AstorVoltaires – La Quintaesencia de Júpiter

Ascoltando La Quintaesencia de Júpiter si viene rapiti e il nostro cuore si apre insieme alle nostre sinapsi, rimanendo sospesi sopra una piccola grande opera d’arte, fatta da un uomo come noi ma con uno smisurato talento musicale e narrativo.

AstorVoltaires è il progetto solista di uno dei membri degli splendidi Mar De Grises cileni, un gruppo che meravigliò e migliorò la vita di molti di noi dal 2000 al 2013, con bellissimi dischi di doom/post rock sognanti e melanconici.

L’unico membro del gruppo è il cileno, ora trapiantato in Repubblica Ceca, Juan Escobar, appunto ex appartenente ai Mer De Grises e poi in moltissimi altri gruppi come Aphonic Threnody, Lapsus Dei, Arrant Sudade e altri. La sua straripante personalità musicale trova in questo progetto il suo definitivo compimento, dipingendo bellissimi affreschi di pace ed inquietudine, di sogni e di terribili incubi, con una fortissima luce bianca che abbaglia e scalda facendo stare bene, come in un’esperienza di premorte. Il quarto lavoro sulla lunga distanza di una carriera iniziata nel 2009, quando i Mar De Grises erano ancora attivi, è forse quello più completo e melanconico. Forte è l’impronta di gruppi come gli Anathema o i Katatonia, ed è anche presente il doom ed il post rock, il tutto miscelato attraverso la forza della neo classicità. Questo disco in un’epoca diversa dalla nostra sarebbe stato un dipinto, forse meglio una scultura marmorea da vedere attraverso le sue rifrazioni di luci, in un gioco di rimandi che porta lontano, lo stesso gioco che domina questo bellissimo lavoro, che ti bacia e ti accoltella allo stesso tempo, pensato e suonato con canoni assolutamente al di fuori di quelli normali del mercato e dell’intrattenimento. Vivere la poesia parlando di ciò che sta sopra e dentro di noi, così in alto come in basso, e attraverso una musica talmente bella e struggente da non sembrare vera ricongiungersi all’universo là fuori, e che è già dentro di noi. Ascoltando La Quintaesencia de Júpiter si viene rapiti e il nostro cuore si apre insieme alle nostre sinapsi, rimanendo sospesi sopra una piccola grande opera d’arte, fatta da un uomo come noi ma con uno smisurato talento musicale e narrativo. Il disco va sentito come preferite voi, ma regalategli del tempo, non ascoltando le tracce saltando da una all’altra, ma assaporate ciò che vi regala, il cosmo, il corpo umano, la gioia, la morte o il tenero bacio di un fantasma.

Tracklist
1.Manifiesto
2.Hoy
3.Un Gran Océano
4.Thrinakia: El Reino del Silencio
5.Un Nuevo Sol Naciente
6.Arrebol
7.La Quintaesencia de Júpiter
8.Más allá del Hiperboreo

Line-up
J:EscobarC

ASTORVOLTAIRES- Facebook

Sherpa – Tigris & Euphrates

Sei brani di post folk rock e psichedelia occulta per la seconda fatica discografica degli abruzzesi Sherpa.

Sei brani di post folk rock e psichedelia occulta per la seconda fatica discografica dei Sherpa.

In origine, con la stessa formazione, gli abruzzesi si chiamavano Edith A.u.f.n. e facevano un folk rock a tinte americane, mentre ora è cambiato tutto. Il primo disco con la nuova denominazione è Tanzlide, che riceve un buon riscontro, e vengono invitati da Crisitna Donà a rifare la sua Tregua in Tregua 1997-2017 Stelle buone, disco per il ventennale dell’uscita. Gli Sherpa colpiscono subito l’ascoltatore con il loro suono mellifluo e minimale, eppure ricchissimo, che parte dal folk per abbracciare il post rock più visionario, riprendendo poi la psichedelia e facendola diventare un soffio occulto che parla la nostro cuore. Ciò che creano i pescaresi è un’atmosfera intima e calda, dove il tempo e lo spazio sono altre cose rispetto a quelli che viviamo normalmente. Come si può evincere dai titoli, la loro poetica abbraccia anche l’occulto, e specialmente per questo disco si è provato a tracciare la parabola dell’evoluzione del linguaggio e di come esso sia servito a cambiare i rapporti umani. Il linguaggio è la prima e forse più grande ricchezza che abbiamo e, nonostante ora sia svilito a favore di altri mezzi, è il respiro che ci porta a creare il nostro mondo, e qui gli Sherpa lo sottolineano molto bene. La produzione di Giuseppe Sericola e Fabio Cardone è adeguata, pulita e cristallina, perché non è un suono facile da catturare; etereo e bilanciato, dionisiaco e lascivo, quello degli Sherpa si adatta sempre molto bene a ciò che vogliono esprimere, per un disco che alle nostre latitudini non si è ascoltato spesso essendo un qualcosa maggiormente appannaggio di gruppi scandinavi o nordici. Un lavoro che cresce a poco nel nostro cervello e trova il suo meritato posto.

Tracklist
1. Kim (((o)))
2. Creatures from Ur
3. Equiseto
4.Abscent to the Mother of Language
5.Overwhelmed
6.Descent of Inanna to the Underworld

Line-up
Matteo Dossena – voce, chitarra, synth, cori-Pierluca Michetti – batteria, percussioni
Axel DiLorenzo – chitarre-drone
Franz Cardone – basso, synth, cori

SHERPA – Facebook

VV.AA. – STB Records Mix Tape – Vol 5

Davvero bello ascoltare un mixtape fatto con passione e grande competenza, ed oltre ad ascoltare ottima musica comincerete a conoscere un’etichetta valida e coinvolgente.

Essere un’etichetta underground e proprorre musica pesante avendo un’importante etica do it yourself non è facile, ma con gusto e voglia i risultati arrivano e la STB Records ne è la dimostrazione.

Nata nel New Jersey nel 2012, la label è dedita alla pubblicazione di musica pesante come stoner, desert stoner e dintorni, generi che gli americani hanno praticamente inventato e che sanno fare molto bene. Ogni uscita della STB Records è un qualcosa creato per fare bene alle orecchie ma anche agli occhi, e i risultati sono quasi sempre ottimi. Ogni mese la rumorosa etichetta fa uscire un mixtape disponibile in “name your price” sul suo bandcamp, al massimo le canzoni possono essere 11 ed illustrano le novità in arrivo e le cose migliori che sta producendo la STB Records e non solo. La qualità media dei mixtapes è notevole e ci sono davvero delle belle chicche: come in una trasmissione radiofonica si viene invogliati ad ascoltare il tutto, perché novità così fanno bene al cuore. In particolare, in questo mixtape numero 5 ci sono molti brani davvero validi, che spaziano in vari generi, ma in particolare colpiscono i The Black Mourning, gruppo indie post punk formato da membri di Subzero, Into Another, Stabbing Westward, Youth of Today, Closer & Ace Frehley tanto per fare due nomi, con il pezzo Maxaluna che è incredibile e sarà contenuto nell’ep di prossima uscita. Poi si spazia con gruppi davvero validi come i newyorchesi Lvger, che fanno un punk oi molto mischiato con il rock and roll, per una miscela che poteva nascere solo a New York City. Un altra notevole band sono i post noise cinematici Sleepbomb, molto originali ed allucinatori. Davvero bello ascoltare un mixtape fatto con passione e grande competenza, ed oltre ad ascoltare ottima musica comincerete a conoscere un’etichetta valida e coinvolgente. Se inizierete con i mixtape della STB Records non potrete più smettere.

Tracklist
1. Birnam Wood – Dunsinane
2. AM – Mervins
3. Grass – Get In The Van
4. The Munsens – Dirge (For Those To Come
5. LVGER – Drop The Ace
6. Ruff Majik – The Deep Blue
7. Black In Mourning – Maxaluna
8. Sleepbomb – Plague
9. Teepee Creeper – Black Snake
10. Warchief – Nightmare Queen

STB RECORDS – Facebook

Somali Yacht Club – The Sun + 1

The Sun + 1 è composto da post rock, stoner, psichedelia, post metal e addirittura da momenti dub, insomma quasi si fosse dalle parti degli Ozric Tentacles visti da un’ariosa prospettiva post rock.

Ristampa in cd, cassetta e digitale per il debutto del trio ucraino Somali Yacht Club, originariamente uscito nel 2014, e ora riedito dalla loro nuova etichetta Robustfellow Prods., per la quale quest’anno è uscita anche la loro seconda fatica The Sea.

La ristampa ha anche una canzone in più rispetto al disco originario, Sun’s Eyes, che doveva originariamente entrare a far parte del disco registrato in un’unica sessione. Il gruppo di Lviv, l’antica Leopoli, è uno degli ensemble maggiormente interessanti usciti negli ultimi tempi, e ascoltando questa ristampa il piacere inonderà i vostri canali auditivi. I tre ucraini fondono insieme vari registri musicali per raggiungere un risultato che è allo stesso tempo notevole e assai piacevole. The Sun + 1 è composto da post rock, stoner, psichedelia, post metal e addirittura da momenti dub, insomma quasi si fosse dalle parti degli Ozric Tentacles visti da un’ariosa prospettiva post rock. Infatti la struttura sonora dei Somali Yacht Club è simile al suddetto genere, nel senso che le canzono si dilatano naturalmente, viaggiando come una nave che pesca molto, e che viaggia però leggera e sinuosa. L’impianto sonoro è minimale, ma non lo è altrettanto il risultato, perché grazie al suo talento e al grande affiatamento il trio regala un disco dolce e sognante, che fa andare lontano e che parla al cuore con diversi linguaggi, volendo fare del bene a chi lo ascolta.
Tutto scorre perfettamente, e potrebbe durare lo spazio di un bellissimo tramonto, basta chiudere gli occhi e lasciarsi prendere.

Tracklist
1. Loom
2. Sightwaster
3. Up In The Sky
4. Signals
5. Sun
6. Sun’s Eyes (bonus track)

Line-up
Mez – guitar, vocals
Artur – bass
Lesyk – drums

SOMALI YACHT CLUB – Facebook

The Outsider – Hyeon

Se Beauty Awakens the Soul to Act poteva essere stato un frutto prelibato ma estemporaneo, Hyeon conferma quanto Andrea Cicala sia un musicista capace, ispirato e degno più di molti altri dell’attenzione di chi ricerca sonorità fresche, limpide e dalla potente forza espressiva, anche quando, come in questo caso, le note sono volte a cullare piuttosto che a sferzare l’ascoltatore.

Avevamo scoperto il bel talento del musicista siciliano Andrea Cicala lo scorso anno, con la sua prima uscita sotto il monicker The Outsider intitolata Beauty Awakens the Soul to Act.

Oggi il nostro si ripresenta con un altro lavoro nel quale le coordinate sonore si discostano decisamente dal metal contaminato dall’elettronica e dall’ampio respiro progressivo offerto in quell’occasione: Hyeon, infatti, mette in evidenza un’anima post rock dai tratti liquidi e sognanti e soprattutto sempre volto a smuovere le corde dell’emotività.
Il lavoro, ancora una volta del tutto strumentale, consta di nove brani per circa tre quarti d’ora di sonorità carezzevoli, suonate e prodotte ottimamente (nonostante il ragazzo palermitano mantenga sempre il solito basso profilo), solo saltuariamente irrobustite ritmicamente (Yearning Tides, traccia peraltro baciata da una linea melodica magnifica) ma senza rischiare mai di andare fuori giri o fuori tema.
Per evitare di risultare alla lunga tedioso, un lavoro di questa specie deve essere equilibrato e privo di ridondanze: ciò è esattamente quanto si riscontra dalla prima all’ultima nota di Hyeon, con momenti di assoluto splendore come Oceans Have No Memory, dove la rarefazione del suono nella sua seconda metà assume a tratti connotazioni magicamente ipnotiche.
Appare evidente come Andrea esibisca nei brani più lunghi (oltre ai due citati, anche Jötunn) sonorità più composite ed inquiete, lasciando invece alle tracce più brevi il compito di regalare passaggi di cristallina bellezza, capaci di tergere sia pure temporaneamente l’animo e la mente dai pensieri più cupi.
Se Beauty Awakens the Soul to Act poteva essere stato un frutto prelibato ma estemporaneo, Hyeon conferma quanto Andrea Cicala sia un musicista capace, ispirato e degno più di molti altri dell’attenzione di chi ricerca sonorità fresche, limpide e dalla potente forza espressiva, anche quando, come in questo caso, le note sono volte a cullare piuttosto che a sferzare l’ascoltatore.
The Outsider rappresenta, in qualche modo, la quintessenza dell’underground, e per noi è proprio la possibilità che ci viene data nel divulgare progetti musicali come questi a fornire le maggiori soddisfazioni, credeteci.

Tracklist:
1.Intro
2.Over
3.Sine Ira
4.Yearning Tides
5.Polaris
6.Oceans Have No Memory
7.Materia
8.Jötunn
9.The Deep Roar of the Breaking Waves

Line-Up:
Andrea Cicala

Reveers – To Find A Place

La poetica dei Reveers colpisce al cuore e parla attraverso immagini che nascono attraverso la musica, dove si sentono note e sequenze dai molti colori

I Reveers sono un gruppo composto da quattro ragazzi della provincia udinese, formatosi jam dopo jam.

Questo debutto è un dolcissimo disco di rock pop, con aperture post rock, di una maturità e di una consapevolezza straordinarie. Prendete Paul Simon a vent’anni, trasportatelo nella nostra epoca buia, fatelo suonare con dei ragazzi che hanno una grande padronanza degli strumenti e potreste avvicinarvi a cosa fanno i Reveers. Qui regna la calma, siamo in una sala parto dove nasce buona musica e ogni elemento è prezioso: si passa dal post rock a momenti molto floydiani, il tutto con personalità e gusto. Ogni canzone del disco è come un movimento che contiene al suo interno diversi elementi e tutti questi trovano armonia se posti assieme. Le tracce sono quasi tutte di lunga durata, e ciò rende possibile sviluppare un disegno sonoro molto interessante ed avanzato. La poetica dei Reveers colpisce al cuore e parla attraverso immagini che nascono attraverso la musica, dove si sentono note e sequenze dai molti colori, in cui tutto muta. Scorrendo le biografie dei componenti del gruppo si nota che sono musicisti con basi solide e si sente, soprattutto nella composizione e nelle strutture dei pezzi, che appaiono di un altro livello rispetto alle cose che si trovano in giro oggi. Si potrebbe quasi definire To Find A Place il disco più slowcore ascoltato da qualche anno a questa parte, ma in realtà c’è molto di più. Inoltre spuntano anche elementi elettronici trattati con grande sapienza e capacità. Questi ragazzi esordiscono con un grande album, ma se volessero hanno la possibilità di spingersi anche ben oltre: con le capacità ed il gusto esibito nulla è loro precluso.

Tracklist
1. Low to the ground
2. Fortune teller
3. Thesis, antithesis and synthesis
4. Music for a silent film
5. Mosaico
6. Spheres
7. Waves from the sky
8. Blind alley

Line-up
Fabio Tomada
Ismaele Marangone
Elia Amedeo Martina
Giulio Ghirardini

REEVERS – Facebook

Tengil – Shouldhavebeens

Shouldhavebeens è un’opera trasversale per definizione, con il potenziale necessario per raccogliere consensi ed attenzioni da più parti, come richiesto da una così nitida esibizione di talento.

Gli svedesi Tengil sono una giovane band che aveva già seminato bene nel recente passato con un full length molto ben accolto come titolo, ma a giudicare dall’esito di questo nuovo Shouldhavebeens la loro evoluzione appare un qualcosa di imprevedibilmente inarrestabile.

Post rock, shoegaze e una componente post hardcore e rumorista, il tutto va a confluire in un coacervo sonoro a volte limpido e cristallino come acqua di fonte, in altri inquieto e torbido quasi a voler togliere certezze all’ascoltatore.
In realtà è proprio questo contrasto tra luci ed ombre, tra levità e senso di oppressione, a rappresentare il motore concettuale e musicale di un lavoro splendido, capace di commuovere, esaltare e far pensare: del resto il titolo che fa riferimento “ciò che potrebbe essere stato” è un po’ il leit motiv nell’esistenza di ognuno, destinato peraltro a divenire sempre più pressante man mano che il tempo a propria disposizione diminuisce in maniera ineluttabile; se poi, certe elaborazioni mentali sono prodotte da menti giovani e fresche come quelle di questi musicisti, figuriamoci l’impatto che tutto ciò può avere nei soggetti più sensibili con qualche decennio di vita in più a consuntivo.
Meglio non guardare indietro, alla fine, e cercare semmai di vivere ogni istante come se fosse destinato a durare per sempre: la musica dei Tengil può essere di grande aiuto, perché una canzone stupenda come It’s all for springtime è solo la punta dell’iceberg di un lavoro che supera per intensità un punto di riferimento per i Tengil quali sono senz’altro gli Alcest, rispetto ai quali la malinconia viene esibita in maniera molto meno diretta.
And the best was yet to come è un altro episodio che impressiona per urgenza e potenza comunicativa, con il bravissimo Sakarias Westman (che speso e volentieri ricorda per timbrica il giovane Bono) capace di imprimere al suo cantato quel quid emotivo ed interpretativo che fa la differenza.
Shouldhavebeens è un’opera trasversale per definizione, con il potenziale necessario per raccogliere consensi ed attenzioni da più parti, come richiesto da una così nitida esibizione di talento.

Tracklist:
1. I dreamt I was old
2. And the best was yet to come
3. With a song for dead darlings
4. A lifetime of white noise
5. It’s all for springtime
6. All for your myth
7. In Murmur

Line up:
Sakarias Westman
Pontus Carling
Karl Hauptmann
Tobias Jensen

TENGIL – Facebook

Vesta – Vesta

I Vesta ci spiegano, portandoci le prove, del perché il post rock sia un genere molto bello se fatto bene come lo fanno loro.

I Vesta sono un trio viareggino di post rock e molto altro, dal bel tiro musicale per un disco che vi renderà devoti di questo suono.

La copertina è molto bella ed aperta ad interpretazioni soggettive, e rende molto bene ciò che è questo disco : un viaggio bello robusto verso qualcosa di molto lontano. I riferimenti sarebbero quelli del post rock classico e meno classico, ma i Vesta rielaborano il tutto in maniera molto personale ed originale. Il gruppo viareggino costruisce una narrazione musicale e cerebralmente visiva, con risultati entusiasmanti che lasciano il segno. Musica e sensazioni che suonano, e ci sono anche pause e silenzi che valgono davvero molto, qui conta l’insieme, anche se ogni episodio è notevole. I Vesta rompono gli schemi del genere, forse perché non decidono di appartenere in maniera ortodossa a nessun genere, decidendo di fare un percorso tutto loro, e la scelta è più che mai giusta. Questo disco omonimo piacerà a tante persone dai differenti gusti musicali, a chi ama il post rock, ma anche a chi apprezza sonorità più pesanti, mentre lo potrà gradire anche chi è abituato a cose più soft. Per apprezzare al meglio questo album lo si deve ascoltare e lasciarlo fluire dentro di noi, perché è un fluido che scorre e porta i pensieri di ognuno, e ci fa vedere le nostre azioni dall’alto. I Vesta ci spiegano, portandoci le prove, del perché il post rock sia un genere molto bello se fatto bene come lo fanno loro.

Tracklist
1. Signals
2. Resonance
3. Constellations
4. Ethereal
5. Nebulae
6. Aurora pt.1
7. Aurora pt.2

Line-up
Giacomo Cerri – Guitar & Drones
Sandro Marchi – Drums & Cymbals
Lorenzo Iannazzone – Bass & Noise

VESTA – Facebook

JOHN MALKOVITCH! – The Irresistible New Cult of Selenium

Un ottimo post rock ambient di provincia, sembrerebbe facile ma non lo è affatto.

Gruppo di musica post rock e ambient di larghissimo respiro da Pontecane, frazione del comune umbro di Fratta Todino in provincia di Perugia, conferma vivente che la provincia è molto più creativa della città.

Questo è il loro disco di debutto, quattro tracce che arrivano direttamente dalle loro lunghe jam, e si sente chiaramente che questi ragazzi sono per davvero amanti della musica. La loro è un post rock ambient molto cinematografico, con tanti riverberi e una calma imperante che assume significati diversi a seconda della necessità e dell’umore compositivo. Si viaggia bene in questo disco, per chi ama un certo tipo di musica, totalmente alieno sia dal termine commerciale che da quello alternativo. La musica dei John Malkovitch! è un luogo mentale, un posto non tanto di comfort quanto di vita dei pensieri, qui nascono forme, si vedono luci e si sta bene. Questa musica aiuta il pensiero, è cerebralmente feconda e molto piacevole, invita alla calma e alla riflessione. La produzione è buona e mette in risalto le doti del gruppo; nei meandri delle loro canzoni ci si perde davvero, ed è bello condividere in questa maniera movimenti musicali da saletta. I pontecanesi non si inventano nulla, ma quello che suonano lo fanno bene e lasciano un buon sapore nelle nostre orecchie. Un ottimo post rock ambient di provincia, sembrerebbe facile ma non lo è affatto.

Tracklist
1.Darker Underneath The Surface
2.Twice In A Moment, Once In A Lifetime
3.Zenit
4.Nadir

JOHN MALKOVITCH! – Facebook

Aurora Borealis – Goodbye

Con il monicker Aurora Borealis, Déhà va ad esplorare territori ambient che confluiscono poi in un post rock delicato ed emozionante, quello che ogni appassionato vorrebbe sempre ascoltare.

Può un musicista muoversi incessantemente tra generi apparentemente antitetici tra loro offrendo sempre e comunque opere di livello superiore alla media ?

La risposta è si, specialmente se ci si chiama Déhà, un nome che ormai è sinonimo della capacità innata di unire un’irrequietezza ed un’iperattivita compositiva ad una qualità che stupisce ogni volta di più.
Con il monicker Aurora Borealis il musicista belga va ad esplorare territori ambient che confluiscono poi in un post rock delicato ed emozionante, quello che ogni appassionato vorrebbe sempre ascoltare ma che, stranamente, la maggior parte degli altri musicisti riesce a proporre con tale maestria solo a intermittenza.
In virtù di un talento pressoché infinito, Déhà propone poco meno di tre quarti d’ora di melodie splendide e di stupefacente profondità, nel senso che non ci si stufa mai di ascoltarle e soprattutto, non appaiono mai stucchevoli.
Nel prime due parti di Goodbye (racchiuse in un unico brano), che se non ho inteso male dovrebbero essere state composte qualche tempo prima rispetto al restante contenuto dell’album, salta subito all’orecchio quello che è l’influsso primario di chi si cimenta con musica che a che fare con l’ambient, quel Brian Eno del quale vengono evocate note pianistiche che ricordano un capolavoro come By This River, e un lampo di memoria mi fa ricordare che uno dei geni indiscussi della musica contemporanea, seppure di nazionalità inglese, è di madre belga, cosa che di fatto è ininfluente ma che mi piace ritenere non del tutto casuale.
Non so questo imprinting iniziale sia consapevole o meno, fatto sta che man mano che l’album procede le atmosfere più corpose ed atmosferiche del post rock divengono preponderanti rispetto alle rarefazioni dell’ambient, rispettando in qualche modo anche la progressione temporale delle composizioni che sembrano farsi via via più robuste arrivando alle più recenti e conclusive Sun Up e Sun Down, alle quali si giunge però per gradi, con le parti più recenti di Goodbye che, in precedenza, hanno reso un po’ meno sognante l’incedere di un album in  possesso un afflato melodico difficilmente riscontrabile altrove.
Un album solo strumentale corre seriamente il rischio di annoiare dopo una ventina di minuti, ma se ti chiami Déhà tutto ciò non può accadere, perché ovunque si muova il musicista belga le cose scontate e banali sono bandite, ed ogni ascoltatore, qualsiasi possa essere il genere che predilige, ad ogni sua uscita ne resterà sempre e comunque appagato. E questo non è da tutti …

Tracklist:
1.Goodbye (1 & 2)
2.Goodbye (3)
3.Goodbye (4)
4.Goodbye (5)
5.Sun up – Lights
6.Sun down – Lights

Line-up:
Déhà

Déhà – Facebook

Arya – Dreamwars

Una musica che è interpretazione e drammatica teatralità, con i brani che formano una suite alienante ma suo modo originale, soprattutto in un genere come quello del rock progressivo moderno dove ormai diventa difficilissimo trovare strade musicali non ancora battute.

Album coraggioso e di difficile catalogazione, Dreamwars è il secondo lavoro degli Arya, band riminese al debutto nel 2015 con In Distant Oceans e tornata dunque dopo tre anni con un’opera intrigante, ma a cui ci si deve dedicare molto tempo prima che i suoni che inglobano nello stesso sound post rock e progressive riescano a fare breccia nell’ascoltatore.

Ritmiche marziali, marcette, la teatralità innata nel canto particolare della singer Virginia Bertozzi (uscita poi dalla band e sostituita da Clara J. Pagliero), una tecnica sopraffina che esce timida dalle nebbie di una musica intimista ed a suo modo dark, fanno di questo Dreamwars una complessa narrazione delle difficoltà dell’uomo, tra solitudine, incomunicabilità e suicidio, conseguenze della competitività in atto nella società contemporanea.
Quello degli Arya è un rock moderno, attraversato da una vena progressiva, un fiume di ritmiche e dissonanze strumentali su cui la cantante interpreta i vari stadi che l’uomo attraversa in questo inferno reale che è la vita.
Una musica che è interpretazione e drammatica teatralità, con i brani che formano una suite alienante ma suo modo originale, soprattutto in un genere come quello del rock progressivo moderno dove ormai diventa difficilissimo trovare strade musicali non ancora battute.
Gli Arya ci sono riusciti, anche se il loro album rimane un’opera di difficile assimilazione e per questo molto affascinante, adatto a chi non si spaventa al cospetto di brani intricati più per la loro atmosfera di altissima tensione emotiva che per la mera tecnica strumentale.
Non esistono singoli e brani che possano spiegare in modo soddisfacente quello che troverete in Dreamwars, un album da ascoltare per intero più volte per trovare la chiave che vi aprirà la porta per entrare nel concept degli Arya.

Tracklist
01. Sirens
02. Irriverence
03. NAND you
04. Commuters
05. Faith
06. Transistors
07. Arjuna
08. Rhinos
09. Eyes in eyes
10. Dreamwars
11. Gandharva

Line-up
Virginia Bertozzi – Vocals
Simone Succi – Guitars
Luca Pasini – Guitars
Namig Musayev – Bass
Alessandro Crociati – Drums
*Nicola Renzi – Vocals on NAND You

ARYA – Facebook

Babel Fish – Follow Me When I Leave

Post rock in linea con quanto offerto nel mondo del rock alternativo in questi anni, intimista e scandito da crescendo che portano ad esplosioni elettriche, con le chitarre che a tratti mostrano tracce sanno di noise e sfumature dark wave.

I modenesi Babel Fish licenziano il loro secondo lavoro, un ep di quattro brani dal titolo Follow Me When I Leave, pregno di sonorità alternative e post rock.

La band nasce nella provincia modenese nel 2015, dall’unione di quattro musicisti dalle svariate esperienze nella scena underground, con lo scopo di portare in giro la propria musica.
Il primo demo è il passo obbligato per Gabriele Manzini (voce, chitarra), Edoardo Zagni (chitarra), Matteo Vezzelli (basso) e Giordano Calvanese (batteria), per dare il via alla storia del gruppo che si snoda tra esperienze live e la scrittura di questo secondo lavoro.
Lo stile offerto è il  post rock, in linea con quanto offerto nel mondo del rock alternativo in questi anni, intimista e scandito da crescendo che portano ad esplosioni elettriche, con le chitarre che a tratti mostrano tracce sanno di noise e sfumature dark wave.
In Follow Me When I Leave troviamo quattro brani per una ventina di minuti in atmosfere di liquido rock alternativo ispirato ai Radiohead, dall’opener Morning Birds fino alla conclusiva title track, con pochi guizzi e tanta maniera; in ogni caso la musica della band modenese potrebbe essere un buona scoperta per i fans del genere, con le note ci passano davanti come se fossero posate delicatamente sul letto di un fiume che sfocia nel mare della scena rock attuale, rischiando però di perdersi tra le onde.

Tracklist
1.Morning Birds
2.TGD
3.Veins
4.Follow Me When I Leave

Line-up
Gabriele Manzini – Voice and Guitar
Edoardo Zagni – Guitar
Matteo Vezzelli – Bass
Giordano Calvanese – Drums

BABEL FISH – Facebook

We All Die! What A Circus! – Somnium Effugium

L’album è davvero molto curato e la limpidezza dei suoni ne favorisce l’assimilazione, anche perché qui è netta la sensazione d’essere al cospetto di un artista con la A maiuscola e non di un pur valido assemblatore di suoni.

Devo ammettere che le ultime uscite nelle quali mi sono imbattuto mi hanno parzialmente riconciliato con i dischi strumentali, specialmente quelli basati su un melodico e riflessivo post rock.

Così, dopo il bellissimo lavoro degli americani In Lights, tocca a questo progetto solista del portoghese João Guimarães dal monicker piuttosto bizzarro, We All Die! What A Circus!.
Nonostante le ingannevoli premesse, il sound offerto dal musicista lusitano è quanto mai ortodosso nel suo dipanarsi liquido, melodico e spesso riflessivo tanto da andare a sconfinare più volte l’ambient; indubbiamente il post rock si presta maggiormente a tale formula, proprio perché la rarefazione del sound porta inevitabilmente a sonorità che sono per loro natura strumentali, mentre le aperture melodiche, quando sono di eccelsa qualità come in questo caso, imprimono alla musica un loro marchio ben definito.
A comprovare quanto affermato è sufficiente l’ascolto di Effugium IV che, dopo un avvio tenue e sommesso, si libera poi in un magnifico assolo di chitarra che la dice lunga sul gusto melodico di cui è in possesso Guimarães.
L’album è davvero molto curato e la limpidezza dei suoni ne favorisce l’assimilazione, anche perché qui è netta la sensazione d’essere al cospetto di un artista con la A maiuscola e non di un pur valido assemblatore di suoni.
Il senso della musica, quando non è supportata dalle parole, è in fondo proprio quello di evocare quanto promesso con i titoli dell’album o dei brani, o comunque di tenere fede a quanto dichiarato dai musicisti in fase di introduzione del disco.
In questo caso, Guimarães ci suggerisce che i temi dell’album sono il sogno della fuga e la fuga stessa, dato che in un mondo disseminato di confini e di rovine, dentro e fuori di noi, la necessità di fuggire diviene impellente.
Somnium Effugium è la colonna sonora che ci accompagna in questo stato che oscilla tra l’onirico ed il reale, con i brani intitolati Somnium improntati ad un ambient piuttosto inquieta, mente gli episodi denominati Effugium sono più orientati al post rock, e in quanto tali portatori di splendide melodie chitarristiche venate di una profonda malinconia.
João regala oltre tre quarti d’ora di pennellate sonore di stupefacente profondità, inducendo alla riflessione e alla commozione, e comunque lasciando un segno profondo in chi desidera lasciarsi avvolgere dalla musica creata da questo musicista dotato di rara sensibilità.
Anche se è proprio grazie alle band più celebrate che questo stile è uscito da uno status di nicchia, il mio consiglio è quello di rivolgere l’attenzione a questi nomi minori e magari misconosciuti, la cui freschezza tiene ben alla larga il manierismo ed il rischio di tediosità che ne consegue.

Tracklist:
1.Somnium I
2.Effugium I
3.Effugium II
4.Somnium II
5.Effugium III
6.Effugium IV
7.Somnium III

Line-up
João Guimarães

WE ALL DIE! WHAT A CIRCUS! – Facebook

In Lights – This is How We Exist

This is How We Exist è lo splendido esordio su lunga distanza di una band che, in un futuro, prossimo, potrebbe collocarsi stabilmente ai piani più altri del post rock strumentale.

Gli In Lights sono un gruppo californiano a forte trazione asiatica, viste le origini di 4/5 dei musicisti coinvolti,
e di questo risente anche il post rock che la band propone essendo intriso di una spiritualità più spiccata rispetto a quella tipica delle culture occidentali.

A livello stilistico i canoni del genere non vengono stravolti e quello che viene offerto dagli In Lights è un sound lieve, melodico e interamente strumentale, il cui elemento di peculiarità è costituito dal violino (suonato da Tianyang Wei ) che qui riveste un ruolo molto importante assieme al lavoro chitarristico di Li He e Bosen Li.
Non ho mai lesinato critiche alla scelta praticata da molte (troppe?) band nell’offrire musica interamente strumentale, ma va detto che ciò spesso coincide con l’esibizione di un sound magari valido ma incapace di reggersi da solo senza l’ausilio delle parti cantate: questo non avviene con gli In Lights, capaci di avvolgere ma anche di colpire con improvvisi affondi melodici anche l’ascoltatore più scettico.
L’opener Forward è una perla musicale che spalanca una strada luminosa lungo la quale questi ragazzi di stanza a San Josè regalano emozioni a profusione, grazie a sonorità cristalline, curat20e e, soprattutto, frutto di un sentire profondo e non di uno sterile manierismo.
Come suggerisce il monicker, la musica degli In Lights è luminosa ma non è certamente scevra di una certa malinconia, espressa particolarmente in un altro gioiello come quello intitolato Memory, che viene poi replicato da Dream, dai toni però ancor più pacati e rarefatti; d’altro canto l’incedere dei singoli brani corrisponde in maniera piuttosto calzante ai rispettivi titoli, il che diviene ancor più un valore aggiunto per un’opera di natura strumentale.
Il mantra Om Namah Shivaya chiude nel migliore dei modi This is How We Exist, splendido esordio su lunga distanza di una band che, pur facendo proprio il vissuto di una cospicua lista di nomi che vanno dai Sigur Ros ai God Is An Astronaut, passando per i per Collapse Under The Empire, esibisce una cifra stilistica sicuramente personale e di qualità inattaccabile: pertanto non ci sarebbe da stupirsi se, in un futuro, prossimo il nome degli In Lights dovesse assurgere stabilmente ai piani più altri del post rock strumentale.

Tracklist:
1.Forward
2.Search
3.Before
4.Memory
5.Dream
6.Spring
7.Om Namah Shivaya

Line-up
Li He – Guitar
Bosen Li – Guitar
Long Jin – Drums
Ted Pederson – Bass
Tianyang Wei – Violin

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