Chaos Moon – Origin of Apparition and Languor into Echoes, Beyond

La Folkvangr Records rimette in circolazione in un unica confezione i due primi full length in formato musicassetta dei Chaos Moon, Origin of Apparition e Languor into Echoes, Beyond, usciti a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro nel 2007.

La Folkvangr Records rimette in circolazione in un unica confezione i due primi full length in formato musicassetta dei Chaos Moon, Origin of Apparition e Languor into Echoes, Beyond, usciti a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro nel 2007.

Sono passati quindi dieci anni ma, ascoltando la prima parte, sembra che il tempo trascorso sia molto di più: Origin of Apparition è infatti un album discreto nel suo muoversi tra il black atmosferico e venature depressive ma viene affossato da una produzione pessima e dalla voce di Alexander Pool, uno strillo che a tratti diviene difficilmente sopportabile.
Vengono così vanificati buoni spunti all’intero di un contesto decisamente minimale, offrendo un risultato poco appetibile ma, per fortuna, il tutto viene risollevato da Languor into Echoes, Beyond, che, ascoltato subito dopo Origin of Apparition, sembra quasi frutto dell’operato di un’altra band.
In effetti, in tal senso non credo sia estraneo alla migliore riuscita dell’album l’affiancamento del mastermind da parte del tastierista e cantante Mark Hunter il quale, senza fare cose spettacolari, offre perlomeno uno screaming in linea con i dettami del genere, gratificando così anche una migliore registrazione. Languor into Echoes, Beyond, peraltro, nonostante la presenta di un musicista dedicato ai tasti d’avorio, in partenza va via molto più diretto e meno atmosferico rispetto al predecessore, risultando nel contempo più compatto, per poi aprirsi a diversi passaggi anche di di matrice ambient, racchiusi in buona parte nella lunghissima Simulacrum of Mirrors, e riacquistando una certa ariosità nelle due tracce conslusive, Hymn to Iniquity e Countless Reverie in Mare.
La progressione di Poole, musicista decisamente prolifico ed impegnato in molti altri progetti, continuerà poi con il buon Resurrection Extract, nel quale le già valide intuizioni presenti in Languor into Echoes, Beyond verranno ulteriormente sviluppate.
Questa operazione resta comunque abbastanza appetibile non solo per gli affezionati al formato cassetta, che sta prendendo nuovamente piede sia per i costi contenuti sia per una resa sonora che si confà soprattutto al metal estremo, ma anche per chi segue con attenzione la scena black d’oltreoceano ed attende il nuovo full length dei Chaos Moon, di imminente uscita.

Tracklist:
Tape 1 – Origin of Apparition
1. Illusions of Dusk and Dawn
2. Aether Aurora
3. Tenebrific
4. Pale Cast of Thought
5. And So Are the Words That Never Made it, I
6. And So Are the Words That Never Made it, II
7. Intro, Timeless Disease
8. Origin of Apparition
9. Outro, Endless Asphyxia

Tape 2 – Languor into Echoes, Beyond
1. De Mortalitate
2. Abstract Tongues
3. Waning
4. Simulacrum of Mirrors
5. The Palterer
6. Hymn to Iniquity
7. Countless Reverie in Mare

Line up:
A.P.
M.H.

CHAOS MOON – Facebook

Unru / Tongue – Split

Intimhölle Regression e Omega Male sono le due facce di una stessa medaglia, oltre che l’esibizione convincente di due band delle quali credo proprio sentiremo parlare anche in futuro, stante una comune efficace espressione che le porta a raggiungere lo stesso risultato percorrendo strade decisamemte diverse.

Non è insolito che uno split album accomuni band provenienti da una stessa nazione e, ovviamente, dedite ad uno stesso genere.

In questo caso si va anche oltre, visto che sia gli Unru che i Tongue provengono da Bielefeld, città della Vestfalia nota soprattutto ai calciofili più accaniti, visto che la locale squadra di calcio dell’Arminia ha militato spesso in Bundensliga.
Per entrambi i gruppi, simili anche in uno stato di servizio con un full length all’attivo nell’arco di una carriera ancora abbastanza fresca, lo stile esibito è il black metal, anche se non troppo canonico, essendo quello degli Unru oscillante tra pulsioni sperimentali e sfuriate quasi punk crust, mentre l’interpretazione dei Tongue sembra trarre ispirazione dalle lande d’oltreoceano e possiede comunque una maggiore vena atmosferica e, nel contempo, una più marcata ortodossia.
Ecco quindi emergere gli scostamenti tra le due band, che è poi ciò che arricchisce e rende ancor più interessante questo split album: Intimhölle Regression e Omega Male sono le due facce di una stessa medaglia, oltre che l’esibizione convincente di due band delle quali credo proprio sentiremo parlare anche in futuro, stante una comune efficace espressione che le porta a raggiungere lo stesso risultato percorrendo strade decisamemte diverse.

Tracklist:
Side A – U
1. Unru – Intimhölle Regression
Side B – T
2. Tongue – Omega Male

Line up:
UNRU
H. Unknown
A. Unknown
S. Unknown
T. Unknown

TONGUE
B. Bass (2014-present)
W. Drums (2014-present)
See also: Negativvm, ex-Stench of Styx
T. Guitars, Vocals (2014-present)
J. Guitars, Vocals (2014-present)

UNRU – Facebook

TONGUE – Facebook

Atrium Noctis – Aeterni

Aeterni non è un brutto lavoro e i fans del genere troveranno tra le trame sinfoniche, le accelerazioni estreme e le sfumature gothic/folk, più di uno spunto sufficiente per non spegnere il lettore dopo un paio di brani, ma è indubbio che dopo quindici anni di attività e al quarto lavoro, era sicuramente legittimo aspettarsi un album meno derivativo, prodotto meglio e con qualche idea in più.

Credevo di trovarmi al cospetto di un debutto ascoltando Aeterni, ultimo lavoro degli Atrium Noctis: songwriting scolastico, atmosfere alla Dimmu Borgir/Cradle Of Filth senza la violenta blasfemia insita nel sound delle due icone del genere, e un tocco gothic death che ricorda i connazionali Crematory, il tutto già sentito centinaia di volte.

Aeterni non è un brutto lavoro e i fans del genere troveranno tra le trame sinfoniche, le accelerazioni estreme e le sfumature gothic/folk, più di uno spunto sufficiente per non spegnere il lettore dopo un paio di brani, ma è indubbio che dopo quindici anni di attività e al quarto lavoro, era sicuramente legittimo aspettarsi un album meno derivativo, prodotto meglio e con qualche idea in più.
Invece il gruppo tedesco si presenta con un lavoro ispirato dalla nona sinfonia del compositore Antonin Dvorak e ad altre opere classiche, un concept ambizioso ma non sfruttato a dovere.
Le tastiere, ovviamente, svolgono un ruolo da protagonista nel sound del gruppo, il problema è che la produzione non valorizza il suono bombastico dei tasti d’avorio, le ritmiche furiose del black non incidono e la voce in screaming, pur cercando di risultare il più malvagia possibile, non rende giustizia alle atmosfere horror diaboliche classiche del genere; meglio allora quando, a seguire le evoluzioni strumentali è la voce femminile, operistica e capace di creare la giusta atmosfera.
La parte folk varia leggermente il sound del gruppo e sembra di entrare nel classico villaggio della Foresta Nera dove gli abitanti sono tenuti in ostaggio da streghe e folletti, che dal margine del bosco attendono il passaggio di anime da rubare e corpi per banchettare (se vi viene in mente il film Hansel & Gretel Cacciatori di Streghe, avete centrato il bersaglio).
Tra le tracce dell’album segnalo Leviathan, symphonic black metal song alla Dimmu Borgir, e Die Nacht Des Falken, dalle buone trame folk, il resto raggiunge la sufficienza con le unghie e con i denti.

Tracklist
1.Datura Noir
2.Zerberons Erwachen
3.AD
4.Leviathan
5.AD II
6.Die Nacht des Falken
7.ADE

Line-up
Hein – Vocals
Hydra Gorgonia – Keyboards
Sturm – Guitars
Thyratus – Guitars
Rhadamanthys – Guitars
Kalliope – Vocals

ATRIUM NOCTIS – Facebook

https://youtu.be/kbgWeA4_2O4

Solbrud – Vemod

Vemod si rivela uno degli album più convincenti dell’anno: rabbioso, intenso, ossessivo ma anche capace di far riflettere, in sintesi, difficile far meglio di così.

Vemod è il terzo full length dei Solbrud, band danese autrice ad un black metal decisamente di buona fattura.

Nonostante la contiguità geografica e linguistica con la Norvegia, dalla patria di Amleto non è certo uscita una quantità industriarle di gruppi dediti al genere, per cui questo quartetto proveniente dalla capitale costituisce a suo modo una piacevole anomalia.
I Solbrud interpretano il black con una vena al contempo algida ed atmosferica, e tutto sommato paiono volgere lo sguardo molto più ad ovest, verso le coste canadesi e statunitensi piuttosto che puntare alle vicine lande scandinave: così momenti più rarefatti di matrice ambient si alternano a repentine sfuriate dal notevole impulso melodico, come avviene emblematicamente nell’opener Det sidste lys.
Vemod consta di quattro lunghi brani che assieme raggiungono i cinquanta minuti di durata, il che rende impegnativo l’ascolto ma nel contempo consente ai Solbrud di sviluppare con più calma e meno frenesia la propria idea di black metal, che diviene poi decisamente esemplare per oscurità nei primi martellanti sei minuti di Forfald.
Indubbiamente la band danese segue uno schema consolidato e fruttuoso, affidando al tremolo delle chitarre il compito di delineare melodie che si stagliano sulla furia dei blast beat, interrompendo il tutto con passaggi più riflessivi che, alla fine, hanno la funzione di sospendere ad arte il flusso emotivo per poi incrementarne ulteriormente l’impatto al momento della ripresa.
Del resto funziona così anche per Menneskeværk e Besat af mørke, e quello che può apparire scontato e ripetitivo è in realtà la maniera ideale di veicolare al meglio, da parte dei Solbrud, la loro condivisibile visione apocalittica concernente il destino dell’umanità.
Vemod si rivela così uno degli album più convincenti dell’anno: rabbioso, intenso, ossessivo ma anche capace di far riflettere, in sintesi, difficile far meglio di così.

Tracklist:
1. Det sidste lys
2. Forfald
3. Menneskeværk
4. Besat af mørke

Line-up:
Tobias Pedersen – Bass
Troels Pedersen – Drums
Adrian Utzon Dietz – Guitars
Ole Pedersen Luk – Vocals, Guitars

SOLBRUD – Facebook

Kawir – Exilasmos

L’impasto sonoro è qualcosa che solo i Kawir propongono, e provoca un grande coinvolgimento, mostrando come la via ellenica al black metal sia ancora molto vitale e fertile, anche perché con il retroterra storico greco il materiale non manca di certo

Settimo disco per uno dei pilastri greci del black metal, i Kawir.

Questo gruppo faceva parte di quella nidiata satanica che la Grecia aveva partorito tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, con nomi come Rotting Christ, Varatrhon e Necromantia, gruppi che insieme ai Kawir hanno aperto una nuova ed importantissima via ellenica e mediterranea al black metal, molto diversa da quello scandinavo tanto da apparire in certi casi una cosa totalmente a sé. I Kawir di quella ondata hanno rappresentato e rappresentano tuttora la parte più pagana ed ellenica, e questo disco è una celebrazione delle gesta e delle vite di personaggi del pantheon greco come Edipo, Agamennone, e Tantalo fra gli altri. Il suono dei Kawir è un misto di black e di pagan metal, cantato con un growl molto preciso e di grande effetto. Il gruppo viaggia ad alte velocità, e la radice del suono sta in giri di chitarra black non iper veloci ma sostenuti, negli intarsi della parte ritmica e nel gran lavoro di tastiere e di strumenti tipici greci. L’impasto sonoro è qualcosa che solo i Kawir propongono, e provoca un grande coinvolgimento, mostrando come la via ellenica al black metal sia ancora molto vitale e fertile, anche perché con il retroterra storico greco il materiale non manca di certo. Il livello qualitativo dei dischi di questa band rimane molto alto, forse non al livello di innovazione che avevano i loro lavori degli anni novanta, ma Exilasmos si rivela bilanciato e coinvolgente, fatto da un gruppo che ha la completa padronanza dei propri mezzi e li usa al meglio. Exilasmos in greco antico significa placare la rabbia degli dei, e le storie qui narrate sono piene di paradigmi mitici che vanno bene anche per i nostri tempi.

Tracklist
01 Lykaon
02 Oedipus
03 Tantalus
04 Thyestia Deipna
05 Agamemnon
06 Orestes

Line-up
Therthonax – rhythm and lead guitars
Melanaegis – rhythm, lead guitars, solos, and 12-string acoustic guitar
Porphyrion – vocals
Echetleos – bass
Hyperion – drums and ercussions
Pandion – bagpipes, wind instruments, and psaltere
Aristomache – keyboards

KAWIR – Facebook

Blut Aus Nord – Deus Salutis Meæ

Chapeau a Vindsval, unica mente dei Blut Aus Nord che, dopo venti anni di musica estrema, dimostra una creatività senza pari, presentandoci un’opera breve ma intensa e ricca di stimoli emozionali.

Creatura mutevole i transalpini Blut Aus Nord, attivi ormai sulla scena black metal dal lontano 1995 con “Ultima Thulee”; da qualche album (la trilogia 777) tutto è nelle mani e nel multiforme ingegno di Vindsval, che dimostra anche in questa opera, Deus salutis meae, una grande capacità compositiva ed esecutiva sempre alla ricerca di sensazioni forti.

Nella loro lunga carriera discografica i Blut Aus Nord hanno sempre cercato di rielaborare il verbo black, allargando i confini della musica estrema; non si sono mai persi in derive convenzionali e con un un sacro fuoco interiore hanno dato vita a opere estreme sempre varie e di alta qualità, spingendo l’ascoltatore a continue sfide uditive ed emozionali. E’ il caso anche di questa opera, breve nei suoi trentatré minuti, ma molto intensa e densa nel definire un sound quasi alieno nel fondere death, aromi doom e black nella sua forma più industrial e meno raw; dieci brani, compresi tre intermezzi dai titoli in greco carichi di sonorità dark ambient. Fin dal primo vero brano, Chorea Macchabeorum, il suono è intrigante, sorprendente, distruttivo con fredde linee di synth, taglienti e potente drum machine; le linee vocali, non preponderanti in tutto l’album, sono sommerse dagli strumenti e fuoriescono sinistre e demoniache intessendo raggelanti litanie (Impius). Il suono ha qualcosa di alieno e demoniaco allo stesso tempo, il blend sonoro creato da Vindsval è unico ed è difficile a un primo ascolto, cogliere le tante sfumature nei brani, tutto è fuso in modo vitale e ha un qualcosa di allucinogeno; brani come Apostasis, violenti, carichi di suoni dissonanti ed obliqui, dimostrano che la musica estrema ha ancora molto da dire; i ritmi incalzanti si “ammorbidiscono” in Abisme e lambiscono territori doom titanici e carichi di tensione, dove non vi è alcuna speranza per il genere umano. Le traiettorie sonore che si intersecano in ogni brano danno un tocco avanguardistico, le lobotomizzanti schegge chitarristiche invitano alla catarsi e dimostrano una ricerca non comune, distante dalle recenti opere della band. Una cover virata su varie tonalità di grigio e nero, ad opera della artista ucraina Anna Levytska, dà un tocco visionario alla grande energia dell’opera. Vindsval offre un’ulteriore prova della sua grande vitalità artistica, che è lungi dall’essere esaurita, visto che sono annunciati la IV parte di Memoria Vetusta e un misterioso progetto a nome La lumiere sous le monde. Opera da ascoltare e metabolizzare con molta calma.

Tracklist
1. δημιουργός
2. Chorea Macchabeorum
3. Impius
4. γνῶσις
5. Apostasis
6. Abisme
7. Revelatio
8. ἡσυχασμός
9. Ex Tenebrae Lucis
10. Métanoïa

Line-up
W.D. Feld – Drums, Electronics, Keyboards
Vindsval – Guitars, Vocals
GhÖst – Bass
Thorns – Drums

BLUT AUS NORD – Facebook

Black Messiah – Walls of Vanaheim

Walls of Vanaheim è un’opera di buono spessore in un genere in cui non è così semplice lasciare il segno, ma purtroppo non riesce a raggiungere l’eccellenza a causa dell’eccessiva e ridondante verbosità che rischia di tenere lontani gli ascoltatori meno avvezzi a questo tipo di sonorità.

I tedeschi Black Messiah sono una band dallo stato di servizio ultraventennale e, grazie ad un’attività piuttosto regolare, soprattutto nel nuovo secolo, giungono con Walls of Vanaheim al loro settimo full length.

Il combo di Gelsenkirchen in tutti questi anni ha distribuito la propria competente interpretazione di un pagan black sinfonico e dalle ampie sfumarture folk, che si è con il tempo stemperato in qualcosa di più vicino all’heavy metal; Walls of Vanaheim è un album che mantiene ben salde le coordinate stilistiche e liriche della band, capace di regalare un lavoro convincente ma che, con qualche accorgimento in più, avrebbe potuto risultare di livello ancor più elevato.
I nostri hanno la capacità di creare con disinvoltura atmosfere epiche di grande evocatività ed immediatezza, ma pensano bene di appesantire il tutto con ben sei tracce contenenti una voce narrante che sarà anche funzionale alla comprensione del concept (visto che diversi brani sono cantati in lingua madre) ma che, allo stesso tempo, affievolisce all’ennesima potenza la tensione di un lavoro sul cui aspetto musicale c’è invece davvero poco da eccepire.
Un peccato neppure troppo veniale, questo, se pensiamo che al netto delle parti recitate resta comunque un’ora abbondante di musica, che rappresenta pur sempre un fatturato impegnativo in un epoca nella quale la fretta e la necessità della sintesi paiono aver preso il sopravvento; detto questo, però, i Black Messiah regalano una prova bella e convincente, trasportandoci nel loro epico immaginario la cui colonna sonora abbraccia il viking black come il folk, fornendo un risultato complessivo gratificante per chi ama tali sonorità.
La parte del leone in Walls of Vanaheim la fa Zagan, vocalist espressivo e abile violinista, che imprime il proprio marchio in ottimi brani come Mimir’s Head, The Walls of Vanaheim e A Feast of Unity, che sono poi quelli meno folkeggianti e maggiormente orientati ad esaltare la vena epica, anche con bellissimi progressioni chitarristiche, oltre alla notevole chiusura offerta con Epilogue: Farewell, che dopo due minuti di chiosa narrativa si trasforma in uno splendido strumentale che rappresenta idealmente la summa stilistica della band tedesca.
Walls of Vanaheim è un’opera di buono spessore in un genere in cui non è così semplice lasciare il segno, ma purtroppo non riesce a raggiungere l’eccellenza a causa dell’eccessiva e ridondante verbosità che rischia di tenere lontani gli ascoltatori meno avvezzi a questo tipo di sonorità.

Tracklist:
1. Prologue – A New Threat
2. Mimir’s Head
3. Father’s Magic
4. Mime’s Tod
5. Call to Battle
6. Die Bürde des Njörd
7. Satisfaction and Revenge
8. The March
9. The Walls of Vanaheim
10. Decisions
11. Mit Blitz und Donner
12. The Ritual
13. Kvasir
14. A Feast of Unity
15. Epilogue: Farewell

Line up:
Zagan – Vocals, Guitars, Violin
Garm – Bass
Donar – Guitars (lead), Vocals (backing)
Surtr – Drums
Pete – Guitars (rhythm), Vocals (backing)
Ask – Keyboards

Tom Zahner – Narrator

BLACK MESSIAH – Facebook

Forgotten Tomb – We Owe You Nothing

I Forgotten Tomb hanno raggiunto uno status invidiabile, che è quello di una band che può seguire una strada propria infischiandosene delle tendenze o delle convenienze commerciali, senza che questo vada minimamente ad inficiare il risultato finale.

I Forgotten Tomb sono una delle eccellenze italiane del nostro metal estremo fin dagli esordi, quando scuotevano l’audience con un black metal dalla forte impronta depressive sia musicalmente sia a livelli di tematiche.

Il tempo ha parzialmente smussato questo aspetto, anche se una certa disincantata negatività permane a livello lirico, mentre il sound si evoluto in una forma di black death con ampie venature doom, sempre in grado di offrire notevoli spunti melodici e soprattutto, mantenendo una cifra stilistica unica, che è poi il vero e proprio segno distintivo delle band di livelli superiore.
We Owe You Nothing è il nono full length del gruppo di Ferdinando Marchisio (alias Herr Morbid) e ad ogni nuova uscita di band provviste di un simile status è sempre grande il timore di riscontrare un appannamento irrimediabile della freschezza compositiva ma, a giudicare da questi sei brani, si può tranquillamente affermare che tale pericolo sia stato scongiurato.
Certo, bisogna partcire forzatamente dall’assunto che i Forgotten Tomb di oggi non sono più gli stessi di Love’s Burial Ground e nemmeno quelli di Negative Megalomania, il che appare tutt’altro che scontato vista la tendenza di molti a soffermarsi sul passato invece di focalizzarsi sul presente; detto questo We Owe You Nothing mantiene impresso a fuoco il marchio della band e ciò accade sia quando nella title track si palesano quelle sfumature southern che Marchisio ha sfogato nel recente passato con i Tombstone Highway, sia in Second Chances, allorchè il brano si stempera in un magnifico rallentamento di pura matrice doom.
L’ormao storica base ritmica, formata da Alessandro “Algol” Comerio al basso e da Kyoo Nam “Asher” Rossi alla batteria), che accompagna il leader fin da Love’s Burial Ground è un sinonimo di garanzia e coesione che valorizza ulteriormente il lavoro, anche quando prendono piede le caratteristiche progressioni chitarristiche come in Saboteur e, soprattutto, nel tellurico finale di Abandon Everything.
Longing For Decay è un buon brano dalle pesanti sfumature stoner sludge che però scorre via senza fornire particolari scossoni emotivi, che giungono invece con Black Overture (che contraddicendo il titolo in realtà chiude il lavoro) , splendido strumentale contraddistinto da un black doom atmosferico e melodico.
I Forgotten Tomb hanno raggiunto uno status invidiabile, che è quello di una band che può seguire una strada propria infischiandosene delle tendenze o delle convenienze commerciali, senza che questo vada minimamente ad inficiare il risultato finale; per quanto mi riguarda, ritengo che We Owe You Nothing sia il miglior album sfornato dalla band piacentina in questo nuovo decennio, rivelandosi molto più incisivo e ricco di sfumature rispetto ai pur buoni Under Saturn Retrograde, …and Don’t Deliver Us from Evil e Hurt Yourself and the Ones You Love, e questo non affatto cosa da poco …

Tracklist:
1. We Owe You Nothing
2. Second Chances
3. Saboteur
4. Abandon Everything
5. Longing For Decay
6. Black Overture

Line-up:
Ferdinando “Herr Morbid” Marchisio – guitars, vocals
Alessandro “Algol” Comerio – bass
Kyoo Nam “Asher” Rossi – drums

FORGOTTEN TOMB – Facebook

Crafteon – Cosmic Reawakening

Questi buoni otto brani si sviluppano su tempi medi riproposti con una certa regolarità e dal livello complessivo confortante, mancando però di un brano trainante capace di agganciare con decisione un audience sommersa da un’offerta ampia per gamma e, sostanzialmente, anche per qualità.

Tematiche lovecraftiane abbinate al black metal: niente di nuovo o sorprendente, ma sempre qualcosa di piacevolmente familiare per chi ama queste sonorità e, nel contempo, conosce a menadito le opere del solitario di Providence.

I Crafteon provengono da Denver e sono al loro primo passo discografico con questo full length intitolato Cosmic Reawakening, un lavoro decisamente gradevole nel suo insieme, anche se privo di quei particolari guizzi capaci di farlo emergere con decisione.
Ben suonato e prodotto, l’album del gruppo del Colorado mantiene sempre lungo il suo incedere uno stretto legame con il black scandinavo più melodico e dalle venature heavy, che emergono dalle progressioni chitarristiche.
Questi buoni otto brani si sviluppano su tempi medi riproposti con una certa regolarità e dal livello complessivo confortante, mancando però di un brano trainante capace di agganciare con decisione un audience sommersa da un’offerta ampia per gamma e, sostanzialmente, anche per qualità.
Brani intitolati Dagon o The Colour Out of Space finiscono comunque per possedere una loro indubbia attrattiva, e questo buon black epico e a tratti accattivante potrebbe intercettare i favori di più di un estimatore, magari attratto proprio dagli espliciti riferimenti lirici agli immortali racconti di H.P. Lovecraft.

Tracklist:
1. The Outsider
2. What the Moon Brings
3. The Temple
4. Dagon
5. The Colour Out of Space
6. The White Ship
7. From Beyond
8. The Whisperer in the Darkness

Line up:
Lord Mordiggian – Vocals (lead), Guitars (rhythm)
Rhagorthua – Drums
Ithaqua – Bass, Vocals (backing)
Fthaggua – Guitars (lead), Vocals (backing)

CRAFTEON – Facebook

Xanthochroid – Of Erthe and Axen Act II

Gli Xanthochroid sono sempre capaci di coinvolgere,  qualunque sia il filone stilistico prescelto, dall’alto della dote  più unica che rara che hanno nell’infondere la propria musica di un pathos cinematografico, consentendo all’ascoltatore di immergersi del tutto nel loro mondo immaginario per ottenerne visioni nitide e quanto mai reali.

Dopo aver ascoltato qualche mese fa la prima parte dell’atteso ritorno degli Xanthochroid, risale alla metà di ottobre l’uscita del secondo capitolo di Of Erthe and Axen.

Come preannunciato dalla band, il sound in quest’occasione riacquista quella magniloquenza sinfonica e, di pari passo, la robustezza metallica che erano state parzialmente sacrificate nel precedente episodio a favore di una comunque efficace vena folk.
In, effetti dopo la puntuale evocatività dell’intro, con Of Aching, Empty Pain la band californiana fa una sorta di riassunto musicale del proprio repertorio, piazzando il classico brano che mescola con brillantezza unica accenni di ritmiche black metal ad ampie aperture melodiche, richiamando anche il tema portante che costituisce il trait d’union della sua discografia.
Con Of Gods Bereft of Grace si entra in un territorio maggiormente inedito, grazie ad un andamento cangiante all’interno del quale trovano posto davvero tutte le pulsioni dei nostri, rassicurando  ampiamente chi poteva temere un inaridimento della vena compositiva di Sam Meador.
Gli Xanthochroid sono sempre capaci di coinvolgere,  qualunque sia il filone stilistico prescelto, dall’alto della dote  più unica che rara che hanno nell’infondere la propria musica di un pathos cinematografico, consentendo all’ascoltatore di immergersi del tutto nel loro mondo immaginario per ottenerne visioni nitide e quanto mai reali.
Walk With Me, O Winged Mother riporta l’opera a toni più rarefatti, con l’intervento di una Ali Meador utilizzata stavolta con parsimonia, questo almeno per qualche minuto prima che il brano monti dal punto di vista sinfonico sino a raggiungere picchi di grande solennità.
Gli ultimi venti minuti del lavoro esibiscono, come d’abitudine per i ragazzi di Lake Forest, un crescendo emotivo che va di pari passo con l’enfasi melodica, e se in Through Chains That Drag Us Downward meraviglia sempre la padronanza con la quale i nostri alternano umori e timbri vocali senza mai perdere il filo del discordo, con Toward Truth and Reconciliation il sound trova la sua maestosa sublimazione accompagnandoci, tra un brivido e l’altro,  ad un finale davvero degno della soundtrack di un film dai connotati epici.
Se Blessed Be With Boils stupiva per il suo essere l’epifania di un talento più unico che raro, questa doppia fatica non delude le attese, confermando appieno il valore di una band che, nel proprio segmento stilistico, ha a mio avviso già superato i propri maestri; volendo cercare il pelo nell’uovo, gli unici minimi dubbi permangono relativamente all’eccessiva dilatazione dei tempi intercorsi tra un full length e l’altro (anche se parzialmente compensata dagli oltre novanta minuti complessivi di Of Erthe and Axen) e alla capacità in futuro di svincolarsi dai temi lirici e musicali della saga di Thanos and Ereptor senza smarrire l’ispirazione (come accadde invece ai Virgin Steele successivamente all’epopea chiusa da “The House Of Atreus – Act 2”).
L’ancora giovane età di Meadow, Earl e Vallefuoco ed il talento cristallino esibito ad ogni uscita sono elementi che consente ragionevolmente di escludere il pericolo di un appannamento a breve termine, per cui non ci resta che godere a lungo e per intero di questo splendido lavoro, per il quale vale davvero la pena di dedicare un’ora e mezza del proprio tempo.

Tracklist:
1. Reveal Your Shape, O Formless One
2. Of Aching, Empty Pain
3. Of Gods Bereft of Grace
4. Of Strength and the Lust for Power
5. Walk With Me, O Winged Mother
6. Through Caverns Old and Yawning
7. Through Chains That Drag Us Downward
8. Toward Truth and Reconciliation

Line-up:
Sam Meador – Vocals, Keyboards, Guitars (acoustic)
Matthew Earl- Drums, Flute, Vocals (backing)
Brent Vallefuoco – Guitars (lead)
Ali Meador – Vocals

XANTHOCHROID – Facebook

Sheidim – Infamata

La durata, che non si discosta da molti full length di altre realtà, e la qualità dei brani proposti risultano due buoni motivi per non perdere questo lavoro e fare la conoscenza degli Sheidim.

Abituati alle uscite della I, Voidhanger, sempre molto originali e fuori dai soliti schemi, un ep come questo ultimo lavoro degli spagnoli Sheidim si posiziona dalle parti di un più scontato black metal di estrazione scandinava.

Gruppo proveniente da Barcellona, gli Sheidim sono una giovane band nata solo quattro anni fa, con alle spalle un ep di debutto ed un primo album sulla lunga distanza licenziato lo scorso anno dalla Dark Descent Records.
Un attacco frontale, una burrasca di maligno black metal che non manca di proporre tra le sue trame accenni melodici alla Dissection, sfuriate estreme e mid tempo evocativi di scuola Watain, per quasi mezzora di metallo nero ad opera di questi blacksters latini che il loro mestiere lo sanno fare molto bene.
L’attitudine non manca di certo al combo catalano e sembra davvero di essere al cospetto di un nugolo di demoni provenienti dal nord, tanto è l’impatto con cui le varie A Dying Sun o Underneath si infrangono come un maremoto sui nostri padiglioni auricolari.
Un ottimo scream, buone sfumature melodiche e qualche intermezzo atmosferico a rendere vario ed interessante l’ascolto, fanno di Infamata un mini album da non sottovalutare, con la conclusiva Sister Of Sleep a portare la temperatura sotto lo zero con un inizio raggelante che sfocia in una ripartenza diabolicamente devastante.
La durata, che non si discosta da molti full length di altre realtà, e la qualità dei brani proposti risultano due buoni motivi per non perdere questo lavoro e fare la conoscenza degli Sheidim.

Tracklist
1. Infamata
2. A Dying Sun
3. Underneath
4. Wings Of The Reaper
5. Sister Of Sleep

Line-up
A.T. – Bass
J.F. – Drums
C.S. – Guitars
A.K. – Vocals

SHEIDIM – Facebook

Ulvegr – Titahion: Kaos Manifest

Titahion: Kaos Manifest è un altro disco dedicato agli amanti del black metal, quelli che di certo non si stufano di ascoltare certe sonorità, specialmente se offerte con l’attitudine e le capacità mostrate dagli Ulvegr.

Nella categoria degli ottimi dischi, inevitabilmente compressi da una concorrenza affollata, troviamo questo quarto full length degli ucraini Ulvegr.

Il duo di Kharkiv interpreta il black metal in maniera senza dubbio intensa e comunque abbastanza personale, offrendo brani dal grande impatto ritmico intervallati da qualche episodio più rarefatto e sperimentale (Sol In Signo Sagittarii, Countless Aeons In Transcedent Abyss, U-tuk-ku Lim-nu, Bloodcult. Initiation), e il tutto assume comunque le sembianze di un rituale attraverso il quale vengono evocate le ben note divinità lovecraftiane (Yog-Sothoth è destinato a palesarsi, prima o poi, vista la forza di un brano come Throne Among The Void).
Il duo formato da Helg (chitarra, basso e voce) e Odalv (batteria) si dimostra decisamente affiatato, e per non lasciare nulla d’intentato si avvale dell’aiuto di diversi ospiti afferenti alla florida scena black metal locale gravitante attorno a nomi pesanti come Nokturnal Mortuum e Drudkh: tutto questo rende il sound molto più pieno e definito e va detto, in tal senso, che poter usufruire di un bel martello in carne ed ossa alla batteria invece di ricorrere ad un’asettica drum machine fa sempre tutta la differenza del mondo.
Oltra alla già citata Throne Among The Void, anche When Stars Will Turn To Ashes, She, Who Grants Sufferings, Manifestations Of Havoc e la conclusiva Black Light Of A Dying Sun si dimostrano tracce trascinanti, devote ad un black metal tradizionale ma con una decisiva punta di epico furore ben trasmesso, senza che il tutto scada mai in un parossistico caos senza capo né coda.
Titahion: Kaos Manifest è un altro disco dedicato agli amanti del black metal, quelli che di certo non si stufano di ascoltare certe sonorità, specialmente se offerte con l’attitudine e le capacità mostrate dagli Ulvegr.

Tracklist:
1. Sol In Signo Sagittarii
2. Throne Among The Void
3. Countless Aeons In Transcedent Abyss
4. When Stars Will Turn To Ashes
5. She, Who Grants Sufferings
6. U-tuk-ku Lim-nu
7. Manifestations Of Havoc
8. Bloodcult. Initiation.
9. Black Light Of A Dying Sun

Line-up
Helg – guitars, bass and vocals
Odalv – drums

Guests:
Astargh – lead and rhythm guitars and vocals
Hyozt – keys and samples
Zhoth – vocals and voices on “She, Who Grants Sufferings”, ” U-tuk-ku Lim-nu” and “Countless Aeons In Transcedent Abyss”

ULVEGR – Facebook

Sojouner – Empires of Ash

Un lavoro valido, basato su un black metal epico e atmosferico, che non stravolge le gerarchie del genere rivelandosi, però, degno di ascolto e di attenzione per chi apprezza simili sonorità.

Empires of Ash è il full length d’esordio dei Sojourner, una band piuttosto anomala per composizione, visto che è formata da due neozelandesi, da un’inglese ed uno spagnolo, con l’aggiunta di un batterista italiano entrato in organico dopo l’uscita del disco.

È vero però che il nucleo della band è rinvenibile a Dunedine, in quell’emisfero australe dove risiedono abitualmente Mike Wilson e Mike Lamb, che assieme compongono l’interessante progetto doom Lisythea, raggiunti dalla britannica Chloe Bray che di Lamb è la consorte; probabilmente senza averlo costretto ad estenuanti trasvolate oceaniche, i tre hanno ingaggiato un vocalist piuttosto noto in ambiente doom come lo spagnolo Emilio Crespo (Nangilima) e da questo incontro è nato un lavoro davvero valido, basato su un black metal epico e atmosferico, che non stravolge le gerarchie del genere rivelandosi, però, degno di ascolto e di attenzione per chi apprezza simili sonorità.
Empires of Ash, in effetti, è uscito più di un anno fa per Avantgarde Music ed è stato rimesso in circolazione nello scorso mese di marzo, da parte della Fólkvangr Records, nel sempre più diffuso ed appetibile formato in musicassetta: viene fornita quindi una buona occasione per riascoltare brani dal notevole impatto evocativo come Heritage of the Natural Realm, Aeons of Valor e la lunghissima title track, chiusura degna di un’opera interessante e di buona fruibilità.

Tracklist:
Side A
1. Bound by Blood
2. Heritage of the Natural Realm
3. Aeons of Valor
4. The Pale Host
Side B
5. Homeward
6. Trails of the Earth
7. Empires of Ash

Line-up
Mike Wilson – Bass
Mike Lamb – Drums, Guitars, Piano, Synth
Chloe Bray – Guitars, Tin whistle, Vocals (female)
Emilio Crespo – Vocals

SOJOURNER – Facebook

Párodos – Catharsis

La speranza è che questo, per i Párodos, sia solo il primo passo del brillante cammino intrapreso da una nuova band formata da musicisti che, forse proprio in quest’ambito, paiono aver trovato la loro ideale dimensione.

Anche se il monicker Párodos è una novità nella scena metal italiana, si tratta in realtà del prodotto dell’unione di musicisti già attivi in diverse band dell’area salernitana.

Catharsis dimostra in ogni passaggio d’essere frutto di un lavoro di squadra nel quale nulla è stato lasciato al caso, partendo dal pregevole songwriting per arrivare alla realizzazione curata da Marco Mastrobuono ai Kick Recordings Studio di Roma, in quella che si può considerare la fucina sonora per eccellenza del metal italiano centro-meridionale.
L’etichetta di avantgarde/post black attribuita ai Párodos può starci anche se, come spesso accade, vuol dire tutto e niente, visto che qui troviamo certamente qualche accelerazione di matrice black, ma anche una ricerca melodica che spinge spesso il sound su versanti heavy progressive, mantenendo quale tratto comune un’oscurità di fondo che ben si addice ai contenuti lirici dell’album.
Catharsis, infattiscaturisce dall’elaborazione di un lutto entrando a far parte di quella categoria di dischi che, oltre ad essere riusciti da un punto di vista prettamente artistico, racchiudono quella scintilla di creatività derivante dalla volontà di omaggiare qualcuno che non c’è più ottenendo, appunto, il desiderato effetto “catartico”.
L’album è brillante in ogni sua parte, a partir dall’interpretazione vocale versatile di Marco Alfieri, per arrivare all’elegante ed  incisivo lavoro tastieristico di Giovanni Costabile, passando per la puntualità ritmica della coppia Gianpiero “Orion” Sica (basso) ed Alessandro Martellone (batteria), e per il sobrio ed efficace lavoro chitarristico di Francesco Del Vecchio: è notevole l’equilibrio che i Párodos riescono a mantenere tra la tensione drammatica e l’impatto melodico, che sovente squarcia con decisione il velo di oscurità che attanaglia un album di grande intensità emotiva.
Space Omega, la title track e Metamorphosis sono i brani che spiccano in un contesto di spessore talvolta sorprendente, e gli ospiti illustri nelle persone dello stesso Marco Mastrobuono (Hour Of penance), Massimiliano Pagliuso (Novembre) e Francesco Ferrini (Fleshgod Apocalyspe) arricchiscono del loro personale marchio di qualità un’opera che si dimostra già dopo pochi ascolti ben superiore alla media.
La speranza è che questo, per i Párodos, sia solo il primo passo del brillante cammino intrapreso da una nuova band formata da musicisti che, forse proprio in quest’ambito, paiono aver trovato la loro ideale dimensione.

Tracklist:
1. Prologue
2. Space Omega
3. Catharsis
4. Heart of Darkness
5. Stasima
6. Black Cross
7. Evocazione
8. Metamorphosis
9. Exodus

Line-up:
Marco “M.” Alfieri – Vocals
Giovanni “Hybris” Costabile – Synth & Keyboards
Francesco “Oudeis” Del Vecchio – Guitars
Gianpiero “Orion” Sica – Bass
Alessandro “Okeanos” Martellone – Drums & Percussions

Special Guests :
Marco Mastrobuono – fretless bass in “Space Omega”, “Black Cross”, “Evocazione”
Massimiliano Pagliuso – guitar solo in “Black Cross”
Francesco Ferrini – “Stasima”, fully arranged and composed

PARODOS – Facebook

Grima – Tales of the Enchanted Woods

Un lavoro che squarcia il velo sul talento di questi due ragazzi, per i quali mi piace pensare che il comune sentire causato dalla loro condizione gemellare abbia realmente fatto la differenza.

Uno degli aspetti negativi dell’essere più o meno sommersi da materiale proveniente da ogni parte del globo è quello di rischiare di trascurare dischi di enorme valore: ecco perché ci ritroviamo a parlare di questo secondo album dei russi Grima a ben otto mesi dalla sua uscita nonostante si riveli, alla prova dei fatti, uno dei migliori album di black metal atmosferici usciti nel corso dell’anno.

Del resto bisognerebbe anche fidarsi delle etichette che promuovono questi lavori, in questo caso la Naturmacht che di colpi, oggettivamente, ne sbaglia ben pochi: qui però il centro è pieno, perché Tales of the Enchanted Woods è una delle espressioni più fresche ed entusiasmanti del genere che ci sia stato dato modo di ascoltare in tempi recenti.
I Grima sono un duo siberiano formato dai gemelli Gleb e Maxim Sysoev (membri anche degli Ultar), qui con i nickname Vilhelm e Morbius, i quali annichiliscono ed emozionano con il loro black metal epico e maestoso, capace di prendere il meglio dalla scena scandinava e tedesca, iniettandovi una sognante componente cascadiana, splendide venature folk grazie all’inserimento della fisarmonica ed un velenoso screaming che rimanda parzialmente ai Cradle Of Filth.
Tutte queste componenti si amalgamano alla perfezione dando vita ad un lavoro che si sviluppa su cinque tracce portanti più tre strumentali; se l’ascolto, come a volte accade, inizia in maniera un po’ distratta, i Grima impiegano poco per catalizzare l’attenzione con un brano ottimo come The Moon And Its Shadows e, successivamente, con il capolavoro Ritual, grazie al suo enorme carico evocativo dovuto ad una stupefacente capacitò del duo di creare melodie di rara solennità. Never Get Off The Trail , The Grief (con trame chitarristiche che ne illuminano il finale), The Shepherds Of The sono altre perle che trasportano l’ascoltatore all’interno delle maestose e gelide foreste siberiane, protette da uno spirito che ne tutela gli abitanti e che punisce severamente chi non ne rispetta le forme di vita animale e vegetale (forse è l’unico tipo di divinità della quale ci sarebbe veramente bisogno …).
I Grima regalano quasi tre quarti d’ora di magnificenza oscura ed atmosferica, con un ispirazione ed una freschezza che fanno passare sopra a qualche piccola sbavatura esecutiva e l’assenza di un batterista in carne ed ossa.
Inezie, se rapportate al valore complessivo di un lavoro che squarcia il velo sul talento di questi due ragazzi, per i quali mi piace pensare che il comune sentire causato dalla loro condizione gemellare abbia realmente fatto la differenza

Tracklist:
1. The Sentry Peak
2. The Moon And Its Shadows
3. Ritual
4. Wolfberry
5. Never Get Off The Trail
6. The Grief
7. The Shepherds Of The
8. The Sorrow Bringer

Line-up
Morbius – Guitars
Vilhelm – Vocals, Guitars, Programming

GRIMA – Facebook

Omega – Eve

Un altro livello di lettura è chiudere gli occhi e sentire cosa fa veramente questa musica, cosa provoca nelle nostre sinapsi: in codesta maniera si potrà scoprire un mondo, una raccolta di emozioni e stati d’animo come in un’ipnosi, perché questo disco è concepito per farci viaggiare alla ricerca del nostro io, della nostra volontà su questo pianeta, ma anche e soprattutto oltre questo pianeta e questi limiti che ci imponiamo.

Eve degli Omega è un disco che va ben oltre le emozioni che da un supporto fonografico, fa vedere orizzonti lontani.

Il disco è composto da vari livelli, quello più immediato può essere descrivibile come un tenebroso disco di black metal misto a doom ed un pizzico di death, con stacchi dark ambient. Un altro livello di lettura è chiudere gli occhi e sentire cosa fa veramente questa musica, cosa provoca nelle nostre sinapsi: in codesta maniera si potrà scoprire un mondo, una raccolta di emozioni e stati d’animo come in un’ipnosi, perché questo disco è concepito per farci viaggiare alla ricerca del nostro io, della nostra volontà su questo pianeta, ma anche e soprattutto oltre questo pianeta e questi limiti che ci imponiamo. Le tracce sono quattro, il disco va sentito come un continuum sonoro, una lunga suite di musica estrema. Eve è ispirato dal manoscritto Voynich, forse il libro più misterioso mai scritto, o forse soltanto un tentativo di oltrepassare la realtà andando oltre i sensi, in un flusso che lega tutto ciò che è stato, tutto ciò che è e tutto ciò che sarà. Lo stile musicale è pienamente narrativo, veniamo trasportati in una storia dall’architettura profonda con l’uomo al centro, ed intorno un universo che vortica. Il black metal qui è un punto di partenza, perché il suono di questo disco ne ha molti elementi, ma è un’opera nuova ed originale. Nel nuovo splendido libro Black Metal Compendium Volume II – Europa e Regno Unito – di Vavalà e Ottolenghi per i tipi della Tsunami Edizioni, gli autori spiegano molto bene cosa sia il black metal per noi mediterranei, ed in particolare per noi italiani, ovvero un codice da far evolvere, un punto di partenza per profonde esplorazioni, e Eve ne è la spiegazione perfetta: un manoscritto Voynich che ognuno deve decifrare, perché parla di noi stessi, della nostra storia, e della cosmogonia che abbiamo dentro. Un’esperienza, molto più di un disco.

Tracklist
1.Arboreis
2.Sidera
3.Mater
4.Laudanum

Line-up
Alexios Ciancio – Vocals
Mike Crinella – Guitars, Synths, Samples
Fabio Arcangeli – Bass
Marco Ceccarelli – Drums

DUSKTONE – Facebook

Inconcessus Lux Lucis – The Crowning Quietus

Trascinante e adrenalinico, The Crowning Quietus è l’ascolto ideale per ripulirsi dalle scorie della quotidianità e combattere efficacemente “il logorio della vita moderna”, parafrasando una famosa pubblicità di altri tempi …

La I, Voidhanger è una label alla quale si associa in maniera automatica l’ascolto dischi tutt’altro che banali, se non talvolta cervellotici o di complessa decrittazione, a seconda dei punti di vista.

Tanto per togliere qualsiasi dubbio all’audience sulla qualità e la varietà del proprio roster, l’attiva etichetta italiana consegna alle stampe questo sismico The Crowning Quietus, secondo full length dei britannici Inconcessus Lux Lucis, che poi a ben vedere sarebbe il terzo, tenendo condo anche di quello inciso nella prima parte della loro storia con il monicker Whorethorn.
Baal e Malphas fanno coppia artisticamente da oltre un decennio e credo che la loro comunione d’intenti si evinca fin dalle prime note dell’album: il duo, infatti, offre un black metal senza orpelli di alcun tipo, stante una pesante propensione per il rock’n’roll che rende questi sei brani una piacevole ed inarrestabile galoppata verso gli inferi, un luogo ameno nel quale, visto che ci si dovrà trascorrere un po’ di tempo, è forse meglio accedere con il giusto piglio, e direi che, all’uopo, farsi precedere dal sound degli Inconcessus Lux Lucis sia il modo più indicato per rendersi simpatici ai padroni di casa.
The Crowning Quietus parte sparato, con le sue pesanti iniezioni di hard ‘n’heavy d’autore, ed arriva altrettanto forte, con l’unica anomalia di chiudersi con tre brani piuttosto lunghi per il genere, comunque ben lontani dal rischio di apparire tediosi, visto che proprio grazie al loro protrarsi sono anche quelli che presentano le maggiori variazioni ritmiche nonché apprezzabili spunti di chitarra solista, con il brano di chiusura Fever Upon The Firmament che, nel finale, diventa una vera e propria cavalcata maideniana.
Trascinante e adrenalinico, The Crowning Quietus è l’ascolto ideale per ripulirsi dalle scorie della quotidianità e combattere efficacemente “il logorio della vita moderna”, parafrasando una famosa pubblicità di altri tempi …

Tracklist:
1. With Leaden Hooks And Chains
2. Amour Rides Upon Midnight
3. At The Behest Of The Sinister Impulse
4. To Satiate Silence
5. The Crowning Quietus
6. Fever Upon The Firmament

Line-up:
W. Malphas – Guitars/Drums/Vocals
A. Baal – Bass Guitar

INCONCESSUS LUX LUCIS – Facebook

Profundum – Come, Holy Death

Ogni attimo è finalizzato al completamento di un percorso che porta verso una fine più invocata che temuta, con la tensione che non viene mai lasciata scemare.

I Profundum sono una di quelle misteriose band che periodicamente sbucano da qualche oscuro anfratto esibendo in maniera magnifica sonorità disperatamente malsane e funeree.

Come spesso avviene in questi casi, tra l’altro, le uniche notizie certe sono la provenienza statunitense (San Antonio), il fatto che Come, Holy Death sia il loro full length d’esordio che segue l’ep dello scorso anno What No Eye Has Seen, e che si tratta di un duo formato dai misteriosi LR e R, anche se diversi indizi mi fanno ragionevolmente ritenere che quest’ultimo sia, in effetti, il Ryan Wilson titolare del pregevole monicker The Howling Void.
Inoltre, le note promozionali ci fanno sapere che i Profundum traggono la loro ispirazione dai fondamentali primi lavori degli Emperor per poi sviluppare un’idea di musica oscura, ferale e nel contempo maestosa.
Indubbiamente, chi ha ben presente le sonorità di In The Nightside Eclipse può trovarsi d’accordo con tale affermazione, fermo restando che il sound dei californiani propende in maniera decisiva verso il funeral doom, lasciando che le sfuriate di matrice black siano solo una delle componenti del sound e non quella preponderante.
Fatte le debite premesse, si può tranquillamente dichiarare Come, Holy Death come una delle sorprese dell’anno quando si parla di sonorità in grado di evocare un senso di struggimento misto ad angoscia e ottundente dolore: mi spingo oltre, affermando che forse mai nessuno, almeno nell’ultimo decennio, è riuscito a realizzare con tale efficacia il connubio atmosferico tra il black metal ed il funeral.
L’album non è particolarmente lungo, con i suoi otto brani dalla durata media di cinque minuti ciascuno che vanno a creare, però, un flusso unico nel corso del quale soffocanti rallentamenti si legano in un abbraccio mortale alle repentine accelerazioni grazie alla solennità delle tastiere: la voce di LR è un growl che sovente si tramuta in uno screaming mai troppo esasperato, comunque restando sempre nei limiti di una certa intelligibilità.
Come, Holy Death, proprio per tutte queste caratteristiche,  non possiede picchi né punti deboli, perché non c’è un solo secondo sprecato indugiando in passaggi interlocutori: qui ogni attimo è finalizzato al completamento di un percorso che porta verso una fine più invocata che temuta, con la tensione che non viene mai lasciata scemare. Obbligato a scegliere un brano emblematico, opto per Unmoved Mover, abbellito da un misurato tocco pianistico, ma ribadisco che anche le altre sette tracce non sono affatto da meno.
Profundum è un altro nome da segnare con il circoletto rosso in egual misura, sia per per gli appassionati di black atmosferico sia per quelli di funeral doom.

Tracklist:
1. Sentient Shadows
2. Unmoved Mover
3. Antithesis
4. Tunnels to the Void
5. Storms of Uncreation
6. Into Silences Ever More Profound
7. I Have Cast A Fire Upon The World
8. Illuminating The Abyss

Line-up:
LR – vocals
R – all instruments

PROFUNDUM – Facebook

Raventale – Planetarium

Planetarium contiene quattro tracce splendide, nelle quali la componente estrema è brillantemente stemperata da un’ispirazione melodico/atmosferica spinta al suo massimo livello.

Quello dei Raventale non è certo un nome sconosciuto per gli osservatori più attenti della scena estrema dell’est europeo.

La one man band ucraina, il cui titolare è Astaroth Merc, con Planetarium arriva all’ottavo full length in una dozzina d’anni di attività contraddistinta da una qualità media elevatissima, offrendo una personale interpretazione del black metal che, a mio avviso, con questo ultimo album trova la sua sublimazione.
Planetarium contiene quattro tracce splendide, nelle quali la componente estrema è brillantemente stemperata da un’ispirazione melodica spinta al suo massimo livello, come si può facilmente evincere dall’ascolto dell’iniziale Gemini – Behind Two Black Moons, traccia talmente ariosa che talvolta finisce per lambire il post black e persino il progressive, nel momento in cui si palesa uno struggente assolo di chitarra.
Del resto non si scopre oggi il fatto che Astaroth Merc sia un musicista di classe cristallina ed ogni strumento che passa per le sue mani è trattato con maestria, lasciando come di consueto ad un ospite (in questo caso l’ottimo Atahamas, suo compagno anche nei Balfor e nei Deferum Sacrum) il compito di interpretare le linee vocali.
Dopo la splendida prima traccia, il sound si fa ancor più solenne e maestoso con il capolavoro Bringer Of Celestial Anomalies, brano più aspro e ritmato ma trascinante come di rado accade ascoltare: un furioso blast beat viene per lo più sovrastato da pennellate tastieristiche che conferiscono al tutto una magica aura cosmica capace in questi casi di fare la differenza.
Dopo tanta bellezza è oggettivamente difficile fare meglio, e At The Halls Of The Pleiades offre un volto più arcigno, con il suo riffing profondo che non penalizza però una componente atmosferica la quale, anzi, si riprende ampio spazio nelle fase centrale del brano; la chiusura è invece affidata a New World Planetarium, altro episodio che supera i dieci minuti, complessivamente più compassato senza che venga meno il mood che ha contraddistinto l’album lungo la precedente mezz’ora.
Volendo fare un parallelismo magari audace, Planetarium potrebbe rappresentare l’ideale prosecuzione del discorso che gli Arcturus portarono avanti inizialmente con Constellation e poi con Aspera Hiems Simfonia, prima di abbandonare tale vena prog/atmosferica per virare su sonorità avanguardiste, visto che di quelle pietre miliari l’opera targata Raventale possiede lo stesso suggestivo respiro cosmico. A questo quadro va aggiunto che il black metal proposto da Astaroth Merc è anche contraddistinto da una componente doom, forse oggi più attitudinale che non espressa con particolari rallentamenti: ma non è un caso, però, il fatto che il musicista ucraino sia stato chiamato ad esibire le doti della sua creatura al recente Doom Over Kiev, festival che ha visto all’opera la massima espressione del doom death atmosferico europeo con Saturnus, Swallow the Sun, Clouds e Eye Of Solitude. Tutto ciò rende l’idea di quale considerazione godano i Raventale in patria e, alla luce di questo, non sarebbe male che gran parte degli estimatori del black/doom al di fuori di quei confini desse il giusto risalto ad un progetto guidato da un musicista che, come pochi altri, è riuscito a produrre con una tale continuità album di assoluto valore.

Tracklist:
1 Gemini – Behind Two Black Moons
2 Bringer Of Celestial Anomalies
3 At The Halls Of The Pleiades
4 New World Planetarium

Line-up:
Astaroth Merc – All Isntruments
Athamas – Vocals

RAVENTALE – Facebook