty

L’olandese Mories sforna sempre cose interessanti e potentissime, visioni allucinate di un tempo sospeso dove tutto è possibile, un’esperienza che vale la pena fare, tenendo sempre presente che non si tratta di musica, ma un canale dimensionale.

Musica estrema e realmente disturbante, fatta per dare fastidio ed irritare, non certo per intrattenere o altre facezie.

Gnaw Their Tongues, aka Maurice “Mories” De Jong, l’uomo che sta dietro al progetto, è una firma affermata nel panorama estremo ed è un nome che ha un fortissimo e fedelissimo seguito, che ne ama le intemperie. Non è nemmeno esatta la definizione di ascolto per la musica di Gnaw Their Tongues, perché queste frequenze che producono sono un qualcosa che va ben oltre i comuni stilemi musicali, è un’esperienza sonora da vivere fisicamente. Il nostro stomaco e le nostre orecchie vengono messe sottosopra da questo dispiegamento di demoni in forma sonora, come se si aprisse un varco fra noi ed un dimensione differente, non propriamente benevola. Non si può affrontare facilmente Genocidal Majesty, e non è nemmeno nelle intenzioni dell’autore. Questa musica, se così si può definire, non è per tutti né vuole esserlo, la sua missione è far provare paura e smarrimento, non certo piacere o empatia, anzi qui è consigliabile non provare nessuna empatia sennò si impazzisce. Ogni lavoro di Gnaw Their Tongues è un ritorno al passato ancestrale e primitivo dell’uomo, dove la paura era un motore primo del nostro cervello, e ciò ci viene ricordato dal nostro cervello rettile. Genocidal Majesty è la colonna sonora di un massacro, lacerazioni e morte, una dimensione dove i demoni sono finalmente liberi. L’olandese Mories sforna sempre cose interessanti e potentissime, visioni allucinate di un tempo sospeso dove tutto è possibile, un’esperienza che vale la pena fare, tenendo sempre presente che non si tratta di musica, ma un canale dimensionale.

Tracklist
1.Death Leaves the World
2.Spirits Broken by Swords
3.Genocidal Majesty
4.Ten Bodies Hanging
5.The Doctrine of Paranoid Seraphims
6.Cold Oven
7.The Revival of Inherited Guilt
8.To Bear Witness to the Truth
9.Void Sickness

Line-up
Mories: all sounds

GNAW THEIR TONGUES – Facebook

Crone – Godspeed

Godspeed è un buonissimo disco, tutto da godersi anche per la sua orecchiabilità, a patto di non farsi condizionare dal fatto che vi è coinvolto l’autore di Sun; fatta questa necessaria operazione, l’ascolto fluirà più naturale e soddisfacente.

Ritrovare Phil Jonas “sG”, leader dei Secrets of the Moon, alle prese con un progetto progressive avrebbe potuto sorprendere diversi anni fa, ma di sicuro ciò non accade oggi, alla luce dell’evoluzione che nell’ultimo decennio ha visto la sua band principale evolvere da un black metal già di suo inquieto fino ad una forma che, almeno a livello di intenzioni, non e poi così lontana da quanto offerto con i Crone, a cui nome del resto era già uscito un primi album nel 2014.

In ogni caso, non avendo idea di quali siano le mosse previste per il prossimo lavoro dei Secrets of the Moon, credo che comunque il musicista tedesco abbia fatto bene fin da subito a riversare in un differente contenitore pulsioni che comunque non hanno alcun richiamo al metal.
L’operazione riesce in virtù del talento innato del nostro e della sua spalla musicale in tale frangente, Markus Renzenbrink (Embedded), anche se le brillanti intuizioni che hanno reso Sun uno dei dischi migliori degli ultimi anni qui vengono edulcorate, lasciando spazio ad un rock che alterna passaggi più malinconici e soffusi in quota Katatonia e affini ad altri più nervosi che costituiscono un ideale trait d’union tra i Secrets of the Moon ed i Crone.
Tra questi ultimi spicca senz’altro una traccia come Leviathan’s Lifework, dotata non solo di un buon tiro ma anche di ottimi passaggi chitarristici e nel complesso di linee melodiche più decisamente memorizzabili, mentre le più morbide e melodiche The Ptilonist, Mother Crone (un hard rock radiofonico con un testo splendido) e la conclusiva e lunga title track scorrono via leggere ma lasciando sensazioni oltremodo gradevoli.
Va detto che l’album, benché non sia un concept vero e proprio, a livello lirico tratta di argomenti tutt’altro che divertenti raccontando ogni volta di morti avvenute in circostanze particolari, alcune drammatiche (vedi il suicidio di un padre con la sua bambina in Mother Crone o il ben noto ritrovamento del piccolo profugo siriano sulla spiaggia turca di Bodrum in The Perfect Army),  altre a modo loro grottesche (l’esplosione accidentale di chi stava evidentemente preparando una attentato, in Leviathan’s Lifework, o quella del pioniere del paracadutismo Franz Reichelt avvenuta lanciandosi dalla Torre Eiffel, in The Ptilonist), il tutto però ammantato da sonorità tutt’altro che drammatiche ma semmai appena velate di malinconia.
Godspeed è un buonissimo disco, tutto da godersi anche per la sua orecchiabilità, a patto di non farsi condizionare dal fatto che vi è coinvolto l’autore di Sun; fatta questa necessaria operazione, l’ascolto fluirà più naturale e soddisfacente.

Tracklist:
1. Lucider Valentine
2. The Ptilonist
3. Mother Crone
4. The Perfect Army
5. Leviathan’s Lifework
6. H
7. Demmin
8. Godspeed

Line-up:
Pascal Heemann – Guitars / Vocals
Markus Renzenbrink – Drums / Guitars / Vocals
Phil “s G” Jonas – Vocals / Guitars
Daniel Meier – Bass Guitars / Vocals
Guest:
Job “Phenex” Bos – Keyboards / Organs

CRONE – Facebook

Lumnos – Ancient Shadows Of Saturn

Lumnos imprime alla sua musica una forza notevole, andando oltre il concetto di black metal atmosferico qui ampiamente superato per un qualcosa di nuovo e di ancora più avanti come concetto.

Black metal che si unisce ad una musica dal respiro cosmico, e qui la musica del male diventa uno fra gli elementi in gioco, non il più importante, perché l’attenzione deve essere catturata dall’insieme.

Lumnos è un progetto di Breno aka Putrefactus, un brasiliano che suona molte cose, e che ha diversi progetti musicali in piedi, tra i quali Lumnos per l’appunto. Questo disco è il suo esordio con questo nome, e per l’occasione ha arruolato per incidere B.M. dai Sky Forest and Unknown dai Lost Sun, i quali danno un buon valore aggiunto all’opera. Il disco è un viaggio cosmico, lento e poderoso verso pianeti lontani, la meta non è importante, la cosa fondamentale è gustarsi il viaggio. Lumnos imprime alla sua musica una forza notevole, andando oltre il concetto di black metal atmosferico, qui ampiamente superato per un qualcosa di nuovo e di ancora più avanti come concetto. I sintetizzatori e il piano hanno un ruolo molto importante, e il black metal è la base per partire verso nuovi orizzonti musicali, alcuni passaggi sono quasi orchestrali e forse con il supporto di un’orchestra il disco sprigionerebbe una potenza ancora maggiore. Nonostante questo la sua spazialità è immensa, il suono è anche molto intimo e potrebbe essere un sottofondo per meditare, totalmente slegati dalla zavorra della nostra quotidianità, soli con l’arma più potente che abbiamo : il nostro pensiero. Le tracce sono cinque e tutte di lunga durata, e ciò grazie alla bravura di Breno diventa un pregio e non un difetto, perché ci si immerge davvero in questo spazio immenso. L’elettronica si bilancia perfettamente con il black metal e con la parte più classica, in un modo al quale molti hanno accennato, ma che solo qui si compie pienamente. Un disco rarefatto e di una delicatezza incredibile, al contempo forte e poderoso come un corpo umano che tenta di rimanere attaccato al suo pensiero ormai volato lontano. Un esordio molto positivo, una prova che va ascoltata molte volte e ogni volta mostrerà una faccia diversa: una scelta azzeccata per l’esordio della sublabel della Avantgarde Music, la Flowing Downward.

Tracklist
1.I am Born From a Star
2.Primordial Darkness
3.Ancient Shadows of Saturn
4.No Soul Is Near
5.Existentialism
6.Crystal Clouds, Diamond Sun (Bonus Track)

LUMNOS – Facebook

Škan – Death Crown

Come avrà modo di scoprire chi vorrà ascoltare Death Crown, l’idea di black metal negli Škan è ben più ampia e variegata in virtù di un sound in continua trasformazione ed evoluzione.

Per fortuna non sempre la musica segue percorsi predefiniti: per esempio non era per nulla prevedibile ascoltare sonorità di questo tipo da una band texana inserita nell’ampio calderone del black metal.

Gli Škan, in realtà, partono da quella base stilistica per diramare la loro proposta verso territori molti lontani anche per immaginario da quelli normalmente battuti da chi proviene da oltreoceano.
Non sono quindi impronte cascadiane quelle che risultano impresse in Death Crown, bensì meno visibili ma più profonde tracce di uno spirito inquieto che molto attinge in tal senso nella cultura dei nativi americani fin dal monicker: da questo ne deriva un sound che mostra diversi volti, da quelli più introspettivi (che sono la maggioranza) a quelli più robusti che sono sovente lanciati su ritmi medi e inframezzato da ottimi passaggi di chitarra solista.
Anche per questo la definizione di band dedita al black death sta un po’ stretta agli Škan, i cui intenti per volere del leader Joseph Merino sono ben più ampi sia dal punto di vista musicale che concettuale: se Death Crown può sembrare una canonica sfuriata black metal, sebbene arrivi dopo un intro che già promette sonorità poco convenzionali, la sua parte finale ci dice già che da ogni brano della band è lecito attendersi variazioni di ritmo e di atmosfere, tanto più che le diverse tracce sono collegate tra loro a creare una sorta di continuum sonoro, che sfocia poi in un brano magnifico come The Womb, dove predomina un suono di chitarra molto particolare inserito in un contesto dai tratti psichedelici.
La stessa Iron & Blood si muove su coordinate molto simili prima di sfociare nei due brani più lunghi dell’album, Father Qayin, per certi versi la canzone più ritmata e immediata del lotto, e For The Love Of Death, nella quale vengono ancora disegnate pennellate chitarristiche struggenti che conducono al termine di un disco bellissimo e sorprendente, non tanto per un suo insito carico innovativo quanto per la capacità di Merino e soci di mutare le carte in tavola senza perdere mai di vista la propria idea di metal; come avrà modo di scoprire chi vorrà ascoltare Death Crown, questa è infatti ben più ampia e variegata in virtù di un sound in continua trasformazione ed evoluzione nel corso dell’album.
Uno splendido lavoro, consigliato a prescindere dagli steccati di genere

Tracklist:
1. Initium
2. Death Wish
3. A Mort
4. The Womb
5. Au Dela
6. Iron & Blood
7. Father Qayin
8. For The Love Of Death

Line-up:
Joseph Merino – Guitars, Vocals
David Baxter – Drums
Rob Zim – Bass
Ron van Herpen – Guitars

SKAN – Facebook

LA BOTTEGA DEL TEMPO A VAPORE

Il lyric video di Urla e Perdonami, dall’album Viaggi InVersi in uscita a fine aprile (Revalve Records).

Il lyric video di Urla e Perdonami, dall’album Viaggi InVersi in uscita a fine aprile (Revalve Records).

Già disponile l’anteprima dell’intero album su: https://player.believe.fr/v2/3615930864515

http://www.revalverecords.com/LaBottegaDelTempoAVapore.html
https://www.facebook.com/laBottegadelTempoaVapore/
http://www.labottegadeltempoavapore.it

The Grotesquery – The Lupine Anathema

Meno gotico del precedente lavoro, che viveva di atmosfere horror, The Lupine Anathema si attesta su un death metal tradizionale, più diretto che in passato anche non mancano se rallentamenti al limite del doom.

Archiviata la Coffin Born Trilogy con la quale i The Grotesquery si sono lanciati sul mercato estremo, era ora che Rogga Johansson e Kam Lee tornassero a raccontare di storie dell’orrore ispirate dal mondo dell’occulto, del paranormale e da due leggende della letteratura di genere come H.P Lovecraft ed Edgar Allan Poe.

Il primo capitolo di quella che dovrebbe diventare anch’essa una trilogia si intitola The Lupine Anathema e racconta di licantropia ed altre bestialità.
Squadra che vince non si cambia, così dopo la firma con la Xtreem Music, Johansson e Lee, accompagnati dalla coppia Grand Master J. Berglund al basso e Notorious B. Helgetun alle pell,i tornano con il loro death metal old school che amalgama spunti di scuola americana con chitarre marcatamente scandinave per uno dei più riusciti esempi di genere in circolazione.
Meno gotico del precedente lavoro, che viveva di atmosfere horror, The Lupine Anathema si attesta su un death tradizionale, più diretto che in passato anche se con rallentamenti al limite del doom, ululati bestiali e terrore primitivo ad animare la raccolta di brani che da Under the Curse of the Full Moon non smette un attimo di regalare metal di spessore.
Advent of the Werewolves, Dark Cry Of The Wolf, Ithaqua the Wind Walker, dall’atmosfera intrisa di sangue, richiamano vecchi film in bianco e nero, mentre Lee è il licantropo che sfida la Luna prima dell’inesorabile trasformazione.
La band continua a non fare prigionieri e il suo death metal classico, pregno di atmosfere decadenti e orrorifiche non perde un colpo, lasciando alla conclusiva Bloodcurdling Tales il compito di darci appuntamento al prossimo capitolo della nuova saga targata The Grotesquery, da non perdere per nessun motivo.

Tracklist
1.Under the Curse of the Full Moon
2.By Feral Ways
3.Wrath of the Garvulves (By the Eyes of Moonlight)
4.Advent of the Werewolves
5.The Faceless God
6.As Death Dies
7.The Beast of the Bayou (Night of the Rougarou)
8.Dark Cry of the Wolf
9.Ithaqua the Wind Walker
10.Bloodcurdling Tales

Line-up
Herr R. Johansson – Guitars
Master K. Lee – Vocals
Grand Master J. Berglund – Bass
Notorious B. Helgetun – Drums

THE GROTESQUERY – Facebook

Drakkar – Cold Winter’s Night

Cold Winter’s Night ci presenta i “nuovi” Drakkar, una band che ha ancora molto da dire nel panorama metallico tricolore: godetevi dunque questi tre nuovi brani e mettetevi seduti sul molo ad aspettare, il vascello Drakkar è salpato e presto lo scorgerete all’orizzonte.

Ha tutta l’aria di un nuovo inizio per i Drakkar questo nuovo ep di quattro tracce intitolato Cold Winter’s Night, che segue di tre anni l’ottimo Run With The Wolf, ultimo lavoro sulla lunga distanza per il gruppo milanese.

Nome storico della scena tricolore, i Drakkar salparono per il Valhalla metallico a metà degli anni novanta, anni in cui ad affiancare i gruppi stranieri (Gamma Ray, Stratovarius) nel ritorno in auge del metal classico, si fece avanti pure la scena italiana con Domine, Rhapsody e Labyrinth ed appunto la band lombarda, dal sound più orientato verso il power metal teutonico.
Questo nuovo lavoro presenta un gruppo rinnovato per tre quinti, con Marco Rusconi (chitarra), Simone Pesenti Gritti (basso) e Daniele Ferru (batteria), ad affiancare i membri di lungo corso Dario Beretta (chitarra), Davide Dell’Orto (voce) ed Emanuele Laghi (tastiere): ecco perché parliamo di nuovo inizio, per una band con ormai più di vent’anni d’attività.
L’ep, licenziato dalla My Kingdom Music, prevede una versione in vinile con tre brani inediti e la cover di Rainbow In The Dark dei Dio, mentre sul cd e nella versione digitale la bonus track troviamo Invincible, brano live registrato al The Born To Fly Festival lo scorso anno.
La title track apre l’album con melodie pianistiche che portano ad una power ballad dal  potente refrain, ma Black Sails scatena cori power, in  quanto episodio epico e veloce in puro stile Drakkar.
Leviathan Rising (Death From The Depths – part 1) è il brano top di questo ep, ed alterna parti veloci ad altre più dilatate, sostenute da tastiere che intavolano ricami progressivi e accompagnate da chitarre incendiarie e da una prestazione graffiante del bravo Dell’Orto al microfono.
Cold Winter’s Night è un buon modo per tornare in pista, presentandoci i “nuovi” Drakkar, una band che ha ancora molto da dire nel panorama metallico tricolore: godetevi dunque questi tre nuovi brani e mettetevi seduti sul molo ad aspettare, il vascello Drakkar è salpato e presto lo scorgerete all’orizzonte.

Tracklist
12″ Vinyl version tracklist:

01. Cold Winter’s Night
02. Black Sails
03. Leviathan Rising (Death From The Depths – part 1)
04. Rainbow In The Dark (Dio cover – bonus track for the vinyl version)

CD/Digital Version tracklist:

01. Cold Winter’s Night
02. Black Sails
03. Leviathan Rising (Death From The Depths – part 1)
04. Invincible (Live At The Born To Fly Festival, 11-11-2017) (bonus-track for digipackCD and digital versions)

Line-up
Dario Beretta – Guitar
Dave Dell’Orto – Vocals
Emanuele Laghi – Keyboards
Marco Rusconi – Guitar
Simone Pesenti Gritti – Bass
Daniele Ferru – Drums

DRAKKAR – Facebook

childthemewp.com