Graveyard Of Souls – Pequeños Fragmentos De Tiempo Congelado

Il duo iberico mostra il suo volto migliore quando approccia il genere con ritmi più ragionati e una maggiore ricerca dell’emotività, mentre convince meno il tentativo di rendere il sound più catchy nei passaggi prossimi al death melodico o al gothic.

Degli spagnoli Graveyard Of Souls ci eravamo già occupati qualche anno fa, in occasione del loro primo full length Shadows Of Lifes.

Autori di un buon gothic death doom, all’epoca i nostri non erano apparsi in grado di elevarsi oltre un livello medio, comunque apprezzabile, e non è che l’impressione vada a modificarsi più di tanto con questo nuovo Pequeños Fragmentos De Tiempo Congelado, album che arriva dopo altre due opere su lunga distanza, Infinitum Nihil e Todos los caminos llevan a ninguna parte.
L’interpretazione del genere da parte di Raul e Angel non lascia spazio a particolari critiche né dal punto di vista esecutivo né da quello della produzione (anche se quest’ultimo aspetto è senz’altro migliorabile), perché in questo genere li ritengo elementi marginali rispetto al potenziale emotivo di un’opera: il problema è che, in buona sostanza, vengono meno quei guizzi capaci di rendere identificabile il sound.
Va detto, ad onore dei Graveyard Of Souls, che alcuni brani si dimostrano senz’altro all’altezza della situazione, specie quando questi possiedono un maggiore respiro atmosferico: non mancano così spunti melodici di buona fattura, come nelle buone Entre fragmentos de locura, Cementerio de ilusiones e Al atardecer, che contribuiscono a mantenere l’album al di sopra della linea di galleggiamento senza però che l’attenzione dell’ascoltatore venga catturata con la necessaria continuità.
Sicuramente il duo iberico mostra il suo volto migliore quando approccia il death doom con ritmi più ragionati e una maggiore ricerca dell’emotività, mentre le fasi contraddistinte dal tentativo di rendere il sound più catchy, nei passaggi prossimi al death melodico o al gothic, non convincono anche per l’apparente discrasia stilistica che si manifesta in alcuni momenti dell’album (piuttosto superfluo, per esempio, lo strumentale Across the Cygnus Loop).
Come per l’album d’esordio, non resta così che derubricare l’operato dei Graveyard Of Souls ad un’interpretazione gradevolmente retrò di queste sonorità, senza però che lo scorrere del tempo abbia portato all’auspicato salto di qualità.

Tracklist:
1. Todo se desvanece lentamente
2. Entre fragmentos de locura
3. Beyond the Black Rainbow
4. Cementerio de ilusiones
5. As Lightday Yields (Lake of Tears cover)
6. Al atardecer
7. Across the Cygnus Loop
8. Kristallnacht

Line-up:
Angel Chicote: Music & Lyrics
Raúl Weaver: Vocals

GRAVEYARD OF SOULS – Facebook

Sincarnate – In Nomine Homini

Il death doom dei Sincarnate è pervaso da una costante tensione: la band si muove con grande consapevolezza su un terreno scivoloso, sul quale una minore competenza nel maneggiare la materia porterebbe inevitabilmente a tediare l’audience, cosa che non avviene mai grazie a spunti ora ritmici, ora melodici, esaltati da un produzione di qualità.

Ancora da un suolo rumeno che si sta rivelando sempre più fertile in tema di metal, giunge una proposta di grande interesse a base di death doom, dalla buona personalità ed altrettanta intensità, da parte dei Sincarnate.

In effetti, il genere citato non fotografa correttamente lo stile del gruppo di Bucarest, che immette anche nel proprio sound massicce dosi di black e death metal, con un’aura epica e liturgica che sposta le coordinate altrove rispetto all’interpretazione del genere delle band scandinave, per esempio.
In Nomine Homini, così come fanno presagire il titolo e la copertina, oltre che presentare molte parti corali cantate in latino, verte su tematiche religiose, ovviamente rivedute e corrette secondo la personale visione di questo gruppo di musicisti.
L’album, considerando anche le due bonus track, si spinge oltre l’ora complessiva di durata, mettendo comunque alla prova l’attenzione degli appassionati, visto che l’approccio stilistico proposto dai Sincarnate non è mai ammiccante o sbilanciato sul versante melodico, bensì mostra l’intento della band di trascinare l’ascoltatore nel proprio gorgo, rappresentando la religione come tutt’altro che un’estrema ancora di salvezza.
Una rilettura, quella contenuta in In Nomine Homini, che ridisegna a tinte fosche l’impatto del culto del divino sull’umanita, evidenziandone le discrasie e, di fatto, spiegandone attraverso diversi fermi immagine quanto le varie credenze abbiano frenato lo sviluppo dell’autoderminazione dell’uomo, cosa della quale ancora oggi finiamo per pagarne le conseguenze, per assurdo forse ancor più che in epoche definite oscurantiste.
Il death doom dei Sincarnate è pervaso da una costante tensione, che il frequente ricorsi a campionamenti di urla strazianti o di voci recitanti contribuisce a mantenere sempre elevata; la band si muove con grande consapevolezza su un terreno scivoloso, sul quale una minore competenza nel maneggiare la materia porterebbe inevitabilmente a tediare l’audience, cosa che non avviene mai grazie a spunti ora ritmici, ora melodici, esaltati da un produzione di qualità (alla quale ha contribuito anche un nume tutelare della scena estrema rumena come Edmond Karban).
Non serve più di tanto entrare nel dettaglio dei vari brani, visto che In Nomine Homini deve essere assimilato come un continuum che trova il suo termine con la magnifica Liwyatan, traccia che tra voci angeliche, canti gregoriani, ritmiche squadrate ed il growl impietoso di Marius Mujdei, si rivela quale autentica summa concettuale e musicale dei Sincarnate.
Infatti, i due pur ottimi brani finali sono altrettante bonus track che vanno considerate come a sé stanti nell’economia di un album decisamente bello, da lavorare però con dedizione e proprio per questo foriero di soddisfazione non appena si riesce a decrittarne l’essenza.

Tracklist:
1. Attende Domine
2. Agrat bat Mahlat
3. Curriculum Mortis
4. She-Of-The-Left-Hand (Sophia Pistis)
5. In Nomine Homini
6. The Grand Inquisitor
7. Lamentatio Christi
8. Dies Illa
9. Liwyatan
10. De Luctum Perpetuum
11. Atonement

Line up:
Andrei Jumuga – drums
Andrei Zala – bass
Marius Mujdei – vocals
Giani Stanescu – guitars
Cristian Stilpeanu – guitars

SINCARNATE – Facebook

Imindain – The Enemy of Fetters and Dwellers in the Woods

Per gli Imindain un ritorno gradito e tutt’altro che superfluo, con la ragionevole speranza che questo ep sia il logico antipasto di un nuovo lavoro su lunga distanza dal quale, oggettivamente, ci si aspetta molto.

Gli inglesi Imindain si erano palesati all’attenzione degli appassionati di doom alla metà dello scorso decennio con due demo, seguiti dal full length And the Living Shall Envy the Dead…

Due split album nel 2009 sembravano aver chiuso l’avventura della band che, invece, dopo otto anni di silenzio si ripresenta con questo lungo ep, fatto di un’intro, due brani inediti ed una cover dei Disembowelment.
Il death doom del trio di Stoke On Trent è ostico ma non privo di spunti melodici, oscillando tra ruvidezze death e il malinconico abbandono del funeral, delineato da una dolente chitarra solista che, sicuramente, aumenta il potenziale evocativo del lavoro.
A livello di riferimenti vengono citati in sede di presentazione quasi tutti i numi tutelari del settore, dai quali gli Imindain attingono con giudizio e mettendoci molto della loro ineccepibile attitudine.
Così, tra accenni all’imprescindibile scuola funeral finlandese (il chitarrista D.L., peraltro, ha fatto parte dei Profetus fino a pochi anni fa), e a quella australiana, omaggiata appunto con la cover dei seminali Disembowelment, The Enemy of Fetters and Dwellers in the Woods scorre in maniera tutt’altro che indolore, lasciando sul campo la giusta dose di fosca mestizia con i due inediti The Final Godhead e A Paean to the Vermin, entrambi caratterizzati da suoni più aspri  nella prima parte per poi aprirsi alle emozioni destate da un sapiente uso delle sei corde nella fase discendente.
La stupenda cover di Cerulean Transience of All My Imagined Shores è la ciliegina sulla torta piazzata al termine di un opera convincente: la traccia è resa ottimamente dal terzetto senza snaturarne l’essenza e anzi, mantenendo pressoché intatte le caratteristiche di un pezzo di storia del doom composto quasi un quarto di di secolo fa.
Un ritorno gradito e tutt’altro che superfluo, quindi, per gli Imindain, con la concreta speranza che questo ep sia il logico antipasto di un nuovo lavoro su lunga distanza dal quale, oggettivamente, ci si aspetta molto.

Tracklist:
1. To Meditate upon the Face of Forgotten Death
2. The Final Godhead
3. A Paean to the Vermin
4. Cerulean Transience of All My Imagined Shores (Disembowelment cover)

Line up:
M.W. – Guitars (formerly Bass)
D.L. – Guitars, Vocals
L.B. – Vocals

IMINDAIN – Facebook

Ruin – Ruin

L’opera prima dei Ruin è senz’altro valida, magari non ancora all’altezza delle migliori espressioni del genere, ma ricca di spunti interessanti che fanno ragionevolmente ritenere i due musicisti dell’Alberta in possesso di tutti i mezzi per incidere, con ancor più efficacia e convinzione, alla prossima occasione.

Prima apparizione per i canadesi Ruin, autori di un death doom melodico di buona fattura.

L’intento di offrire un’interpretazione molto più malinconica che non pervasa da umori drammatici, da parte del duo proveniente dall’olimpica Calgary, è piuttosto scoperto, per cui è più la gradevolezza dell’insieme a colpire l’ascoltatore anziché il ricorso a sonorità plumbee o venate di toni drammatici.
Questo, se da un lato conferisce una buona fruibilità al lavoro, dall’altro gli fa perdere un po’ in profondità, impedendogli forse di lasciare un segno più marcato.
Infatti, quando il sound si avvolge maggiormente di tonalità oscure ed inquiete, l’album subisce una notevole scossa: ne è esempio eloquente l’ottima The Core, il cui andamento decisamente più cupo ricorda non poco l’operato dei Doomed, specialmente nel suono della chitarra; resta comunque molto valido l’approccio dei due ragazzi canadesi nel suo complesso, proprio perché il lavoro appare ben costruito e sempre piacevole nella sua linearità (da non confondere con banalità).
Oltre al brano già citato, sono rimarchevoli gli spunti più robusti ed emotivamente impattanti, esibiti in Beyond Good and Evil e Withering of Gaia, e le melodie tenuamente funeree della conclusiva A Distant View; buono ed appropriato l’utilizzo alternato del growl e delle clean vocals, pur se quest’ultime perfettibili, mentre la prestazione strumentale è piuttosto limpida, avvalendosi anche di una produzione soddisfacente.
In definitiva, l’opera prima dei Ruin è senz’altro valida, magari non ancora all’altezza delle migliori espressioni del genere, ma ricca di spunti interessanti che fanno ragionevolmente ritenere i due musicisti dell’Alberta in possesso di tutti i mezzi per incidere, con ancor più efficacia e convinzione, rispetto a quanto già esibito positivamente in questa occasione

Tracklist:
1. Contagion I
2. Beyond Good and Evil
3. And She Wept
4. The Core
5. Cubensis
6. The Sleeper Awakens
7. Withering of Gaia
8. Chapter One
9. Contagion II
10. A Distant View

Line-up:
Zach Boser – Bass, Drum programming, Guitars, Piano, Synthesizers, Vocals
Adam Smith – Drum programming, Lyrics, Piano, Vocals

RUIN – Facebook

Calliophis – Cor Serpentis

Cor Serpentis è un lavoro di grande compattezza e di altrettanta qualità, al quale manca forse il picco emotivo capace di attrarre fatalmente l’appassionato, ma che regala ugualmente un’interpretazione della materia ben al di sopra della media.

Quello dei tedeschi Calliophis è, per quanto mi riguarda, un nome nuovo nell’ambito della scena death doom, non avendo intercettato all’epoca della sua uscita (il 2008) l’unica precedente prova discografica, il full length Doomsday.

In quasi un decennio molte cose inevitabilmente sono destinate a cambiare, anche se in un genere come il doom ciò avviene di norma in maniera meno marcata, per cui è più probabile assistere ad una maggiore focalizzazione del sound, unita ad una progressiva attenzione alla cura dei particolari .
Inoltre la firma per Solitude Productions è ovviamente un sintomo di qualità per qualsiasi band dedita al genere ed i Calliophis non fanno eccezione.
Il death doom di quest quartetto proveniente dalla Germania orientale è decisamente poco improntato alla melodia, puntando invece sull’impatto cadenzato dei riff senza disdegnare, comunque, buone soluzioni soliste: il growl del vocalist Thomas è più aspro che profondo e ben si addice ad un suono che scorre sempre sul filo della massima tensione, andandosi ad incuneare, tanto per fornire un riferimento, più o meno tra Doomed ed Ophis, sempre restando in ambito tedesco.
Le sei lunghe tracce portano Cor Serpentis a sforare abbondantemente l’ora di durata, un muro insormontabile forse per chi non ha familiarità con il genere, ma assolutamente in linea con le aspettative per gli ascoltatori abituali.
Personalmente preferisco i Calliophis quando si spingono maggiormente verso il lato funeral, come avviene nella magnifica Edge Of Existence, ma le cose non vanno affatto male neppure quando, su ritmi leggermente più accelerati, viene ugualmente evocato un certo pathos (Seven Suns). oppure allorché del doom viene mostrata essenzialmente la sua natura di heavy metal rallentato tramite i radi e misurati spunti melodici (The Cleansing e Isolation).
Cor Serpentis è un lavoro di grande compattezza e di altrettanta qualità, al quale manca forse il picco emotivo capace di attrarre fatalmente l’appassionato, ma che regala ugualmente un’interpretazione della materia ben al di sopra della media.

Tracklist:
1. The Cleansing
2. Yuki Onna
3. Edge Of Existence
4. Munk (Heart Of Stone)
5. Seven Suns
6. Isolation

Line up:
Thomas – Vocals
Matthias – Guitar |
Martin – Guitar
Marc – Bass
Florian – Drums

CALLIOPHIS – Facebook

Frailty – Ways Of The Dead

Questo ritorno dei Frailty mostra una decisa sterzata verso un indurimento sonoro che, comunque, non snatura l’indole doom della band, ma ne sposta con più decisione le coordinate sonore verso il death.

Terzo full lenght per il lettoni Frailty, band che in oltre un decennio decennio di attività non ha certo brillato per prolificità, contrariamente alla qualità sonora esibita, sempre all’insegna di un death doom di prima qualità.

Melpomene, uscito nel 2012, era un album che in parte risentiva di una tracklist nella quale convergevano brani composti in fasi diverse della storia del gruppo, per cui a tratti affiorava una certa discontinuità che veniva comunque compensata al meglio dalla bontà complessiva di ogni singolo episodio.
Ways Of The Dead si nutre di tematiche lovecraftiane e la band di Riga inasprisce non poco il proprio approccio, ripartendo in qualche modo dal brano che apriva il precedente lavoro, Wendigo: i riferimenti naturali cessano così d’essere i maestri del death doom melodico nordeuropeo, lasciando invece che l’ispirazione veleggi oltreoceano, assimilando e rielaborando spunti prossimi ai Novembers Doom .
Tale scelta, se inizialmente spiazza, in corso d’opera si rivela convincente anche se le atmosfere dolenti e malinoniche del passato divengono un ricordo e senz’altro mancheranno a chi predilige maggiormente questo aspetto nel death doom: i nostri scaricano così’ una bella gragnuola di colpi, senza perdere del tutto di vista le proprie radici doom ma rendendole davvero granitiche e aspre in diversi passaggi.
Un impatto più fisico che emotivo, di matrice essenzialmente death, pare essere quindi il filo conduttore di un lavoro che, tutto sommato, va in senso contrario alle abitudini consolidate, che vedono le band semmai ammorbidire il proprio sound con il passare del tempo.
Anche quando il doom, nella sua forma più consueta, prende finalmente campo nel finale con la notevole Alhazred (nome ben noto ai lovecraftiani incalliti), ciò avviene comunque in maniera molto più densa ed oscura che non cristallina ed emotiva.
Un inquietante ronzare di insetti (meglio non sapere attorno a cosa, ma è facile immaginarlo) chiude un album che potrà lasciare qualche perplessità ai primi ascolti, per poi risultare sempre più incisivo man mano che si familiarizza con mazzate quali l’opener And The Desert Calls My Name, Cthulhu, Ia Shub Niggurrath e Scorpion’s Gift, anche se il finale, come detto, riporta ad un approccio più vicino allo stile del passato con la traccia di chiusura. Fa abbastanza storia a sé la a tratti orientaleggiante The House In The Lane Of Scholars, con accenni che si spingono fino ai migliori Iced Earth.
In definitiva, questo ritorno dei Frailty mostra una decisa sterzata verso un indurimento sonoro che, comunque, non snatura l’indole doom della band, ma ne sposta con più decisione le coordinate sonore verso il death, perdendo qualcosa in fascino ed acquistando altrettanto in concretezza: tra il dare e l’avere preferisco sempre tenermi Melpomene, ma Ways Of The Dead resta comunque una buonissima prova.

Tracklist:
1. And The Desert Calls My Name
2. Daemon Sultan
3. Cthulhu
4. Whit The Deep Ones I Descend
5. Tombs Of Wizards
6. Ia Shub Niggurrath
7. The Beast Of Baylon
8. Scoropion’s Gift
9. The House In The Lane Of Scholars
10. Alhazred

Line up:
Mārtiņš Lazdāns – Vocals
Edmunds Vizla – Guitars & Vocals
Jēkabs Vilkārsis – Guitars
Andris Začs – Bass
Lauris Polinskis – Drums & Percussions

FRAILTY – Facebook

Kaunis Kuolematon – Vapaus

Quello che fino a qualche anno fa era una gruppo in chiara ascesa può essere considerato, fin da oggi, una realtà tangibile ed affermata, perché comporre due album di siffatto valore è prerogativa solo delle band di levatura superiore alla media.

I Kaunis Kuolematon nel 2014 erano stati autori dell’ottimo Kylmä kaunis maailma, mirabile esempio di death doom melodico, cantato interamente in finlandese.

Dopo circa tre anni, la band di Hamina, cittadina sul Golfo di Finlandia ad est della capitale, ritorna con Vapaus (libertà) con la fondata ambizione di dare la scalata alle vette del genere, in patria e di conseguenza anche in Europa.
Il risultato non poteva essere migliore: i Kaunis Kuolematon affinano il sound proposto nel precedente album senza perdere nulla in carica emotiva e ricerca melodica.
Come in Kylmä kaunis maailma, l’uso della doppia voce è esemplare, e l’arcigno growl di Olli Suvanto è il contraltare perfetto delle evocative clean vocals del chitarrista Mikko Heikkilä: proprio questa alternanza, unita ad un sound molto più malinconico che drammatico, rende l’ascolto coinvolgente ed accattivante dalla prima all’ultima nota.
La stupenda intro Alkunasat è già sufficiente per dimostrare lo doti tecniche e compositive della band fininica, che poi con Eloton si lanciano in un brano di intensità spasmodica arricchito da appropriati innesti di voce femminile; complessivamente più d’impatto che d’atmosfera è invece Hurskas, ideale preparazione del terreno al capolavoro dell’album, Yksin.
In questi cinque minuti e mezzo esplode letteralmente il talento tecnico e compositivo del quintetto, capace di andare a sfidare con argomenti importanti le massime band del settore: la voce pulita racconta di quella solitudine evocata dal titolo, prima che uno dei chorus più struggenti ascoltati negli ultimi anni si schiuda in tutta la sua fragorosa bellezza.
Il livello non scende, se non impercettibilmente, con la più robusta Tuhottu elämä, uscita come singolo a febbraio e per la quale è stato girato un video che è l’ideale seguito di quello toccante che accompagnava En Ole Mitään nel precedente full length; Ikuinen ikävä e Ikaros forse risentono più del confronto, pur essendo ottime canzoni che riescono a non far scemare la tensione dell’album, prima che Arvet ne riporti nuovamente i toni ai massimi livelli, mantenuti dalla chiusura più rarefatta ed intimista di Sanat jotka jäivät sanomatta.
Se per l’album precedente avevo scomodato quale ovvio riferimento i connazionali Swallow The Sun, in Vapaus la band alla quale i Kaunis Kuolematon maggiormente si avvicinano sono gli Hamferð, sia per l’abbinamento vocale (che però nei faroeriani è tutta opera di un solo cantante, lo stupefacente Jón Aldará), sia per l’uso di un idioma peculiare che forse fa perdere nell’immediato la comprensione dei testi ma che, nel contempo, ammanta di ulteriore fascino la proposta della band.
Comunque sia, quella dei Kaunis Kuolematon è una cifra stilistica piuttosto personale e, soprattutto, pregevole e matura in ogni suo frangente: quello che fino a qualche anno fa era una gruppo in chiara ascesa può essere considerato, fin da oggi, una realtà tangibile ed affermata, perché comporre due album di siffatto valore è prerogativa solo delle band di levatura superiore alla media.

Tracklist:
1. Alkusanat
2. Eloton
3. Hurskas
4. Yksin
5. Tuhottu elämä
6. Ikuinen ikävä
7. Ikaros
8. Arvet
9. Sanat jotka jäivät sanomatta

Line up:
Jarno Uski – Bass
Miika Hostikka – Drums
Ville Mussalo – Guitars
Olli Suvanto – Vocals (lead)
Mikko Heikkilä – Guitars, Vocals (clean)

KAUNIS KUOLEMATON – Facebook

Morast – Ancestral Void

Ancestral Void conferma quanto di buono esibito precedentemente dai Morast, senza che però avvenga il salto di qualità sensibile che forse era lecito attendersi.

Come preannunciato in occasione dell’articolo scritto per commentare la riedizione in vinile del primo demo dei Morast, è arrivato il momento dell’uscita del primo full length per la band tedesca.

Ancestral Void conferma le sensazioni avute qualche mese fa, ovvero quelle di trovarci al cospetto di una band dal sound solido e compatto, con il solo neo d’essere poco vario, pur nel suo apparire ugualmente incisivo.
Il death doom sporcato di sludge del gruppo teutonico è l’emblema di un approccio molto lineare, che non si perde in preamboli e non disperde energie nella ricerca di particolari divagazioni, puntando essenzialmente su un impatto granitico.
Crescent, brano d’apertura del lavoro, è il manifesto ideale delle caratteristiche sopra descritte, con il suo riffing oscuro, dai ritmi non eccessivamente rallentati ed una voce aspra che rifugge ogni tentazione melodica: è la rabbia, per lo più, a prevalere sulla tristezza, rappresentando una forma di reazione al passivo ripiegarsi su stesso di chi è schiacciato dal peso dell’esistenza.
Così, mentre in Sakkryfyced appaiono parvenze melodiche che rendono il brano quello relativamente più accessibile del lotto, Loss spinge maggiormente sul versante dell’incomunicabilità, con un andamento dalla lentezza molto più accentuata.
Ancestral Void è un’opera breve che si dimostra efficace per quasi tutta la sua durata, con Compulsion e la citata Loss forse meno incisive e dirette rispetto alle altre quattro tracce, e l’ossessiva title track a suggellare una prova di buon spessore ma dall’aspetto monotematico, specie per chi ha meno familiarità con il genere: viene confermato, pertanto, quanto di buono esibito precedentemente dai Morast, senza che però avvenga il salto di qualità sensibile che forse era lecito attendersi. Detto ciò, Ancestral Void è un album il cui monolitico incedere esprime ugualmente un suo certo fascino.

Tracklist:
1. Crescent
2. Forlorn
3. Sakkryfyced
4. Compulsion
5. Loss
6. Ancestral Void

Line-up:
L. – drums
F. – vocals
R. – bass
J. – guitar

MORAST – Facebook

Embrace Of Silence – Where Darkness Swallow The Sun

Where Darkness Swallow The Sun si attesta su un livello medio alto, magari non sullo stesso piano dei capolavori che il genere sforna con buona regolarità, ma senz’altro di grande sostanza e di gradevole ascolto.

Quasi cinque anni dopo il buon esordio su lunga distanza Leaving The Place Forgotten By Gods ritornano gli ucraini Embrace Of Silence,con il loro eccellente death doom.

All’epoca definimmo quell’album come un’operazione riuscita, in quanto tutto sommato neppure troppo derivativa e dipendente dalle pesanti influenze delle band di riferimento del genere: tale giudizio vale anche per il nuovo Where Darkness Swallow The Sun, nel quale lo stile del gruppo assume contorni ancora più nitidi, benché scevri da ogni tentazione innovativa.
L’album si dipana lungo una serie di tracce dall’incedere oscuramente melodico, con uno sguardo rivolto più alla scuola nordamericana che non a quella scandinava, quindi, per essere sintetici, più affine ai Daylight Dies che non ai Swallow The Sun, benché il titolo dell’album possa suggerire il contrario: alla riuscita del tutto, poi, contribuisce in maniera decisiva quel tocco drammatico che è l’impronta di molte band provenienti dall’ex-URSS.
In un contesto di buona compattezza qualitativa si stagliano la title track, piuttosto movimentata per ritmi e soluzioni melodiche, e la stupenda In The Embrace Of The Stygian River, segnata da un eccellente lavoro chiotarristico che delinea un tema portante davvero struggente.
Proprio le sei corde assumono il totale controllo della situazione, in virtù della rinuncia sostanziale alle tastiere, che venivano invece utilizzate più generosamente in Leaving The Place Forgotten By Gods: questo rende il suono senz’altro più roccioso ed asciutto senza fargli perdere, però, i tipici connotati dolenti anzi, attribuendogli forse anche una maggiore incisività.
Where Darkness Swallow The Sun si attesta su un livello medio alto, magari non sullo stesso piano dei capolavori che il genere sforna con buona regolarità, ma senz’altro di grande sostanza e di gradevole ascolto; come per altre band del settore i tempi molto dilatati tra un’uscita e l’altra con aiutano a tenere caldo il nome, per cui una nuova release in tempi leggermente più ristretti potrebbe avere una doppia valenza, quella di fissare nella mente degli appassionati il monicker Embrace Of Silence, oltre alla possibilità di accelerare quell’ulteriore salto di qualità che pare essere nelle corde della valida band ucraina.

Tracklist:
1. The DesertOf Your Mind
2. Where Darkness Swallow The Sun
3. Faceless
4. Last Winter
5. Cyclic Motions
6. Idols Defame Your Faith
7. In The Embrace Of The Stygian River

Line-up:
Eugeniy Voronchihin – Bass
Yuriy Sivkov – Guitars
Igor Zhurzha – Vocals, Guitars
Vladislav Fatkhullin – Drums
Dennis Kutsy – Guitars

Nailed To Obscurity – King Delusion

King Delusion ha tutte le caratteristiche per essere apprezzato da chi ama partiture robuste, ritmate e un po’ malinconiche, soprattutto perché impeccabile per resa sonora e dalla fruibilità relativamente elevata.

King Delusion è il terzo album dei tedeschi Nailed To Obscurity in circa un decennio di carriera.

Indubbiamente i ragazzi della Bassa Sassonia devono essere soliti a prendersi il loro tempo prima di dare alle stampe un nuovo disco, ma tutto sommato i frutti compensano le attese; intendiamoci, qui non si parla di un lavoro epocale e capace di sposate gli equilibri all’interno del death doom melodico, ma sicuramente siamo in presenza di un’opera di indubbio spessore esecutivo e con più di un passaggio dal grande impatto.
Se vogliamo, quello che potrebbe esser il punto di forza dei Nailed To Obscurity, ovvero l’incontro tra il death melodico di scuola scandinava e quello venato di doom, potrebbe rivelarsi anche un aspetto negativo, rischiando di non accontentare i fans più intransigenti in nessuna delle due correnti.
Al di là di questo, King Delusion ha tutte le caratteristiche, invece, per essere apprezzato da chi ama partiture robuste, ritmate e un po’ malinconiche, soprattutto perché impeccabile per resa sonora e dalla fruibilità relativamente elevata.
Provando a shakerare con una certa pervicacia Novembres Doom, Dark Tranquillity, Opeth e Swallow The Sun, quelle che ne salta fuori è a grandi linee il contenuto di quest’album, che vede i suoi picchi in Memento e Devoid, brani che si avvolgono di linee chitarristiche decisamente coinvolgenti, mentre il resto della tracklist non delude e non esalta, lasciando comunque sensazioni abbastanza positive al termine dell’ascolto.
Se proprio devo fare un appunto ai Nailed To Obscurity è la mancanza di una certa profondità, compensata non del tutto dalla padronanza del genere: il re non risulta affatto una delusione, ma alla lunga alcune delle caratteristiche evidenziate impediscono all’album di raggiungere l’eccellenza nonostante, ripeto, l’ascolto si riveli alquanto gradevole.

Tracklist:
1.King Delusion
2.Protean
3.Apnoea
4.Deadening
5.Memento
6.Uncage My Sanity
7.Devoid
8.Desolate Ruin

Line-up:
Jan-Ole Lamberti – Guitars
Volker Dieken – Guitars
Jann Hillrichs – Drums
Carsten Schorn – Bass
Raimund Ennenga – Vocals

NAILED TO OBSCURITY – Facebook

Marche Funèbre – Into The Arms Of Darkness

Il terzo full length dei Marche Funèbre è sicuramente quello della consacrazione, anche se non mancano margini di ulteriore miglioramento.

I belgi Marche Funèbre appartengono a quella tipologia di band che hanno avuto una crescita graduale nel corso degli anni.

Se il primo lavoro su lunga distanza, To Drown, aveva ricevuto pareri discordanti, Root Of Grief aveva già mostrato una progressione importante che non era però ancora sufficiente per portare il gruppo fiammingo al livello delle migliori realtà europee del death doom: l’operazione riesce con questo buonissimo Into The Arms Of Darkness, per la soddisfazione degli estimatori del genere.
Va detto subito che l’album ruota indubbiamente attorno ad un brano magnifico come Lullaby of Insanity, che gode di soluzioni melodiche di gran pregio e si imprime con un certo agio nella memoria, nonostante la sua lunghezza sfiori il quarto d’ora (condivisibile al 100% la scelta di abbinarvi un riuscito video); il risultato è ottimale grazie alle soluzioni brillanti che ben si sposano con l’interpretazione vocale versatile e sentita di Arne Vandenhoeck, con l’unico neo di un break centrale recitato che, per quanto funzionale a livello lirico, finisce inevitabilmente per spezzare il pathos del brano.
A proposito del vocalist, è apprezzabile la sua capacità di districarsi con disinvoltura tra growl, scream e clean vocals, anche se queste ultime non sempre sono stabili per intonazione, ma ciò viene compensato da una spiccata carica evocativa; il riferimento naturale a livello stilistico non può che essere comunque Stainthorpe, per il tipico incedere cantilenante che tutti noi abbiamo imparato ad amare.
Del resto l’interpretazione del genere dei Marche Funèbre è quanto mai ortodossa e trae linfa, appunto, dalla tradizione del death doom albionico, per conferirvi poi una certa vis melodica espressa dal pregevole lavoro di Peter Egberghs alla chitarra solista, ma rinunciando all’uso delle tastiere, strumento che in certi frangenti si sarebbe rivelato utile per riempire un sound talvolta troppo asciutto (come per esempio nel brano di chiusura The Garden of All Things Wild).
Detto ciò, Into The Arms Of Darkness è un disco che parte con il piede giusto fin dall’opener Deprived e così si snoda, prima tramite un’altra traccia dall’andamento simile (Capital of Rain) e contrassegnata da sempre buone linee melodiche, poi con un brano relativamente differente per ritmiche e costruzione come Uneven, carico di tensione nella sua parte iniziale per poi stemperarsi in un lento e più tradizionale deflusso sonoro.
L’episodio conclusivo è invece ingannevole, perché per 2/3 del suo sviluppo appare troppo ripiegato sulle posizioni dei My Dying Bride nella loro versione più statica, ma si riscatta ampiamente con una parte finale dall’elevata emotività: in ogni caso, gli sporadici cali risultano un peccato veniale allorché inseriti nel contesto di un’opera dalla durata corposa, non andando ad inficiarne in alcun modo la resa complessiva.
Sebbene perfettibile in qualche frangente, il terzo full length dei Marche Funèbre è sicuramente quello della consacrazione, anche se ritengo che ci siano abbondanti margini per fare ancora meglio: l’importante monicker prescelto pesa un poco sulle spalle dell’ottima band belga, creando negli appassionati elevate quanto inevitabili aspettative che, comunque, in quest’occasione sono state ampiamente mantenute.

Tracklist:
1. Deprived (Into Darkness)
2. Capital of Rain
3. Uneven
4. Lullaby of Insanity
5. The Garden of All Things Wild

Line up:
Dennis Lefebvre – Drums
Peter Egberghs – Guitars, Vocals
Kurt Blommé – Guitars
Arne Vandenhoeck – Vocals
Boris Iolis – Bass, Vocals

MARCHE FUNEBRE – Facebook

The Replicate – The Selfish Dream

Questo lavoro merita un minimo di interesse, ma per la prossima volta speriamo in qualche ragguaglio in più per conoscere meglio i protagonisti di cotanto dolore musicale.

Capita spesso che arrivino album di band che probabilmente giocano con il mistero, oppure sono solo composte da sadici musicisti che si divertono a mettere in difficoltà chi cerca di supportarli, anche a costo di perdere pomeriggi interi per trovare anche la più semplice delle informazioni, come per esempio la line up o addirittura la tracklist.

Sembra una stupiggine, ma per chi cerca di fare le cose per benino, dando in pasto ai lettori un articolo il più completo possibile, diventa un’avventura nei meandri del web, soprattutto quando non si trova alcunché neppure sulla pagina Facebook del gruppo alla voce informazioni.
Un peccat,o perché poi ci si trova al cospetto di lavori che meritano un accurato approfondimento come questo ep di quattro tracce opera della band proveniente dalla California ma guidata dal musicista indiano Sandesh Nagaraj, aiutato da un manipolo di colleghi della scena estrema e protagonista di questi dieci minuti di death metal estremo, paranoico e totalmente libero da vincoli, che rispecchia l’attitudine morbosa dei Morbid Angel, avvicinandosi terribilmente agli Obituary del fratelli Tardy, ma riveduto con una personalità ed un impatto sopra le righe.
Sono solo dieci minuti certo, ma l’atmosfera che si respira è soffocante e pregna di pazzia, i brani sono attraversati da una vena che dal death metal passa al doom, tra accelerazioni e rallentamenti in un clima di annichilente tortura mentale.
Cercatevi questo lavoro perché merita un certo di interesse, ma per la prossima volta speriamo in qualche ragguaglio in più per conoscere meglio i protagonisti di cotanto dolore musicale.

TRACKLIST
1.Chainsaw Of God
2.Eugenicide
9.The Saline
4.A Selfish Dream

LINE-UP
Sandesh Nagaraj – Guitar and Bass
Kaitie Sly – Bass on Eugenicide
Ray Rojo – Drums
Morgan Wells – Vocals/Lyrics on Chainsaw Of God
Jordan Nalley – Vocals/Lyrics on Eugenicide
Arun Natrajan – Vocals/Lyrics on The Saline
William Von Arx – Guitar Solo on Chainsaw Of God

THE REPLICATE – Facebook

Ever Circling Wolves – Of Woe or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Gloom

Of Woe … è il tipico album che necessita di diversi ascolti prima d’essere assimilato al meglio, a causa dell’esplicito intento, da parte degli Ever Circling Wolves, di non appiattirsi sulle posizioni delle band guida, cercando invece di trovare una strada sufficientemente personale.

Gli Ever Circling Wolves arrivano da Helsinki e, quindi, la loro provenienza costituisce una sorta di marchio di qualità quando si parla di death doom dalle inclinazioni melodiche.

Nonostante ciò, le presumibili forti influenze di Swallow The Sum e co. non si fanno sentire più di tanto, perché i nostri prediligono un approccio piuttosto particolare, affidandosi per lo più ad un riffing secco e ritmato e rinunciando sostanzialmente all’apporto delle tastiere. Anche per questo il lavoro, cosi come il sound della band, appare saltellante e talvolta dispersivo ad un primo ascolto: non a caso il meglio lo si percepisce proprio negli episodi più convenzionali, quelli in cui il sound rallenta lasciandosi guidare dalle melodie chitarristiche.
Emblematica in tal senso è la traccia finale These Are Ashes, These Are Roots, perfetta esibizione di death doom dolente e malinconico, ma tutto questo non deve far pensare che il resto del lavoro sia trascurabile: semplicemente Of Woe … è il tipico album che necessita di diversi ascolti prima d’essere assimilato al meglio, a causa dell’esplicito intento, da parte degli Ever Circling Wolves, di non appiattirsi sulle posizioni delle band guida, cercando invece di trovare una strada sufficientemente personale.
L’operazione riesce piuttosto bene, visto che il death doom del gruppo di Helsinki, screziato da intriganti sfumature sludge (Haunted) e post metal (Challenger Deep), convince non poco a lungo andare, anche se poi sono comunque gli episodi più “classici” a risaltare per il loro carico melodico ed emotivo (assieme alla già citata These Are Ashes, These Are Roots, va segnalata anche In The Trench).
Molto interessante anche una canzone come Lenore,dallo sviluppo particolare visto che, dopo una metà fatta di un riffing abbastanza compatto si apre in una parte corale in stile Novembers Doom, per poi defluire in un bel crescendo di chiatarra, elettrica prima ed acustica infine.
L’album ha avuto una gestazione lunga, dato che parte dei brani trova la sua genesi all’inizio del decennio, subito dopo l’uscita del full length d’esordio The Silence From Your Room, e questo fa pensare che i diversi rivoli stilistici rinvenibili nel lavoro siano dovuti all’inevitabile trascorrere del tempo, oltre che all’evolversi come musicisti da parte di Otto Forsberg ed Henri Harell.
In definitiva, Of Woe or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Gloom è un buonissimo disco (oltre che un bel titolo), che necessità però di qualche ascolto in più rispetto al dovuto per coglierne l’essenza e, magari, imparare davvero come smettere di preoccuparsi, accettando il lato oscuro dell’esistenza …

Tracklist:
1. Sunrise Has Gone
2. Coeur
3. Haunted
4. In The Trench
5. Challenger Deep
6. Deeper
7. Lenore
8. Ibn Qirtaiba
9. These Are Ashes, These Are Roots

Line up:
Otto Forsberg – Guitar
Henri Harell – Guitar, Vocals
Niko Karjalainen – Drums
Sami Nevala – Bass

EVER CIRCLING WOLVES – Facebook

Distressful Project – Fucked Up Songs

Il sound, ondeggia tra il gothic ed il death doom, con maggior propensione verso il primo, in virtù di una propensione ad una malinconica orecchiabilità, ma con superiore efficacia nell’affrontare il secondo.

Fucked Up Songs, nonostante risulti quale secondo full length di questo duo russo, è in realtà una nuova versione del precedente Neverending Pain, del quale ricalca fedelmente la scaletta mantenendone in comune persino la copertina.

Inoltre, per quanto le tracce siano state oggetto di una revisione, il materiale ivi contenuto è stato composto quasi dieci anni fa, quindi è difficile stabilire quanto possa essere indicativo delle inclinazioni attuali della band.
Il sound, comunque, ondeggia tra il gothic ed il death doom, con maggior propensione verso il primo, in virtù di una propensione ad una malinconica orecchiabilità, ma con superiore efficacia nell’affrontare il secondo, visto che la canzone migliore del lotto è per distacco la conclusiva Blindness, che non a caso è quella che più di altre affonda con più decisione le radici nel doom più estremo, con il suo incedere rallentato sorretto da evocative tastiere e da un bellissimo lavoro chitarristico.
Sullo stesso filone si va a collocare anche At Eternity’s Gate, altra ottima traccia in cui l’ottimo growl ne ammanta di oscurità le trame dolenti meglio di quanto non avvenga con le clean vocals.
Il resto dell’album viaggia invece su coordinate più canonicamente gothic, rievocando a tratti qualcosa dei primi Evereve, ma con una vena drammatica ed un enfasi vocale di molto inferiore, offrendo comunque canzoni pregevoli come Skotodini, Soulless e Paranoia.
Pur non risultando un’opera imprescindibile, Fucked Up Songs (non un gran titolo, peraltro, meglio quello precedente) mostra a tratti la buona qualità compositiva del duo composto da Alextos e Yanis e, in considerazione di quanto detto in fase introduttiva riguardo al periodo di composizione dell’album, non è escluso che un eventuale prossimo lavoro possa mostrare un volto diverso o comunque più definito dei Distressful Project.

Tracklist:
1….
2.Tristia
3.Skotodini
4.At Eternity’s Gate
5.The Curse
6.Volition
7.Twilight
8.Soulless
9.Paranoia
10.Blindness

Line-up:
Alextos – Vocals, Bass, Programming
Yanis – Vocals, Guitars, Keyboards, Programming

Famishgod – Roots Of Darkness

Quello dei Famishgod, alla luce di questa prova, si conferma un marchio in grado di garantire una buona qualità nonché l’assoluta fedeltà ai dettami delle sonorità estreme più oscure.

Gli spagnoli Famishgod tornano con un secondo full length, dopo il buon esordio del 2014 intitolato Devourers Of Light: Roots Of Darkness ricalca le orme del suo predecessore anche se qui non mancano accelerazioni e passaggi relativamente più aperti che vanno ad incrinare il muro claustrofobico eretto dall’ottimo Pako Daimler, responsabile di tutti i suoni dell’album ad eccezione della voce, come sempre costituita dal terrificante rantolo affidato al ben noto Dave Rotten (Avulsed, nonché titolare della Xtreem Music).

Le coordinate restano, quindi, quelle del death doom più putrescente ed estremo nel suo incedere, con poche concessioni a passaggi chitarristici che non siano volti ad incupire ancor più le atmosfere con i propri toni ultraribassati ma, come detto, qualche concessione a livello ritmico e melodico rende Roots Of Darkness se non superiore, senz’altro meno ostico all’ascolto rispetto a Devourers Of Light, restando comunque un prodotto appannaggio degli amanti di sonorità catacombali sulla falsariga di band quali Disembowlment o Encoffination.
E’ inutile in questi casi mettersi alla puntigliosa ricerca di elementi innovativi o spunti geniali, quel che conta, qui, è la credibilità dell’approccio al genere, che deve innanzitutto rifuggire ogni manierismo per risultare coinvolgente: i Famishgod ci riescono proprio perché, a dispetto di una certa linearità, le atmosfere soffocanti e plumbee non danno quasi mai tregua, lasciando di tanto in tanto fugaci spiragli. come avviene nel finale dell’ottima traccia di chiusura Mournful Sounds of Death, quando la chitarra di Daimler assume per una volta toni più melodici e dolenti.
Nonostante una produzione discografica ancora limitata, quello dei Famishgod, alla luce di questa prova, si conferma un marchio in grado di garantire una buona qualità nonché l’assoluta fedeltà ai dettami delle sonorità estreme più oscure.

Tracklist:
1. Abyss of the Underworld
2. Bad Omen
3. Molested, Defiled, Disrupted
4. Chamber of Chaos
5. Eternal Embrace
6. Lost Language of the Dead
7. Mournful Sounds of Death

Line-up:
Dave Rotten – Vocals
Pako Deimler – All instruments

FAMISHGOD – Facebook

False Reality – End Of Eternity

Un album d’altri tempi ma davvero riuscito, emozionale, dal piglio drammatico e melanconico, aggressivo quanto basta per piacere agli amanti del death metal classico

Melodic death metal, con uno sguardo alla scena dei primi anni novanta, dunque parti doom che a tratti lasciano in bocca quel gusto di evocativo, voce in growl profonda, il tutto amalgamato con ottimi spunti heavy prog: ecco cosa attendersi dal sound di End Of Eternity, prima prova sulla lunga distanza dei False Reality, sestetto rumeno, con il fiuto per melodie malinconiche e ispirazioni di scuola doom death.

La band di Braşov è attiva originariamente dal 1998 (ecco spiegato le molte similitudini con la scena novantiana), il suo primo demo infatti risale al 1999, seguito all’alba del nuovo millennio dall’ep Tales Of Eternity.
Poi una lunga pausa ne ha minato la carriera nella scena underground e, quando sembrava che la parola fine fosse ormai scritta sopra il nome della band, ecco che i musicisti rumeni tornano con un full length e l’ottimo lavoro svolto funge da nuovo inizio, questa volta sperando che sia più duraturo e costante.
Death metal melodico dicevamo, con un’attenzione particolare per il lavoro delle sei corde, dal piglio heavy, ritmiche che rallentano e accelerano passando da ritmiche di stampo doom, a mera potenza death, ed orchestrazioni che tornano prepotenti per regalare spettacolari brani orientaleggianti come il piccolo gioiellino Rih Al Khamsin, che al sottoscritto a ricordato gli Orphaned Land del primo, bellissimo, Sahara.
Un album d’altri tempi ma davvero riuscito, emozionale, dal piglio drammatico e melanconico, aggressivo quanto basta per piacere agli amanti del death metal classico, virtù riscontrabile appunto nei primi lavori dei Paradise Lost, ma anche e soprattutto degli Orphanage e della scena centro europea.
Sette brani per cinquanta minuti di ottimo metal estremo melodico non sono pochi, il gruppo come tutte le realtà provenienti dall’est sa il fatto suo e End Of Eternity risulta, grazie alle bellissime The Silence Within e Requiem Into Darkness (oltre alla citata Rih Al Khamsin), un’opera convincente e assolutamente consigliata.

TRACKLIST
1.Bewitched
2.The Silence Within
3.Rapture and Pain
4.Rih al Khamsin
5.Requiem into Darkness
6.End of Eternity
7.Dear Friend

LINE-UP
Ioan Alexandru Crișan – Vocals
Lucian Popa – Guitars, Vocals
Silviu Stan – Guitars
Vlad Amariei – Keyboards, Vocals
Marc Spedalska – Bass
Codrut Costea – Drums

FALSE REALITY – Facebook

Marianas Rest – Horror Vacui

Horror Vacui è l’ennesimo, stupefacente album di death doom partorito in Finlandia, terra nella quale il seme che dà quale frutto simili sonorità continua puntualmente a proliferare.

Dopo un demo d’assaggio risalente al 2014, i finlandesi Marianas Rest si presentano nuovamente al pubblico con questo ottimo primo full length intriso di umori malinconici.

Il death doom di una band finnica non può mai prescindere da quanto già fatto dai Swallow The Sun, ma da questa notevole base di partenza chi ha talento può muoversi con maggiore agio ricercando le soluzioni compositive ideali.
I Marianas Rest, rispetto ad altre band di settore, paiono propendere verso il death melodico più oscuro, almeno questa è l’impressione derivante dai brani più mossi, esprimendo il loro dolente sentire in alcuni brani chiave posizionati al centro della tracklist.
Inframmezzati da drammatici samples, i brani oscillano tra ritmi che, restando nella terra dei mille laghi, possono riportare agli Insomnium (non a caso in Nadir presta la sua voce il loro vocalist Niilo Sevänen) e, appunto, momenti definibili più propriamente death doom, i quali a mio avviso rappresentano i picchi dell’album, rispondenti a gemme di rilucente dolore quali For The Heartless e A Lonely Place To Die.
Indubbiamente quest’opera prima dei Marianas Rest colpisce per la maturità compositiva e, soprattutto, per il perseguimento privo di indugi di un obiettivo ben preciso, quello di proporre un sound malinconico, drammatico ma nel contempo ricco di aperture ariose e dotate di un certo brio; come detto il risultato è eccellente e, francamente, riesce difficile scovare un solo difetto ad un disco che coinvolge dalla prima all’ultima nota, grazie ad un approccio che mette sempre in primo piano uno spiccato senso melodico.
In una prova d’assieme notevole, una nota di merito va alla buona interpretazione vocale di Jaakko Mäntymaa e al lavoro tastieristico misurato ed elegante di Aapo Koivisto, il più conosciuto di questo manipolo di musicisti in virtù della sua militanza negli ottimi Omnium Gatherum.
Horror Vacui è l’ennesimo, stupefacente album di death doom partorito in Finlandia, terra nella quale il seme che dà quale frutto simili sonorità continua puntualmente a proliferare.

Tracklist:
1.The Millennialist
2.Nadir
3.For The Heartless
4.Hurts Like Hell
5.A Lonely Place To Die
6.Chokehold
7.Place Of Nothing
8.Vestigial

Line up:
Harri Sunila – Guitars
Nico Mänttäri – Guitars
Jaakko Mäntymaa – Vocals
Nico Heininen – Drums
Harri Vainio – Bass
Aapo Koivisto – Keyboards

MARIANAS REST – Facebook

Gothic – Demons

Un album d’altri tempi in cui le atmosfere gotiche fanno da ricamo all’aggressività death metal e ai rallentamenti doom.

Sicuramente non dimostrano molta fantasia nel nome scelto per la band, ma i rumeni Gothic sanno sicuramente come intrattenere gli amanti del genere.

Ovviamente si parla di death metal di matrice gotica e doom, magari poco elegante ma di sicura presa e pesante quel tanto per piacere ai vecchi fans del death/doom che imperversava nei primi anni novanta.
Il gruppo infatti, proprio nel 1993 mosse i primi passi con tre demo usciti tra il 1994 ed il 1996, prima che Touch of Eternity (1998) diede al gruppo la soddisfazione del primo lavoro sulla lunga distanza.
Una compilation nel 2005 e poi il lungo silenzio, spezzato dalla comparsa al Wacken come rappresentati del loro paese, il ritorno con Expect The Worst tre anni fa, seguito dalla firma per Loud Rage Music e questo nuovo lavoro intitolato Demons.
Sarà che non ci siamo più abituati ma Demons si distacca piacevolmente dai cliché delle gothic metal band odierne: nessuna voce femminile a duettare con l’orco al microfono, orchestrazioni usate con parsimonia, e soprattutto ritmiche potenti e aggressive che non si allontanano dal death/doom e lasciano alle sei corde il compito di sfoderare ottime linee melodiche, accompagnate dai tasti d’avorio mai invadenti, quasi timidi nell’approccio.
Un album d’altri tempi, dunque, dove le atmosfere gotiche fanno da ricamo all’aggressività death metal e ai rallentamenti doom, disegnando immagini di castelli transilvani dove i demoni hanno poco da trastullarsi con sirene dark, intenti ad impalare i loro nemici fatti prigionieri e torturati, mentre Disillusion, Catacombs e la devastante From Within fungono da colonna sonora alle loro efferate gesta.
Demons è un’opera riuscita perché torna a far respirare le atmosfere dei primi anni novanta: le ispirazioni le trovate tutte in quel periodo, ma se volete un mio personale aggancio, pensate ai primi Crematory con un uso più misurato delle tastiere e più velocità nelle ritmiche.

TRACKLIST
1.Shadow Man
2.Disillusion
3.Demons
4.Catacombs
5.Time
6.Destroying The Masses
7.From Within
8.A New End

LINE-UP
Alin Petrut – guitar/vocals
Taly – bass
Vlad Golgotiu – drums
George Lazar – vocals
Florian Lysy – keyboards

GOTHIC – Facebook

A Sun Traverse – A Sun Traverse

Un’opera breve ma che fa presagire la prossima affermazione di una nuova realtà in grado di regalare emozioni agli estimatori del doom death melodico.

Guardando la formazione degli A Sun Traverse, band danese all’esordio con questo ep autointitolato, chi ama i Saturnus e ne conosce a menadito la storia avrà avuto senz’altro un sussulto: infatti, ad esclusione del vocalist Michael H. Andersen, tutti gli altri musicisti coinvolti nel progetto furono artefici dell’incisione di quel capolavoro intitolato Veronika DecidesTo Die (2006).

Quindi era lecito attendersi da questo gruppo un death doom melodico e dalle ampie aperture atmosferiche e così è, visto che in circa 25 minuti il sestetto di Copenhagen mette in scena quello che è naturalmente nelle loro corde.
Al netto dei due brani strumentali, è il caso di soffermarsi sulle altre tre tracce, tra le quali l’opener Still Shining ha un andamento più movimentato pur non lesinando le consuete malinconiche progressioni chitarristiche.
Molto più saturniana invece è Dance Darkness, Dance introdotta da The Meadow: qui si riconoscono alcune delle coordinate tipiche quali appunto il piano, che fa la sua apparizione sia nell’intro che in alcun parti del brano, sia il magnifico assolo di chitarra; anche The Autumn Of Fall si ammanta di magnifiche e dolenti melodie, spingendo maggiormente sul piano ritmico e trovando in qualche modo una sorta di trait d’union tra Saturnus e Swallow The Sun, complice anche lo screaming utilizzato talvolta dal bravo Andersen. Molto bella comunque anche la traccia finale, uno strumentale dai tratti davvero inquietanti, suggello di un’opera breve ma che fa presagire la prossima affermazione di una nuova realtà in grado di regalare emozioni agli estimatori del doom death melodico.

Tracklist:
1.Still Shining
2.The Meadow
3.Dance Darkness, Dance
4.The Autumn Of Fall
5.The Harvest

Line-up:
Lennart Jacobsen – bass
Nikolaj Borg – drums
Peter Erecius Poulsen – guitars
Tais Pedersen – guitars
Anders Ro Nielsen – keyboards
Michael H. Andersen – vocals

A SUN TRAVERSE – Facebook

Illimitable Dolor – Illimitable Dolor

Una band ispirata e coinvolta nella riuscita di un progetto che onora nel migliore dei modi la memoria di Greg Williamson e che fornisce, nel contempo, un altro sicuro approdo a chi ama questa malinconica ed inimitabile espressione musicale.

Gli Illimitable Dolor sono una band australiana che, con questo suo album d’esordio, omaggia la memoria di Greg Williamson, cantante dei The Slow Death scomparso nel 2014.

Non a caso del progetto in questione fanno parte, infatti, tre ex compagni di Williamson, Stuart Prickett, John McLaughlin e Dan Garcia, oltre a Peter O’Donohue che si è occupato del mastering di Ark, album della band di Springwood uscito postumo rispetto alla morte del vocalist.
Come non di rado accade, l’ispirazione derivante da un lutto reale e non virtuale sembra fare la differenza (anche se ovviamente si spera sempre che ciò non sia necessario), specialmente in un genere che già di suo ha il compito di evocare un dolore incontenibile, come da ragione sociale scelta dal gruppo.
Quest’album è una prova magnifica che, a mio avviso, è anche superiore rispetto al valore degli album degli stessi The Slow Death: il funeral death doom degli Illimitable Dolor è tragico, melodico e fortemente evocativo, va diritto al cuore senza perdersi in troppi preamboli, prendendo il meglio di quanto negli anni il genere ha offerto, anche nel continente australe dove, oltre agli ovvi riferimenti alla band madre, non è possibile fare a meno di rapportarsi con i grandi Mournful Congregation, senza però dimenticare i Cryptal Darkness, autori a cavallo del nuovo millennio di due lavori magnifici (prima di trasformarsi nei più gotici e meno incisivi The Eternal) benché fortemente debitori dei My Dying Bride. E, quasi a chiudere un ideale cerchio, proprio la band di Stainthorpe viene omaggiata dagli Illimitable Dolor con un richiamo a Your River (da Turn Loose The Swans), nella parte centrale di quello che è il brano più drammatico ed intenso di questo splendido album, Salt of Brazen Seas.
La prova di Stuart Prickett dietro il microfono è convincente così come quella della band, realmente ispirata e coinvolta nella riuscita di un progetto che onora nel migliore dei modi la memoria di Williamson e che fornisce, nel contempo, un altro sicuro approdo a chi ama questa malinconica ed inimitabile espressione musicale.

Tracklist:
1. Rail of Moon, A Stone
2. Comet Dies or Shines
3. Salt of Brazen Seas
4. Abandoned Cuts of River

Line up:
Stuart Prickett – Guitar, Vocals, Keys
Dan Garcia – Guitar
John McLaughlin – Drums
Guy Moore – Keyboards
Peter O’Donohue – Guitar
Daniel Finney – Bass

ILLIMITABLE DOLOR – Facebook