Mortuous – Through Wilderness

Chi ama queste sonorità le troverà maneggiate con dovizia e competenza dai Mortuous, tra suoni ribassati, growl catacombali, assoli ficcanti e micidiali rallentamenti che in certi momenti spostano il sound sul versate di un vero e proprio death doom,

Dopo due demo risalenti ai primi anni del decennio, approdano oggi al loro primo full length i Mortuous, band formata da elementi già piuttosto attivi all’interno della scena death californiana.

Il genere nelle intenzioni del quartetto di San José, è quanto mai aderente alla tradizione americana portando cosi gli ascoltatori a ad esplorare i meandri più cupi e malsani di un sound che si rifà ai vari Incantation, Morbid Angel e Autopsy (e non è un caso se troviamo come ospite sull’album la coppia Reifert-Coralles).
Il risultato che ne scaturisce è notevole perché chi ama queste sonorità le troverà maneggiate con dovizia e competenza dai Mortuous, tra suoni ribassati, growl catacombali, assoli ficcanti e micidiali rallentamenti che in certi momenti spostano il sound sul versate di un vero e proprio death doom, come per esempio nella seconda metà di Screaming Headless nella quale l’uso anche del flauto richiama addirittura i Cathedral del seminale Forest Of Equilibrium, ma al di la di questo è il death più puro canonico e soddisfacente che occupa quasi per intero il proscenio, per la soddisfazione di chi ama le band citate quali quali di ispirazione per gli ottimi Mortuous.

Tracklist:
01. Beyond Flesh
02. Bitterness
03. Chrysalis of Sorrow
04. The Dead Yet Dream
05. Anguish and Insanity
06. Through Wilderness
07. Prisoner Unto Past
08. Screaming Headless
09. Subjugation of Will

Line-up:
Colin Tarvin – guitar
Mike Beams – vocals, guitar
Clint Roach – bass
Chad Gailey – drums

Guests:
Chris Reifert (guest vocals on “The Dead Yet Dream” and “Anguish And Insanity”)
Danny Coralles (solo on “The Dead Yet Dream”)
Derrel Houdashelt (solo on “Through Wilderness”)
Teresa Wallace (flute on “Screaming Headless”)

MORTUOUS – Facebook

Clouds – Dor

I cinquanta minuti di musica contenuti in Dor sono lo stato dell’arte del death doom melodico in questo momento, in quanto mi riesce difficile immaginare altre band oggi, se non i soli Saturnus, capaci di sollecitare con la stessa continuità le corde emotive degli appassionati.

Credo d’aver già parlato più volte (magari a sproposito) dell’effetto catartico che le forme più oscure e malinconiche del doom possono rivestire nei confronti degli spiriti maggiormente sensibili, specialmente quando si ritrovano a dover mettere assieme i cocci di una fragile esistenza.

La musica è il collante ideale per provare, se non a risolvere, sicuramente a riassemblare parzialmente quanto il corso della vita sta provando a mandare in frantumi e, in tal senso, in coincidenza dell’uscita di ogni album che vede coinvolto Daniel Neagoe, sia con gli Eye Of Solitude sia con il suo più recente progetto Clouds, è un po’ come avere la possibilità di ascoltare le parole di un amico che, invece di edulcorare inutilmente la realtà, decide di mostrare tutto il dolore del modo facendo scendere lacrime liberatorie e purificatrici.
Daniel, rispetto a molti altri grandi del settore, ha una prolificità compositiva che lo contraddistingue in maniera decisiva: per fare un esempio, negli ultimi sei anni, il tempo necessario per ascoltare un nuovo (capo)lavoro degli Evoken dopo Atra Mors, il musicista rumeno con le sue due band principali ha pubblicato complessivamente ben sette full length ed un numero considerevole di ep e singoli, tutto materiale di spessore artistico incommensurabile.
Rispetto agli EOS, con i Clouds Neagoe esplora il lato più melanconico e atmosferico del doom, coerentemente con quello che era stato l’intento manifestati all’epoca dell’esordio con Doliu, ovvero quello di omaggiare la memoria di chi non è più tra noi.
Tutto questo porta il sound di un album stupendo come Dor ad essere quasi antitetico per approccio al capolavoro degli Eye of Solitude che fu Canto III: mente in quel caso il senso della tragedia e del fallimento umano, nella vana ricerca di un senso all’esistenza, era qualcosa di tangibile, quasi fisico, ed esibito in maniera mirabilmente drammatica, qui il dolore è meno intenso e più soffuso, reso sopportabile nel suo essere diluito lungo brani intrisi di splendide melodie ed interpretati magistralmente dallo stesso Daniel e dagli ospiti che, come di consueto, arricchiscono ogni lavoro targato Clouds.
I cinquanta minuti di musica contenuti in Dor sono lo stato dell’arte del genere in questo momento, in quanto mi riesce difficile immaginare altre band oggi, se non i soli Saturnus, capaci di sollecitare con la stessa continuità le corde emotive degli appassionati, i quali non potranno che essere soggiogati dalla bellezza di questi sei brani dall’incedere struggente e in grado di indurre alla commozione dalla prima nota di Forever and a Day all’ultima di Alone.
The Last Day Of Sun è un grido di dolore in cui la disperazione (No one to hear my endless story / No one to set me free) si alterna alla disillusione, una prova di sommo lirismo che Daniel ci regala, assieme alla limpidezza di When I’m Gone, in cui ritroviamo la gradita partecipazione della bravissima Gogo Melone, e all’abbandono di The Forever Sleep, interpretata magistralmente da Pim Blankenstain (Can I close my eyes / This must be the night I die / Never to wake up again / The forever sleep and no more pain).
Il finale della title track è letteralmente lacerante nel sua tragica bellezza, mentre in Alone si può apprezzare lo splendido operato della giovane violinista Irina Movileanu, il cui tocco avvicina non poco il brano agli episodi più evocativi dei sempre imprescindibili My Dying Bride.
I Clouds odierni ripropongono la line-up a forte componente rumena già vista all’opera dal vivo quest’anno che comprende, oltre all’appena citata Irina, la base ritmica dei Descend Into Despair (Alex Costin e Luca Breaz) ad accompagnare l’ormai consolidata presenza dell’altro loro compagno Xander Coza alla chitarra, ai quali si aggiunge Indee Rehal-Sagoo, il quale non collaborava in studio con Neagoe dai tempi di Canto III; non so se tutto questo abbia contribuito a rendere i Clouds (al netto della sempre gradita partecipazione dei vari ospiti) un qualcosa di più vicino che in passato all’idea di band canonica, fatto sta che Dor si rivela a mio avviso il punto più alto di una discografia già comprensiva di gemme come Doliu, Departe e lo stesso Destin, ma indipendentemente da ciò, l’importante è sapere che “l’amico” di cui si parlava all’inizio è sempre lì, pronto a renderci più sopportabili i rovesci e le sventure dell’ esistenza esibendone senza filtri la sua ineluttabile caducità.

Tracklist:
1. Forever and a Day
2. The Last Day of Sun
3. When I’m Gone
4. Dor
5. The Forever Sleep
6. Alone

Line-up:
Alex Costin – Bass
Luca Breaz – Drums
Indee Rehal-Sagoo – Guitars
Xander Coza – Guitars
Daniel Neagoe – Vocals, Guitars, Bass, Drums, Keyboards
Irina Movileanu – Violin

Guests :
Gogo Melone – vocals on 3.
Pim Blankestein – vocals on 5.

CLOUDS – Facebook

Kåabalh – Kåabalh

Un album capace di creare un immaginario fatto di luoghi inesplorati forieri di orrori lovecraftiani, che è più o meno ciò che si attende di ascoltare chi predilige tali sonorità.

Questa nuova band francese, nata dopo la fine dei Torture Throne, raggiunge risultati che con il marchio Kåabalh vanno ben oltre quelli raggiunti precedentemente.

Il death metal catacombale offerto in questo debutto omonimo è, contrariamente alle abitudini dei gruppi transalpini, del tutti privo di impulsi innovativi o di commistioni tra generi: quanto viene servito è un monolitico death i cui rallentamenti lo fanno sconfinare sovente nel doom per finire in scia di Incantantion e morbosa compagnia.
Per quanto sia difficile da credere, però, l’operato dei Kåabalh non risulta affatto derivativo perché il quintetto normanno non si limita a premere sull’acceleratore in maniera indiscriminata, né a riversare una spessa coltre di pece sull’ascoltatore (cosa che peraltro viene eseguita benissimo), ma prova a rendere il proprio prodotto relativamente meno ostico pur senza smarrire l’impatto primitivo del genere.
La pesantezza dei riff viene attenuata così da assoli piuttosto ficcanti e ben delineati melodicamente (Acheron, Dark Wrath Of A New God) ma va detto che quando la componente doom intacca la muraglia sonora creata dai Kåabalh si possono ascoltare i momenti più coinvolgenti del lavoro, come accade nel finale della notevole Death’s Ovation.
Un album capace di creare un immaginario fatto di luoghi inesplorati forieri di orrori lovecraftiani, che è più o meno ciò che si attende di ascoltare chi predilige tali sonorità.

Tracklist:
1. Cabal
2. Acheron
3. Wrath of a New God
4. The Complete Darkness
5. Heavy Boredom Death
6. Death’s Ovation

Line-up:
Damned – Vocals, Lead Guitars
Pierre – Guitars
Marco – Bass:
Fab Dodsmetal – Drums

KAABALH – Facebook

Fordomth – I.N.D.N.S.L.E. – In Nomine Dei Nostri Satanas Luciferi Excelsi

I Fordomth portano un contributo importante al genere con un disco di notevole spessore, all’interno del quale la materia doom viene trattata in maniera oculata, senza eccessi né in senso melodico né sperimentale.

L’album di debutto di questa band catanese, come spesso accade ai lavori appartenenti alla cerchia del funeral doom, ha avuto una gestazione molto lunga, nel caso specifico quasi tre anni al termine dei quali finalmente I.N.D.N.S.L.E. (In Nomine Dei Nostri Satanas Luciferi Excelsi) viene immesso sul mercato dall’etichetta specializzata russa Endless Winter.

Partendo dal presupposto che dalle nostre parti il genere non è frequentato in maniera assidua come avviene nel nord Europa o nei paesi ex sovietici, i Fordomth portano un contributo importante con un disco di notevole spessore, all’interno del quale la materia viene trattata in maniera oculata, senza eccessi né in senso melodico né sperimentale.
Abbiamo così per le mani un’opera che segue canoni consolidati e piuttosto corposa per la sua durata di quasi un’ora, della quale gran parte viene occupata dalla lunghissima Chapter III – Eternal Damnation.
Già da queste coordinate si intuisce come il lavoro sia dedicato a chi maneggia certe sonorità in maniera assidua e non si fa certo respingere al primo approccio dall’incedere rallentato e caliginoso al quale la band siciliana rinuncia di rado, ora a favore di passaggi più delicati ed evocativi (Chapter IV – Interlude) ora consentendosi qualche ragionata accelerazione come nella conclusiva title track.
Nonostante i Fordomth citino quali possibili fonti di ispirazione band come Ahab ed Evoken, in realtà il loro sound possiede quell’impronta mediterranea che si esplicita sotto forma di un sound mai troppo aspro né algido, lasciando che sia l’aspetto emotivo a dominare anche quando è l’impietoso growl di Gabriele Catania a dominare la scena.
Indubbiamente il fulcro del lavoro è appunto Chapter III – Eternal Damnation, brano che da solo fattura venticinque minuti di doom rituale guidato da un notevole lavoro chitarristico che detta una linea melodica ben definita: è proprio in questi momenti, quando il suono si fa più rarefatto, oppure quando l’interpretazione vocale diviene più drammatica, che affiorano reminiscenze dei Cultus Sanguine, seminale band la cui eredità non è mai stata del tutto raccolta, mentre la chiusura dell’album rimanda ad una realtà più gotica come furono i portoghesi Desire.
Il fatto che queste band siano ormai defunte, o comunque inattive da tempo dal punto di vista discografico, è sintomatico di un’interpretazione del genere molto genuina, dai contenuti importanti rivestiti da una produzione efficace proprio perché restituisce suoni molto novantiani, aumentando così il fascino di un bellissimo album.
Dalle note biografiche si evince che la crescita dei Fordomth è stata in parte ostacolata dai consueti problemi di line-up, e non a caso della formazione che ha registrato I.N.D.N.S.L.E. oggi restano solo Gabriele Catania e Gianluca Buscema; c’è solo da sperare che la band trovi, in tal senso, l’opportuna stabilità, alla luce delle capacità dimostrate con un lavoro in grado di condurre l’ascoltatore in quei meandri dell’esistenza in cui molti amano perdersi, accompagnati da queste oscure  e dolenti partiture.

Tracklist:
1. Chapter I – Intro
2. Chapter II – Abyss of Hell
3. Chapter III – Eternal Damnation
4. Chapter IV – Interlude
5. Chapter V – I.N.D.N.S.L.E.

Line-up:
Gabriele Catania – vocals
Federico ‘Fano’ Indelicato – vocals
Giuseppe Virgillito – lead guitar
Riccardo Cantarella – rhythm guitar
Gianluca ‘Vacvvm’ Buscema – bass
Mario Di Marco – drums

Guests:
Federica Catania – violin on “Chapter IV – Interlude”
Salvatore Calamarà – vocals “Chapter V – I.N.D.S.L.E.”

FORDOMTH – Facebook

Evoken – Hypnagogia

Monumentale e struggente opera di funeral doom per la band americana che non smette di stupire per l’ispirazione, la competenza e la sincerità.

La Grande Guerra, la Prima Guerra Mondiale, è l’ispirazione per il ritorno sulle scene di una della migliori band funeral doom americane e non solo.

Attivi dal 1994 con il demo Shades of Night Descending, gli Evoken, giunti ora per Profound Lore al sesto album, hanno realizzato nella loro lunga carriera, quasi un quarto di secolo, opere assolutamente meritevoli e di gran livello: tutti lavori assolutamente ispirati, splendidamente suonati e completamente coinvolgenti. La musica funeral non ha fretta, ha bisogno di essere composta con i giusti tempi e fruita con la dovuta sensibilità e attenzione, come nel caso di questa opera molto introspettiva. Gli Evoken non ricercano spettacolarizzazione o passaggi di immediato effetto ma scavano con note intense e atmosfere desolate solchi duraturi nelle fibre muscolari del nostro cuore; anche l’argomento trattato, per la prima volta un concept, è duro da digerire, trattandosi di un diario di un soldato che resosi conto della grande inutilità della guerra attende solitario la morte. Argomento perfetto per una narrazione in musica e gli Evoken con una monumentale opera riescono a portarci nell’animo disilluso e infranto del soldato. Otto brani di una intensità rara, schivi ma allo stesso modo attraenti fino dall’opener raggelante con le sue note tastieristiche e la potenza atmosferica evocata; gli inserti di violino sono assolutamente ispirati e funzionali all’interno di quasi tutti i brani aggiungendo note disperate e infrangendo ogni piccola speranza. Si capisce con gli ascolti, vivendo l’opera, che gli Evoken sono di un’altra caratura, con un lavoro chitarristico e di drumming fenomenale; ogni brano coinvolge, immergendoci in una atmosfera triste, quasi al di là della umana comprensione e difficile da descrivere a parole. Ogni ascoltatore di queste sonorità non potrà non rimanere estasiato di fronte alla capacità narrativa e suggestiva quando queste note entreranno sottopelle e si fonderanno con i nostri sensi. La maestosità e l’afflato melodico di Too Feign Ebullience attanaglia il cuore, l’inaspettato inserto death di Valorous Consternation mostra che la rabbia è presente in questa narrazione, ma poi è sopita dal disincanto. E’ un viaggio nelle miserie dell’animo umano che si rende conto della inutilità della guerra ma anche è disilluso perché sa cheé impossibile sottrarvisi; le note apparentemente rasserenanti all’inizio dei dieci minuti di The Weald of Perished Men si infrangono lentamente sulla tristezza del growl di John Paradiso e sulla potenza di magnifiche tastiere che ci portano con infinita desolazione e senso di sconfitta all’ultima affermazione: …it’s here, the end. Please let me go, please let me… go. Opera emozionalmente intensa, monumentale, che insieme ai dischi di Hamferd e Yob chiude una triade di altissimo livello nel corso del 2018 .

Tracklist
1. The Fear After
2. Valorous Consternation
3. Schadenfreude
4. Too Feign Ebullience
5. Hypnagogia
6. Ceremony of Bleeding
7. Hypnopompic
8. The Weald of Perished Men

Line-up
Vince Verkay – Drums
John Paradiso – Vocals, Guitars
Don Zaros – Keyboards
David Wagner – Bass
Chris Molinari – Guitars

EVOKEN – Facebook

Sorrowful Land – I Remember

Un’altra opera di grande consistenza per questo ottimo musicista di Kharkiv che sembra aver momentaneamente congelato la sua precedente creatura Edenian per convogliare tutti i propri sforzi su un progetto solista, come quello dei Sorrowful Land, decisamente foriero di soddisfazioni, sicuramente almeno a livello qualitativo.

Per il suo nuovo lavoro a nome Sorrowful Land, Max Molodtsov non ha lasciato nulla di intentato, radunando diversi nomi di spicco della scena doom e assegnando loro il compito di arricchire questo secondo full length del suo progetto, intitolato I Remember.

In ogni brano troviamo voci note alla platea di appassionati del death doom come due figure carismatiche del peso di Daniel Neagoe (Clouds, Eye Of Solitude) ed Evander Sinque (Who Dies In Siberian Slush, Umercenaries) ma non solo, se pensiamo anche alla presenza di Kaivan Sarei (A Dream Of Poe), Vladislav Shahin (Mournful Gust) e Daniel Arvidsson (Draconian), oltre al prezioso contributo chitarristico di Vito Marchese dei Novembers Doom.
Quanto di buono già dimostrato dal musicista ucraino con i precedenti lavori, trova in I Remember una sua ideale finalizzazione proprio grazie alla varietà di soluzioni consentite dal diversi stili vocali degli ospiti; pertanto, se la suadente voce pulita di sarei si presta ad un brano morbidamente malinconico come And Wilt Thou Weep When I Am Low?, il growl antologico di Neagoe sposta la successiva canzone When the World’s Gone Cold su ritmi più rallentati ed atmosfere più tragiche, anche se l’intreccio tra le clean dello stesso Daniel e di Max ingentilisce il tutto senza dimenticare il limpido e melodico chitarrismo del musicista ucraino.
A Father I Never Had è una delle perle del lavoro e anche il solo brano in cui Molotsdov non si avvale di ospiti: il suo stile vocale, del resto, non sfigura certo per espressività e l’innata facilità nello sciorinare linee chitarristche magnifiche (non dissimili da un modello come quello rappresentato da Johan Ericsson) rende questa traccia davvero splendida.
In Weep On, Weep On troviamo un altro dei growl più efficaci della scena, quello di Evander Sinque, personaggio di spicco della scena moscovita del quale non avevamo più avuto il piacere di ascoltare il profondo timbro dopo la prematura scomparsa del suo storico sodale Gungrind: il brano è meno immediato nonché il più aspro e più profondo della tracklist, nonostante non venga mai meno il tocco atmosferico che è tratto comune dell’intero lavoro.
In I Am the Only Being Whose Doom tocca ad una delle icone della scena ucraina, quel Vladimir Shahin che con i suo Mournful Gust è stato uno dei primi nella sua terra ad esplorare con perizia quelle dolenti sonorità; la sua interpretazione vocale dona grande enfasi ad un brano in cui anche il tocco chitarristico di Marchese, differente da quello di Molotsdsov, conferisce una certa discontinuità rispetto alle altre tracce.
L’album si chiude con un’altra gemma imperlata di dolore come The Kingdom of Nothingness, interpretata da un ottimo Daniel Arvidsson, usualmente solo chitarrista nei Draconian, andando mettere il tassello finale ad un’altra opera di grande consistenza di questo ottimo musicista di Kharkiv che sembra aver momentaneamente congelato la sua precedente creatura Edenian per convogliare tutti i propri sforzi su un progetto solista, come quello dei Sorrowful Land, decisamente foriero di soddisfazioni, sicuramente almeno a livello qualitativo.
L’unica nota di biasimo attribuibile a Molodtsov è la scelta di una copertina che non rende giustizia alla bellezza dell’album, la di là dei significati reconditi che magari questa possa rivestire all’interno del contesto lirico: un peccato veniale che non rende affatto meno appetibile per gli appassionati del death doom melodico un lavoro come I Remember.

Tracklist:
1. And Wilt Thou Weep When I Am Low?
2. When the World’s Gone Cold
3. A Father I Never Ha
4. Weep On, Weep On
5. I Am the Only Being Whose Doom
6. The Kingdom of Nothingness

Line-up:
Max Molodtsov – Vocals, Guitars, Bass, Keyboards, Drum programming, Songwriting, Lyrics

Guests:
Kaivan Saraei – Vocals (track 1)
Daniel Neagoe – Vocals (track 2)
Evander Sinque – Vocals (track 4)
Vladislav Shahin – Vocals (track 5)
Vito Marchese – Guitars (lead) (track 5)
Daniel Arvidsson Vocals (track 6)

SORROWFUL LAND – Facebook

Argonavis – Passing the Igneous Maw

Nel complesso l’opera si rivela interessante per il suo incedere oscuro e minaccioso, e l’integrità stilistica della band nordamericana rappresenta un elemento decisivo per approcciare con il giusto spirito una proposta sicuramente ostica, nella quale non vi sono concessioni ad una maggiore accessibilità.

Argonavis è il monicker adottato da questo duo canadese all’esordio con un full length connotato da un’interpretazione quanto mai ruvida del death doom.

I tempi rallentati di questi lavoro sono infatti solcati da alcune accelerazioni di matrice black e da un impietoso growl in stile brutal, con qualche sporadica digressione atmosferica.
Nel complesso l’opera si rivela interessante per il suo incedere oscuro e minaccioso, e l’integrità stilistica della band nordamericana rappresenta un elemento decisivo per approcciare con il giusto spirito una proposta sicuramente ostica, nella quale non vi sono concessioni ad una maggiore accessibilità, neppure a livello di notizie biografiche o quant’altro.
Agli Argonavis interessa fondamentalmente immergere l’ascoltatore in antri oscuri e malsani con il loro sound che ben si addice a tematiche storico filosofiche riconducibile ad antiche e sepolte civiltà. Passing the Igneous Maw scorre in maniera monolitica, con il suo sound ribassato che trova i momenti migliori nel maelstrom sonoro intitolato The Blazing Torrent of Nasus’ Victory: Pyrophlegethon, in cui appare qualche elemento di discontinuità in più rispetto al resto di un’opera decisamente valida, anche se rivolta ad una ristrettissima cerchia di appassionati.

Tracklist:
1.Passing the Igneous Maw
2.Carving the Wapta Gorge
3.For All Slaves: The Cold March to the Scorched Gates
4.Katabasis
5.The Blazing Torrent of Nasus’ Victory: Pyrophlegethon
6.Katharmos: Towards the Isle of the Dead

ARGONAVIS – Facebook

 

Druj – Chants Of Irkalla

I Druj si nutrono dell’efferatezza sonora dei loro connazionali Evoken, Nile e Incantation, macinandone gli influssi per restituire un sound cupo, dalle tonalità paurosamente ribassate e rallentato a dovere, che è un esempio perfetto da utilizzare per spiegare a qualcuno cosa sia il death doom nella sua accezione più autentica.

Abbiamo ormai fatto l’abitudine al doom e al black provenienti dai ghiacci siberiani, per cui non ci sorprende constatare che il gelo non mina la voglia di suonare tali funesti generi neppure al di là dello stretto di Bering.

I Druj provengono infatti da Anchorage, capitale dell’Alaska, e di sicuro nel loro death doom non immettono alcuna traccia di calore od empatia.
L’interpretazione è asciutta, essenziale ma non approssimativa a livello di registrazione e di esecuzione: il riferimento concettuale alla traduzione sumera non è una primizia, così come non lo sono le coordinate sonore dei Druj, ma non vengono certo meno gli ingredienti per rendere Chants Of Irkalla un lavoro godibile ovviamente per chi sia abituato ad una certa asprezza compositiva.
Ziggurat Ablaze, lunga traccia d’apertura, non lascia dubbi su quali siano i numi tutelari di questi nordamericani, i quali si nutrono dell’efferatezza sonora dei loro connazionali Evoken, Nile e Incantation, macinandone gli influssi per restituire un sound cupo, dalle tonalità paurosamente ribassate e rallentato a dovere, che è un esempio perfetto da utilizzare per spiegare a qualcuno cosa sia il death doom nella sua accezione più autentica.
Un altro brano magnifico è Invoke, dal retrogusto rituale ed attraversato da una ronzante e minacciosa melodia chitarristica, ma è il disco nel suo complesso ad esibire un sound convincente in ogni suo aspetto e con le carte in regola per farvi convergere il gradimento degli appassionati di entrambi i generi rappresentati.

Tracklist:
1.Ziggurat Ablaze
2.He Who Drinks of Namma
3.Chants of Irkalla
4.Consort of Sin
5.Invoke
6.Ashes of Immortality

Line-up:
Sean Holladay – Guitars
Connor Tetlow – Guitars
Wayne DeWilde – Bass
Adam Kimball – Drums

Ivan – Memory

Memory è un lavoro che gli appassionati dovrebbero sicuramente provare ad ascoltare perché molti potrebbero restarne folgorati, a differenza di altri che saranno spinti ad archiviarlo dopo uno o due passaggi.

Ecco un’opera che mette a dura prova anche chi con il doom ha a che fare quotidianamente e che sicuramente non si fa scoraggiare né dalla lunghezza dei brani né, tanto meno, dal loro lento e penoso incedere.

Quello che rende oggettivamente complesso l’ascolto di Memory, terzo full length in tre anni per gli australiani Ivan, è la scelta di affidare in toto lo sviluppo melodico al violino, ottenendo risultati contrastanti e che, in quanto tali, dovrebbero ricevere riscontri di diversa natura.
Se è indubbiamente affascinante la soluzione adottata dal duo di Melboune, non si può altresì negare che questo, alla lunga, testa in maniera probante anche la resistenza degli ascoltatori più allenati, questo perché a mio parere il violino è uno strumento che in ambito doom metal andrebbe utilizzato sempre con un dosaggio molto oculato (come i primi My Dying Bride hanno insegnato).
I due lunghissimi brani, che vanno a sommare una durata vicina ai cinquanta minuti, sono praticamente simili, con lo strumento ad arco a delineare le sue laceranti linee melodiche, un growl che in sottofondo ci racconta tutta la propria riprovazione nei confronti dell’esistenza umana, e le chitarre che sostanzialmente delineano assieme alla base ritmica il battito di un cuore in procinto di fermarsi per sempre; fanno eccezione gli ultimi minuti di Time Is Lost, quando il connubio tra violino e chitarra diviene tangibile ed equilibrato, rendendo questa parte del lavoro la più evocativa e coinvolgente.
La sensazione straniante deriva dal fatto che in certi momenti il disco appare qualcosa di meravigliosamente struggente, mentre in altri affiora un’inevitabile stanchezza senza che, di fatto, intervengano elementi di discontinuità a provocare impressioni così discordanti.
Ascoltando Memory nelle sue parti iniziali sembra quasi d’essere al cospetto ad una versione funeral doom dei Dark Lunacy, ma soprattutto il termine di paragone più naturale potrebbero essere gli Ea, con la chitarra collocata però in secondo piano da un violino nettamente preponderante su tutto il resto.
Ed è così, comunque,che gli Ivan ottengono ciò che probabilmente si erano prefissati, ovvero quello di apparire una sorta di dolente orchestra che accompagna il defunto alla sua ultima dimora.
Tutte queste considerazioni mi spingono, a livello di consuntivo, ad apprezzare senz’altro quest’opera, mantenendo però più di una riserva sulla possibilità che possa essere oggetto di molti ascolti ininterrotti dalla prima all’ultima nota; in sintesi, le dolenti pennellate chitarristiche restano sempre la soluzione più indicata per indurre emozioni in ambito funeral/death doom.
Va anche aggiunto, a favore degli Ivan, che la ricerca di soluzioni maggiormente peculiari va a loro merito, tanto più che i progressi rispetto alle recedenti opere appaiono sensibili, per cui Memory è un lavoro che gli appassionati dovrebbero sicuramente provare ad ascoltare perché molti potrebbero restarne folgorati, a differenza di altri che saranno spinti ad archiviarlo dopo uno o due passaggi: io mi colloco a metà strada, ritenendo il tutto molto intrigante ma decisamente migliorabile nell’equilibrio delle sue componenti strumentali.

Tracklist:
1 Visions
2 Time Is Lost

Line-up:
Brod Wellington
Joseph Pap

IVAN – Facebook

Qualen – Patterns Of Light

Il musicista di Chisinau dimostra una notevole dimestichezza con il genere, riuscendo a mantenersi in costante equilibrio tra le varie componenti del sound nel corso di tre quarti d’ora caratterizzati da una spiccata intensità e da altrettanta scorrevolezza.

Da una nazione non certo nota per la sua scena metal come la Moldavia, arriva l’esordio dei Qualen, progetto solista di Denis Balan, il quale offre, con Patterns Of Light, una buona prova a base di death doom melodico.

Il musicista di Chisinau dimostra una notevole dimestichezza con il genere, riuscendo a mantenersi in costante equilibrio tra le varie componenti del sound nel corso di tre quarti d’ora caratterizzati da una spiccata intensità e da altrettanta scorrevolezza.
Trovandoci al cospetto di un ambito nel quale molto è già stato detto, il compito di chi vi si cimenta è quello di farlo bene, e Denis ci riesce con buon agio, muovendosi nel solco dei vari In Mourning e Insomnium, ai quali si aggiunge una decisiva componente Paradise Lost nei passaggi più rallentati ed evocativi.
Se Patterns Of Light non è, per una serie di ovvi motivi, un album destinato a lasciare un segno indelebile, non si può fare a meno di apprezzare l’incisività di tutte le tracce (con menzione d’onore per Eclipse), dirette, ben prodotte ed altrettanto pregevolmente eseguite, nonostante la configurazione di one man band.
Denis Balan è abile a sottrarsi alla dozzinalità di molte uscite di stampo DIY, e il fatto che sia stato notato dall’occhio lungo di Eugene della Loneravn Records (etichetta ucraina che si sta specializzando nel portare alla luce realtà provenienti dall’underground nella sua accezione più pura) è un segnale intrinseco del valore e del potenziale di questa novità denominata Qualen.

Tracklist:
1. Refraction
2. Transparency
3. Fluorescence
4. Darkening
5. Eclipse
6. Afterglow
7. Dispersion
8. Shadow

Line-up:
Denis Balan – All instruments, Vocals

QUALEN – Facebook

Eternal Rot – Cadaverine

Cadaverine è una prova tutt’altro che trascurabile, forte di un’ortodossia stilistica che mai come in questo caso appare inattaccabile quanto gradita.

Cadaverine è il primo album per gli Eternal Rot, autori di un death doom che tiene totalmente fede alla ragione sociale e alla copertina per le sonorità offerte.

I quattro brani, infatti, si snodano lungo una linea di putridume sonoro, con sonorità distorte e ribassate ed un growl degno del brutal più verace; se la varietà sonora latita, come contraltare troviamo una capacità non così scontata di evocare sensazioni quanto mai morbose, rendendo il tutto un prodotto in grado di soddisfare gli amanti di entrambi i generi dai gusti più vintage.
Mayer e Grindak sono due musicisti polacchi (anche se il secondo vive nel Regno Unito) il cui primo e unico parto risale ad un demo datato 2013, prima che i connazionali della Godz Ov War li inserissero nel loro mefitico roster; in mezz’ora scarsa, Cadaverine lascia la sua riprovevole scia di putrefazione senza che il duo molli mai la presa, chiudendo anzi a doppia mandata i cancelli del cimitero che hanno eletto quale loro dimora concettuale.
La formula è per certi versi semplice e ampiamente battuta, ma anche per questo non è affatto scontato renderla avvincente e relativamente appetibile per una cerchia seppure ristretta di ascoltatori.
Parlare dei singoli brani è superfluo, perché dalla prima nota di Undying Desolation fino all’ultima di Slough of Despond gli Eternal Rot ci tengono rinchiusi senza cedimenti o pentimenti nella cripta che hanno creato usando materiale grezzo, ma capace di resistere lungamente all’usura del tempo.
Cadaverine è una prova tutt’altro che trascurabile, forte di un’ortodossia stilistica che mai come in questo caso appare inattaccabile quanto gradita.

Tracklist:
1. Undying Desolation
2. In Their Decaying Eyes
3. Putrid Hallucination
4. Slough of Despond

Line-up:
Mayer – Vocals, Guitars, Bass, Drum programming
Grindak – Vocals, Lyrics

ETERNAL ROT – Facebook

Pantheist – Seeking Infinity

Un grande ritorno: l’attesa non è stata vana e il leader Kostas ci riporta alle radici del suo personale funeral facendoci immergere in zone della nostra anima completamente prive di luce.

Sette lunghi anni ci separano dall’ultimo segnale mandato dalla creatura di Kostas Panagiotu, dall’ultimo controverso e forse non completamente a fuoco album omonimo del 2011.

Ora Kostas, che è stato impegnato in molteplici progetti nel frattempo (Toward Atlantis Light, Aphonic Threnody e Clouds tra gli altri), forte dell’appoggio di nuovi musicisti, tra cui Daniel Neagoe (Eye of Solitude, Clouds e mille altri) “on drums”, ci dona un’ora di musica dal forte e antico fascino. Cover estremamente suggestiva cosi come il titolo, Seeking Infinity l’opera ci riporta alle radici del loro funeral doom incorporando al meglio le derive atmosferiche e progressive presenti nei due precedenti lavori del 2008 (Journey through the lands unknown) e del 2011 (Pantheist). Già nel 2016 Kostas aveva iniziato a lavorare sulla attuale opera, pubblicando un EP di futuristic space doom, Chapters (ora sold out), per autofinanziarsi e scrivendo un racconto, Events, che rappresenta il concept del nuovo album: il professore Losaline viaggia nel tempo cercando di capire come mai l’umanità corra verso l’autodistruzione e trovando, come unica risposta, la totale irresponsabilità del genere umano che non trae mai insegnamento dai propri errori. L’opera è assolutamente ispirata, con un interplay tra pianoforte, tastiere e chitarre che raggiunge livelli notevoli, ricordandoci l’unicità del suono della band, nata in Belgio ma ora londinese; brani lunghi, ricchi di suggestioni e atmosfere dilanianti fin dall’opener Control & fire, dove un intenso suono di basso ci accompagna lungo undici minuti incantevoli. Per 500 B.C to 30 A.D- The Enlightened Ones esiste anche un video assolutamente consigliato, per immergervi in un funeral dal sapore antico e misterioso; il piano cesella le melodie, mentre l’atmosfera si appesantisce, portandoci in spazi doom vigorosi e tesi  e ricordandoci che ”you can run but you can’t hide from the quiet flow of time and the dark tentacles of fate push you towards your destiny“. Storia a sé stante sono i sei abbondanti minuti di 1453: An Empire Crumbles in cui la narrazione della caduta di Costantinopoli, ultimo baluardo dell’ Impero Romano d’ Oriente, è condotta su un base d’organo creata ad hoc per celebrare un antico rituale; un brano che, pur usando ingredienti diversi, raggiunge livelli atmosferici superbi. Le ultime due tracce, per un totale di circa ventisette minuti, nella loro maestosità doom sublimano un’opera nella quale l’ incessante dialogo tra piano e chitarre ci conduce in luoghi dove si distilla la forma più pura di funeral doom e la solitudine e la disperazione accompagnano le gesta di ogni uomo. Un grande ritorno, la lunga attesa non è stata vana.

Tracklist
1. Eye of the Universe
2. Control and Fire
3. 500 B.C. to 30 A.D. – The Enlightened Ones
4. 1453: An Empire Crumbles
5. Emergence
6. Seeking Infinity, Reaching Eternity

Line-up
Kostas Panagiotou – Vocals, Keyboards
Aleksej Obradović – Bass
Frank Allain – Guitars
Daniel Neagoe – Drums

PANTHEIST – Facebook

Eyze – Lost In Emptiness

Al di là di qualche piccolo difetto, Lost In Emptiness è un’opera decisamente apprezzabile per il suo genuino e dolente incedere, quindi va senz’altro un plauso al quartetto portoghese per questa sua prima uscita.

Passo d’esordio per i portoghesi Eyze, autori di un interessante lavoro all’interno del quale viene esibita un’interpretazione decisamente valida del death doom atmosferico.

Prendendo spunto concettualmente dai rituali di iniziazione degli indiani Algonchini, il gruppo lusitano si disimpegna con buon gusto melodico e discreta personalità nei meandri del genere, pagando leggermente dazio a causa di una produzione un po’ ruvida, in particolare per quanto riguarda il comparto vocale e le percussioni, nulla che comunque vada ad inficiare più di tanto il lavoro ne suo insieme.
Funzionano senz’altro meglio i brani dal taglio più evocativo, come Strayed from the Light, Corrosion of the Soul e la conclusiva e più lunga del lotto Haze of Doom, mentre in generale si fa sentire l’assenza di una tastiera in grado di riempire al meglio qualche spazio di troppo.
Al di là di qualche piccolo difetto, Lost In Emptiness è un’opera decisamente apprezzabile per il suo genuino e dolente incedere, quindi va senz’altro un plauso al quartetto di Pombal per questa sua prima uscita, con la quale vengono poste basi già sufficientemente solide per sorreggere il peso di un lavoro su lunga distanza, anche se va detto che, in effetti, i quasi tre quarti d’ora di durata dell’opera rappresentano un fatturato già oltremodo probante

Tracklist:
1. Agnvs Rising
2. Strayed from the Light
3. Darkhlaa
4. Corrosion of the Soul
5. Gurvan Zuun Jaran (360)
6. Haze of Doom

Line-up:
Aion – Guitars/Vocals
Goldstein – Guitars/Vocals
Shello – Bass/Vocals
Jinn – Drums/Vocals

EYZE – Facebook

Woebegone Obscured – The Forestroamer

Abili cesellatori di incandescenti e allo stesso tempo eleganti atmosfere funeral doom, i danesi Woebegone Obscured ci donano un’opera di non facile assimilazione ma ricca di suggestioni e fascino.

Abili cesellatori di incandescenti e allo stesso tempo eleganti atmosfere funeral doom, i danesi Woebegone Obscured ci fanno riassaporare la loro arte, cinque anni dopo Marrow of Dreams, con il nuovo e terzo full length The Forestroamer.

La prima cosa che balza all’occhio è il ritorno a un minutaggio più contenuto rispetto ai settanta minuti del precedente. Qui tutto si condensa in poco più di quaranta minuti dove, però, ogni nota dipinge un grande affresco nel quale paesaggi death doom scivolano con naturalezza in atmosfere funeral intense, avvolgenti e decisamente affascinanti. La capacità di scrittura è veramente notevole, i musicisti conoscono questa arte e sanno come toccare le corde giuste dell’ascoltatore proponendo trame delicate, cangianti che si accendono e lentamente si acquietano aprendo ad atmosfere ora suggestive, ora oscure, tristi e di gran gusto: i dieci minuti dell’opener The Memory and the Thought trascorrono in un attimo con il loro alternarsi atmosferico, retto da un grande drumming sempre vario e ispirato. La splendida Drommefald, con il suo incedere brumoso, ci aiuta a calarci completamente nelle visioni di non existence invocate dalla band; il growl carico si intarsia perfettamente con l’interplay delle chitarre che non disdegnano derive black e, per caricare di ulteriore tensione, la trama e il finale in crescendo ci ammalia per la sua cristallina bellezza. La grande capacità di variare i suoni e la tensione all’ interno di ogni brano si dimostrano punti di forza importanti, donando ai tre lunghi brani un andamento progressivo da sempre presente nel tessuto sonoro del trio. Il breve strumentale Crimson Echoes, a mio parere, avrebbe dato vita a un grande brano, se il suo aroma psichedelico fosse stato sviluppato oltre i due minuti di durata. La maestosa title track, immersa in un personale flavour funeral, è intarsiata da delicate armonie mentre un potente growl la sovrasta; i giochi strumentali sono di prim’ordine, i musicisti non si risparmiano, le tastiere donano potenza e suggestioni oscure e i cambi di atmosfera sono molteplici, spaziando da momenti furiosi e carichi ad altri dotati di grande lirismo e melodia, con la parte finale letteralmente intrisa di abbacinante bellezza. Opera non di immediata assimilazione, ma capace di fornire sensazioni e cibo per la mente e il cuore di alta qualità.

Tracklist
1. The Memory and the Thought
2. Drømmefald
3. Crimson Echoes
4. The Forestroamer
5. Dormant in the Black Woods

Line-up
Quentin Nicollet – Guitars, Bass, Keyboards (track 5)
Martin Jacobsen – Guitars
Danny Woe – Vocals, Drums, Keyboards (track 3)

WOEBEGONE OBSCURED – Facebook

Void Rot – Consumed To Oblivion

Tre brani, benché brevi per le abitudini consolidate del genere, rivelano la maestria compositiva con la quale i Void Rot manipolano la materia rendendola avvincente per l’appassionato dal primo all’ultimo minuto.

Dai sempre più preziosi scrigni della Everlasting Spew sbuca questa temibile creatura denominata Void Rot, dedita ad un death doom la cui oscurità risulta quasi impossibile da squarciare.

Consumed To Oblivion è stato appena pubblicato dall’etichetta italiana in sinergia con la Sentient Ruin Laboratories (che si occupa dell’uscita nel formato tape): si tratta di un ep che, sia pure con i suoi soli quindici minuti, colloca di diritto la band di Minneapolis tra le migliori realtà emergenti del genere.
Il death doom dei Void Rot prende le mosse dalla sempre fondamentale scuola finlandese, anche se tra le varie citazioni in sede biografica vengono menzionati anche i connazionali Spectral Voice, ed in effetti gli autori del magnifico Eroded Corridors of Unbeing paiono costituire un naturale punto di riferimento per i nostri.
I tre brani, oggettivamente brevi per le abitudini consolidate del genere, rivelano la maestria compositiva con la quale questi quattro ragazzi manipolano la materia rendendola avvincente per l’appassionato dal primo all’ultimo minuto. La title track è davvero un esempio di come i Void Rot interpretino il death doom: un suono rombante e ribassato, che non disdegna qualche accelerazione ritmica mantenendo sempre alta la tensione e l’attitudine morbosa.
Una prova magnifica per una band che ha già fin d’ora le carte in regola per lasciare il segno con un auspicabile prossimo full length.

Tracklist:
1.Ancient Seed
2.Consumed By Oblivion
3.Celestial Plague

Line-up:
Will Bell – Drums
John Hancock – Guitars, Vocals
Craig Clemons – Bass
Kent Sklarow – Guitars

VOID ROT – Facebook

Runemagick – Evoked From Abysmal Sleep

Evoked From Abysmal Sleep è il classico album che riempie un vuoto senza rivelarsi necessariamente epocale: essenziale, ruvido, autentico, questo sì, ed è tutto quanto serve a chi ama crogiolarsi con queste oscure sonorità.

Evoked From Abysmal Sleep segna il ritorno al un lavoro su lunga distanza degli storici Runemagick, dopo Dawn Of The End risalente al 2007.

La band svedese, fondata all’inizio degli anni ‘90 da un allora giovanissimo Nicklas Rudolfsson, ha poi pubblicato ben undici full length tra il 1998 ed il 2007, spostandosi dal tradizionale death degli esordi ad un più mortifero death doom.
Negli utimi dieci anni Rudolfsson, assieme al fido drummer Daniel Moilanen, si è dedicato principalmente agli Heavydeath, facendo pensare ai più che questo avrebbe potuto significare di fatto la fine della storia dei Runemagick ma, come abbiamo visto, fortunatamente non è stato così.
Richiamata la coppia ritmica all’opera nei dischi del nuovo millennio (assieme a Moilanen troviamo al basso la moglie di Rudolfsson, Emma), il musicista di Goteborg ripropone il proprio death doom d’annata, ritmato, rotolante e competente al 100%, in grado di mettere d’accordo anche ascoltatori provenienti dalle due opposte sponde, tale è l’equilibrio tra le componenti.
La mancanza di spunti innovativi è ampiamente compensata da sonorità rombanti, dall’accordatura ultra-ribassata sulla quale si staglia il ringhio di un Rudolfsson in piena forma: Tomb to Womb spicca quale brano manifesto di un lavoro che riporta piacevolmente alla luce (fioca) il “dark death metal” dei Runemagick.
Evoked From Abysmal Sleep è il classico album che riempie un vuoto senza rivelarsi necessariamente epocale: essenziale, ruvido, autentico, questo sì, ed è tutto quanto serve a chi ama crogiolarsi con queste oscure sonorità.

Tracklist:
1. After the End They Rise Again
2. Evoked from Abysmal Sleep
3. Runes of the Undead
4. A Rising Fume of Returning Death
5. Wisdom Keepers Resurrected
6. An Anthem of Olden Magic
7. Tomb to Womb
8. A Shining Spirit from Beyond

Line-Up:
Nicklas Rudolfsson – Guitars/Vocals
Emma Rudolfsson – Bass
Daniel Moilanen – Drums/Percussion

RUNEMAGICK – Facebook

Vanhävd – Låt köttet dö

I Vanhavd mettono in mostra un sound decisamente personale, all’interno del quale trovano spazio in misura equilibrata melodia e robustezza del riffing, rallentamenti asfissianti e intriganti accelerazioni ritmiche, per un risultato oggettivamente esaltante per chi ama il genere.

Låt köttet dö (lascia morire la carne) è l’ep d’esordio per questo impressionante gruppo svedese denominato Vanhävd (scomparso).

La traduzione del monicker e del titolo dell’album, ovviamente, ci portano su territori in cui il dolore che si fa musica è di casa, ed infatti i nostri ci offrono circa venticinque minuti di magistrale death doom.
Influenzato concettualmente dal pensiero del filosofo antinatalista norvegese Peter Wessel Zapffe, il gruppo mette in mostra un sound decisamente personale, all’interno del quale trovano spazio in misura equiblirata melodia e robustezza del riffing, rallentamenti asfissianti e intriganti accelerazioni ritmiche, per un risultato oggettivamente esaltante per chi ama il genere.
La title track dice molto sulle potenzialità della band scandinava, con il suo incipit drammatico e l’inquietante melodia chitarristica screziata dal canto feroce di Adam Skog, e non è da meno Om den vulgära farsens nonsense, inaugurata da un sempre poco rassicurante suono di carillon che prelude ad una splendida e struggente armonia creata dal tremolo chitarristico, mentre la conclusiva Drömmaren offre una fase centrale all’insegna di un disperato black doom.
Oltre alla qualità sorprendente della musica offerta, propedeutico ad un possibile futuro capolavoro su lunga distanza, è un grande merito quelli dei Vanhävd l’aver di fatto divulgato il pensiero di Zappfe, sbrigativamente liquidato come un manifesto di pessimismo quando, invece, sarebbe molto più onesto definirlo crudo realismo: mai come di questi tempi le sue parole acquistano ancor più peso specifico.
Niente esiste senza di lui (l’uomo) , tutte linee convergono verso di lui, il mondo non è altro che uno spettrale eco della sua voce. Salta in piedi urlando a squarciagola, vorrebbe vomitare se stesso sulla terra insieme al suo impuro pasto; sente incombere la pazzia e vorrebbe darsi la morte prima di perderne la capacità.
Ma mentre soppesa l’imminente morte, ne afferra anche la natura e le cosmiche implicazioni. La sua immaginazione creativa costruisce nuove spaventose prospettive dietro la cortina della morte e vede che anche lì non c’è salvezza.
Adesso può discernere i contorni dei propri termini biologico – cosmici: egli è il prigioniero senza speranza dell’universo, destinato a prospettive ignote
Da quel momento è in uno stato di panico senza fine.”

Tracklist:
1. Låt köttet dö
2. Om den vulgära farsens nonsens
3. Drömmaren

Line-Up:
Emil Hlmgren – Bass
Michael Lofgren – Drums
Emil Ahlström – Guitars (lead)
Kristian Larsson – Guitars (rhythm)
Jonas Karlsson – Synthesizers
Alexander Kassberg – Synthesizers
Adam Skog – Vocals

VANHAVD – Facebook

Colossus Morose – Seclusion

Anche non si tratta di un qualcosa in grado di sconvolgere le gerarchie all’interno della scena, il primo full length dei Colossus Morose mette in luce una realtà di sicuro interesse e con diverse frecce al proprio arco da poter utilizzare ancor meglio in futuro.

Ancora un esordio sotto l’egida della Endless Winter: questa volta tocca al duo Colossus Morose, formato dal tedesco C.J., il quale si occupa dell’intera parte musicale, e dal vocalist J.C., svizzero ora di stanza in Norvegia.

Il death doom proposto in Seclusion lascia uno spazio limitato alla melodia, anche se tale aspetto non è comunque del tutto assente, privilegiando un impatto più ruvido, con il lavoro chitarristico del musicista di Hannover che tesse un substrato sonoro denso e poderoso, sul quale si staglia il growl profondo e sofferto del suo compare elvetico.
Il lavoro gode di una durata ragionevole, cosa positiva anche in virtù delle caratteristiche di un sound piuttosto cupo e d’impatto, privo di particolari variazioni ritmiche o atmosferiche ma incisivo in ogni sua parte; una buona registrazione ed un’esecuzione complessiva apprezzabile rendono Seclusion un’opera di sicuro spessore, consigliata a chi predilige il death doom più ruvido e meno consolatorio.
Tra i brani spoicca la notevole Six (che nonostante il titolo è il quinto brano in scaletta …), in virtù di qualche variazione sul tema in più con l’alternanza chitarristica tra riff, parti soliste ed acustiche.
Anche non si tratta di un qualcosa in grado di sconvolgere le gerarchie all’interno della scena, il primo full length dei Colossus Morose mette in luce una realtà di sicuro interesse e con diverse frecce al proprio arco da poter utilizzare ancor meglio in futuro.

Tracklist:
1. Catatonical Embrace
2. Tarnished
3. Perpetually Enthralled
4. Sol(e)ace
5. Six
6. The Spiral Descent

Line-Up:
C.J. – All instruments
J.C. – Vocals

COLOSSUS MOROSE – Facebook

Fretting Obscurity – Flags in the Dust

Flags in the Dust è un primo passo che merita un’abbondante sufficienza, perché alla fine i lati positivi superano quelli negativi, ancora troppi però per avvicinare per ora i Fretting Obscurity ai piani alti del genere.

Flags in the Dust è il primo parto discografico dei Fretting Obscurity, in realtà progetto solista del musicista ucraino Yaroslav Yakos.

Il death doom offerto nel corso di quest’ora abbondante è molto ortodosso, anche se possiede un che di antico, che a tratti ci riporta piacevolmente alla memoria album seminali per il genere come Serenades degli Anathema, tanto per citare quella che sembra essere la primaria fonte di ispirazione.
Anche per questo il lavoro si snoda con belle intuizioni melodiche sorrette da uno stile chitarristico un po’ naif ma alla lunga efficace, se è vero che al death doom si richiede soprattutto di produrre emozione e certo non virtuosismi strumentali in serie.
Così, tra dissonanze e distorsioni, il bravo Yaroslav ci introduce alla sua personale interpretazione del dolore che si fa musica, e tutto ciò avviene in maniera convincente, soprattutto se si è amanti, come detto, delle sonorità dei primissimi anni ottanta, anche a livello di resa sonora.
Così, se la title track si fa apprezzare appunto per i rimandi agli esordi dei fratelli Cavanagh, la successiva If There Is No Other Way to Love ‘Em si fa da subito struggente con un solo chitarristico sicuramente perfettibile ma ugualmente toccante, e cresce nel suo andamento più vicino al funeral.
Se Eternal Return è un brano ancora più lungo lungo ma interlocutorio, è senz’altro meglio la conclusiva Funeral Never Ends, nella quale il lavoro chitarristico diviene nuovamente fondamentale per rendere evocativo come merita il sound dei Fretting Obscurity.
Se l’album a livello compositivo non lascia spazio a recriminazioni, qualcosa da rivedere c’è invece dal punto di vista esecutivo e della produzione: la conformazione da one man band non sempre è la causa principale di una resa sonora scarna e perfettibile (i Doomed di Pierre Laube sono la dimostrazione più recente dell’esatto contrario) ma in questo caso forse Yakos avrebbe bisogno di qualcuno con cui confrontarsi, perché la sua conoscenza della materia è fuori discussione, ma la messa in pratica necessita ancora di qualche aggiustamento.
Detto ciò, Flags in the Dust è un primo passo che merita un’abbondante sufficienza, perché alla fine i lati positivi superano quelli negativi, ancora troppi però per avvicinare per ora i Fretting Obscurity ai piani alti del genere.

Tracklist:
1. Flags in the Dust
2. If There Is No Other Way to Love ‘Em
3. Eternal Return
4. Funeral Never Ends

Line up:
Yaroslav Yakos – Everything