Otehi – Garden Of God

Garden Of God non è un disco da fruire velocemente, quanto un qualcosa da godere e da lasciare che ti cada dentro ascolto dopo ascolto, perché non è musica comune fatta per intrattenere, ma comunica qualcosa agli abissi che ci portiamo dentro.

Gli Otehi sono un gruppo romano che parte dallo stoner per andare molto lontano. Il loro suono è un lento e possente incedere di suggestioni sciamaniche messe in musica, come un nativo che ti prende per mano dopo aver mangiato un peyote.

Garden Of God è una mostra di delizie, e i cinque pezzi che fanno parte del disco sono tutte ottime composizioni, si prendono il tempo che devono per arrivare a destinazione, ma in realtà la destinazione non ce l’hanno, perché è il viaggio l’importante, il vero scopo del tutto. Esplorare attraverso il suono, la psichedelia arriva e si maschera, cambiando i contorni di ciò che pensavamo sicuro, cambia il gioco rendendolo più vero. Gli Otehi sono un gruppo che si differenzia per la sua impronta personale, per fare un desert stoner connotato e strutturato molto bene nel quale ogni nota ha la sua importanza, ed è una scala verso il cielo. Nato nel 2011, questo trio ha sempre portato avanti con convinzione un certo tipo di discorso musicale, riuscendo a trovare una via personale e potente. Ascoltando Garden Of God si capisce che la musica pesante può benissimo sposare la psichedelia, un matrimonio alchemico che cambia la composizione chimica di chi lo ascolta e di chi lo suona. Garden Of God non è un disco da fruire velocemente, quanto un qualcosa da godere e da lasciare che ti cada dentro ascolto dopo ascolto, perché non è musica comune fatta per intrattenere, ma comunica qualcosa agli abissi che ci portiamo dentro. Fare musica da meditare per un gruppo stoner è un gran bel obiettivo e questi ragazzi lo hanno centrato in pieno.

Tracklist
1.Sabbath
2.Naked God
3.The Great Cold
4.Verbena
5.Purified
6.Esbath

Line-up
Domenico Canino – Guitar, Effects, Voice & Tribal Instruments
Maciej Wild Mikolajczyk – Bass, Voice, Effects & Tribal Instruments
Corrado Battistoni – Drums, Percussions

OTEHI – Facebook

Natas – Delmar

Delmar fu il primo lavoro degli argentini Natas, e per molti fu un disco epocale perché portava con sé la scoperta di un suono che stava nascendo in quel momento e che aveva le sue radici nel passato ma guardava in maniera diversa al futuro.

Delmar fu il primo lavoro degli argentini Natas, e per molti fu un disco epocale, perché portava con sé la scoperta di un suono che stava nascendo in quel momento e che aveva le sue radici nel passato ma guardava in maniera diversa al futuro.

La Argonauta Records di Genova ci propone la ristampa rimasterizzata dai nastri originali di questo grande disco, ai tempi per la Man’s Ruin Records. I Natas (leggete al contrario e troverete il marchio di fabbrica del più longevo manager della storia del rock), furono per lo stoner desert quello che i Sepultura furono per il death, ovvero mostrarono che anche in paesi diversi da quelli canonici si produceva un ottimo stoner, fatto in maniera innovativa e con una grande impronta personale. Dischi come questo sono stati possibili solo in quegli anni, che sono stati forse l’ultimo periodo veramente creativo della musica e non solo. In Delmar c’è tutto, dalle cose più Kyuss a passaggi fortemente grunge nella loro essenza. Questo disco è prima di tutto un viaggio, un’esperienza psichedelica con i Natas come sciamani che ci guidano in territori sconosciuti. Riascoltando Delmar possiamo ritrovare quel tocco magico, quella freschezza dell’onda marina che ti tocca sul bagnasciuga durante un rosso tramonto. I Natas sono un gruppo che evoca magia attraverso una musica che porta lontano, e forse questo album è stato il loro momento migliore, anche se i dischi successivi sono molto buoni, ma Delmar è un pilastro, un peyote da prendere quando si vuole, perché soddisferà sempre, ora ancora di più con i suoni ancora più nitidi. La capacità compositiva di questi argentini stupisce ancora adesso, e si capiscono ora la forze e l’influenza che hanno avuto su molti gruppi che li hanno seguiti. Dopo venti anni è ancora potentissimo e bellissimo.

Tracklist
1. Samurai
2. 1980
3. Trilogia
4. I Love You
5. Soma
6. Mux Cortoi
7. Delmar
8. Windblows
9. El Negro
10. Alberto Migré

Line-up
SERGIO CH. – GUITARRA Y VOCALS.
WALTER BROIDE – BATERIA.
GONZALO VILLAGRA – BASS.

NATAS – Facebook

Pharaoh Overlord – Zero

Stranianti, magnifici e possenti come un dio che svanisce quando scende la droga sciamanica, sciamani di un’altra dimensione in cui si sta davvero bene, o più prosaicamente uno dei migliori gruppi di psichedelia pesante del mondo.

I Pharaoh Overlord sono una bellissima anomalia, una di quelle cose che nascono in mezzo a strane frequenze, e che sono assolutamente e fortunatamente fuori dalla norma.

Innanzitutto sono un supergruppo della psichedelia e del krautrock, dato che sono formati da Jussi Lehtisalo, Janne Westerlund Tomi Leppänen, membri dei notevolissimi Circle, e poi da altri compagni di acide scorribande. La loro attività psicoattiva è cominciata nel 2000 e ha avuto numerose puntate e tutte notevoli, ma questo Zero è una delle più belle e complete. Descrivere il mondo dei finlandesi è arduo, perché bisognerebbe scrivere un altro Alice Nel Paese Delle Meraviglie, ci sono tantissime cose. Si potrebbe dire che questo è un viaggio che a volte tocca i territori della psichedelia e del kraut in quota kosmik, con una voce che è growl, e che è la parte cattiva e sudata del viaggio. Strumentalmente questi signori hanno tecnica e sapienza da vendere, e soprattutto offrono un suono unico che non è rintracciabile da nessuna altra parte, come un venditore di sogni che solo voi conoscete. Qui urge mettersi le cuffie, consumare qualche sostanza ed andare. Il disco è bellissimo, ha mille rivoli, risvolti e chicche da offrire all’ascoltatore, ed è un’esperienza unica come lo è tutto con i Pharaoh Overlord. Il nome richiama, e giustamente, la visione psichedelica della vita di Sun Ra, ovvero non siamo di questo pianeta e vogliamo andarcene, ma già che l’astronave non passa, mettiamoci a fare musica del nostro mondo. Stranianti, magnifici e possenti come un dio che svanisce quando scende la droga sciamanica, sciamani di un’altra dimensione in cui si sta davvero bene, o più prosaicamente uno dei migliori gruppi di psichedelia pesante del mondo.

Tracklist
Side A:
1. Revolution
2. Maailmanlopun ateriana
3. Meanwhile

Side B:
1. Lalibela Cannot Spell Zero
2. Satavuotiaiden Salaisuus
3. I Drove All Night by My Solar Stomp

Line-up
Jussi Lehtisalo
Janne Westerlund
Tomi Leppänen

PHARAOH OVERLORD – Facebook

Six Circles – New Belief

Lo stile musicale dei Six Circles è unico, riceve ispirazione da molti generi, dalla psichedelia al blues, dal rock anni sessanta più lascivo a musica adatta per riti fra strani tappeti.

Duo d’eccezione, composto da Sara Montenerro dei grandissimi Messa e anche nei Restos Humanos, e Giorgio Trombino, uno che fa ottima musica negli Haemophagus, Assumption, Elevators to the Grateful Sky e Furious Georgie.

Insieme hanno messo su i Six Circles per produrre questo New Belief, che è uno splendido viaggio lisergico per diversi mondi mentali grazie ad un suono vintage ma rielaborato molto bene. Lo stile musicale dei Six Circles è unico, riceve ispirazione da molti generi, dalla psichedelia al blues, dal rock anni sessanta più lascivo a musica adatta per riti fra strani tappeti. Sara possiede un modo di cantare che proietta direttamente la nostra mente in un posto molto lontano, dove si sta certamente meglio che nella nostra attuale sistemazione. New Belief sembra un manifesto di una religione sorta nella California degli anni sessanta, dove si predica una spiritualità legata alla carnalità, una consapevolezza che la vita è sogno e bisogna viverla così. L’incedere del disco svela molte sorprese, ma è soprattutto la coscienza alterata che provoca la peculiarità maggiore del disco. Là dove molti imitano, Sara e Giorgio ti prendono dolcemente per mano, con un talento mai in discussione, riuscendo a fare un disco che piacerà a molti. Non manca una parte importante di acid folk che rende il tutto ancora più bello. L’album è stato registrato fra Padova e Palermo in tre mesi, per un risultato davvero buono.

Tracklist
1.New Belief Begins
2.Blue Is The Colour
3.Come, Reap
4.Time Of Erosion
5.The Prism
6.Sins You Hide
7.Late To Awake
8.Take Me To Your Desert
9.Lavender Wells

Line-up
Sara Montenegro – voce e tamburello
Giorgio Trombino – chitarre acustiche ed elettriche, basso, batteria, piano, harmonium, synth, armonica, percussioni

SIX CIRCLES – Facebook

Palmer Generator – Natura

L’album è un viaggio tra lo psych rock strumentale in cui l’urgenza heavy è a disposizione di uno spartito dilatato e a tratti liquido, con quattro brani semplicemente intitolati Natura e numerati di conseguenza, scarni e perfetti nella loro dinamica.

La scena underground tricolore alternative e psichedelica ci ha regalato in questi anni non pochi lavori di un certo spessore, enfatizzati da una componente metallica che negli ultimi tempi ne ha fatto oggetto d’interesse anche per gli amanti dei suoni heavy.

Da Jesi arriva la famiglia Palmieri, con padre, zio e nipote che formano i Palmer Generator, trio che ci presenta la sua terza fatica discografica intitolata natura.
Shapes (2014) e Discipline (2016) sono i precedenti lavori di questa realtà psichedelica molto affascinante, che amalgama stoner, musica heavy e post rock e lo tramuta in una manciata di jam acide, difficili da digerire se avete in mente la solita forma canzone, molto più suggestive se l’approccio al disco è come ad un quadro astratto dove i colori formano su tela quello che la nostra immaginazione fotografa.
L’album è un viaggio tra lo psych rock strumentale in cui l’urgenza heavy è a disposizione di uno spartito dilatato e a tratti liquido, con quattro brani semplicemente intitolati Natura e numerati di conseguenza, scarni e perfetti nella loro dinamica.
Registrato presso il Caffiero Studio di Alessandro Gobbi, Natura espande sensazioni, si nutre di musica cosmica e la traduce in quaranta minuti di rock oltre le barriere ed i generi, rivelandosi un’opera di difficile catalogazione ma a suo modo atmosfericamente affascinante.

Tracklist
1.Natura 1
2.Natura 2
3.Natura 3
4.Natura 4

Line-up
Tommaso Palmieri – Guitars
Michele Palmieri – Bass
Mattia Palmieri – Drums

PALMER GENERATOR – Facebook

Satori Junk – The Golden Dwarf

Il lavoro denota un notevole miglioramento rispetto al già valido primo disco del 2015, perché qui siamo proprio su un altro livello, con i Satori Junk che mostrano una maggiore consapevolezza dei loro mezzi proponendo una formula arricchita.

Seconda prova sulla lunga distanza per i Satori Junk, gruppo milanese di doom psichedelico e stoner, i quali con questo lavoro si migliorano non poco, proponendosi come uno dei gruppi italiani più interessanti nell’ambito.

Fin dalla bellissima intro recitata si intuisce che sarà una lunga discesa verso gli abissi che abbiamo creato e che culliamo nelle nostre teste. Partendo dallo stile che hanno sempre portato avanti, ovvero musica pesante con tastiere aliene, i Satori Junk rendono maggiormente pesante il loro suono e anche più acido, per lunghe cavalcate sotto piogge sporche, corse sotto relitti di imperi troppo grandi per cadere, e ancora attraverso volti sfigurati da nuove droghe. Quando poi spunta il theremin, la magia dei Satori Junk è ormai compiuta e siete catturati, così ascolterete il disco più e più volte, perché ha un fascino magnetico e maledetto, come tutte le cose veramente belle e gustose. Le canzoni sono tutte di ampio respiro e si fanno apprezzare per la loro tenebrosità ed acidità. Ciò che fa risaltare i Satori Junk rispetto agli altri gruppi è questa commistione di tastiere quasi space rock con un suono corrosivamente lento, in una miscela difficilmente rintracciabile in altri lidi. Come detto tutto il lavoro denota un notevole miglioramento rispetto al già valido primo disco del 2015, perché qui siamo proprio su un altro livello, con i Satori Junk che mostrano una maggiore consapevolezza dei loro mezzi proponendo una formula arricchita. Chiude il disco un’incendiaria e acidissima cover di Light My Fire dei Doors, ma il vero godimento è prima.

Tracklist
1.Intro
2.All Gods Die
3.Cosmic Prison
4.Blood Red Shrine
5.Death Dog
6.The Golden Dwarf
7.Light My Fire (The Doors cover)

Line-up
Luke Von Fuzz – Vocals, Synth, Keys, Theremin, Flute
Chris – Guitars, Analog Synth, Sequencer
Lory Grinder – Bass
Max – Drums

SATORI JUNK – Facebook

Sammal – Suuliekki

Psichedelia condita con funghi allucinogeni, rock anni settanta con venature prog per un risultato di altissimo livello.

Psichedelia condita con funghi allucinogeni, rock anni settanta con venature prog per un risultato di altissimo livello.

Con una musica così poco importa il fatto che cantino in finlandese, perché va benissimo ugualmente . I Sammal pubblicano su Svart Records il loro terzo disco, ed è stata una gestazione lunga, ma da come si può ascoltare ne è assolutamente valsa la pena. La musica di questi finnici è molto ricca e cresce spontaneamente come in una lunga jam, dove i limiti ed i generi vengono abbattuti, e tutto nasce, muore e si ricrea continuamente. Suuliekki è un groove contunuo, un respiro musicale ininterrotto fatto da musicisti di grande talento per una psych prog di grande effetto, dove nulla è lasciato a casa, studiando a fondo la composizione di ogni canzone, smussando e perfezionando in maniera continua. I Sammal ricevono una grande influenza dagli anni settanta, ma oltre ad essere originali riescono anche ad innovare questo suono, soprattutto nel mischiare vari strumenti e diverse situazioni. Ci sono assoli alla Pink Floyd, momenti di psych latinoamericana come nel primo Santana, intarsi totalmente rock anni settanta e su tutto ciò c’è la firma stilistica di un gruppo come i Sammal che raramente sbaglia una canzone. Il disco è davvero godibile e di effetto, e va ascoltato dall’inizio alla fine, ma si può anche scegliere una traccia e soffermarsi su di essa a lungo, dato che sono tutte molto ricche. Suuliekki ha diverse anime, che possono vivere di luce propria ma anche compenetrarsi molto bene, per un risultato finale davvero buono.

Tracklist
1.Intro
2.Suuliekki
3.Lukitut päivät, kiitävät yöt
4.Ylistys ja kumarrus
5.Pinnalle kaltevalle
6.Vitutuksen valtameri
7.Maailman surullisin suomalainen
8.Herran pelko
9.Samettimetsä

Line-up
Jura
Janu
Tuomas
Lasse
Juhani

SAMMAL – Facebook

Bong – Thought And Existence

Un disco che è un rito, un rito antico che abbiamo seppellito sotto montagne di false credenze, e non si parla di dei, ma dell’unico dio al quale parla Thought And Existence : il nostro cervello che vuol tornare verso le stelle.

Nuovo viaggio astrale offerto da un gruppo che va ben oltre la musica,i geordies Bong, qui alla loro ottava prova su lunga distanza.

Per chi già li conosce sa che una volta ascoltata la loro musica, la prospettiva delle cose cambia, come quando si legge un libro che sposta l’angolazione dalla quale vediamo la realtà e quindi riusciamo a scostare il velo che ricopre tutto. I Bong fanno musica rituale, aprono porte per andare in dimensioni diverse, e la loro musica non può essere fruita in maniera normale o consumistica, con le cuffie per strada. Bisogna prepararsi per un viaggio mentale, quindi ognuno deve fare la preparazione al rito alla propria maniera, consumando droghe od isolandosi, l’unico denominatore comune è alzare il volume, perché la musica dei Bong è cubitale e molto fisica. Nei dischi precedenti i Bong avevano fatto vedere di cosa sono capaci, ovvero di usare la musica come medium per eccellenza per riti di magick, la magia crowleryana e non solo, che fa andare su piani astrali diversi da quello, davvero misero, nel quale viviamo. Questa musica non è escapismo o un qualcosa di new age, ma è una forza antica che arriva da lontano, e non a caso i Bong sono inglesi, perché l’isola e la sua storia è fortemente permeata di magia e di forze che altrove non esistono, o sono presenti in maniera minore. L’Inghilterra ha un storia antichissima ed il cristianesimo o il protestantesimo qual dir si voglia, è presente da duemila anni, una parentesi ben minore se si pensa agli altri cicli storici. La sapienza druidica è continuata per vie laterali, ed in Thought And Existence è molto presente, come magia per riconnettersi a quello che siamo veramente, energia a stento trattenuta da un corpo e dalle membra. Ascoltando questi droni, questa frequenza che i Bong stendono per tutta la loro opera, si ha la sensazione di tornare a casa, di riunirsi con un qualcosa che ci è stato fatto dimenticare, ed infatti tutto il disco è come un marcia di entità che nello spazio si ricongiungono alle loro altre metà. I Bong fanno qualcosa di potentissimo e di davvero originale, e dare un genere alla loro emissione musicale non è facile, anche se si potrebbe dire che sia un qualcosa fra lo sludge e il drone, post metal altro. In questo frangente si coglie tutta la inadeguatezza della nostra civiltà a definire una cosa come Thought And Existence, perché questo disco viene da lontanissimo, ed è passato in qualcosa dello spirito psichedelico inglese degli anni sessanti e settanta, ma prima era nelle processioni druidiche lungo il serpente Tamigi: proviene dallo spazio ed è stato a volte visto dai Neurosis e dagli Ozric Tentacles, è pura energia mentale. Un disco che è un rito, un rito antico che abbiamo seppellito sotto montagne di false credenze, e non si parla di dei, ma dell’unico dio al quale parla Thought And Existence: il nostro cervello che vuol tornare verso le stelle.
Forse la migliore prova di un gruppo che non fa solo musica da consumare.

Tracklist
01. The Golden Fields
02. Tlön, Uqbar, Orbis Tertiu

Line-up
David Terry – Bass
Mike Smith – Drums
Mike Vest – Guitars

BONG – Facebook

Earthless – Black Heaven

Lo stoner rock degli Earthless è sempre stato molto piacevole, ma qui tocca forse le vette più alte della loro lunga carriera, perché c’è qualità, passione, potenza e veemenza in questo stoner rock molto fisico, dove si continua la tradizione della psichedelia pesante americana, con lunghe jam potenti e lisergiche che portano lontano.

Quarto disco per i californiani Earthless, in giro dall’ormai lontano 2001. La maggiore novità è data dal fatto che a differenza degli altri dischi questo ha la maggior parte delle canzoni cantate dal chitarrista Isaiah Mitchell, che ha un voce molto adatta al genere.

La cosa è nata spontanea all’interno del gruppo, un cambiamento naturale che non va a snaturare nulla, anzi. Rimangono sempre le cavalcate di psichedelia pesante che hanno sempre contraddistinto la band. Un’altra novità, anche se minore rispetto alla prima, è che il gruppo ha un tiro maggiormente rock rispetto al passato, facendo emergere le sue radici profonde. Gli Earthless devono moltissimo ai Cream, e hanno sempre affermato che senza di loro non ci sarebbe stato nulla. Ascoltando Black Heaven si capisce molto bene questa loro affermazione. La band americana ci mette molto del suo e produce un disco davvero molto godibile e forte, potente e composto di lunghe canzoni che sono jam infuocate sotto il sole della California. Con il trasferimento di Isaiah Mitchell da San Diego, base del gruppo, al nord della California, il gruppo è passato dal vedersi e provare spesso al diradare le occasioni di fare musica insieme. Ciò non ha tolto nulla, anzi ha agito come un rasoio di Occam, andando a perfezionare ulteriormente taluni passaggi. Lo stoner rock degli Earthless è sempre stato molto piacevole, ma qui tocca forse le vette più alte della loro lunga carriera, perché c’è qualità, passione, potenza e veemenza in questo stoner rock molto fisico, dove si continua la tradizione della psichedelia pesante americana, con lunghe jam potenti e lisergiche che portano lontano. Un gran bel disco da una band che si migliora costantemente e che intrattiene molto bene l’ascoltatore.

Tracklist
1. Gifted by the Wind
2. End to End
3. Electric Flame
4. Volt Rush
5. Black Heaven
6. Sudden End

Line-up
Mario Rubalcaba
Isaiah Mitchell
Mike Eginton

EARTHLESS – Facebook

Green Druid – Ashen Blood

Doom nella sua forma più tradizionale ma il tutto è intriso di stoner, di aromi acido lisergici, di ipnotismo, di momenti inquieti e parti più introspettive; il quadro definitivo lascia storditi, desiderosi di assaggiare sempre più queste note per assaporare meglio ogni momento.

Eccellente debutto di questo quartetto statunitense di Denver, attivo dal 2015, con un demo autoprodotto riproposto in toto in questa opera prima.

Lode alla Earache che ha messo sotto contratto questi musicisti alla loro prima esperienza con i Green Druid: otto brani intensi, lunghi, alcuni lunghissimi fino a diciotto minuti, dove le idee non mancano, le atmosfere sono cangianti, vibranti con la loro alternanza di chiaroscuri e saliscendi emozionali.
La base è doom nella sua forma più tradizionale ma il tutto è intriso di stoner, di aromi acido lisergici, di ipnotismo, di momenti inquieti e parti più introspettive; il quadro definitivo lascia storditi, desiderosi di assaggiare sempre più queste note per assaporare meglio ogni momento.
Vengono in mente gli Sleep per la loro capacità di mantenere alta la tensione durante le interminabili jam soffocate da un sole incandescente come in Cursed Blood, la più lunga del lotto, dove un riff reiterato pone le basi per le divagazioni sia solistiche sia di atmosfera e qui l’interplay tra le due chitarre rivaleggia con le clean vocals filtrate e salmodianti, a creare immagini di una carovana in lento movimento verso acidi abissi: un brano notevolissimo da sentire assolutamente. In Agoraphobia, altri quattordici minuti, le trame acido lisergiche prendono il sopravvento fino dall’inizio e l’atmosfera, apparentemente più distesa, alternando momenti psichedelici e doom si carica lentamente di tensione con basso e chitarre a condurre la danza verso orizzonti completamente stonati.
Ogni brano ha caratteristiche proprie mantenendo inalterati gli ingredienti di base, Dead Tree sforna un riff da far tremare le montagne, Rebirth ricorda i momenti soffocanti degli ultimi Electric Wizard, stritolando le viscere e Ritual Sacrifice è sinistra e carica di suspence, mantenendo le promesse del titolo.
Per essere un’opera prima le sensazioni sono eccellenti, i musicisti hanno idee e una buona personalità, i brani sono fluidi, convinti e convincenti, attraggono e lasciano ottime vibrazioni: dal vivo potrebbero essere una assoluta rivelazione.

Tracklist
1. Pale Blood Sky
2. Agoraphobia
3. Dead Tree
4. Cursed Blood
5. Rebirth
6. Ritual Sacrifice
7. Nightfall

Line-up
Ryan Skates – Bass
Ryan Sims – Drums
Graham Zander – Guitars
Chris McLaughlin – Vocals, Guitars

GREEN DRUID – Facebook

Malditos – II La Reve

I Malditos sono un collettivo di Oakland, formatosi nel 2011, a seguito di una performance nella palude di Dismal.

Incisero quindi un album di debutto cantato in francese ed in inglese uscito nel 2012, contenente la cover di Gainsbourg Requiem Pour Un Con, dai chiari intenti psichedelici. Il gruppo fece poi uscire altri lavori, soprattutto in forma digitale per poi arrivare a questo disco, che è in pratica la seconda uscita. I Malditos vogliono espandere la nostra coscienza attraverso la musica, e ci riescono benissimo. Il suono di questo quartetto è quanto di più vicino alla vera psichedelia ci possa essere ai nostri giorni. Andiamo in territori orientaleggianti, dove i particolari sfumano per una visione di insieme più grande ed in alcuni momenti sembra di essere per davvero in mezzo alle dune, con una voce femminile che ci chiama e un serpente a sonagli che ci viene incontro. Come dice il titolo, questo è un sogno, un viaggio messo in musica in maniera mirabile e molto coerente. I tempi musicali sono dilatati, e il suono cresce, monta come l’hashish scaldato, che cresce e con esse la comprensione. Non sono presenti intenti commerciali o mosse per piacere, è invece una lunga scoperta di noi stessi e di qualcosa che non c’è ma solo perché è in un’altra dimensione e noi abbiamo bisogno di un innesco per raggiungerla. Il valore di questi musicisti è alto, e la loro compenetrazione raggiunge livelli assai buoni. Le composizioni sono cinque, tutte di lunga durata, e la noia non è contemplata, perché si viene a creare un ritmo che diventa un ingresso per altri mondi, poiché questi dolci ed eterei suoni stimolano l’arma più potente che abbiamo: la nostra mente. Un disco che è una vera delizia, e che richiede un minimo di apertura mentale, quella necessaria per poter capire e migliorare noi stessi, che è poi il vero scopo nemmeno tanto occulto della nostra vita.

Tracklist
1.Azadeh
2.Le Passage
3.Disparu
4.Momen
5.Le Reve

Line-up
Skot B
Cyn M
R. Szell
Andy Z

MALDITOS – Facebook

The Julius Peppermint Band – Tides EP

Prendete sotto braccio il surf e cercatevi delle onde da cavalcare perché Tides EP profuma di spiagge assolate, più o meno in uno spazio temporale tra il 1968 e il 1972.

La vita artistica di un musicista non è solo ripetere all’infinito la solita formula, infatti per alcuni diventa vitale cambiare, rigenerarsi e ripresentarsi a chi ascolta sotto altre bandiere musicali.

Ed é così che passare dal metal estremo al rock diventa più facile di quello che si possa pensare: la conferma arriva proprio da questo mini cd di debutto dei The Julius Peppermint Band.
Il gruppo nasce da un’idea di Bertuzz, alias Julius Peppermint, musicista nostrano incontrato più volte nel corso di questi ultimi anni, come chitarrista e cantante nei seminali e quanto mai estremi Anthem Of Sickness e chitarrista degli Underwell, band metalcore di casa Wormholedeath.
Bertuzz torna quindi con un nuovo progetto e con nuova musica, questa volta facendoci fare un viaggio a ritroso nel rock con la sua The Julius Peppermint Band, accompagnato da Tiaz (batteria), Mali (basso) e Clod (chitarra).
Tides EP è composto da cinque brani, registrati e mixati da Bertuzz, con Wahoomi Corvi (guru di casa Wormholedeath) ad occuparsi della masterizzazione nei Realsound Studio.
Prendete sotto braccio il surf e cercatevi delle onde da cavalcare, perché Tides EP profuma di spiagge assolate, più o meno in uno spazio temporale tra il 1968 e il 1972, e la title track è un trip che arriva fulmineo, con quel riff che sa tanto di rock psichedelico e che continua a girare in testa anche quando White Cadillac ci porta a spasso in compagnia di Marc Bolan.
The Mad Cat e With You It’s Alright sono due brani irresistibili che fondono punk rock alla Ramones al garage suonato dai leggendari Miracle Workers, mentre lo strumentale che conclude l’ep (Jellyfish Suite) torna a farci viaggiare sulle ali di un trip dai colori vintage.
Un buon inizio, quindi, per questa nuova avventura del musicista nostrano, lontana dalla musica alla quale ci ha abituato in questi anni, ma altrettanto affascinante.

Tracklist
1.Tides
2.White Cadillac
3.The Mad cat
4.With You It’s Alright
5.Jellifish Suite

Line-up
“JP” Bertuz – Vocals, guitars
Tiaz – Drums
Mali – Bass
Clod – Guitars, backing vocals

THE JULIUS PEPPERMINT BAND – Facebook

Naxatras – III

Non ci sono davvero punti deboli per un viaggio che è molto piacevole e che pone i Naxatras fra i primi gruppi strumentali di questi anni in ambito psichedelico.

Tornano i greci Naxatras per portarci nuovamente lontano con la loro fantastica psichedelia pesante.

III parte da un viaggio attraverso una terra sconosciuta, un antico meccanismo ed una profezia. Con queste premesse arriva la musica del gruppo ellenico, un misto di psichedelia, fuzz e stoner non convenzionale. I Naxatras dipingono paesaggi con la loro musica strumentale, narrando i suoni che ne sono al centro della poetica. La loro musica nasce in assenza di canto, ed è un gran bel sentire che porta molti punti a favore della musica strumentale, per molti un valore aggiunto e non una sottrazione. III è un disco molto ben composto e suonato in maniera eccellente e che va molto oltre i generi, per immergersi in acque sconosciute attingendo molto da fertili jam. Le canzoni viaggiano tra sospensioni, momenti di intensità e tante dilatazioni, la perfetta produzione coglie nel segno i vari passaggi che costellano questa opera, che cattura fin da subito l’attenzione dell’ascoltatore e non tradisce mai le sue aspettative. Questo disco può essere letto come un libro o approcciato come quando ci si ascolta chiudendo gli occhi, essendo un variegato cosmo che abita dentro e fuori di noi. Non ci sono davvero punti deboli per un viaggio che è molto piacevole,  che pone i Naxatras fra i primi gruppi strumentali di questi anni in ambito psichedelico. Ci sono giri di chitarra assolutamente ipnotici, una sezione ritmica che puntella il tutto con fare davvero fine ed adeguato: tutto è al servizio di una particolare idea di suono, che viene portata avanti dall’inizio alla fine senza cedimenti. Un viaggio potente e raffinato, una grande affermazione di classe e bravura senza alcuna paura dell’ignoto.

Tracklist
1.You Won’t Be Left Alone
2.On the Silver Line
3.Land of Infinite Time
4.Machine
5.Prophet
6.White Morning
7.Spring Song

Line-up
John Delias – Guitar
Kostas Harizanis – Drums
John Vagenas – Bass & Vocals

NAXATRAS – Facebook

Premarone – Das Volk Der Freiheit

A due anni dal bello e tenebroso Obscuris Vera Involvens, arriva un disco che lascerà spiazzate anche le menti più aperte, e potrebbe essere facilmente l’uscita dell’anno italiana nel campo della musica pesante e pensante.

Tornano nell’etere le pesanti e psichedeliche note dei Premarone, notevolissimo gruppo psych doom alessandrino.

A due anni dal bello e tenebroso Obscuris Vera Involvens, arriva un disco che lascerà spiazzate anche le menti più aperte, e potrebbe essere facilmente l’uscita dell’anno italiana nel campo della musica pesante e pensante. Das Volk Der Freiheit è la colonna sonora più adeguata alla crepuscolare fine che noi chiamiamo vita, alla nostra folle corsa verso una distopica dittatura dove noi saremo felici di essere tecno zombie. Questa opera è davvero un capolavoro di musica sociale, nel senso che riesce a cantare la nostra italianità attraverso i nostri difetti e le nostre quotidiane tragedie. L’Italia è un paese terribile, tanto bello quanto bastardo e corrotto, molle e sempre con dei soldi in mano insieme al cazzo che non si rizza nemmeno più. I Premarone ci portano in giro per la nostra psiche collettiva, ispirandosi ad un altro bellissimo viaggio lisergico del passato, il debutto della krautrock band German Oak, una comune hippie di cinque membri di Dusseldrorf, che registrò un disco eccezionale sulla Germania in un bunker. I Premarone partono da lì per spaziare tantissimo, usando la formula della jam, e ci regalano molta gioia e molta inquietudine. Das Volk Der Freiheit è un viaggio potentissimo che va affrontato senza paure, bisogna immergersi in questo lungo flusso di coscienza dove si può ritrovare il gusto del krautrock nell’esplorare senza timore, la forza del doom, il cantato in italiano con stile molto Cccp e Disciplinatha, per raccontare ciò che viviamo ogni giorno. La bellezza di questo lavoro è la sua totale e brutale sincerità, riuscendo ad arrivare dove è difficile spiegare, in quell’intrico di merda e sangue che è l’Italia. La produzione è curata assai bene, supporta benissimo la narrazione. Ci sono anche droni e momenti di stasi, anche perché questo disco ha una fisicità molto importante, è come viaggiare su un tappeto magico e ci sono cose sotto e sopra di te. I Premarone sono dei fantastici narratori, non perdono un colpo, dilatano e restringono il campo visivo del nostro terzo occhio a loro piacimento, spiegando in forma quasi subliminale concetti altresì difficilmente esplicabili. Un disco di psichedelia pesante fatto per farci pensare e per portarci lontano, sopra questo mare di dolorosa plastica tricolore.

Tracklist
1.Intro – Mani pulite
2.Parte I – D.V.
3.Interludio – Interferenze
4.Parte II – D.F.

Line-up
Pol – Bass
Ale – Drums
Fra – Guitars, Vocals
Mic – Keyboards

PREMARONE – Facebook

Der Blutharsch And The Infinite Church Of The Leading Hand ‎– What Makes You Pray

Un flusso musicale intriso di una potente fascinazione orientale e di una decisiva componente che riconduce a quella kosmische musik presente inevitabilmente nel dna di ogni musicista mitteleuropeo.

Al nome di Albin Julius è spesso stato associato l’aggettivo controverso, che è una maniera pur sempre legante ma anche un po’ pilatesca di approcciarsi ad un personaggio discutibile in passato dal punto di vista ideologico quanto apprezzabile sul lato artistico.

Da parte mia, non essendo mai stato un grande estimatore della scena martial-neofolk che vide quali vessilliferi i Death In June (del quale peraltro il nostro ha fatto parte), non ho mai neppure dovuto pormi il problema di dover separare l’uomo dal musicista per consentirmi di godere senza condizionamenti del prodotto finale, ovvero il disco.
Il tempo cambia le cose e spesso consente di vederle, a posteriori, sotto un’altra luce, anche da parte di chi ha vissuto certe situazioni in prima persona: da alcuni anni Julius ha preso in qualche modo le distanze da quella fase della sua carriera, sia a parole sia musicalmente, e questo rende tutto molto più semplice consentendo a qualsiasi ascoltatore di addentrarsi senza veti o distinzioni di sorta nell’operato del musicista austriaco.
La stessa scelta di aggiungere And The Infinite Church Of The Leading Hand allo storico monicker Der Blutharsch è un chiaro elemento di discontinuità, ed ecco, quindi, che ‎non può sorprendere il nuovo corso psichedelico che vede in What Makes You Pray l’ultimo prelibato frutto.
Shine è il magnifico e lunghissimo mantra che apre l’album, fornendo senza indugi un’idea di quelle che ne saranno le principali coordinate: un flusso musicale intriso di una potente fascinazione orientale e di una decisiva componente che riconduce a quella kosmische musik presente inevitabilmente nel dna di ogni musicista mitteleuropeo.
La psichedelia qui non è intesa solo come una costante forma di alterazione degli stati di coscienza provocata da estenuanti improvvisazioni: ogni brano è infatti dotato di una propria struttura melodica che lo rende identificabile e capace di fissarsi nella memoria, come avviene con la stupefacente El Ocaso, traccia inizialmente in odore morriconiano che si stempera in un magnifico lavoro chitarristico nella sua parte conclusiva.
A questo punto sono passati circa venticinque minuti che rasentano la perfezione, con in mezzo altri due brani convincenti come Wolf On Your Threshold e You Bring Low; successivamente, il disco perde leggermente in omogeneità con l’incrementarsi della vena sperimentale, senza che il tutto comunque vada ad inficiare in maniera decisiva la qualità dell’insieme, con Land Of Free che resta l’episodio meno scintillante della tracklist.
La minacciosa title track e la toccante Right preludono al delirio ambient rumoristico di Time, degna chiusura di un lavoro dai due volti ma ugualmente efficace nel suo insieme: si capisce che Albin Julius, oggi più che mai, è un musicista che, abbattuta ogni sorta di barriera ideologica e stilistica, lascia sfogare il suo talento senza perseguire altro obiettivo se non quello di proporre ciò che di volta in volta è nelle sue corde e, mi si creda, non è affatto poco.

Tracklist:
01 Shine
02 Wolf On Your Threshold
03 You Bring Low
04 El Ocaso
05 Land Of Free
06 Interludio
07 What Makes You Pray
08 Right
09 Time

DER BLUTHARSCH AND THE INFINITE CHURCH OF THE LEADING HAND – Facebook

Deadly Vipers – Fueltronaut

Ad un primo distratto ascolto il disco potrebbe sembrare banale, mentre sale di tono con il passare del tempo, potendo cogliere in modo più attento le notevoli linee melodiche.

I francesi Deadly Vipers sfornano un buon disco di stoner fuzz psych dalle forti radici e capace di coinvolgere; la materia trattata non è inedita o particolarmente originale, ma il gruppo di Perpignan svolge un ottimo lavoro e ci porta nella psichedelia più pesante.

Ogni pezzo è composto per portare l’ascoltatore in un posto lontano e ha un forte sapore desert. Accelerazioni, dilatazioni, momenti di estasi sonora, oppure ritornelli che ti si conficcano in testa, confermando quanto di buono ci sia in Francia al momento per quanto riguarda la musica pesante. Più che l’arrivo qui l’importante è il viaggio, assaporare sensazioni del tuo cervello che muta peso e sostanza. La produzione è molto buona, permette di gustare il gruppo al massimo e risente in maniera assai positiva della masterizzazione in Texas da parte di Kent Stump dei Wo Fat. Infatti siamo in quei luoghi in cui il deserto diventa allucinazione e le percezioni diventano altro da sé. Ad un primo distratto ascolto il disco potrebbe sembrare banale, mentre sale di tono con il passare del tempo e degli ascolti, potendo cogliere in modo più attento le notevoli linee melodiche. I Deadly Vipers sono un gruppo notevole e fanno una psichedelia  fuzz che merita molta attenzione, piacevole e molto ben suonata.

Tracklist
1.Fuel Prophecy
2.Universe
3.Doppelganger Sun
4.The Prey Goes On
5.Stalker
6.Meteor Valley
7.Supernova
8.Dead Summer
9.River of Souls

Line-up
Fred: Vocals
David: High Fuzz
Thomas: Low Fuzz
Vincent: Drums

DEADLY VIPERS – Facebook

Black Space Riders – Amoretum Vol.1

Tornano i rockers psichedelici Black Space Riders con il quinto album della loro carriera, la prima parte di un concept che vede la seconda già pronta ed in uscita entro l’anno.

Tornano i rockers psichedelici Black Space Riders con il quinto album della loro carriera, prima parte di un concept che vede la seconda già pronta ed in uscita entro l’anno.

Amorentum Vol.1 tratta il tema dell’amore come cura per l’odio che imperversa nel mondo, ed esso è descritto tramite una musica rock che amalgama psichedelia vintage, rock moderno e trame heavy sotto la bandiera della New Wave of Heavy Psychedelic Spacerock, termine forgiato dal gruppo tedesco.
In definitiva questa prima parte ed i suoi capitoli continuano la tradizione musicale del gruppo che abbandona le digressioni elettroniche sperimentate sull’ultimo lavoro (l’Ep Beyond Refugeeum che seguiva di un anno il full lenght Refugeeum uscito nel 2015), per un approccio più vintage e rock.
Atmosferico e dalle forti sfumature space rock, l’album ha momenti molto intensi come in Movements, capolavoro e cuore dell’album, alternati a brani più lineari e meno forti sia come interpretazione che come sviluppo (Another Sort Of Homecoming, Friends Are Falling) piccole cadute che non inficiano il giudizio positivo sull’intero album.
Meno heavy di quello che ci si possa aspettare e molto più incentrato su chiaroscuri tra il post rock sviluppatosi negli ultimi anni ed i suoni old school, Amoretum Vol.1 si può considerare un lavoro riuscito in parte e che ci presenta un gruppo dedito a trasformare i suoni psych rock di Beatles, Pink Floyd e David Bowie, in un sound al passo coi tempi, attraversato da spunti moderni che traspongono il tutto in un epoca in cui la battaglia tra odio ed estremismi assortiti da una parte ed amore e accoglienza dall’altra,  fanno parte del vivere quotidiano di ognuno di noi.

Tracklist
1. Lovely lovelie
2. Another sort of homecoming
3. Soul shelter (Inside of me)
4. Movements
5. Come and follow
6. Friends are falling
7. Fire! Fire! (death of a giant)
8. Fellow peacemakers

Line-up
JE – Vocals, Guitars
SLI – Guitars
SAQ – Bass
CRIP – Drums
SEB – Vocals

BLACK SPACE RIDERS – Facebook

Thal – Reach For The Dragon’s Eye

I Thal sono un gruppo che attira con immediatezza, provocando sensazioni molto forti e che non ti aspetteresti da un suono così minimale ma potente.

Un interessante composto sonoro minimale che ha come attori la chitarra e la batteria e che, attraverso una particolare alchimia, ci porta lontano.

Al primo ascolto questo debutto dei Thal potrebbe sembrare particolarmente scarno e privo di alcuni elementi sonori. Invece, quando si compenetra maggiormente la musica del gruppo, si può capirne la grande forza. Il genere percorso è un qualcosa fra Clutch, Hollow Leg per rimanere in casa Argonauta, e lo stoner doom più minimale. Grazie ai loro intrecci sonori il duo composto da John “ Vince Green “ Walker alla chitarra ed altro e alla batteria da Kevin Hartnell riesce a far nascere una psichedelia pesante altra, piena dell’essenza lisergica capace di portare in alto l’ascoltatore. Le stimmate del suono dei Thal fanno facilmente intuire la grande capacità compositiva nel comporre musica pesante, non soffermandosi su un solo elemento ma investendo molto sull’ampliare le reazioni al loro suono. I Thal sono nati come progetto solista di John Walker, che registrando l’album dei wytCHord, Death Will Flee, si è accorto del particolare modo di suonare la batteria di Kevin Hartnell, ed ascoltandolo in questo album si può facilmente capire. Oltre a questo Hartnell c’è un qualcosa di primitivo in questo disco, un suono che diventa pienamente groove e sale verso il cielo come fosse un rituale in musica. I Thal sono un gruppo che attira con immediatezza, provocando sensazioni molto forti e che non ti aspetteresti da un suono così minimale ma potente. Ci sono moltissimi elementi condensati in queste onde sonore che parlano della durezza e delle difficoltà della vita, il tutto attraverso un filtro di forte esoterismo, che è la chiave per molte cose.

Tracklist
1. Rebreather
2. Under Earth
3. Her Gods Demand War
4. Thoughtform
5. Soulshank
6. Death of the Sun
7. Punish
8. Reach for the Dragon’s Eye

Line-up
John “Vince Green” Walker – Vocals, Guitars and Bass
Kevin Hartnell – Drums, Guitars and Synth

THAL – Facebook

Greyfell – Horsepower

Qui si degustano i fiori del male, come diceva un connazionale dei Greyfell, e il tutto è pervaso da un dolce incantesimo malvagio, che vive di groove pesante e voli nelle varie sfere grazie alle tastiere e synth.

Un’avanguardia, per sua definizione, è un qualcosa che va avanti, marca il sentiero per chi da dietro la vuol seguire, fa nascere cose che ancora non c’erano.

I francesi Greyfell fanno questo e tanto altro, con un suono composto da elementi conosciuti ed usati ma totalmente rielaborati in una sintesi davvero molto efficace. Prendete per quanto riguarda le chitarre un suono ribassato ma non lentissimo, uno sludge doom tanto per intenderci, aggiungete un cantato molto alla Pentagram a volte basso a volte possente, un basso sgusciante, una batteria psichedelica e tastiere che permeano l’atmosfera che vi circonda, e sarete forse arrivati ad un decimo del suono di questi francesi. Il loro particolare impasto sonoro è una psichedelia profondamente altra, dove tutto non è ciò che sembra, e lo scenario muta in continuazione. Certamente vi sono elementi riconoscibili e tutto l’impianto non è totalmente inedito, ma è il tocco dei Greyfell che lo rende una cavalcata davvero senza freni in mezzo agli dei serpenti generati dal grembo di funghi allucinogeni. Non è tanto la potenza, che è tanta, ma è la saturazione mentale che generano nell’ascoltatore, i Greyfell ti catturano la mente e ti fanno volare lontano, ti scagliano per spiegarla meglio. Il disco che esce per Argonauta Records è totalmente fato in autonomia, e il suono è costruito molto bene, in maniera molto chiara e sequenziale come fosse un film. Qui si degustano i fiori del male, come diceva un connazionale dei Greyfell, e il tutto è pervaso da un dolce incantesimo malvagio, che vive di groove pesante e voli nelle varie sfere grazie alle tastiere e ai synth, aggiunti in questo disco, una scelta che ha pagato moltissimo. Molto intenso, molto etereo, una prova di vera avanguardia.

Tracklist
1. The People’s Temple
2. Horses
3. No Love
4. Spirit of the Bear
5. King of Xenophobia

Line-up
Boubakar – Bass
Thierry – Drums
Clément – Guitars
Hugo – Vocals

GREYFELL – Facebook