Hundred Year Old Man – Breaching

Breaching non è un lavoro molto semplice da assimilare e la sua durata vicina all’ora rende il tutto ancor più impegnativo, ma anche gratificante per chi apprezza certe sonorità.

Dopo aver parlato nello scorso inverno dell’ep Black Fire, ritroviamo i britannici Hundred Year Old Man alle prese con il loro primo full length,

Da quel lavoro la band di Leeds mutua sia il brano omonimo sia Disconnect, presentando altre sei tracce inedite, tre delle quali sono pregevoli episodi di matrice ambient, mentre The ForestLong Wall e Ascension mettono in mostra quello sludge post metal disturbato da inserti dronici e ben poco propenso a lasciare spazio agli accenni melodici nei quali ci eravamo imbattuti qualche mese fa.
Va detto che proprio il brano conclusivo, però, al di là delle vocals straziate, si muove su tempi più ragionati andando a creare un’interessante dicotomia tra lo sviluppo del sound e, appunto, l’uso della voce.
Il risultato finale è un album che tiene fede alle aspettative, fornendo comunque buona continuità alla precedente produzione e andando a collocare gli Hundred Year Old Man tra le realtà di sicura prospettiva nella scena europea.
Breaching non è ovviamente un lavoro molto semplice da assimilare e la sua durata vicina all’ora rende il tutto ancor più impegnativo, ma anche gratificante per chi apprezza tali sonorità.

Tracklist:
1 Breaching
2 Black Fire
3 The Forest
4 Clearing The Salients
5 Long Wall
6 Disconnect
7 Cease
8 Ascension

Line-up:
Aaron Bateman
Paul Broughton,
Steve Conway
Owen Pegg,
Dan Rochester-Argyle
Tom Wright

HUNDRED YEAR OLD MAN – Facebook

Dreamfire – Atlantean Symphony

Opere come queste si possono sicuramente considerare fuori dal tempo, avvicinatevi con cautela se non avete ben in mente di cosa vi troverete di fronte, e crogiolatevi nelle atmosfere e sfumature di Atlantean Symphony se questo tipo di musica è un vostro ascolto abituale.

Questa misteriosa band di cui si conosce pochissimo è un entità strumentale attiva dalla fine del secolo scorso, oltre a questo album ha negli anni riproposto brani con l’aiuto del supporto di video tratti da Star Wars e Games Of Throne, ma ad oggi Atlantean Symphony rimane l’unico album, licenziato in varie versioni dal 2012.

Quest’anno tocca alla Minotauro Records che, dopo la firma con Dreamfire , ristampa l’album rimasterizzandolo completamente, con l’aggiunta di un paio di bonus tracks (una nuova versione di An Epitaph Engraved In Water e una propria versione di  The Rains Of Castamere di Ramin Djawadi) ed una nuova copertina: musica ambient, colonna sonora per epici film dove lunghi viaggi in terre inesplorate o nei misteri dell’universo fungono da immagine per questi quattordici magici brani, difficili da digerire se non si è in confidenza con questo tipo di suoni.
Consigliato dunque a chi maneggia con cura musica ambient, Atlantean Symphony regala visioni mistiche ed epiche, con il suono di tastiere e synth che creano atmosfere epiche e magniloquenti in un contesto fuori da ogni tipo di reminiscenza metal.
Un’ora immersi in un mondo parallelo dove all’orizzonte si intravedono i fuochi della battaglia appena conclusa dominati da un cielo grigio di fuliggine e dal mare che lambisce le rive rosse dal sangue dei guerrieri caduti.
Un modo per vivere una storia solo con la forza della musica che, magicamente, apre il cinematografo della vostra mente e vi trasporta nel mondo di brani come Embraced By The Light Of The Final Dawn o A Reflection Of Rebirth Through The Eye Of Forlorn.
Opere come queste si possono sicuramente considerare fuori dal tempo, avvicinatevi con cautela se non avete ben in mente di cosa vi troverete di fronte, e crogiolatevi nelle atmosfere e sfumature di Atlantean Symphony se questo tipo di musica è un vostro ascolto abituale.

Tracklist
1 – Across The Ageless Ocean
2 – Approaching Atlantean Monoliths
3 – Embraced By The Light Of The Final Dawn
4 – The Opening Of Eternity
5 – A Reflection Of Rebirth Through The Eyes Of The Forlorn
6 – Into The Temple Of The Elements
7 – (Immersion Into) The Azure Mirror Of Infinity
8 – Tears Of The Enlightened
9 – Of Grandeur And Fragility
10 – A Timeless Lamentation Carried Upon The Storm
11 – Through Fire Into Legend
12 – An Epitaph Engraved In Water
13 – The Rains Of Castamere
14 – An Epitaph Engraved In Water MMXVIII

DREAMFIRE – Facebook

Vesta – Vesta

I Vesta ci spiegano, portandoci le prove, del perché il post rock sia un genere molto bello se fatto bene come lo fanno loro.

I Vesta sono un trio viareggino di post rock e molto altro, dal bel tiro musicale per un disco che vi renderà devoti di questo suono.

La copertina è molto bella ed aperta ad interpretazioni soggettive, e rende molto bene ciò che è questo disco : un viaggio bello robusto verso qualcosa di molto lontano. I riferimenti sarebbero quelli del post rock classico e meno classico, ma i Vesta rielaborano il tutto in maniera molto personale ed originale. Il gruppo viareggino costruisce una narrazione musicale e cerebralmente visiva, con risultati entusiasmanti che lasciano il segno. Musica e sensazioni che suonano, e ci sono anche pause e silenzi che valgono davvero molto, qui conta l’insieme, anche se ogni episodio è notevole. I Vesta rompono gli schemi del genere, forse perché non decidono di appartenere in maniera ortodossa a nessun genere, decidendo di fare un percorso tutto loro, e la scelta è più che mai giusta. Questo disco omonimo piacerà a tante persone dai differenti gusti musicali, a chi ama il post rock, ma anche a chi apprezza sonorità più pesanti, mentre lo potrà gradire anche chi è abituato a cose più soft. Per apprezzare al meglio questo album lo si deve ascoltare e lasciarlo fluire dentro di noi, perché è un fluido che scorre e porta i pensieri di ognuno, e ci fa vedere le nostre azioni dall’alto. I Vesta ci spiegano, portandoci le prove, del perché il post rock sia un genere molto bello se fatto bene come lo fanno loro.

Tracklist
1. Signals
2. Resonance
3. Constellations
4. Ethereal
5. Nebulae
6. Aurora pt.1
7. Aurora pt.2

Line-up
Giacomo Cerri – Guitar & Drones
Sandro Marchi – Drums & Cymbals
Lorenzo Iannazzone – Bass & Noise

VESTA – Facebook

Aurora Borealis – Goodbye

Con il monicker Aurora Borealis, Déhà va ad esplorare territori ambient che confluiscono poi in un post rock delicato ed emozionante, quello che ogni appassionato vorrebbe sempre ascoltare.

Può un musicista muoversi incessantemente tra generi apparentemente antitetici tra loro offrendo sempre e comunque opere di livello superiore alla media ?

La risposta è si, specialmente se ci si chiama Déhà, un nome che ormai è sinonimo della capacità innata di unire un’irrequietezza ed un’iperattivita compositiva ad una qualità che stupisce ogni volta di più.
Con il monicker Aurora Borealis il musicista belga va ad esplorare territori ambient che confluiscono poi in un post rock delicato ed emozionante, quello che ogni appassionato vorrebbe sempre ascoltare ma che, stranamente, la maggior parte degli altri musicisti riesce a proporre con tale maestria solo a intermittenza.
In virtù di un talento pressoché infinito, Déhà propone poco meno di tre quarti d’ora di melodie splendide e di stupefacente profondità, nel senso che non ci si stufa mai di ascoltarle e soprattutto, non appaiono mai stucchevoli.
Nel prime due parti di Goodbye (racchiuse in un unico brano), che se non ho inteso male dovrebbero essere state composte qualche tempo prima rispetto al restante contenuto dell’album, salta subito all’orecchio quello che è l’influsso primario di chi si cimenta con musica che a che fare con l’ambient, quel Brian Eno del quale vengono evocate note pianistiche che ricordano un capolavoro come By This River, e un lampo di memoria mi fa ricordare che uno dei geni indiscussi della musica contemporanea, seppure di nazionalità inglese, è di madre belga, cosa che di fatto è ininfluente ma che mi piace ritenere non del tutto casuale.
Non so questo imprinting iniziale sia consapevole o meno, fatto sta che man mano che l’album procede le atmosfere più corpose ed atmosferiche del post rock divengono preponderanti rispetto alle rarefazioni dell’ambient, rispettando in qualche modo anche la progressione temporale delle composizioni che sembrano farsi via via più robuste arrivando alle più recenti e conclusive Sun Up e Sun Down, alle quali si giunge però per gradi, con le parti più recenti di Goodbye che, in precedenza, hanno reso un po’ meno sognante l’incedere di un album in  possesso un afflato melodico difficilmente riscontrabile altrove.
Un album solo strumentale corre seriamente il rischio di annoiare dopo una ventina di minuti, ma se ti chiami Déhà tutto ciò non può accadere, perché ovunque si muova il musicista belga le cose scontate e banali sono bandite, ed ogni ascoltatore, qualsiasi possa essere il genere che predilige, ad ogni sua uscita ne resterà sempre e comunque appagato. E questo non è da tutti …

Tracklist:
1.Goodbye (1 & 2)
2.Goodbye (3)
3.Goodbye (4)
4.Goodbye (5)
5.Sun up – Lights
6.Sun down – Lights

Line-up:
Déhà

Déhà – Facebook

W.A.I.L. – Wisdom Through Agony into Illumination and Lunacy vol. II

Quello dei finlandesi W.A.I.L. è un approccio decisamente trasversale alla materia estrema, definibile in qualche modo progressivo nel senso che i frequenti cambi di ritmo e di umore, all’interno di due brani che assommano complessivamente un’ora di durata, depone a favore di una costruzione del sound in costante divenire.

Quello dei finlandesi W.A.I.L. è un approccio decisamente trasversale alla materia estrema, definibile in qualche modo progressivo nel senso che i frequenti cambi di ritmo e di umore, all’interno di due brani che assommano complessivamente un’ora di durata, depone a favore di una costruzione del sound in costante divenire.

Partendo da una base soprattutto doom, questo quintetto dà un seguito dopo ben nove anni al primo full length avente lo stesso titolo, Wisdom Through Agony into Illumination and Lunacy, continuando con questa sua seconda parte a percorrere i sentieri lirici basati su un un concept filosofico piuttosto profondo nonché intricato, basato sostanzialmente sulla volontà di dimostrare che bene e male non sono entità a sé stanti bensì fortemente interconnesse tra loro, smentendo quello che di fatto è un meccanismo mentale precostituito della mente umana.
Se il concept non è semplice da decrittare non è che la musica sia da meno, anche se in effetti i W.A.I.L. cercano sempre di dare un senso logico ad ogni svolta sonora, offrendo anzi in più di un caso passaggi dalle parvenze melodiche.
La descrizione di un’opera cosi strutturata è quanto mai complessa e dagli esiti improbabili, per cui non resta che godersi queste due lunghe tracce che sicuramente sono in grado di soddisfare gli ascoltatori più esigenti, tra il black doom piuttosto ruvido della prima parte di Through Will to Exaltation Whence Descent into a Bottomless Black Abyss, che nel suo lungo finale si stempera in liquidi passaggi acustici, e il doom atmosferico dell’incipit di Reawakening through Anguish into Gestalt of Absolute, nella quale sono racchiusi anche cinque minuti di delicato neoclassicismo pianistico, prima di chiudere il lavoro con una dissonante cavalcata.
Un gran bel lavoro, dunque, a patto d’avere la pazienza necessaria per lavorarlo per un tempo commisurato alla sua ritrosia nello svelarsi durante i primi approcci.

Tracklist:
1. Through Will to Exaltation Whence Descent into a Bottomless Black Abyss
2. Reawakening through Anguish into Gestalt of Absolute

Line-up:
A.E. – Guitars, vocals
S.F. – Drums, percussions, bass, additional solo guitars, kantele, recorder, didgeridoo, synthesizer, grand piano
J.I. – Bass, recording, mixing, mastering
P.R. – Main vocals
L.L. – Violin
Main vocals on “Absolute” and all vocals on “Reawakening” by A.E.

Owl – Orion Fenix

Orion Fenix va lavorato con una certa pazienza, cercando soddisfazione all’interno di un sound minaccioso e pesante per riuscire infine a rendersi conto della sua oggettiva bontà.

Torna dopo alcuni anni, con un ep composto da un solo lungo brano della durata di circa venti minuti,
il progetto solista denominato Owl di Christian Kolf, vocalist dei Valborg.

Il musicista tedesco, sin dall’inizio del decennio con questo monicker si è reso protagonista di un death doom piuttosto dissonante e sperimentale, con un’ampia componente ambient: Orion Fenix mantiene queste coordinate dimostrando come “il gufo” non intenda derogare dalla strada maestra intrapresa.
Ne viene fuori quindi un lavoro interessante, anche se non per tutti i palati, in quanto privo di decise aperture melodiche, salvo un più arioso frammento finale, o di passaggi comunque in grado di catturare l’attenzione al primo colpo; Orion Fenix va così lavorato con una certa pazienza, cercando soddisfazione all’interno di un sound minaccioso e pesante per riuscire infine a rendersi conto della sua oggettiva bontà, che si svela in maniera definitiva attorno al quindicesimo minuto, quando parte appunto una bella progressione di natura post metal.
L’eterea chiusura di matrice ambient rafforza le sensazioni positive prodotte da un ep che costituisce l’ideale antipasto al già programmato ed imminente full length Nights In Distortion: Kolf conferma d’essere un musicista di vaglia, capace di costruire una proposta sonora solidamente introspettiva anche se, inevitabilmente, di non troppo semplice fruizione.

Tracklist:
1. Orion Fenix

Line-up:
Christian Kolf

OWL – Facebook

Nekhen – Akhet

Quella offerta da Nekhen è musica che possiede tutte le caratteristiche per far breccia in chi dalle note ricerca nutrimento per la mente e l’anima.

Dopo il riuscito esordio intitolato Entering the gate of the western horizon, ritroviamo Nekhen, musicista italiano alle prese con la il proprio intrigante mix di doom, ambient e musica egizia.

La fascinazione per le sonorità tipiche del paese dei faraoni non è una novità in ambito metal, con i Nile a fare da capiscuola ed una serie di band a seguirne le tracce, sempre però all’insegna di sporadiche contaminazioni che vanno ad inserirsi all’interno di una struttura comunque estrema, death o black che sia.
In questo caso, invece, la musica tradizionale è la base sulla quale poi si diramano le varie pulsioni di Nekhen, il quale in questo caso, rispetto al lavoro precedente introduce maggiori contributi vocali, inclusi quelli femminili a cura di Eleonora B., mentre l’insieme appare ancora più vario e coinvolgente dal primo all’ultimo minuto.
Ovviamente questa mezz’ora di musica è divisa in quattro tracce che richiedono preferibilmente un ascolto continuato, in quanto i brani possiedono un forte legame tematico e musicale che porta a considerarli in maniera naturale come un corpo unico; di fatto, però, la suddivisione tra episodi consente di dire che Invocating Khentiamentiu rappresenta una sorta di lunga ed avvolgente introduzione acustica ad Invocating Bat, vero climax emotivo dell’album grazie a magnifiche intuizioni melodiche, con Invocating Kherti e la conclusiva title track che portano infine sound ad esplorare terreni più cupi, sotto forma di uno sludge doom che si fa più pesante proprio in quest’ultima traccia.
La bravura di Nekhen risiede nella capacità di mantenere stretto il legame con le sonorità etniche esibendo grande competenza e continuità, ed evitando quindi che le due componenti si presentino quasi come dei corpi separati.
Quella offerta in Akhet è musica che possiede tutte le caratteristiche per far breccia in chi dalle note ricerca nutrimento per la mente e l’anima.

Tracklist:
1.Invocating Khentiamentiu
2.Invocating Bat
3.Invocating Kherti
4.Akhet

Line-up:
Nekhen – all isntriuments

Eleonora B. – vocals

NEKHEN – Facebook

Der Blutharsch And The Infinite Church Of The Leading Hand ‎– What Makes You Pray

Un flusso musicale intriso di una potente fascinazione orientale e di una decisiva componente che riconduce a quella kosmische musik presente inevitabilmente nel dna di ogni musicista mitteleuropeo.

Al nome di Albin Julius è spesso stato associato l’aggettivo controverso, che è una maniera pur sempre legante ma anche un po’ pilatesca di approcciarsi ad un personaggio discutibile in passato dal punto di vista ideologico quanto apprezzabile sul lato artistico.

Da parte mia, non essendo mai stato un grande estimatore della scena martial-neofolk che vide quali vessilliferi i Death In June (del quale peraltro il nostro ha fatto parte), non ho mai neppure dovuto pormi il problema di dover separare l’uomo dal musicista per consentirmi di godere senza condizionamenti del prodotto finale, ovvero il disco.
Il tempo cambia le cose e spesso consente di vederle, a posteriori, sotto un’altra luce, anche da parte di chi ha vissuto certe situazioni in prima persona: da alcuni anni Julius ha preso in qualche modo le distanze da quella fase della sua carriera, sia a parole sia musicalmente, e questo rende tutto molto più semplice consentendo a qualsiasi ascoltatore di addentrarsi senza veti o distinzioni di sorta nell’operato del musicista austriaco.
La stessa scelta di aggiungere And The Infinite Church Of The Leading Hand allo storico monicker Der Blutharsch è un chiaro elemento di discontinuità, ed ecco, quindi, che ‎non può sorprendere il nuovo corso psichedelico che vede in What Makes You Pray l’ultimo prelibato frutto.
Shine è il magnifico e lunghissimo mantra che apre l’album, fornendo senza indugi un’idea di quelle che ne saranno le principali coordinate: un flusso musicale intriso di una potente fascinazione orientale e di una decisiva componente che riconduce a quella kosmische musik presente inevitabilmente nel dna di ogni musicista mitteleuropeo.
La psichedelia qui non è intesa solo come una costante forma di alterazione degli stati di coscienza provocata da estenuanti improvvisazioni: ogni brano è infatti dotato di una propria struttura melodica che lo rende identificabile e capace di fissarsi nella memoria, come avviene con la stupefacente El Ocaso, traccia inizialmente in odore morriconiano che si stempera in un magnifico lavoro chitarristico nella sua parte conclusiva.
A questo punto sono passati circa venticinque minuti che rasentano la perfezione, con in mezzo altri due brani convincenti come Wolf On Your Threshold e You Bring Low; successivamente, il disco perde leggermente in omogeneità con l’incrementarsi della vena sperimentale, senza che il tutto comunque vada ad inficiare in maniera decisiva la qualità dell’insieme, con Land Of Free che resta l’episodio meno scintillante della tracklist.
La minacciosa title track e la toccante Right preludono al delirio ambient rumoristico di Time, degna chiusura di un lavoro dai due volti ma ugualmente efficace nel suo insieme: si capisce che Albin Julius, oggi più che mai, è un musicista che, abbattuta ogni sorta di barriera ideologica e stilistica, lascia sfogare il suo talento senza perseguire altro obiettivo se non quello di proporre ciò che di volta in volta è nelle sue corde e, mi si creda, non è affatto poco.

Tracklist:
01 Shine
02 Wolf On Your Threshold
03 You Bring Low
04 El Ocaso
05 Land Of Free
06 Interludio
07 What Makes You Pray
08 Right
09 Time

DER BLUTHARSCH AND THE INFINITE CHURCH OF THE LEADING HAND – Facebook

Aborym – Something for Nobody Vol​.​1

Un’uscita interessante, che conferma il valore e la peculiarità di una delle eccellenze nazionali in ambito metal (e non solo).

Dopo aver piazzato con Shfting.Negative un altro fondamentale tassello nel loro percorso artistico, gli Aborym tornano ad offrire musica inedita con questo lavoro intitolato Something for Nobody Vol​.​1.

Ovviamente non siamo di fronte ad un nuovo full length, perché in realtà l’album in questione è incentrato su una lunga traccia intitolata, appunto, Something for Nobody pt.1, la prima parte di una trilogia che Fabban sta scrivendo per farne una colonna sonora, commissionata dal regista Raffele Picchio per il suo cortometraggio Sakrifice.
Anche (ma non solo) per questo i venti minuti della traccia sono attraversati da molte delle pulsioni che animano la creatività del musicista pugliese; così, se per la maggior parte il contenuto è caratterizzato da una ambient a tratti alternativamente delicata ed inquieta, non mancano spunti jazzistici e altri di pungente elettronica senza che venga mai meno l’impronta del marchio Aborym, ormai riconoscibile indipendentemente dal genere musicale offerto.
Il resto del lavoro è completato da cinque remix che vedono un reciproco scambio di cortesie con Keith Hillebrandt (facente parte della cerchia dei Nine Inch Nails) con il sound producer che rimaneggia a modo suo For A Better Part e gli Aborym che fanno altrettanto con la sua Farwaysai, e i romani Deflore che industrializzano You Can’t handle The Truth ricevendo lo stesso favore per la loro Mastica Me; oltre a questi, Fabban cura anche il remix di Deathwish degli ottimi Angela Martyr.
Per mia indole fatico a ritenere i remix, chiunque ne sia l’autore e in qualsiasi ambito, un’operazione in grado di aggiungere o togliere qualcosa all’operato di un musicista o di una band, ma non per questo devono essere trascurate a prescindere, specialmente in questo caso: come detto, dipende molto anche dalla sensibilità e dalla ricettività dell’ascoltatore, resta il fatto che queste cinque tracce, alla fine, si rivelano un buonissimo contorno al brano principale, aumentando i motivi di potenziale interesse di un’opera che conferma il valore e la peculiarità di una delle eccellenze nazionali in ambito metal (e non solo).

Tracklist:
1.Aborym – Something for Nobody pt.1 (Sakrifice)
2.Keith Hillebrandt – For A Better Past (Deconstruction mix by Keith Hillebrandt)
3.Deflore – You Can’t handle the Truth (Evil dub deconstruction by Deflore)
4.Aborym – Deathwish (Ecstasy under duress remix by Aborym)
5.Keith Hillebrandt – Farwaysai (Inertia remix by Fabban, Aborym)
6.Aborym – Mastica Me (Digitalis Ambigua remix by Aborym)

ABORYM – Facebook

Malvento – Pneuma

I Malvento odierni raccolgono idealmente il testimone dell’occult metal italiano, portandolo fieramente lungo il tratto di percorso loro assegnato, con la consapevolezza di chi sa perfettamente che questa strada può essere ancora lunga e foriera di altri lavori di qualità eccelsa come Pneuma.

I campani malvento sono una delle band appartenenti alla scena black metal italiana nate ancora nel secolo scorso, per cui in questo caso è lecito parlare di una realtà collaudata e formata da musicisti esperti.

Una carriera così lunga ha fornito una produzione quantitativamente nella media, considerando che Pneuma è sì solo il quarto full length ma arriva a ben sette anni di distanza dal precedente.
Se prima ho parlato di black metal va doverosamente precisato che, con questo lavoro, si compie una sorta di definitivo distacco dal genere, almeno nella sua versione più canonica, portando a termine un processo iniziato già con Oscuro Esperimento Contro Natura.
Pneuma si snoda così come se si trattasse di un flusso guidato da un’oscura vena esoterica, nel corso del quale il vocalist Zim recita con un sussurro maligno testi in italiano di notevole impatto e profondità, appoggiati su un tessuto sonoro che fonde mirabilmente dark wave e dark ambient conferendo al tutto un senso melodico capace di fare la differenza.
Volendo fare un parallelismo con un’altra realtà nazionale tornata all’attività dopo un lungo silenzio, nel lavoro dei Malvento troviamo diversi punti di incontro, perlomeno a livello di approccio concettuale, con gli ultimi The Magik Way, però a mio avviso il trio partenopeo si rivela superiore proprio perché in grado di provocare un maggiore coinvolgimento emotivo.
A tale riguardo ritengo che tale risultato venga raggiunto proprio grazie a quella componente dark che porta, per esempio, un brano magnifico come Notte a sembrare un’ipotetica versione irrobustita e malevola dei Cure di Pornography; il tutto viene alternato a spunti ambient (con una fenomenale Vortex) che si trasformano nell’ideale colonna sonora di un rituale esoterico.
Non dobbiamo nasconderci dietro la falsa modestia negando che in Italia ci sia la maggiore concentrazione di band capaci di mettere in musica in maniera credibile tali tematiche, perpetuando una tradizione che viene da lontano e che abbraccia trasversalmente in vari generi: i Malvento odierni raccolgono idealmente tale testimone portandolo fieramente lungo il tratto di percorso loro assegnato, con la consapevolezza di chi sa perfettamente che questa strada può essere ancora lunga e foriera di altri lavori di qualità eccelsa come Pneuma.

Tracklist:
1. Pneuma (Intro)
2. Notte
3. La via sinistra
4. L’incanto
5. Vortex
6. Respiro notturno
7. Apuania
8. Le danze
9. Il risveglio (Outro)

Line-up:
Zin – Bass, Vocals
Nefastus – Drums, Guitars
Whip – Synthesizer, Programming

MALVENTO – Facebook

The Negative Bias – Lamentation of the Chaos Omega

Il black metal può risultare efficace sia nella sua forma più scarna e primitiva sia in quelle più trasversali ed inquiete, come lo è questa, quando a fare la differenza sono la credibilità e la competenza dei suoi interpreti.

A conferma di quanto il black metal possa offrire una quantità pressoché infinita di interpretazioni, ecco giungere l’esordio degli austriaci The Negative Bias.

Fin dalle prime note appare evidente come da questo Lamentation of the Chaos Omega ci sia da attendersi grande musica offerta con cura dei particolari e una mirabile misura nel dosaggio dei diversi elementi che ne vanno a comporre il sound.
The Golden Key To A Pandemonium Kingdom è infatti un brano magnifico con il quale il trio viennese di lancia a perdifiato in un’esibizione di odio cosmico che in questo case gode di ottime linee melodiche, così come la successiva traccia Journey Into The Defleshed Paradise (se possibile ancora più bella dell’opener) e che, in seguito, andrà a spaziare anche su territori ambient/avanguardisti senza mai perdere il filo del discorso.
Come si diceva pocanzi, il black può risultare efficace sia nella sua forma più scarna e primitiva sia in quelle più trasversali ed inquiete, come lo è questa, quando a fare la differenza sono la credibilità e la competenza dei suoi interpreti.
I The Negative Bias danno ampie garanzie in tal senso ed offrono un album di raro spessore in ogni frangente, sia quando spingono al massimo i motori (Tormented By Endless Delusions) sia quando arrestano la loro corsa in una sorta di distaccata contemplazione del caos (Cryptic Echoes From Beyond Dimensions).
Lamentation of the Chaos Omega è un album pressoché perfetto, un altro di quelli che avrebbe meritato a posteriori una posiziono di rilievo nelle nostre classifiche di fine anno: I.F.S. ha costruito un progetto destinato a lasciare il segno, perché non è così consueto ascoltare una prima uscita, per quanto ad opera di musicisti di comprovata esperienza, così ben focalizzato in ogni suo aspetto (esecuzione, concept e produzione).

Tracklist:
1 The Golden Key To A Pandemonium Kingdom
2 Journey Into The Defleshed Paradise
3 Tormented By Endless Delusions
4 The Undisclosed Universe Of Atrocities
5 Cryptic Echoes From Beyond Dimensions
6 And Darkness Should Be The End Of Cosmic Faith

Line-up:
I.F.S – Vocals, Lyrics, Concept,
S.T – Studio Strings
Florian Musil – Studio Drums

THE NEGATIVE BIAS – Facebook

Uruk – I Leave A Silver Trail Through Blackness

Gli Uruk sono quanto di meglio possiate trovare nell’ambient drone e travalicano i generi, perché parlano un linguaggio universale, questa musica è ricerca, vita e morte, inizio e fine.

Cosa succede nel momento in cui si compenetrano due stili musicali diversi, due cammini effettuati con mezzi differenti ma con lo stesso imperativo di ricercare sempre e comunque ?

Succede che nasce un’entità musicale dalla ben difficile collocazione come gli Uruk, figlia dell’incontro tra Massimo Pupillo, l’immenso bassista degli Zu e nei Triple Sun, e Thighpaulsandra, epica figura già nei Coil, poi con Julian Cope e eminente membro di quell’esoterismo inglese, non solo musicale, che vive da molto tempo. I due si sono sempre ammirati, e questo disco, una suite di circa trentanove minuti, è qualcosa di più di una semplice collaborazione. Il disco è un qualcosa di esoterico, una commistione di ambient e di drone, un ricollegarsi alle nostre origini più ancestrali, come indicato dal nome del gruppo. Uruk era una città della civiltà sumera, narrata nell’epopea di Gilgamesh, ed uno dei maggiori insediamenti della nostra antichità. Gruppi come Zu e i Coil attraverso la loro musica hanno sempre ricercato e smosso qualcosa di antico dentro di noi, scavalcando la nostra modernità e parlando a qualcosa che tentiamo di negare. Proprio come questo disco, che ci mostra un’antichissima storia messa in musica, ovvero la capacità umana di dare un senso differente e personale a dei suoni, semplici come il rumore primordiale. I Leave A Silver Trail Through Blackness fa scaturire dentro ognuno di noi una propria personale interpretazione, ma più di tutto è un portale, un codice di vibrazioni per portarci da qualche altra parte in uno stato alterato di coscienza, obiettivo anche dei live del duo, davvero molto coinvolgenti. Non ci si può approcciare a questo disco aspettandosi della musica come la intendiamo comunemente, perché questo è il senso ancestrale di tale arte. Gli Uruk sono quanto di meglio possiate trovare nell’ambient drone e travalicano i generi, perché parlano un linguaggio universale. Questa musica è ricerca, vita e morte, inizio e fine.

Tracklist
1. I Leave A Silver Trail
2. Through Blackness

Line-up
Massimo Pupillo
Thighpaulsandra

COUNSULING SOUNDS – Facebook

Mhönos – LXXXVII

Per poco più di quaranta minuti tutto il dolore ed il male che ci scrolliamo dalle spalle, considerandolo solo frutto di paure ancestrali, viene evocato dai Mhönos fino a mostracelo con il suo sinistro carico di ineluttabile morte e disfacimento.

Per i francesi Mhönos si ripropone l’eterno dilemma che attanaglia chi deve esprimere un parere su musica decisamente fuori dagli schemi, che è quello di capire se si tratta di vera genialità oppure di un’accozzaglia di suoni messi assieme senza un’apparente logica.

A mio modo di vedere, ogni forma di sperimentazione musicale deve anche mantenersi in un alveo entro il quale l’ascoltatore possa percepire un qualche disegno che consenta di assimilare opere, altrimenti, a forte rischio d’essere considerate un’esibizione di rumore fine a sé stesso.
LXXXVII oscilla pericolosamente su questo confine e immagino che la sua collocazione, dall’una o dall’altra parte, dipenda non solo dalla predisposizione dei diversi soggetti a simili ascolti ma, addirittura, dall’umore specifico di una stessa persona nel momento in cui il sound dei Mhönos viene si fa strada  senza alcuna misericordia.
Cercando d’essere asettici ed obiettivi il giusto, credo che questo sia un lavoro di notevole spessore, perché qui il male cessa d’esser un qualcosa che ci accompagna in maniera subliminale per proporsi in uno stato quasi solido, tramite una forma di black metal stravolta da un approccio rituale che porta il tutto su un piano ambient drone, con l’aggiunta di vocals quanto mai malevole a completare il quadro.
I Mhönos offrono un’opera che rischia seriamente di finire derubricata a sottobicchiere se acquistata in formato cd da qualcuno che non ha ben chiaro quali siano le finalità di questi misteriosi “frati” transalpini; viceversa, se si possiede un minimo di masochistica familiarità con certi suoni, è difficile restare indifferenti a questa esibizione di velenosa ed oscura follia musicale.
Per poco più di quaranta minuti tutto il dolore ed il male che ci scrolliamo dalle spalle, considerandolo solo frutto di paure ancestrali, viene evocato dai Mhönos fino a mostracelo con il suo sinistro carico di ineluttabile morte e disfacimento: il tutto senza fare neppure troppo rumore, ma affidandolo a sonorità minimali ed artifici vocali che da sgradevoli si fanno via via insinuanti fino a non poter essere più scacciati dalla memoria.
LXXXVII va sicuramente ascoltato, sia pure a proprio rischio e pericolo …

Tracklist:
1. I
2. II
3. III
4. IV

Line-up:
Frater Erwan: basso, cori
Frater Nikaos: percussioni
Frater Samuel: percussioni
Frater Nehluj: basso, coro
Frater Alexandre: basso, cori
Necropiss: voce

MHÖNOS – Facebook

We All Die! What A Circus! – Somnium Effugium

L’album è davvero molto curato e la limpidezza dei suoni ne favorisce l’assimilazione, anche perché qui è netta la sensazione d’essere al cospetto di un artista con la A maiuscola e non di un pur valido assemblatore di suoni.

Devo ammettere che le ultime uscite nelle quali mi sono imbattuto mi hanno parzialmente riconciliato con i dischi strumentali, specialmente quelli basati su un melodico e riflessivo post rock.

Così, dopo il bellissimo lavoro degli americani In Lights, tocca a questo progetto solista del portoghese João Guimarães dal monicker piuttosto bizzarro, We All Die! What A Circus!.
Nonostante le ingannevoli premesse, il sound offerto dal musicista lusitano è quanto mai ortodosso nel suo dipanarsi liquido, melodico e spesso riflessivo tanto da andare a sconfinare più volte l’ambient; indubbiamente il post rock si presta maggiormente a tale formula, proprio perché la rarefazione del sound porta inevitabilmente a sonorità che sono per loro natura strumentali, mentre le aperture melodiche, quando sono di eccelsa qualità come in questo caso, imprimono alla musica un loro marchio ben definito.
A comprovare quanto affermato è sufficiente l’ascolto di Effugium IV che, dopo un avvio tenue e sommesso, si libera poi in un magnifico assolo di chitarra che la dice lunga sul gusto melodico di cui è in possesso Guimarães.
L’album è davvero molto curato e la limpidezza dei suoni ne favorisce l’assimilazione, anche perché qui è netta la sensazione d’essere al cospetto di un artista con la A maiuscola e non di un pur valido assemblatore di suoni.
Il senso della musica, quando non è supportata dalle parole, è in fondo proprio quello di evocare quanto promesso con i titoli dell’album o dei brani, o comunque di tenere fede a quanto dichiarato dai musicisti in fase di introduzione del disco.
In questo caso, Guimarães ci suggerisce che i temi dell’album sono il sogno della fuga e la fuga stessa, dato che in un mondo disseminato di confini e di rovine, dentro e fuori di noi, la necessità di fuggire diviene impellente.
Somnium Effugium è la colonna sonora che ci accompagna in questo stato che oscilla tra l’onirico ed il reale, con i brani intitolati Somnium improntati ad un ambient piuttosto inquieta, mente gli episodi denominati Effugium sono più orientati al post rock, e in quanto tali portatori di splendide melodie chitarristiche venate di una profonda malinconia.
João regala oltre tre quarti d’ora di pennellate sonore di stupefacente profondità, inducendo alla riflessione e alla commozione, e comunque lasciando un segno profondo in chi desidera lasciarsi avvolgere dalla musica creata da questo musicista dotato di rara sensibilità.
Anche se è proprio grazie alle band più celebrate che questo stile è uscito da uno status di nicchia, il mio consiglio è quello di rivolgere l’attenzione a questi nomi minori e magari misconosciuti, la cui freschezza tiene ben alla larga il manierismo ed il rischio di tediosità che ne consegue.

Tracklist:
1.Somnium I
2.Effugium I
3.Effugium II
4.Somnium II
5.Effugium III
6.Effugium IV
7.Somnium III

Line-up
João Guimarães

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La Tredicesima Luna – Il sentiero degli Dei

Una bellissima prova, ovviamente di fruizione meno immediata rispetto alle opere prodotte da Brusa con il monicker Medhelan, ma con una profondità anche concettuale che sarebbe un vero peccato non cogliere nella sua interezza.

Proprio qualche giorno fa ho avuto occasione di parlare della riedizione dei due seminali lavori che Mortiis pubblicò ad inizio carriera sotto l’egida della Cold Meat Industry.

Infatti, Ånden som Gjorde Opprør e Keiser av en Dimensjon Ukjent sono considerati unanimemente tra le opere che hanno favorito lo sviluppo della forma di ambient definita dungeon synth, che vede tra i suoi più brillanti esponenti in terra italiana il milanese Matteo Brusa.
Con questo suo nuovo progetto denominato La Tredicesima Luna, Brusa sposta il tiro su una forma di ambient che prende le mosse dai precursori del genere (su tutti Brian Eno, con puntate anche sulla Kosmische Musik degli anni ‘70) ma ammantandola di un’aura oscura che, rispetto alla produzione del genio inglese, rimanda soprattutto a un lavoro come Apollo.
In effetti, il tutto viene anche suffragato da un afflato cosmico che pervade la mezz’ora di musica di cui si compone Il Sentiero degli Dei; i due lunghi brani si rivelano così avvolgenti e senz’altro riusciti nella loro funzione evocatrice di scenari probabilmente solo immaginati dai migliori scrittori di fantascienza o da registi visionari come Kubrick: va detto che il senso di pace e di apparente armonia con l’universo viene contrastato da uno sgomento latente, derivante  dall’incapacità della mente umana di circoscrivere ciò che di fatto è illimitato.
Una bellissima prova, ovviamente di fruizione meno immediata rispetto alle opere prodotte da Brusa con il monicker Medhelan, ma con una profondità anche concettuale che sarebbe un vero peccato non cogliere nella sua interezza.

Tracklist:
1.Parte I – Fuochi sotto le stelle / Tra due mondi
2.Parte II – Energie ancestrali / La luce dorata dell’aurora

Line-up:
Matteo Brusa

LA TREDICESIMA LUNA – Facebook

Mortiis – Ånden som Gjorde Opprør / Keiser av en Dimensjon Ukjent

Funeral Industries e Plastichead, a poco più di vent’anni dalla prima pubblicazione, offrono la riedizione di Ånden som Gjorde Opprør e Keiser av en Dimensjon Ukjent, due lavori, usciti all’epoca per la leggendaria Cold Meat Industry, che portarono all’attenzione di una più vasta fascia di pubblico il nome di Mortiis.

Funeral Industries e Plastichead, a poco più di vent’anni dalla prima pubblicazione, offrono la riedizione di Ånden som Gjorde Opprør e Keiser av en Dimensjon Ukjent, due lavori, usciti all’epoca per la leggendaria Cold Meat Industry, che portarono all’attenzione di una più vasta fascia di pubblico il nome di Mortiis.

Per chi non ne conoscesse la storia la riassumiamo in breve: il musicista norvegese è stato uno dei protagonisti dei primi vagiti della scena black metal rivestendo il ruolo di bassista negli Emperor e partecipando ad un album seminale come Into The Nightside Eclipse.
Dopo la successiva uscita dalla band, Håvard Ellefsen (questo è il suo vero nome) ha iniziato una carriera solista dedicata all’esplorazione di sonorità di matrice ambient, innestandovi però le proprie radici black sotto forma di un’aura fortemente epica e glacialmente solenne, divenendo di fatto un precursore di quel filone che oggi viene definito Dungeon Synth.
Va detto che, all’epoca, la scelta di Mortiis fece discutere (cosa che sarà un po’ il leit motiv di tutto il suo percorso musicale, a ben vedere) un po’ perché alcuni lo consideravano una copia edulcorata di Burzum o ancora a causa del suo presentarsi truccato da troll, un qualcosa di sicuramente originale ma dall’impatto altrettanto grottesco.
Al di là di questo, e riascoltandole con piacere dopo che molta acqua è passata sotto i ponti, è innegabile il valore intrinseco di queste due opere, piuttosto omologhe per contenuti essendo uscite a distanza di qualche mese l’una dall’altra, in quanto risultano ancora oggi portatrici di un fascino ancestrale senza apparire irrimediabilmente datate, anche perché il loro minimalismo indotto dal confronto con i mezzi a disposizione oggi, finisce per aumentarne in ogni caso il fascino.
Il percorso del folletto norvegese si sposterà in seguito verso un approccio ben più modernista, andando a lambire forme di industrial dai risultati altalenanti e comunque ben lontane anche per attitudine dai lavori dei primi anni novanta.
Ben venga quindi la riedizione diÅnden som Gjorde Opprør e Keiser av en Dimensjon Ukjent, opere che lo stesso Mortiis ha deciso di riproporre dal vivo in diverse occasioni in questa fine del 2017, cosa che sicuramente farà piacere a molti ma che, sotto certi aspetti, ha l’effetto di una parziale retromarcia rispetto a quanto fatto nella fase più recente della sua carriera.
Detto ciò, ritengo che la riedizione di questi album sia quanto mai opportuna anche in veste di ideale istantanea del fermento creativo che si viveva all’epoca in Norvegia, sicuramente legato all’esplosione della scena black metal ma anche ai diversi rivoli stilistici che ne sarebbero susseguiti.

Tracklist:
Ånden som Gjorde Opprør
1.En mørk horisont
2.Visjoner av en eldgammel fremtid

Keiser av en Dimensjon Ukjent
1.Reisene til grotter og ødemarker
2.Keiser av en dimensjon ukjent

Line-up
Maks Molodtsov

MORTIIS – Facebook

Satanath – Your Personal Copy

L’approccio all’ambient di Aleksey Korolyov non prevede lunghe reiterazioni di uno stesso tema. bensì è caratterizzata da un continuo cambio di scenario, e più che la colonna sonora di missioni spaziali o di documentari naturalistici, Your Personal Copy potrebbe essere l’ideale accompagnamento di qualche strambo cartone animato.

Prima di questo lavoro conoscevo Aleksey Korolyov solo come mente della Satanath Records (e delle sub label Symbol Of Domination e GrimmDistribution), per cui ragionando in maniera fin troppo lineare era lecito aspettarsi che un suo progetto solista potesse fare riferimento ai generi normalmente trattati dalla sua etichetta (black, death, thrash, in particolare).

Nulla di tutto questo: a confermare l’acutezza e l’imprevedibilità di questo progetto che porta lo stesso nome della label, Your Personal Copy è un qualcosa che sta a metà strada tra ambient e elettronica, ma con un approccio a suo modo unico nell’affrontare la materia.
L’album consta di una ventina di brani la cui gran parte è di durata convenzionale (2-3 minuti) ma con alcune eccezioni come Vigtio e la conclusiva Univraris che si spingono oltre gli 8-9 minuti; anche per questo l’ambient di Satanath è nervosa, cangiante e soprattutto fuori dagli schemi, saltabeccando da passaggi atmosferici a bizzarri inserti elettronici da video game del secolo scorso. Pertanto, a differenza dell’ambient più canonica e carezzevole, l’approccio di Aleksey non prevede lunghe reiterazioni di uno stesso tema bensì è caratterizzata da un continuo cambio di scenario, e più che la colonna sonora di missioni spaziali o di documentari naturalistici, Your Personal Copy potrebbe essere l’ideale accompagnamento di qualche strambo cartone animato.
La creatività del musicista russo è indubbia, e in fondo sembra che il tutto nasca in maniera più spontanea che calcolata, lasciando immaginare che il nostro forse abbia fatto per assurdo più fatica ad inventarsi i venti improbabili titoli rinvenibili nella tracklist.
Ma, aldilà della battute, Satanath in questo caso si fa portavoce di un linguaggio musicale differente, all’interno del quale possiamo dedurre una cultura musicale molto ampia che, attingendo dal krautrock e dall’elettronica (un background che è insito molto più spesso di quanto si pensi in chi si dedica poi alle forme di metal estremo), offre un risultato senz’altro anomalo, di ascolto oggettivamente complesso, ma dannatamente intrigante dalla prima all’ultima nota.

Tracklist:
01. Peitefuv
02. Masfois
03. Inratit
04. Nodaser
05. Movsak
06. Kiomlu
07. Gegnuz
08. Invotod
09. Erimop
10. Vigtio
11. Hegtaras
12. Briloam
13. Lartagik
14. Hetatro
15. Kehtatos
16. Opkito
17. Knurat
18. Farzmit
19. Onihmas
20. Univraris

Line-up:
Aleksey Korolyov – music and concept

SATANATH – Facebook