The Cascades – Phoenix

I The Cascades regalano tredici brani davvero gradevoli e ben costruiti, per un risultato finale che non può esser imprescindibile per la sua marcata derivatività ma che resta decisamente pregevole ed oltremodo ben accetto da parte di noi “diversamente giovani”.

Molti tra quelli un po’ meno giovani che, a cavallo tra gli ani ottanta e novanta, si sono beati delle sonorità gotiche che diedero una meritata fama ai Sisters Of Mercy prima e poi ai The Mission, sono inevitabilmente attratti reunion estemporanee, concerti o nuove uscite dagli esiti contraddittori che vedono ancora all’opera antichi eroi come Andrew Eldritch o Wayne Hussey.

A colmare la voglia di riascoltare qualcosa di simile, ma in una verse più attuale, arrivano i tedeschi The Cacasdes, band tutt’altro che composta da giovanotti imberbi, visto che la sua nascita è avvenuta sempre in quei formidabili anni anche se la trentennale carriera è stata molto meno fortunata rispetto a quella dei mostri sacri citati.
Dopo un lungo silenzio il gruppo guidato da Markus Wild ritorna con un lavoro di inediti che si rivela un vero godimento per chi, ai tempi, consumò le proprie copie viniliche di First And Last And Always e Gods’ Own Medicine; da questi questi indizi si può facilmente dedurre che Phoenix potrà avere tuti i pregi di questo mondo fuorché l’originalità ma, sinceramente, non ce ne può importare di meno.
Brani come Dark Daughter’s Diary e Phase 4 entrano sottopelle a grande velocità e fanno precipitare la memoria in un immaginario fatto di personaggi nero vestiti sempre affascinanti e carismatici, anche se a qualcuno oggi potrebbero apparire irrimediabilmente obsoleti.
Essendo un album uscito nel 2018, Phoenix non si nutre esclusivamente di quelle più antiche pulsioni, ma si aggiorna anche alle derive che il gothic sound ha preso in questi tempi, acquisendo il più lascivo incedere melodico dei The 69 Eyes (The World Is Yours) ma anche le asprezze che coincidono soprattutto con gli episodi in lingua madre (Ihr Werdet Sein), senza dimenticare di omaggiare una band formidabile, pur se avulsa da tale contesto, come gli Hüsker Dü coverizzandone in maniera eccellente il brano Diane.
In definitiva, i The Cascades regalano tredici brani davvero gradevoli e ben costruiti, per un risultato finale che non può esser imprescindibile per la sua marcata derivatività ma che resta decisamente pregevole ed oltremodo ben accetto da parte di noi “diversamente giovani”.

Tracklist:
01. Avalanche
02. Blood Is Thicker Than Blonds
03. Dark Daughter’s Diary
04. Phase 4
05. Station No. E
06. Phoenix
07. Behind The Curtain
08. This World Is Yours
09. Superstar
10. Ihr Werdet Sein
11. Zeros And Ones
12. Diane (Hüsker Dü cover)
13. Für F.

Line-up:
M. W. Wild – Vocals
Morientes daSilva – Guitars
Markus Müller – Keyboards / Programming

THE CASCADES – Facebook

Lacuna Coil – The 119 Show-Live In London

The 119 Show-Live In London immortala la band sul palco del O2 Forum Kentish Town nella capitale inglese, con Cristina Scabbia e compagni accompagnati dal gruppo circense Incandescence, per quello che risulta uno spettacolo sonoro e visivo straordinario.

Questo articolo sarebbe stato più completo se alle note avessimo potuto godere del supporto video, perché i Lacuna Coil hanno fatto le cose in grande per festeggiare i loro vent’anni nella scena metal/rock, un ventennio di soddisfazioni per loro e per chi ha a cuore la scena tricolore, che ha messo a tacere chi ha sempre guardato al gruppo con malcelata invidia.

Praticamente da sempre con Century Media, segno del valore assoluto della band e della propria discografia, la band viene glorificata in questa uscita che possiede tutte le caratteristiche dell’evento; una fama cresciuta dal 1998 attraverso una serie di ottimi lavori che hanno fatto scuola, otto full length che hanno accompagnato il metal moderno dalle tinte dark/gothic del gruppo nel nuovo millennio, con una Cristina Scabbia lanciata anche nel mondo della TV (è da poco passata la sua partecipazione al programma The Voice Of Italy) ed un ultimo album (Delirium, licenziato un paio di anni fa) che ha confermato i Lacuna Coil tra tra i massimi esponenti del genere.
The 119 Show-Live In London immortala la band sul palco del O2 Forum Kentish Town nella capitale inglese, con Cristina Scabbia e compagni accompagnati dal gruppo circense Incandescence, per quello che risulta uno spettacolo sonoro e visivo straordinario.
L’opera esce nelle versioni: Blu-ray+DVD+2CD, 2CD+DVD, Digital Album e sicuramente non deluderà chi ha sempre seguito la band italiana, protagonista di uno spettacolo assolutamente perfetto con i due vocalist ed i loro compagni d’avventura in perfetta forma.
I Lacuna Coil, che sono probabilmente il gruppo più famoso e seguito in tutto il mondo tra quelli battenti bandiera tricolore, nel momento della loro piena maturazione regalano questo racconto della propria vita artistica in ventotto splendidi brani che hanno fatto la storia del genere a cavallo del nuovo millennio.
Troviamo quindi tutti quelli che hanno portato alla band il successo mondiale, ma anche qualche chicca suonata per l’occasione, toccando tutte le tappe di una lunga carriera per una celebrazione del verbo Lacuna Coil che diventa essenziale per il fans quanto per chi cerca un qualcosa che ne riassuma l’operato in tutte le sue sfumature.
Non resta che fare i complimenti ai Lacuna Coil per lo straordinario traguardo raggiunto, che è anche quello di rappresentare l’orgoglio dell’anima rock/metal del nostro sempre più bistrattato paese.

Tracklist
1. Intro
2. A Current Obsession
3. 1.19
4. My Wings
5. End Of Time
6. Blood, Tears, Dust
7. Swamped
8. The Army Inside
9. Veins Of Glass
10. One Cold Day
11. The House Of Shame
12. When A Dead Man Walks
13. Tight Rope
14. Soul Into Hades
15. Hyperfast
16. I Like It
17. Heaven’s A Lie
18. Senzafine
19. Closer
20. Comalies
21. Our Truth
22. Intermezzo
23. Falling
24. Wide Awake
25. I Forgive (But I Won’t Forget Your Name)
26. Enjoy The Silence
27. Nothing Stands In Our Way
28. Final Credits
II Behind The Curtains
III Enter The Coil

Line-up
Cristina Scabbia – Female Vocals
Andrea Ferro – Male Vocals
Marco Coti-Zelati – Bass Guitar, Guitars, Keyboards, Synths
Ryan Blake Folden – Drums
Diego Cavallotti – Guitars

https://www.facebook.com/lacunacoil

MZ.412 – In Nomine Dei Nostri Satanas Luciferi Excelsi

La bellezza di In Nomine Dei Nostri Satanas Luciferi Excelsi è il fascino malato e decadente del satanismo e di anime e vite perdute, di ritmi sincopati che si spezzano per far entrare momenti molto vicini al black metal, attimi di rabbia di demoni che invocati non vogliono tornare nelle loro dimensioni.

Un vero e proprio rituale che usa la musica come mezzo per chiamare spiriti da altre dimensioni.

Gli svedesi MZ.412 sono stati uno dei gruppi di maggior spicco della Cold Meat Industry, una fra le migliori etichette mondiali di elettronica e musica altra. La Concilium Records farà uscire a gennaio 2019 la ristampa di questo capolavoro di dark black metal ambient originariamente uscito nel 1995 e diventato molto più di un classico, essendo un apripista per un sottogenere che ora frequentano in molti. L’evoluzione dei MZ.412 fu costante, partendo da un’elettronica ambient oscura e tenebrosa per immergersi in un tenebra ancora più profonda, con questo lavoro che è una vera e propria invocazione a Satana, cosa molto semplice, poiché basta descrivere l’inferno che è la nostra società odierna. Come detto poc’anzi questa è musica totalmente rituale, fatta da una dark ambient di eccelsa qualità che precipita l’ascoltatore in molti ambienti diversi, dall’apocalisse ad una cripta sottoterra, da un momento di relativa calma ad una frequenza che ronza nel cervello di non morti. Ascoltando questo lavoro ognuno si farà la propria idea, dato che questa musica evocatrice differisce da soggetto a soggetto, ma qui dentro c’è tanto male, dolore ed ansia, e se ascoltata ad lato volume questa musica diventa un qualcosa che ci entra dentro, pur essendo già insita in noi. La bellezza di In Nomine Dei Nostri Satanas Luciferi Excelsi è il fascino malato e decadente del satanismo e di anime e vite perdute, di ritmi sincopati che si spezzano per far entrare momenti molto vicini al black metal, attimi di rabbia di demoni che invocati non vogliono tornare nelle loro dimensioni. Sangue, lussuria, morte e vita che non è vita, il tutto raccontato in maniera quasi perfetta con un’elettronica che incrocia tantissime cose ed è figlia di una certa industrial inglese degli anni ottanta, specialmente di quella più maledetta. Non c’è salvezza o speranza, c’è solo l’adorazione di un angelo caduto che è quello che meglio ci rappresenta. Un capolavoro della dark ambient che rivede la luce, testimonianza di un tempo dove la creatività musicale era molto maggiore, e i risultati molto migliori. Preparatevi al rito.

Tracklist
1 In Nomine Dei
2 Salvo Honoris Morte
3 Necrotic Birth
4 Black Earth
5 Daemon Raging
6 God Of Fifty Names
7 Regie Satanas
8 Paedophilia Cum Sadismus
9 Hail The Lord Of Goats

MZ.412 – Facebook

Ataraxia – Synchronicity Embraced

Quella degli Ataraxia è musica senza vincoli spazio-temporali e, anche se può talvolta offrire l’ingannevole impressione di provenire da un remoto passato, è in realtà come sempre ricca di sfumature che ne rendono l’ambientazione saldamente attuale.

Quando ci viene concessa la possibilità di poter ascoltare un album degli Ataraxia, non si può fare a meno di pensare quanto la nostra vita sarebbe misera se privata di quella forma d’arte suprema che è la musica.

Un disco come Synchronicity Embraced rappresenta quel prodigio che si ripete in maniera puntuale in corrispondenza di ogni uscita del gruppo emiliano, vera e propria eccellenza del movimento musicale italiano, indipendentemente dalle suddivisioni di genere.
Quella degli Ataraxia è musica senza vincoli spazio-temporali e, anche se può talvolta offrire l’ingannevole impressione di provenire da un remoto passato, è in realtà come sempre ricca di sfumature che ne rendono l’ambientazione saldamente attuale.
Forse è proprio in questo aspetto che l’ensemble, guidato dalla voce di Francesca Nicoli e dal genio compositivo di Vittorio Vandelli, differisce da un’altra gemma sonora italica che si muove su territori contigui come la Camerata Mediolanense: infatti, benché i punti di contatto tra queste due magnifiche realtà non siano pochi, il gruppo lombardo sembra però più orientato ad una ricerca filologica che volge inevitabilmente lo sguardo all’indietro.
Gli Ataraxia aprono invece le loro ali in un volo che sovrasta ora il neo folk, ora la dark wave, lambisce contrafforti morriconiani per poi planare appoggiandosi sulle basi della più colta tradizione musicale tricolore.
Synchronicity Embraced è il regalo che musicisti di livello inarrivabile mettono a disposizione di chi voglia appropriarsene, godendo del contenuto poetico ed evocativo di un lavoro che incanta e sorprende ancora, perché l’ascolto di brani di irreale bellezza come Sikia, Chiron Quartz e la title track restituisce emozioni difficilmente riproducibili in altri ambiti.
Prendiamoci tutto il tempo che ci serve, in queste uggiose giornate autunnali, per elevare il nostro spirito al di sopra delle nefandezze terrene grazie all’ascolto di questo ultimo capolavoro degli Ataraxia: un’occasione che si presenta di rado e che, a maggior ragione, non va assolutamente sprecata.

Tracklist:
1.Oenoe
2.Sikia
3.Ieros
4.Prayer Of The Archangel
5.Rose Of The Wild Forces
6.Chiron Quartz
7. La Vista Del Bardo
8.Synchronicity Embraced

Line-up:
Francesca Nicoli– vocals
Vittorio Vandelli – Electric, classical and acoustic guitars, bass guitar, back vocals
Giovanni Pagliari – Keyboards, piano, back vocals
Riccardo Spaggiari – drums
Totem Bara – cello

ATARAXIA – Facebook

BLACK FUNERAL – THE DUST AND DARKNESS

Prodotto dalla gloriosa ed attivissima Iron Bonehead, The Dust And The Darkness contiene 4 tracce di pura acherontea malvagità.

L’amore spassionato per occultismo, satanismo (più precisamente per il “Luciferianismo”) e vampirismo, costituisce l’anima di tutta la produzione del leader del duo di Houston.

Baron Drakkonian Abaddon (alias Michael W. Ford), voce, basso ed effetti del combo, è un appassionato delle scienze occulte e di tutto ciò che graviti intorno al Satanismo e all’Esoterismo più arcano e imperscrutabile. Un Aleister Crowley dei giorni nostri, autore di numerosi libri sull’argomento e proprietario della Luciefrian Apotheca (www.luciferianapotheca.com – negozio online adatto a chiunque si voglia sbizzarrire nell’acquistare testi esoterici, oggetti satanici, incensi, erbe misteriose e così via, ed organizzarsi un Sabba casalingo), non poteva che essere contemporaneamente il front-man di numerose famose band Black Metal americane (Darkness Enshroud, Empire Of Blood e i concittadini Valefor per citarne alcune). In tutte le sue produzioni, le tematiche sopra citate, costituiscono il leitmotiv, il motivo conduttore di tutta la sua attività da strumentista, attiva da oramai 25 anni. Tutta la sua vita risulta imperniata dal tenebroso interesse per le pratiche di magia nera che, negli anni, ne hanno influenzato anche la vita privata. Sposato inizialmente con quella che viene definita un “primeva strega” dei giorni nostri, la medium Lux Ferro (alias Elda Isela Ford), scrittrice di libri esoterici e compositrice per alcune band dedite ad arcane sonorità rituali (tra cui i dark dance Psychonaut 75), Mr. Ford dedicherà la maggior parte dei suoi sforzi e delle sue attenzioni al progetto Black Funeral, oggetto di questa recensione, di cui la moglie ne è stata – seppur per un breve periodo – anche cantante.
Coadiuvato da Mr. Azgorh Drakenhof, polistrumentista australiano già proprietario dell’etichetta Dark Adversary Productions, ma soprattutto leader incontrastato della one-man band Drowning the Light, la più famosa (e prolifica) band della terra dei canguri, Abaddon ci dona questo ep ricco di nere atmosfere, occulte ambientazioni e malvagie auree, che farà sicuramente la gioia di dei fan più legati al Black Ambient più nero e tetro, ottimamente arricchito di empi rimandi ritualistici, sprigionanti nere icore direttamente provenienti dai più oscuri antri dell’Inferno.
Prodotto dalla gloriosa ed attivissima Iron Bonehead, contiene 4 tracce di pura acherontea malvagità. Dankuis Daganzipas (dalla lingua Ittita -Dark Earth) è un elogio rituale alle malvagie divinità dell’antico e misterioso popolo dell’Anatolia. Intro tribale per Alanni Goddess of the Underworld, un pezzo che si dipana su 3 minuti e mezzo circa di classico cupo Black Metal in pieno stile old school scandinavo. Versi infernali che presumibilmente gorgogliano blasfemie, annunciano l’ingresso di Chemosh of the Dust and Darkness: un elogio al Dio dei Moabiti, popolazione vissuta circa tremila anni fa sulle rive del Mar Morto, più precisamente sull’attuale altopiano del Kerak. Oscuro Dio della distruzione, a cui venivano dedicati sacrifici umani, viene qui idolatrato grazie ad un Black veloce, senza particolari fronzoli e senza nessuna tregua; un suono corvino come l’animo della divinità stessa, spesso etichettata come “abominio di Moab”, che non lascia dubbi sulla sua antica empia malvagità. Sfumature classiche in Mistress of the Pit, vero cantico consacrato ad una non ben definita nera regina dell’Abisso. Nulla a che vedere con il Black Metal nel senso stretto del termine. Cupe armonie cullate da un sapiente uso dei sinth, ne fanno un pezzo di ottimo Dark Ambient che ci strugge di malinconia e instilla nei più sensibili, desideri di abbandono all’eterno sonno, avvolti dal crepuscolo.
Un mini album di buona fattura che potrà accendere la curiosità di chi prima non si è mai accostato al sound del combo americano. Black ed Ambient in una cagliostrica miscela che appassionerà tanti, e che forse li condurrà alla scoperta della loro intera produzione (9 full-length e svariate produzioni minori).

Tracklist
1. Dankuis Daganzipas (Dark Earth)
2. Alanni Goddess of the Underworld
3. Chemosh of the Dust and Darkness
4. Mistress of the Pit

Line-up
Baron Drakkonian Abaddon (Michael Ford Nachttoter) – Vocals, Bass, Electronics
Azgorh Drakenhof – Guitars, Bass, Keyboards

BLACK FUNERAL – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=5SDv0JFqqUo

Black Oath – Behold The Abyss

Behold The Abyss è una raccolta di brani che ci conducono verso la parte magica, oscura e rituale del metal, un lavoro fuori dal tempo dedicato a chi ascolta la musica in maniera sicuramente non frettolosa.

I Black Oath sono un’entità progressive doom nata nella nostra penisola nel 2006 in quel di Milano.

Il quartetto lombardo, capitanato dal bassista, chitarrista e cantante A.Th, arriva al quarto full length, licenziato dalla High Roller Records, di una discografia che si completa di un buon numero di ep, split e demo.
Behold The Abyss è un lavoro che si muove agevolmente nella parte oscura e mistica del metal progressivo, con un composto da atmosfere dark e doom: un’atmosfera occulta e misteriosa avvolge questo splendido album che si ispira ai classici della tradizione tricolore che, per quanto riguarda il genere, rimane una delle più importanti e rispettate a livello mondiale.
I Black Oath la lezione dei maestri (Death SS, Paul Chain e Goblin su tutti) l’hanno imparata a dovere, amalgamandola però con altre e non meno importanti ispirazioni che vanno dai Black Sabbath al metal classico dei Mercyful Fate fino al gothic dark dei Fields Of The Nephilim, creando un’atmosfera mistica ed evocativa di grande effetto.
Behold The Abyss, in virtù delle caratteristiche elencate, risulta un ottimo esempio di musica oscura: un alone magico contorna brani che tanto sanno di rituali, come la lunga ed affascinante title track, Lilith Black Moon, Once Death Sang (valorizzata dalla presenza al microfono di Elisabeth, cantante dei Riti Occulti) e la metallica e trascinante Profane Saviour.
Behold The Abyss è una raccolta di brani che ci conducono verso la parte magica, oscura e rituale del metal, un lavoro fuori dal tempo dedicato a chi ascolta la musica in maniera sicuramente non frettolosa.

Tracklist
1. Behold the Abyss
2. Chants of Aradia
3. Lilith Black Moon
4. Once Death Sang
5. Profane Saviour
6. Everlasting Darkness

Line-up
A.Th – vocals, bass, guitar
Gabriel – guitar
Bon R. – guitar
Chris Z. – drums

BLACK OATH – Facebook

Madness Of Sorrow – Confessions From The Graveyard

Prosegue il cammino di Muriel Saracino e della sua band nei meandri del lato oscuro ed orrorifico dell’esistenza umana, con album che ogni volta si differenziano da quelli precedenti e per questo ancora più affascinanti.

Chi segue l’underground metallico conoscerà sicuramente questa realtà gothic/horror, attiva dal 2011 e arrivata al quarto album su lunga distanza.

Muriel Saracino ed i suoi Madness Of Sorrow non hanno sbagliato un colpo, prima con Take The Children Away From The Priest, licenziato nel 2014, e poi con i due seguenti bellissimi lavori che hanno visto la band allontanarsi dai suoni gothic/dark moderni per un approccio più metallico, III: The Beast e N.W.O. The Beginning, usciti rispettivamente nel 2015 e lo scorso anno.
Questo nuovo lavoro poggia le basi sul concetto di perdita, il lutto e la morte che inevitabilmente porta a due diverse visoni, l’affrontarla da parte di chi se ne va e viverla da parte di chi rimane e deve metabolizzarla.
Esperienze comuni a tutti, che il leader mette in musica con il nuovo lavoro intitolato Confessions From The Graveyard, che vede i Madness Of Sorrow nella formazione a tre con Saracino/Murihell (voce e chitarra), affiancato da Charles A. Skull (basso) e Ixtlan (chitarre).
E Confessions From The Graveyard non manca di soddisfare i fans del gruppo e del metal dal taglio horror, anche se nella musica della band le atmosfere gotiche, ultimamente, lasciano spazio ad un metal dalle sfumature più classiche rispetto al passato.
Rimane ovviamente l’impronta di un gruppo che, dopo una manciata di lavori ha il suo marchio di fabbrica, quindi anche in quest’ultimo lavoro troverete riferimenti al dark rock e al metal di stampo mansoniano.
L’atmosfera di sofferta rabbia è amplificata da brani che già dall’accoppiata The Exiled Man/The Art Of Suffering danno sfoggio di un’urgenza metallica violenta e d’impatto, mentre Reality Scares torna su lidi più moderni e tradizionalmente Madness Of Sorrow.
The Path è il brano top dell’album, con l’elemento gotico che torna prepotentemente in un contesto nu metal, tra ultimi Death SS, Rob Zombie e Marilyn Manson, così come in No Regrets.
Ritmiche thrash/black violentano l’estrema No Words Until Midnight, mentre le atmosfere darkwave della conclusiva Creepy scrivono i titoli di coda di questo nuovo ottimo lavoro dei Madness Of Sorrow.
Prosegue dunque il cammino di Muriel Saracino e della sua band nei meandri del lato oscuro ed orrorifico dell’esistenza umana, con album che ogni volta si differenziano da quelli precedenti e per questo ancora più affascinanti.

Tracklist
1. The Exiled Man
2. The Art Of Suffering
3. Sanity
4. Reality Scares
5. The Path
6. The Garden Of Puppets
7. No Regrets
8. No words Until Midnight
9. The Consciousness Of Pain
10.Creepy

Line-up
Murihell – Vocals, Guitars
Charles A. Skull – Basse
Ixtlan – Guitars

MADNESS OF SORROW – Facebook

https://youtu.be/5K9UCobhXJ4

Ultha – The Inextricable Wandering

Grande affresco di black metal angosciante, disperato e figlio della desolazione metropolitana. Un’opera di altissimo livello.

Nella recensione del loro ultimo full length Converging Sins, del 2016, mi auguravo un’ulteriore crescita della band tedesca e tale auspicio, alla luce del nuovissimo lavoro, è stato assolutamente ben riposto.

Anche l’approdo alla potente Century Media non ha scalfito di una virgola la proposta di questi artisti, che proseguono la loro strada peculiare e personale, mettendo a fuoco il loro sound, senza perdere un oncia di potenza e passione costruendo noto dopo nota un’ atmosfera oscura, drammatica, angosciante. Memori dei suoni del passato (nel 2016, coverizzarono Raise the Dead di Quorthon), i quattro musicisti di Colonia definiscono un passionale suono black metal, miscelandolo con misteriosi aromi darkwave e derive doom: il risultato che ne scaturisce è un blend affascinante estremamente avventuroso e dal flavour metropolitano; non respiriamo gli aromi derivanti dalle fredde lande scandinave, ma la puzza del degrado urbano, la dissoluzione della civiltà industriale. E’ angosciante viaggiare all’interno di questi sei brani per più di un’ora di musica: l’approccio disperato è disturbante, la proposta non è immediata, non ci sono comfort zone, tutto è lacerante; non aspettatevi cambi di tempo repentini all’interno dei brani, che sono invece infinite cavalcate appassionate, condotte su note di basso ora avvolgenti ora frenetiche, con le chitarre instancabili nel tessere trame sonore prettamente black con le tastiere che immergono il tutto in un atmosfera grigia, fosca e plumbea. Non una nota sprecata, non manierismi, il suono è altamente coinvolgente fin dall’ opener The Avarist, quindici minuti meravigliosi che ci immergono in mondi bui, senza speranza ma allo stesso tempo ammalianti. Il potere dell’oscurità penetra i nostri sensi, diventa un tutt’uno con la nostra essenza vitale e ci spinge ad amare incondizionatamente tutte le note espresse nell’album sia quando l’afflato cosmico e l’ambient presenti in There Is No Love, High Up in the Gallows ci fanno galleggiare in un liquido amniotico primordiale, sia quando le note ossessive, noir e cinematografiche di We Only Speak in Darkness ci ricordano che… you exist for nothing. Le pressanti pulsioni dark wave di Cyanide Lips si aprono in un disperato scream forgiando un black angosciante e senza futuro. L’ “inestricabile vagare” del titolo ci “costringe” ad affrontare con paura le disilluse note dei quasi diciannove minuti dell’ultimo disperato viaggio: I’m Afraid to Follow You There, dove una fredda e distaccata maestosità lentamente si sfibra in note black feroci, capaci di fagocitare l’ultimo anelito di speranza che pensavamo di avere. Sarebbe fantastico vedere questa band dal vivo, nel frattempo godiamoci quest’opera di altissimo livello. Tra le uscite dell’anno ha trovato sicuramente un posto importante nella mia anima, insieme all’esordio dei Mare.

Tracklist
1. The Avarist (Eyes of a Tragedy)
2. With Knives to the Throat and Hell in Your Heart
3. There Is No Love, High Up in the Gallows
4. Cyanide Lips
5. We Only Speak in Darkness
6. I’m Afraid to Follow You There

Line-up
C – Bass, Vocals
M – Drums
A – Electronics
R – Guitars, Vocals

ULTHA – Facebook

Martyr Lucifer – Gazing at the Flocks

Gazing at the Flocks è un album che merita un’attenzione diversa da quelle che molto spesso viene rivolta nei confronti di estemporanei progetti paralleli; Martyr Lucifer, nonostante il monicker faccia riferimento al singolo musicista, ha tutte le sembianze della band vera e propria e come tale va considerata, con tutte le positività che la cosa implica.

Gazing at the Flocks è il terzo full length marchiato Martyr Lucifer, progetto dell’omonimo leader degli Hortus Animae.

Come avevamo già visto in passato, qui non si rinvengono tracce di black metal bensì un sound maturo e molto curato, a cavallo tra dark wave e gothic con più di una digressione alternative; anche per questo motivo l’album scorre in maniera piuttosto lineare e gradevole, senza necessitare di diversi ascolti per apprezzare i buoni spunti melodici ed i chorus disseminati al suo interno.
Ecco, forse questa ingannevole sensazione di leggerezza può costituire il solo limite di un’opera ben costruita e che vede protagonisti, oltre al musicista romagnolo con il suo timbro profondo e molto adatto al genere, la vocalist ucraina Leìt, l’arcinoto Adrian Erlandsson alla batteria e l’ottimo ungherese Nagaarum alla chitarra, oltra a Simone Mularoni a fornire il proprio contributo in sala d’incisione non solo al di là del vetro ma anche al basso.
Il risultato è quindi oltremodo soddisfacente, tanto più dopo aver constatato che, in effetti, ad ogni successivo passaggio nel lettore molti brani rivelano interessanti sfumature sfuggite al primo approccio; se, da una parte, non ci troviamo di fronte ad un’opera epocale, va dato atto a Martyr Lucifer d’aver assemblato un lavoro privo di particolari punti deboli ma, semmai, con diversi picchi rappresentati dalla suadente Benighted & Begotten (notevole il duetto vocale) e le centrali Feeders, aka Heterotrophy / Saprotrophy e Leda and the Swan Pt. 1; resta, alla fine l’impressione d’aver ascoltato musica di qualità, collocabile senz’altro nella scia delle band guida del genere (Tiamat, The 69 Eyes) ma anche, a tratti, del Peter Murphy solista, il che è indicativo di un’oscurità diffusa che avvolge Gazing at the Flocks conferendogli un’aura a suo modo differente rispetto ai modelli citati.
In buona sostanza Gazing at the Flocks è un album che merita un’attenzione diversa da quelle che molto spesso viene rivolta nei confronti di estemporanei progetti paralleli; Martyr Lucifer, nonostante il monicker faccia riferimento al singolo musicista, ha tutte le sembianze della band vera e propria e come tale va considerata, con tutte le positività che la cosa implica.

Tracklist:
1. Veins of Sand Pt. 1
2. Veins of Sand Pt. 2
3. Bloodwaters
4. Feeders, aka Heterotrophy / Saprotrophy
5. Leda and the Swan Pt. 1
6. Leda and the Swan Pt. 2
7. Wolf of the Gods
8. Somebody Super Like You
9. Benighted & Begotten
10. Spiderqueen
11. Flocks
12. Halkyónē’s Legacy, aka The Song of Empty Heavens

Line-up
Martyr Lucifer – vocals, synth, programming
Leìt – vocals
Adrian Erlandsson – drums
Nagaarum – guitars
Simone Mularoni – bass (session)

MARTYR LUCIFER – Facebook

Akroterion – Decay of Civilization

Alle soglie del capolavoro, la conferma della qualità assoluta di quello che è un grandioso gruppo italiano: l’oscurità e le tenebre in musica, raccontate in maniera creativa e personale.

L’opera seconda di questa eccezionale band italiana – un trio composto da Skrat (voce), BP Gjallar (chitarre, basso, sintetizzatori) e Francisco Verano (batteria) – esce non casualmente il 21 settembre, giorno dell’equinozio di autunno: gli Akroterion sono infatti da sempre attenti cultori di tematiche di matrice esoterico-occulta ed astrologico-ermetica.

Decay of Civilization presenta sette nuove tracce, splendidamente tenebrose e drammatiche, intarsiate di elementi dark, doom, ma soprattutto thrash e black mutati, sulla scia di Celtic Frost e in parte Coroner. In certi frangenti e nella costruzione delle atmosfere, poggiando su di una competenza artistico-musicale e tecnico-compositiva di prim’ordine, gli Akroterion paiono inoltre guardare ancora più indietro, a certo oscuro prog, per proiettarlo poi in questo nostro assurdo terzo millennio. Fondamentale al riguardo, secondo l’opinione di chi scrive, è l’uso di tastiere e synth, che rendono abilmente il sound tanto antico ed ancestrale quanto moderno e futuristico. Siamo in presenza di un gioiello, che risplende di luce (nera), possente e meditativo nel medesimo tempo, sperimentale ed originale, che merita – a mio avviso – un posto di assoluto primo piano tra i dischi dell’anno.

Tracklist
1- Initiatory Death
2- Blood Label
3- Red Dawn Under a Chemical Sky
4- Soul Corruption
5- Brains
6- Decay of Civilization
7- The Gift of Lady Death

Line-up
Skrat – voce
BP Gjallar – chitarre. basso, sintetizzatori
Francisco Verano – batteria

AKROTERION – Facebook

?Alos – The Chaos Awakening

Questo lavoro è l’esatto contrario di linearità, si avvicina per sommi capi a qualcosa che possiamo chiamare dark ambient, ci sono loop e droni ma tutto ciò è davvero oltre la musica, è come entrare in una foresta di notte in acido.

Venti minuti di un antico rituale messo in musica, suggestioni, rumori e suoni che provengono da un’altra dimensione, da un tempo nel quale l’umanità aveva una composizione fisica che si legava direttamente agli elementi naturali e non al silicio o ad una scheda madre.

?Alos è una sciamana che opera e ha operato con OvO e con Allun, e ora sta continuando la sua avventura solista. Parlare di musica è davvero superfluo in questo caso perché si va molto oltre essa, si entra in un portale dove tutto è ciò che sembra solo se si decide di essere altro da sé, come ?Alos, che ha registrato questa performance dal vivo a Valico Terminus a Ramiseto, un’azienda agricola e casa rurale per artisti sita in un crocevia fra Emilia Romagna e Toscana, dove si incontrano molte forze, come ci insegnavano gli antichi.
?Alos dopo aver trattato la Terra e L’Aria, passa ora a descrivere l’Acqua ed il Fuoco, con questa traccia unica che esplora molti tipi di femminino diversi, perché la storia dell’uomo, e soprattutto della donna, non è andata come ce la raccontano, è molto più complessa e conflittuale, e molto probabilmente non la conosceremo mai. Il titolo The Chaos Awakening dice già moltissimo sulla struttura e sulle intenzioni di Stefania Pedretti, perché pur senza adorare il caos lo descrive come unica via possibile di vita, partendo dalla profonda convinzione che non siamo affatto perfetti, ma che dobbiamo saper rapportarci a forze molto più grandi di noi e che abbiamo lasciato sopite per troppo tempo, convinti che la conoscenza scientifica lo avrebbe fatto fuggire. Questo lavoro è l’esatto contrario di linearità, si avvicina per sommi capi a qualcosa che possiamo chiamare dark ambient, ci sono loop e droni ma tutto ciò è davvero oltre la musica, è come entrare in una foresta di notte in acido. L’ultimo disco di ?Alos è fortemente catartico perché risveglia qualcosa dentro di noi che è dormiente ma che è innato, e che è stato spezzato da questa supposta superiorità del moderno rispetto all’antico visto e vissuto come un’epoca oscura e disagiata, mentre il domani non è quasi mai esistito per l’uomo; la Signorina Alos è qui per ricordarci che siamo come sopra è sotto, e che il caos è sempre in agguato.

Tracklist
1. The Chaos Awakening

Line-up
?Alos – Vocals, flute, modular synthesizer,
The Chaos Scepter, bells and other vietnamese instruments –

?ALOS – Facebook

Opera Oscura – Disincanto

Stupendo disco di dark metal progressivo, sinfonico e classicheggiante, intriso di lirismo e con parti toccanti di voce e piano

Gli italiani Opera Oscura propongono un interessante e riuscito prog venato di metal, che si esprime attraverso la costruzione sonora di belle e ricercate atmosfere, non prive – come anticipa il nome del gruppo – della giusta dose di oscurità (mai tetra, peraltro). Stile e suoni sono piuttosto moderni, con un’ottima produzione di supporto, e valide qualità tecniche messe in mostra dai musicisti.

Anche se la componente progressive appare essere più marcata, rispetto a quella di matrice invece più heavy, non dubitiamo che gli amanti dei Dream Theater più liquidi e dei Queensryche più intimistici potranno, senz’altro, apprezzare questo lavoro. A tratti, possono venire in mente i passaggi più melodici dei tedeschi Ivanhoe – metà anni Novanta, altri tempi – che furono abili e pionieristici nel sapere abilmente mixare soluzioni dal gusto fortemente sinfonico e passaggi maggiormente duri. Tuttavia, qui il contesto è infinitamente più classicheggiante, con massicce e meravigliose parti di pianoforte e una voce femminile da brividi, non senza una ragguardevole eleganza e raffinatezza, che i brani di Disincanto fanno apprezzare di sé in sede sia compositiva, sia esecutiva. Gli Opera Oscura aggiornano, dunque, le formule del rock progressivo, evitando sterili e vuoti virtuosismi fini a se stessi, guardando sia alla forma sia in particolare alla sostanza e trovando un riuscitissimo connubio ed equilibrio artistico tra le due. Il che non è certo poco e si traduce in un altro punto a favore del CD in questione, intriso oltretutto di opportuni quanto apprezzabili umori di matrice dark rock, immaginifico e cinematografico. Nei brani degli Opera Oscura troviamo, altresì, squarci operistici, oscurità strumentali, giochi musicali di luce e ombra, testi teatrali, con un’onirica dolcezza che si sposa ad un pathos a volte prossimo a quello del drama rock più colto.

Tracklist
1- A picco sul mare
2- La metamorfosi dei sogni
3- Il canto di Sirin
4- Pioggia nel deserto
5- Gaza
6- Dopo la guerra
7- Resti

Line-up
Alessandro Evangelisti – piano / tastiere
Francesco Grammatico – programmazione / basso
Umberto Maria Lupo – batteria
Serena Stanzani – voce
Francesca Palamidessi – voce
Alfredo Gargaro – chitarre
Leonardo Giuntini – basso
Andrea Magliocchetti – chitarra classica

OPERA OSCURA – Facebook

Duncan Evans – Prayers for an Absentee

La vena folk di Duncan Evans si è spostata verso una forma di cantautorato ancora più evoluto, ed il risultato è Prayers for an Absentee, uno dei dischi più belli ed intensi ascoltati quest’anno.

Svestiti definitivamente i panni vittoriani di Henry Hyde Bronsdon , l’ex chitarrista degli A Forest Of Stars, Duncan Evans, punta con decisione sulla sua carriera solista, ben avviata con il full length Lodestone del 2013.

Rispetto a quegli esordi, la vena folk del musicista inglese si è spostata verso una forma di cantautorato ancora più evoluto, all’interno del quale si possono rinvenire le più disparate fonti di ispirazione delle quali lascio volentieri l’individuazione alla sensibilità ed alla conoscenza di ognuno, perché ogni brano di questo splendido lavoro, intitolato Prayers for an Absentee, deve essere ascoltato ed assimilato senza alcun condizionamento.
Quella di Evans è infatti una cifra stilistica personale, ed è chiaro che se personalità iconiche come quelle di Nick Cave o di Leonard Cohen possano a tratti balenare nell’immaginario di ciascun ascoltatore, ciò deriva dal fatto che nulla si crea o si distrugge, e la capacità dell’artista di spessore superiore è appunto quella di modellare e dare nuove sembianze a forme già preesistenti.
Se l’opener Bring Your Shoulder si rivela trascinante fin dal suo incipit e dal chorus (non a caso la canzone è stata scelta per girare un video) , quella vena di allegria che si tende a percepire è in realtà del tutto illusoria, visto che i testi, colti, introspettivi e profondi, vanno in tutt’altra direzione sposandosi ancora meglio con il lirismo toccante di brani come Us And Them And You And Me, I Know e Christabel, ma parliamo solo degli episodi da me prediletti in quanto più vicini ad un personale sentire; infatti Poppy Tears non è da meno grazie ad una struttura melodica di fluidità stupefacente, e le stesse Borderlands Prayer, Trembling e Time sono canzoni che da sole nobiliterebbero qualsiasi altro lavoro.
Nonostante l’impronta sia quella di un progetto solista, Duncan Evans si avvale in toto del supporto di una band vera e propria, formata da musicisti i quali ne esaltano l’ispirato songwriting che lo rende, oggi, uno dei più credibili ed efficaci artisti in grado di raccogliere il testimone da quei giganti citati in precedenza; un tale approdo, del resto, può sorprendere solo chi continua a pensare che i musicisti dal background metal siano un’indistinta accozzaglia di illetterati buzzurri.
Al di là degli steccati di genere, Prayers for an Absentee trova un suo diritto di cittadinanza al’interno di MetalEyes semplicemente perché si tratta di uno dei dischi più belli ed intensi pubblicati quest’anno, e questo basta ed avanza per raccomandarne l’ascolto a chi rovista incessantemente nel pozzo senza fondo contenente le nuove uscite, allo scopo di ricavarne qualcosa dal grande impatto emotivo.

Tracklist:
01. Bring Your Shoulder
02. Borderlands Prayer
03. Us And Them And You And Me
04. Trembling
05. Poppy Tears
06. I Know
07. Christabel
08. Time

Line-up:
Duncan Evans
Ol Jessop
Kev Reid
Phil Cullumbine
Dershna Morker

DUNCAN EVANS – Facebook

The Eternal – Waiting For The Endless Dawn

Sicuramente siamo di fronte alla prova più ambiziosa dei The Eternal, i quali non hanno lasciato nulla di intentato per mettere sul piatto quella che potrebbe essere la loro opera definitiva; ora tocca gli appassionati l’onere di fornire un riscontro adeguato a questa meritevole band australiana.

Premetto che, in quanto fan della prima ora dei My Dying Bride, mi ritengo orfano di quella grande band che furono i Cryptal Darkness, a mio avviso i più pregiati e credibili epigoni dei maestri di Halifax che ci sia stato modo di ascoltare.

Tutto questo ha a che fare con il nuovo album degli australiani The Eternal, non tanto per stile musicale (qui siamo in presenza di un gothic metal raffinato ed orecchiabile, ma insidiosamente malinconico in più momenti), ma in quanto il cantante e chitarrista Mark Kelson vi diede vita nel 2003 proprio dopo aver chiuso la storia dei Cryptal Darkness, i quali lasceranno ai posteri un capolavoro come They Whispered You Had Risen.
The Sombre Light of Isolation, full length d’esordio con il nuovo monicker, sgombrò subito il campo da equivoci, facendo intendere che le emozioni nei The Eternal si sarebbero dovute ricercare in una sapiente costruzione melodica, piuttosto che nelle struggenti litanie chitarristiche del più estremo gothic death doom.
I nostri, dopo una quindicina d’anni di attività, non hanno certo raggiunto quel successo commerciale che forse poteva essere plausibile con l’offerta di sonorità più morbide e alla portata di un maggior numero di ascoltatori, per cui immagino che Kelson, cinque anni dopo l’ultimo full length, abbia pensato che fosse il caso di badare meno al mercato lasciando fluire la propria ispirazione senza porsi particolari paletti: eccoci quindi alle prese con Waiting For The Endless Dawn, album ben poco ammiccante per un pubblico abituato all’usa e getta, con la sua ora e un quarto di durata ed i venti minuti della sola opener The Wound.
La cosa più importante, però, fatte tutte queste considerazioni, è che l’album si rivela una prova magnifica, che porta a scuola gran parte delle band che si cimentano con il genere, incluse anche alcune tra le più note.
Nell’operato dei The Eternal i riferimenti sono importanti, così non si può fare a meno di ritrovare in certi brani un sentore dei Swallow The Sun più orecchiabili e suadenti degli ultimi lavori (e infatti nella sesta traccia abbiamo la sempre gradita partecipazione di Mikko Kotamaki), oppure di ritrovare come ospite alle tastiere anche quel Martin Powell che con il suo violino rese unici non solo i My Dying Bride ma anche gli stessi Cryptal Darkness.
Nonostante la loro lunghezza, tutti i singoli brani per assurdo sarebbero delle potenziali hit, essendo dotati di chorus difficilmente removibili dalla memoria, ma i The Eternal paiono aver volutamente esagerato in tal senso, quasi a sfidare l’ascoltatore nel carpire la bellezza in una struttura molto meno scontata di quanto possa apparire a prima vista.
The Wound, A Cold Day to Face My Failure, la meravigliosa In the Lilac Dusk (il brano che vede la partecipazione di Kotamaki) sono le tre tracce che meglio impressionano (e che da sole formerebbero il minutaggio di un normale quanto splendido full length …) ma, in generale, Waiting For The Endless Dawn è un lavoro dal livello medio davvero elevato, al quale manca solo quel pizzico di sintesi che deriva appunto dalla durata che potrebbe spaventare chi non possiede la pazienza dell’ascoltatore medio del doom.
Come già accennato, l’album va adeguatamente lavorato nonostante una sua apparente levità stilistica, proprio perché dato il suo protrarsi diversi passaggi chiave potrebbero sfuggire nel corso dei primi ascolti: sicuramente siamo di fronte alla prova più ambiziosa dei The Eternal, i quali non hanno lasciato nulla di intentato per mettere sul piatto quella che potrebbe essere la loro opera definitiva; ora tocca gli appassionati l’onere di fornire un riscontro adeguato a questa meritevole band australiana.

Tracklist:
1. The Wound
2. Rise from Agony
3. A Cold Day to Face My Failure
4. I Lie In Wait
5. Don’t Believe Anymore
6. In the Lilac Dusk
7. Waiting for the Endless Dawn

Line up:
Richie Poate – Guitars, Songwriting (tracks 1-4, 6)
Mark Kelson – Guitars, Vocals, Mandolin, Lap steel, Songwriting (tracks 1-4, 6, 7), Lyrics (tracks 1-4, 6, 7)
Marty O’Shea – Drums, Songwriting (track 1)
Dave Langlands – Bass, Songwriting (track 1)

Guests
Martin Powell – Keyboards
Mikko Kotamäki – Vocals (track 6)
Emily Saaen – Vocals (additional)
Erica Kennedy – Violin

THE ETERNAL – Facebook

Shredder 1984 – Nemesis

Nemesis è il terzo disco per questo progetto elettronico di Steve Shredder sotto il moniker Shredder 1984 ed è un’opera di elettronica composta e suonata sotto la diabolica possessione del metal.

Debutto su queste pagine per la splendida etichetta di synthwave e retrowave marsigliese Lazerdiscs.

Nemesis è il terzo disco per questo progetto elettronico di Steve Shredder sotto il moniker Shredder 1984, ed è un’opera di elettronica composta e suonata sotto la diabolica possessione del metal. I suoni sono quelli della retrowave fatta con i synth, ma le similitudini con l’attuale scena synthwave si fermano qui, perché il substrato ed il risultato sono totalmente differenti. Il tutto potrebbe ricordare una colonna sonora dei migliori giochi per consolle e computer dei primi anni novanta, ed infatti l’immaginario è quello ma maggiormente futuristico. Nemesis ci cala in un’atmosfera tetra, come una caverna fatta con il silicio dei microchip di un essere in parte demone ed in parte computer, che governa le vite degli uomini superstiti in un lontano futuro. Alcuni giornalisti musicali hanno coniato l’indubbiamente efficace termine darksynth per descrivere la musica del francese, ma c’è di più. Le tracce hanno un svolgimento immaginifico e magniloquente, anche grazie ad una produzione davvero adeguata e fedele che sottolineano la bravura di Shredder nel trovare sempre la giusta riuscita sonora alla trama fantascientifica. A differenza di alcuni dischi di synthwave, Nemesis garantisce molti ascolti perché contiene moltissime cose dentro di sé, disparati elementi come un tocco del dubstep più vicino al metal, sfuriate sytnhwave che sarebbero state benissimo all’interno di Akira, tastiere che si espandono verso il cielo e momenti di ortodossia synthwave. Un lavoro eccezionale e altamente coinvolgente, che interesserà sia gli amanti di questo suono che metallari con la voglia di cercare altri lidi dove poter gustare il metallico verbo in diverse declinazioni.

Tracklist
1.Ghost In The Machine
2.DoomWave
3.Darkness Is Coming
4.Witch-Hunt
5.Alaska
6.Gargantua
7.RazorBlade
8.CyberKult

SHREDDER 1984 – Facebook

Night Club – Scary World

Il dark pop dei Night Club è un ottimo motivo per mettersi le cuffie e ascoltare continuamente questo disco, lussurioso come tutte le cose belle.

I Night Club sono un duo di Los Angeles, Emily Kavanaugh e Mark Brooks, e Scary World è il loro secondo album, dopo Requiem for Romance del 2016.

La proposta musicale è una synthwave molto dark, con innesti gothic e una fortissima struttura pop, con la preziosa ed ammaliante voce di Emily che scorre benissimo sui synth. Il disco è oscuro e dolce, come un peccato che si sa essere tale, ma il gusto nel compierlo è una delle sensazioni più belle sulla terra ed oltre. Il duo funziona benissimo ed Emily con i suoi diversi registri ci porta dove vuole lei, ora dark lady, ora bambina spaurita davanti ai pericoli di questo brutto mondo. Le melodie ordite dal duo sono notevoli e riescono sempre ad essere interessanti, coinvolgendo l’ascoltatore. Mark Brooks ai synth è un fenomeno, e i suoi lavori si imprimono nella mente di chi ci si trova dentro. Negli ultimi tempi c’è stato un notevole ritorno dei suoni synthwave, o dark pop se preferite, quelli che vedono nei Depeche Mode i loro creatori, ma pochi gruppi come i Night Club riescono ad essere convincenti e ad esprimere melodie di alta qualità. Verrete presto catturati da questo disco che, come una litania che ci avvince, ci porta in luoghi della nostra mente dove non dovremmo andare, ma non possiamo farne a meno, come neppure desiderare certe cose. Il dark pop dei Night Club è un ottimo motivo per mettersi le cuffie e ascoltare continuamente questo disco, lussurioso come tutte le cose belle.

Tracklist
1 Beware!
2 Scary World
3 Schizophrenic
4 Your Addiction
5 Blood On Your Blade
6 Candy Coated Suicide
7 Therapy (Get High)
8 Imaginary Friend
9 Vampires
10 Survive

Line-up
Emily Kavanaugh
Mark Brooks

NIGHT CLUB – Facebook

This Void Inside – My Second Birth/My Only Death

Se siete amanti del gothic metal come dal più tradizionale dark rock, My Second Birth/My Only Death risulta un album molto suggestivo, in grado di mantenere un’alta qualità per tutta la sua durata e conseguentemente l’attenzione di chi ascolta.

Il dark rock ha sempre mantenuto un orgoglioso distacco dalle sonorità e dall’approccio metal almeno per tutti gli anni ottanta, più vicino per molti aspetti alla new wave.

Poi con l’arrivo dell’ultimo decennio del vecchio millennio, il successo del gothic metal ed i riferimenti alle band storiche del genere (i più gettonati sono Depeche Mode e Sisters Of Mercy) da parte di molte band metal, ha portato ad una più stretta vicinanza tra le sonorità notturne che vanno per la maggiore come dark, gothic e symphonic metal.
I romani This Void Inside fanno parte di quelle band che hanno sviluppato il proprio suono rimanendo legati ad un approccio più classico al genere, anche se non possono certo essere considerati un gruppo vintage così come neppure prettamente metal.
Gothic dark rock, quindi, dall’alto appeal e dalle ottime melodie, messe in risalto dalla sempre presente componente elettronica che rende il sound assolutamente perfetto per i club mitteleuropei, e di conseguenza dal respiro internazionale.
La band nasce nel 2003 come one man band dell’ex frontman dei My Sixth Shadow, Dave Shadow, in seguito trasformatasi in un gruppo a tutti gli effetti: My Second Birth/My Only Death è il secondo lavoro in uscita per Agoge Records, successore del debutto intitolato Dust uscito ormai dieci anni fa.
I This Void Inside sono fprmati da appunto Dave Shadow (voce, synth e programming), Saji Connor (basso), Frank Marrelli e Alberto Sempreboni (chitarre) e Simone “Some” Gerbasi (batteria), all’album hanno contribuito in veste di ospiti su di un brano, Max Aguzzi (Dragonhammer) e Diego Reali (ex DGM, Hevidence), mentre la produzione è stata affidata al boss della label Gianmarco Bellumori.
L’album è un ottimo esempio di gothic dark rock, tra tradizione e moderni spunti avvicinabili al metal, specialmente nei suoni delle chitarre a tratti granitici, mentre le splendide linee vocali, i cori e i refrain dall’appeal considerevole aiutano il fluido scorrere delle note romantico/notturne create dal gruppo; i brani sono caratterizzati da atmosfere che si insinuano nella testa, fluide ed eleganti, tra parti sintetiche e altre più rock creando la giusta alternanza tra le sfumature principali che animano il sound di brani come Relegate My Past, Trapped in a Daze, Losing My Angel e la teatrale The Artist and the Muse (dove compare un recitato in lingua madre).
Se siete amanti del gothic metal come dal più tradizionale dark rock, My Second Birth/My Only Death risulta un album molto suggestivo, in grado di mantenere un’alta qualità per tutta la sua durata e conseguentemente l’attenzione di chi ascolta: le band di riferimento che escono allo scoperto tra le trame del disco dipendono molto dal background di ognuno di voi, non resta che scoprirle senza indugi.

Tracklist
01. My Second Birth / My Only Death (Intro)
02. Betrayer MMXVIII
03. Relegate My Past
04. Memories’ Dust
05. Trapped In A Daze
06. Here I Am
07. Another Fucking Love Song
08. Losing My Angel
09. Meteora
10. Ocean Of Tears
11. All I Want Is U
12. Break Those Chains
13. The Artist And The Muse (Bonus Track)
14. Downtrodden (Bonus Track)

Line-up
Dave Shadow – Vocals,synths & programming
Saji Connor – Bass and backing vocals
Frank Marrelli – Lead guitars
Alberto Sempreboni – Rhythm guitars
Simone “Some” Gerbasi – Drums

THIS VOID INSIDE – Facebook

Eidulon – Combustioni

Combustioni è un lavoro di enorme pregio, che merita l’attenzione di un gran numero di appassionati nonostante la naturale ritrosia da parte di qualcuno nel lasciarsi piagare le carni dalle sonorità aspre e profonde messe in campo da Gemelli.

La sperimentazione ha un senso solo quando non è fine a sé stessa, su questo non ci sono dubbi: solo se vengono rispettate tali condizioni anche le sonorità più ostiche hanno la possibilità di ottenere la giusta attenzione da parte di una fascia di ascoltatori,dotata comunque di un’attitudine all’ascolto non comune.

Il progetto denominato Eidulon possiede tutti questi crismi, forse perché nonostante una lungo silenzio l’ottimo Francesco Gemelli (che molti conosceranno anche per il suo prezioso operato in qualità di grafico) dimostra una padronanza totale della materia, modellandola e piagandola alle proprie esigenze, sfruttando al meglio in tal senso il contributo degli ospiti chiamati a collaborare alla riuscita di Combustioni.
L’album è un contenitore colmo di materia pericolosa ed instabile, sotto forma ora di dark ambient, ora di un industrial dalle sfumature apocalittiche; il tratto comune del lavoro è, però, un incedere talvolta solenne che viene sfregiato dalle prestazioni vocali di ospiti di primo piano come Nordvagr (MZ.412) e Luca Soi, il cui apporto si rivela senz’altro attrattivo anche per gli appassionati di doom, senza dimenticare il significativo apporto fornito da altri nomi di spessore quali Kammarheit, Caul e Naxal Protocol.
Indubbiamente , se il brano che vede all’opera uno dei protagonisti dell’epopea della Cold Meat Industry (A Shimmer In The Void), si rivela una delle massime espressioni possibili che si possano esibire in quest’ambito, non è certo da meno una traccia a dir poco impressionante come Grande Rosso, nella quale Luca Soi abbandona le tonalità evocative utilizzate nel recente capolavoro dei Void Of Silence per ergersi sinistro nel declamare un testo in lingua madre al di sopra di un tappeto sonoro altamente minaccioso.
L’organo che si insinua tra le pieghe The Hierarchy Of The Inner Planes (ancora con Nordvagr e con il fattivo contributo di Naxal Protocol) è qualcosa di destabilizzante, così come l’instabile quiete evocata dai vocalizzi di Soi in Immanence, dove spicca l’apporto di Brett Smith (Caul).
Kammarheit non può che essere chiamato in causa nella traccia più canonicamente dark ambient del lotto, Averni Flammas Transivi, mentre i due brani del tutto appannaggio di Gemelli aprono e chiudono il lavoro in maniera esemplare, con In Igne Revelabitur, dal riferimento nel titolo al quel fuoco che è una sorta di filo conduttore del disco, dedicato all’artista Alberto Burri capace di utilizzare appunto questo elemento come pennello (la magnifica copertina richiama il tutto in maniera eloquente), e con Stratificazione Settima, superbe prove di dark ambient disturbante e allo stesso tempo avvolgente.
Combustioni è un lavoro di enorme pregio, che merita l’attenzione di un gran numero di appassionati nonostante la naturale ritrosia da parte di qualcuno nel lasciarsi piagare le carni dalle sonorità aspre e profonde messe in campo da Gemelli.

Tracklist:
1.In Igne Revelabitur
2.A Shimmer In The Void (feat. Nordvargr)
3.Grande Rosso (feat. Luca Soi)
4.Averni Flammas Transivi (feat. Kammarheit)
5.The Hierarchy Of The Inner Planes (feat. Naxal Protocol & Nordvargr)
6.Immanence (feat. Caul & Luca Soi)
7.Stratificazione Settima

EIDULON – Facebook

Hangman’s Chair – Banlieue Triste

Potenza,drammaticità, melodia sono gli ingredienti primari del quinto album degli Hangman’s Chair: stoner/doom personale e con una forte identità.

Con il quinto full length i francesi Hangman’s Chair proseguono il loro viaggio all’ interno dell’anima triste e disagiata della metropoli parigina; a loro non interessa disegnare con la musica e con i testi paesaggi fantastici o avventurosi, o raccontare storie sociali a lieto fine.

La musica e i testi si inabissano nel degrado sociale, nella noia, nella mancanza di futuro, nelle dipendenze e in tutte quelle situazioni che, a loro dire, rappresentano il “broken French dream”. Attivo dal lontano 2009, il quartetto esprime la propria arte doom e stoner ricorrendo a un suono drammatico, intenso, aggressivo, rifuggendo dai soliti schemi sonori e inoltrandosi in brani visionari e potenti dal forte sapore seduttivo; in Sleep Juice un grande lavoro al basso conduce in territori viziosi dove le vocals di Cedric Toufouti ci ammaliano con toni suadenti, ma decisi nel refrain (“…everything must die tonight”). Le vocals di Cedric sono estremamente convincenti nella ricerca di tonalità il più possibili varie e, non ricorrendo né a growl o scream, rappresentano un vero valore aggiunto perché impreziosiscono i vari brani con fascino e mistero. La tesa Touch the Razor nel suo lungo sviluppo, memore di suoni darkwave, tocca punte drammatiche importanti mentre le chitarre mostrano potenza ed inventiva. E’ un modo diverso di intendere la materia doom, i brani hanno una tensione interiore a tratti insostenibile, ma nascondono una anima melodica dark e seducente molto personale; la voce suadente dai toni morbidi entra sotto pelle e lacera lentamente le nostre terminazioni nervose narrando storie vere di desolazione e disperazione dei sobborghi parigini, dove la vita è spesso condotta ai margini, senza speranza di poterla cambiare. L’opera è lunga (circa 68 minuti) e non perde un grammo del proprio fascino, avvolgendoci in atmosfere notturne e fumose dal taglio cinematografico (gli strumentali Tara, Banlieu Triste e la disperata Sidi Bel Abbes) e stritolandoci con immani ritmi stoner (la kyussiana 04/09/16) carichi di potenza e antico fascino. Tired Eyes nasconde tratti melodici fuori dall’ordinario e il gran finale Full Ashtray con la sua atmosfera pesante ci ricorda una volta di più che il doom sa offrire sempre molteplici varianti emozionali. Opera veramente notevole.

Tracklist
1. Banlieue Triste
2. Naive
3. Sleep Juice
4. Touch the Razor
5. Tara
6. 04 09 16
7. Tired Eyes
8. Negative Male Child
9. Sidi Bel Abbes
10. Full Ashtray

Line-up
Cédric Toufouti – Vocals, Guitars
Julien Chanut – Guitars
Clément Hanvic – Bass
Mehdi Birouk Thépegnier – Drums

HANGMAN’S CHAIR – Facebook

Demetra Sine Die – Past Glacial Rebound

Una vera lezione di stupendo post-black sperimentale, con intrusioni dark, noise, drone e doom. Un nuovo ed ulteriore volto dei Demetra Sine Die, fedeli a sé stessi eppure sempre capaci di rinnovarsi.

E’ a dir poco strepitoso il nuovo capitolo dei Demetra Sine Die, eccellente gruppo italiano, giunto al terzo full-length, pubblicato dalla inglese Third I Rex.

Il lavoro si dipana attraverso sette tracce, tutte all’insegna di una grande varietà sonora. Post Glacial Rebound è – come anticipa il titolo – freddo e cerebrale, ma anche emozionale ed evocativo, intenso ed attento alle suggestioni che la musica – un grandioso mix di post-black, drone doom, noise e dark prog sperimentale – sa evocare ad ogni solco in maniera sublime. Quasi alla stregua di un film, le composizioni di questo nuovo CD dei Demetra Sine Die – nei suoi quarantasette minuti di durata complessiva – si presentano come una sorta di viaggio nello spazio, un’esplorazione cinematica che può ricordare, con il suo post-metal mutante, Tool, Virus e in particolare Oranssi Pazuzu. Si ascoltino al riguardo, tra loro collegate, l’opener Stanislaw Lem – il suo Solaris è stata una fonte d’ispirazione letteraria fondamentale – e la quarta traccia, Gravity: nelle due composizioni i sintetizzatori (tutti analogici, a cominciare dal Korg MS20) rendono atmosferico e fantascientifico il sound. Un taglio futuristico che non è tuttavia privo di calore, come sottolinea la sezione ritmica (il batterista Marcello Fattore, abilissimo nelle sue tessiture percussive, e il bassista Adriano Magliocco, dal tocco, a tratti, quasi grunge). I riverberi e gli squarci materici della chitarra di Marco Paddeu fanno il resto, compattando e variegando il magma sonoro esplorato dai Demetra Sine Die, declinandolo in termini ora tesi e drammatici (Lament), ora più melodici (Liars). Anche le linee vocali sono assai varie: abbiamo parti recitate (quelle iniziali di Eternal Transmigration hanno un che di pinkfloydiano), clean vocals ed uno screaming di stampo più classicamente black (in veste di ospite partecipa Luca Gregori dei torinesi Darkend), il che dona un tocco weird al tutto. La title-track conclusiva riassume tutte le caratteristiche della band ligure e di questo suo nuovo magistrale lavoro, densa e concettuale, spirituale e cangiante, pulitissima nelle soluzioni timbriche adottate di volta in volta e potente nell’impatto. La grafica di Anna Levytska, che ha collaborato tra gli altri con i Blut Aus Nord, incornicia il tutto. Capolavoro, tra i dischi dell’anno.

Tracklist
1 Stanislaw Lem
2 Birds Are Falling
3 Lament
4 Gravity
5 Eternal Transmigration
6 Liars
7 Post Glacial Rebound

Line up
Adriano Magliocco – Bass, Synthesizers
Marco Paddeu – Vocals, Guitar, Korg MS20
Marcello Fattore – Drums

DEMETRA SINE DIE – Facebook