Overkill – The Grinding Wheel

Gli Overkill aggiungono il loro marchio a questo gradito ed inatteso ritorno del thrash metal al posto che gli compete nelle gerarchie dei generi metallici, con un lavoro completo, curato ed esaltante.

Mancavano gli Overkill per confermare il ritorno in pompa magna ed in piena salute del thrash metal sul mercato metallico mondiale, ormai un dato di fatto in questo anno solare che ha visto, oltre a molte piacevoli sorprese sbucate dalle varie scene in giro per il mondo, l’altissima qualità delle proposte dateci in pasto dai gruppi storici, dai Testament ai Sodom, dai Death Angel ai Kreator , passando per le opere almeno dignitose di Metallica e Megadeth.

Uno dei generi storici del metal in piena ripresa non può che far piacere a chi ha nel cuore le sorti della parte più classica della nostra musica preferita, che non può sicuramente prescindere dal gruppo statunitense capitanato dalla coppia Bobby “Blitz” Ellsworth / D.D.Verni.
Una line up stabile da almeno dieci anni, sommata alla forma strepitosa dei due vecchietti terribili, contribuisce alla riuscita di The Grinding Wheel, diciottesimo e bellissimo lavoro che conferma come detto non solo lo stato di grazia del gruppo, ma di tutto un movimento.
Con un’attitudine punk che in questo lavoro esplode in tutto il suo impatto, a tratti lasciando senza fiato, l’album è fresco, assolutamente privo di riempitivi, una valanga di note, uno tsunami thrash metal che si abbatte per finire l’opera di distruzione che gli altri colleghi avevano iniziato con i propri lavori, arrivando in questo inizio 2017 a raggiungere livelli che nel genere non si ricordavano da tempo.
In effetti la band newyorkese nella sua lunga carriera ha sempre mantenuto un buon livello, con picchi clamorosi e un paio di cadute fisiologiche per un gruppo arrivato alla soglia dei quarant’anni di attività, anche se negli ultimi tempi il livello delle uscite si era stabilizzato su ottimi livelli.
L’album vive di brani irresistibili, botte di adrenalina che prendono per il collo, o come morse schiacciano testicoli, con Ellsworth in grazia divina ed una coppia di chitarristi sugli scudi (Dave Linsk e Derek “The Skull”Tailer).
The Grinding Wheel è una raccolta di canzoni che prende le melodie dal classic metal, l’irruenza dal punk e la potenza dello speed/power e crea un thrash album da antologia, prodotto benissimo, mixato alla grande dal guru Andy Sneap e valorizzato da un songwriting molto vario, che non stanca mai l’ascoltatore passando tra le sfumature dei vari generi indicati con una facilità disarmante.
Our Finest Hour, le fiammate che odorano di punk’& roll di Goddamn Trouble e Let’s All Go To Hades, le ottime The Long Road, Come Heavy e Red White And Blue, ma potrei citarvele tutte mentre l’album arriva alla fine e la sensazione di essere al cospetto di un grande album aumenta col passare degli ascolti.
Gli Overkill aggiungono il loro marchio a questo gradito ed inatteso ritorno del thrash metal al posto che gli compete nelle gerarchie dei generi metallici con un lavoro completo, curato ed esaltante, in una parola … imperdibile.

TRACKLIST
1.Mean, Green, Killing Machine
2.Goddamn Trouble
3.Our Finest Hour
4.Shine On
5.The Long Road
6.Let’s All Go to Hades
7.Come Heavy
8.Red White and Blue
9.The Wheel
10.The Grinding Wheel

LINE-UP
Bobby “Blitz” Ellsworth – Vocals
Dave Linsk – Guitars
Derek”The Skull”tailer – Guitars
D.D.Verni – Bass
Ron Lipnicki – Drums

OVERKILL – Facebook

Until Death Overtakes Me – Antemortem

Le atmosfere che troviamo in Antemortem sono plumbee ma non soffocanti e anche i momenti più vicini all’ambient mantengono un incedere più dolente che apocalittico, confacendosi al tema di fondo trattato nel lavoro.

Until Death Overtakes Me è uno dei diversi progetti che vede protagonista il musicista belga Stijn Van Cauter, e tra questi e senz’altro il più aderente alle coordinate tipiche del funeral doom.

Le atmosfere che troviamo in Antemortem sono plumbee ma non soffocanti e anche i momenti più vicini all’ambient mantengono un incedere più dolente che apocalittico, confacendosi al tema di fondo trattato nel lavoro, che mette sempre in primo piano la morte ma, questa volta, non tanto come una mostruosità incombente bensì quale naturale approdo di un percorso che conduce ad una sorta di accettazione della sua ineluttabilità.
Van Cauter, per descrivere questo, utilizza due tracce risalenti allo scorso decennio (Antemortem e Days Without Hope) e due di produzione di poco precedente all’uscita dell’album: Antemortem non risente del possibile stacco stilistico derivante dal logico evolversi del musicista belga a livello compositivo ma anzi, lo rende un punto di forza che consente all’ascoltatore di entrare maggiormente in simbiosi con l’autore ed il suo approccio alla materia.
I ventiquattro minuti di Before e gli undici di di Days Without Hope sono fondamentalmente complentari, con il loro penoso incedere, laddove sonorità avvolgenti vengono percosse dai regolari e violenti spasmi provocati dall’unisono e bradicardico palesarsi di riff e percussioni.
The Wait, altra traccia che supera i venti minuti, rappresenta con il suo crescendo il picco dello stato emotivo, evocando la tensione spasmodica che precede una consapevole rassegnazione, ben rappresentata dalla conclusiva Inevitability, nella quale le strutture tratteggiano atmosfere solennemente consolatorie.
Arrivato a sette anni di distanza dal precedente full length, sesto ed ultimo di una prima fase di carriera molto prolifica per il progetto Until Death Overtakes Me, e inframmezzato da una serie di singoli (poi raccolti nella compilation Well Of Dreams, risalente alla primavera scorsa), Antemortem è il lavoro che suggella il valore assoluto della creatura di Stijn Van Cauter, solitario cantore di quelle sensazioni che solo chi suona funeral doom ha il coraggio di affrontare ed esibire senza alcuna ritrosia.

Tracklist:
1.Before
2.Days Without Hope
3.The Wait
4.Inevitability

Line-up:
Stijn Van Cauter

UNTIL DEATH OVERTAKES ME – Facebook

Animae Silentes – Suffocated

Arriva il disco d’esordio per gli Animae Silentes, band che nasce da cinque musicisti non proprio sconosciuti, ma che ci faranno scoprire la loro idea di dark-goth metal. Un album completo e ben fatto.

Gli Animae Silentes sono una band di recente formazione ma i cui componenti hanno già alle spalle una notevole gavetta.

Per farla breve e conoscerli meglio: il cantante Alessandro Ramon Sonato, già parte dei Chrome Steel (Judas Priest Tribute) e Bad Sisters, oltre a essere ex Hollow Haze e Crying Steel, e il bassista Tomas Valentini, che molti conosceranno come membro degli Skanners, danno il “la” a questo nuovo progetto, avendo ben chiare le idee in merito a stile e genere nel giugno del 2015.
Come se non bastassero le menti geniali, ecco arrivare il chitarrista Giovanni Scardoni (Chrome Steel, ex Ground Control) e Riccardo Menini (Dirty Fingers); infine, il batterista Cristian Bonamini (Alcstones, Romero).
Tutta questa esperienza accumulata e il talento naturale vengono condensati nel loro disco d’esordio Suffocated, un lavoro pulito e intenso, ma anche a tratti cupo e dark.
Il tutto inizia con la classica breve Intro che include un temporale, con tanto di corvi e una bella chitarra a farla da padrona; Burning in Silence è il vero punto di partenza, uno dei pezzi più melodici e piacevoli, seguono Purgatorium ed Eville, le quali insieme a Madman Town, mostrano la parte un po’ più rock degli Animae Silentes.
L’aspetto più dark lo incontriamo in Nothing Else to Remind (molto intensa) e Illusion, al limite del gothic di qualche tempo fa, che mi hanno ricordato gli Amorphis dell’album Tuonela; Save, Desperation Road e Lost in My Soul riprendono note più orecchiabili, ma senza mai cadere nella banalità; per concludere, troviamo Suffocated che, paradossalmente, è quella che mi è piaciuta un po’ meno.
Uno dei punti di forza degli Animae Silentes è la bravura di Rock Ramon al microfono, il quale riesce ad interpretare con scioltezza qualsiasi stile senza perdersi e senza risultare eccessivo, cosa che può tranquillamente accadere se spingi troppo con lo screaming o il growling, e naturalmente anche gli altri non sono da meno.
Insomma, Suffocated è un disco da avere perché suonato da chi la musica la sa fare e ci mette davvero il cuore.
Potrebbe non piacere a tutti il genere in questione, ma è indubbio il fatto che si tratti di un esordio con i fiocchi.

TRACKLIST
1 Intro
2 Burning In Silence
3 Purgatorium
4 Eville
5 Nothing Else To Remind
6 Illusion
7 Save Me
8 Desperation Road
9 Madman Town
10 Lost In My Soul
11 Suffocated

LINE-UP
Rock Ramon – voice
Tomas Valentini – Bass guitar
Riccardo Menini – Guitar
Giovanni Scardoni – Guitar
Cristian Bonamini – Drum

ANIMAE SILENTES – Facebook

Electric Age – Sleep Of The Silent King

Dalla Lousiana arriva un disco di musica che solo nel sud degli States fanno in una certa maniera, tra paludi e polvere di tombe di antiche famiglie maledette.

Dalla Lousiana arriva un disco di musica che sono nel sud degli States fanno in una certa maniera, tra paludi e polvere di tombe di antiche famiglie maledette.

Gli Electric Age provengono dalla Louisiana, si sono formati nel 2013 e tutti hanno un passato in gruppi locali. Il loro suono è un doom metal fortemente contaminato dal southern, ovvero una forte impronta di quel tipo di composizione pesante ma allo stesso tempo ariosa che viene da lontano. Fin dalla seconda canzone Shepherd And Raven si può degustare questo suono fatto di solidità e melodia, con la voce che detta i tempi, chitarre non troppo distorte e che compiono sinuosità comprensibili e notevoli senza eccedere, e una sezione ritmica che non passa mai in primo piano, ma che è un fondamentale collante. Nelle canzoni degli Electric Age possiamo ritrovare un antico retrogusto doom, che si spinge quasi nel proto doom, un qualcosa di molto vicino al southern. Gli anni ottanta soprattutto, ed in minor misura gli anni settanta, trasudano da questo disco ma non è un suono derivativo, perché è una rielaborazione originale. I tempi sono dilatati ma non troppo, e tutto trova spazio, perfino tastiere suonate in maniera intelligente. Il risultato complessivo è davvero buono, le canzoni sono composte molto bene e il disco fila via fluido. Nell’avanzare del disco si può leggere una storia, quella di un viaggio nel tempo e nella conoscenza, fra tenebre e divinità, con sullo sfondo morte e redenzione. Tutte queste cose non sono novità ma non è facile raccontarle in una certa maniera, e soprattutto la musica è davvero di alto livello, con un gusto davvero unico.

TRACKLIST
1.The Threshold
2.Shepherd And The Raven
3.Robes Of Grey
4.Cold Witch
5.Priestess Pt.1
6.Black Galleons
7.Sleep Of Winter
8.Silent King
9.Elders
10.Priestess Pt. 2
11.Electric Age
12.The Dreaming

LINE-UP
Shawn Tucker – Lead Vocals,Guitar,Bass
J. Ogle – Guitar,Bass,Vocals
Kelly Davis – Drums,Vocals

ELECTRIC AGE – Facebook

Double Experience – Unsaved Progress

Un album che cresce con gli ascolti e ci presenta una band potenzialmente da botto commerciale, tanto è il talento melodico unito alla durezza del metal/rock

Dopo alcuni passaggi in più mi sono convinto che questi tre canadesi non sono affatto male.

Trattasi della rock band dei Double Experience formata dal cantante Ian Nichols, il bassista e chitarrista Brock Tinsley e alle pelli Dafydd Cartwright, un trio niente male che ha dato i natali a questo lavoro, intitolato Unsaved Progress, illuminato da un appeal da primi posti nella classifiche di tutto il mondo, unito alla potenza del groove ed una passione per il metal rock che ne fa un piccolo spettacolo pirotecnico di suoni rock che non mancano di stupire.
Dicevo che mi ci sono voluti alcuni passaggi in più per inquadrare la proposta del trio di Ottawa, proprio perché ad un primo ascolto non si capisce se questi ci sono o ci fanno.
Melodie alternative, un cantato ruffiano che rimane tale anche nei brani più tirati, e tanto hard & heavy che arriva piano ma che, quando esplode, diventa il genere preponderante nel sound dei Double Experience, sempre sostenuto da ritmiche da groove metal band, solos metallici o all’occorrenza solcati da un’attitudine modern hard rock e la voce del singer che, nel suo essere apparentemente dai toni commerciali, smuove montagne ricco com’è di talento melodico.
Una raccolta di hit che vi farà balzare dalla sedia sempre più in alto ad ogni passaggio, anche grazie alla performance chitarristica del buon Tinsley, una macchina da guerra melodica negli assoli e una potenza nei riff di scuola hard rock.
Un album che cresce con gli ascolti e ci presenta una band potenzialmente da botto commerciale, tanto è il talento melodico unito alla durezza del metal/rock: fatevi rapire dal sound dei Double Experience che ipnotizza e colpisce quando meno ve lo aspettate come un serpente di not; la miccia si accende, ci mette quel tanto che basta e quando esplode non c’è scampo.

TRACKLIST
1.So Fine
2.AAA
3.The Glimmer Shot
4.See You Soon
5.Impasse
6.Exposure Exposure
7.Death of Lucidity
8.Godzilla” (Blue Oyster Cult cover)
9.Weakened Warriors

LINE-UP
Ian Nichols – vocals, lyrics
Brock Tinsley – guitars, bass, lyrics
Dafydd Cartwright – drums

DOUBLE EXPERIENCE – Facebook

BATTLE BEAST

Il video di Bringer Of Pain, tratto dall’album omonimo.

Il video di Bringer Of Pain, tratto dall’album omonimo.

I finlandesi BATTLE BEAST hanno pubblicato il loro quarto album in studio “Bringer Of Pain” lo scorso venerdì su Nuclear Blast sia in CD e LP che in digitale.
Oggi la band svela il nuovo video realizzato da Dark Noise Productions (www.darknoiseproductions.com)

Bringer Of Pain – Tracklisting:

01. Straight To The Heart
02. Bringer Of Pain
03. King For A Day
04. Beyond The Burning Skies
05. Familiar Hell
06. Lost In Wars (feat. Tomi Joutsen)
07. Bastard Son Of Odin
08. We Will Fight
09. Dancing With The Beast
10. Far From Heaven

Bonus (DIGI / 2LP)
11. God Of War
12. The Eclipse
13. Rock Trash

Registrate e prodotte ai JKB Studios dal tastierista Janne Björkroth, le dieci canzoni del disco sono state mixate da lui in collaborazione con Viktor Gullichsen e Mikko Karmila, mentre della masterizzazione si è occupato Mika Jussila ai Finnvox Studios. La copertina è stata creata da Jan Yrlund. “Bringer Of Pain” è il primo lavoro che i BATTLE BEAST registrano con il chitarrista Joona Björkroth.

Dal 2 marzo la band finlandese sarà in tour in Europa con MAJESTY e GYZE: appuntamento l’8 marzo al Circolo Colony di Brescia.

Trauer – A Walk Into The Twilight

A Walk Into The Twilight è colmo di passaggi dal grande potenziale evocativo e di splendide melodie che più di una volta, purtroppo, devono essere intuite piuttosto che ascoltate con la dovuta nitidezza.

Certo che sta cominciando a capitare troppo spesso e, benché di norma non lo ritenga un problema prioritario o insormontabile, qualche domanda bisogna pure cominciare a porsela, considerando che il calendario è puntato sul 2017 e la tecnologia progredisce ogni giorno.

Sto parlando di album di black metal, provenienti da un po’ tutte le parti del mondo, che paiono essere stati registrati con l’ausilio di una macchina del tempo, riportando i musicisti nella prima metà degli anni novanta, quando la foga e l’urgenza espressiva erano prioritarie rispetto alla pulizia e alla resa sonora.
Questo secondo full length dei teschi Trauer, per esempio, sarebbe potenzialmente un bellissimo lavoro a livello di scrittura, perché con le sue sonorità che, partendo da una base black sconfinano sovente nel depressive e nel doom, andrebbe a collocarsi in un punto d’incontro ideale per i miei gusti musicali, peccato però che la produzione e qualche sbavatura tecnica finiscano per inficiarne parzialmente il risultato finale.
Già, perché A Walk Into The Twilight è colmo di passaggi dal grande potenziale evocativo e di splendide melodie che più di una volta, purtroppo, devono essere intuite piuttosto che ascoltate con la dovuta nitidezza.
Detto questo, preferisco mille volte di più ascoltare un lavoro con tali caratteristiche piuttosto che un cristallino sbrodolamento di tecnica esecutiva fine a sé stessa, però innegabilmente, in questa maniera, si rischia di depauperare un patrimonio musicale non trascurabile.
Basti, quale dimostrazione, un brano come When Our Hertbeats Counting Down, inaugurato da arpeggi acustici (in questo caso fortunatamente puliti) che lasciano spazio ad un accenno quasi funeral, per poi lanciarsi in una cavalcata dolente chiusa da una bellissima melodia chitarristica: uno come il sottoscritto, che considera Andacht dei Lunar Aurora (non certo un prodotto da esibire quale esempio di limpidezza sonora) quale miglior album black metal mai uscito dal suolo tedesco, riesce abbastanza facilmente ad andare oltre l’aspetto formale, prediligendo l’impatto emotivo di una proposta come questa, dalla buona profondità anche a livello lirico, mentre lo stesso non accadrà a chi è abituato a fare le pulci ad ogni singola nota, il quale verrà inevitabilmente spinto a mettere in secondo piano gli effettivi contenuti musicali.
Non ci vogliono produttori di grido per valorizzare un genere che fa anche della genuinità uno dei propri dirompenti punti di forza, ma una band dal notevole potenziale, come lo sono i Trauer, avrebbe dovuto trovare almeno una via di mezzo che avesse consentito di godere di A Walk Into The Twilight senza dover recriminare su ciò che poteva essere e, purtroppo, non è stato.

Tracklist:
1. The Invocation of the Parasites
2. A Servant to the Desert
3. Walking in the Twilight
4. Procession in the Fog
5. Her String Dance
6. Under Grey Vaults
7. When Our Heartbeats Counting Down
8. Ending at the Ground

Line-up:
Neideck – All instruments, Vocals
Dominion – Drums
H.S. – Guitars

Famishgod – Roots Of Darkness

Quello dei Famishgod, alla luce di questa prova, si conferma un marchio in grado di garantire una buona qualità nonché l’assoluta fedeltà ai dettami delle sonorità estreme più oscure.

Gli spagnoli Famishgod tornano con un secondo full length, dopo il buon esordio del 2014 intitolato Devourers Of Light: Roots Of Darkness ricalca le orme del suo predecessore anche se qui non mancano accelerazioni e passaggi relativamente più aperti che vanno ad incrinare il muro claustrofobico eretto dall’ottimo Pako Daimler, responsabile di tutti i suoni dell’album ad eccezione della voce, come sempre costituita dal terrificante rantolo affidato al ben noto Dave Rotten (Avulsed, nonché titolare della Xtreem Music).

Le coordinate restano, quindi, quelle del death doom più putrescente ed estremo nel suo incedere, con poche concessioni a passaggi chitarristici che non siano volti ad incupire ancor più le atmosfere con i propri toni ultraribassati ma, come detto, qualche concessione a livello ritmico e melodico rende Roots Of Darkness se non superiore, senz’altro meno ostico all’ascolto rispetto a Devourers Of Light, restando comunque un prodotto appannaggio degli amanti di sonorità catacombali sulla falsariga di band quali Disembowlment o Encoffination.
E’ inutile in questi casi mettersi alla puntigliosa ricerca di elementi innovativi o spunti geniali, quel che conta, qui, è la credibilità dell’approccio al genere, che deve innanzitutto rifuggire ogni manierismo per risultare coinvolgente: i Famishgod ci riescono proprio perché, a dispetto di una certa linearità, le atmosfere soffocanti e plumbee non danno quasi mai tregua, lasciando di tanto in tanto fugaci spiragli. come avviene nel finale dell’ottima traccia di chiusura Mournful Sounds of Death, quando la chitarra di Daimler assume per una volta toni più melodici e dolenti.
Nonostante una produzione discografica ancora limitata, quello dei Famishgod, alla luce di questa prova, si conferma un marchio in grado di garantire una buona qualità nonché l’assoluta fedeltà ai dettami delle sonorità estreme più oscure.

Tracklist:
1. Abyss of the Underworld
2. Bad Omen
3. Molested, Defiled, Disrupted
4. Chamber of Chaos
5. Eternal Embrace
6. Lost Language of the Dead
7. Mournful Sounds of Death

Line-up:
Dave Rotten – Vocals
Pako Deimler – All instruments

FAMISHGOD – Facebook

Arduini/Balich – Dawn Of Ages

Dawn Of Ages, primo lavoro della coppia, è un album sarebbe un peccato trascurare, soprattutto se siete amanti del doom classico e dei suoni progressivi.

Alcuni anni fa (intorno al 2013) lo storico chitarrista Victor Arduini, uno dei fondatori dei prog metallers Fates Warning, chiuse la sua collaborazione con i Freedoms Reign.

L’incontro con il vocalist degli Argus Brian Balich è l’inizio di una collaborazione che porta all’uscita di questo lavoro, licenziato dalla Cruz Del Sur Music ed intitolato Dawn Of Ages.
Al duo si unisce il batterista Chris Judge, ed i tre musicisti si avventurano tra le trame di un doom dai tratti progressivi, ma solido ed aggressivo il giusto per essere considerato un album di musica del destino a tutti gli effetti:
doom classico di derivazione settantiana, unito a quello dei gruppi americani della generazione che ha visto le opere di Saint Vitus e Trouble, ma che non manca di lasciare al chitarrista sfoghi progressivi sulla sei corde che macina riff sabbathiani come una macchina da guerra.
Balich canta con voce rude e passionale mentre i mid tempo, cosi come l’incedere lento accompagna l’immenso lavoro di Arduini alla sei corde.
Chris Judge, arruolato da Arduini con cui ha diviso l’ esperienza con i Freedoms Reign, accompagna il duo con ordine e senza sbavature, mentre l’atmosfera epica dei brani cresce così come la qualità, passaggio dopo passaggio.
Un disco concepito come le opere settantiane, con brani che per la loro lunghezza si trasformano in suite e che hanno nel capolavoro Beyond The Barricade il perfetto sunto del sound creato dal trio, con i suoi diciassette minuti di doom/progressivo intenso e valorizzato da un songwriting di un’altra categoria.
Quasi ottanta minuti di musica con la M maiuscola, sei brani a cui si aggiungono le cover di Sunrise (Uriah Heep), Wolf Of Velvet Fortune (Beau Brummels) e After All (The Dead) dei Black Sabbath.
Un album bellissimo che sarebbe un peccato trascurare, soprattutto se siete amanti del doom classico e dei suoni progressivi, dunque da avere e consumare.

Autore
Alberto Centenari

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doommetal

TAG – 2
doommetal

TAG – 3
progressive

Iyezine ?
No

ETICHETTA

TRACKLIST

1. The Fallen
2. Forever Fade
3. Into Exile
4. The Wraith
5. Beyond The Barricade
6. The Gates Of Acheron
7. Sunrise (Uriah Heep – Cover)
8. Wolf Of Velvet Fortune (Beau Brummels – Cover)
9. After All (The Dead) (Black Sabbath – Cover)

LINE-UP

Victor Arduini – guitars / bass
Brian Balich – vocals
Chris Judge – drums

VOTO
8.30

URL Facebook
http://www.facebook.com/arduinibalich

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Void Cruiser – Wayfarer

Lenta possenza, giri acidi, grunge e space desert stoner fanno di questo disco un qualcosa di davvero interessante, dove chi ama la musica pesante troverà la sua raison d’etre.

A chi piace la musica pesante viene difficile spiegarne il perché.

Certamente la musica spiega la propria essenza molto meglio di qualsivoglia discorso, perché solo certe vibrazioni che vogliamo cogliere ci entrano dentro. Di vibrazioni e riverberi questo disco ne è pieno, come di riff e lentissimi ma possenti giri di basso e batteria. In Wayfarer giace l’essenza della musica pesante, che è una materia vastissima, perché al suo interno possono convivere molti elementi e definizioni. In questo caso siamo davanti ad un grandissimo disco di stoner desert estremo con puntate nello space più visionario e psichedelico, degli Hawkwind più lisergici ed interessanti. Il gruppo finlandese fa decollate nello spazio profondo un desert rock molto dilatato, distorto e magnifico. Si parte dal deserto per arrivare a quello che è illustrato sulla bella copertina, ovvero una desolata catena montuosa, che potrebbe sia essere sul nostro pianeta che su qualsiasi altro nell’universo. Ascoltando i Void Cruiser essi tengono fede al loro nome, facendoci viaggiare davvero tanto e lungamente. La voce sussurra quasi nelle nostre orecchie ed ha una forte impronta grunge, perché l’incedere tipico di quel genere è molto radicato in queste composizioni, perché gli Alice In Chains in particolare fanno capolino in desertiche cime lunari, in tute dove viene rilasciato il soma per far sopravvivere i nuovi coloni. I Void Cruiser sono insieme dal 2011, legati prima di tutto da forti vincoli di amicizia cementati dall’amore comune per certe musiche. Nel 2015 hanno esordito positivamente con Overstaying My Welcome, ma Wayfarer è il disco più riuscito fa i due.
Lenta possenza, giri acidi, grunge e space desert stoner fanno di questo disco un qualcosa di davvero interessante, dove chi ama la musica pesante troverà la sua raison d’etre.

TRACKLIST
1. A day on which no man was born
2. I didn’t lie but I know now that I should have
3. As we speak
4. Madonnas and whores
5. Seven years late
6. All over nowhere
7.Maailman kallein kaupunki

LINE-UP
T-Hug – Low Frequency Engine.
V-Salo – Soundscape System.
T-Bag – Battering Apparatus.
S-Salo – Fuzz Machinery & Communications.

VOID CRUISER – Facebook

Mechina – As Embers Turn To Dust

La title track posta in chiusura è un outro atmosferica atta a descrive il nulla che segue alla distruzione totale, mentre il dito si avvicina al tasto play per ripetere questa straordinaria sequela di emozioni che ancora una volta i Mechina ci hanno saputo donare

Puntuale con l’inizio del nuovo anno, Joe Tiberi ci porta con sé sull’astronave Mechina, e ci consegna un altro capolavoro di metallo industriale, fantascientifico ed orchestrale.

Ormai non è più una sorpresa, siamo arrivati al settimo album con As Embers Turn To Dust che segue una trilogia di opere straordinarie (Xenon, Acheron e Progenitor) convogliando ancora una volta tutto il meglio del metallo estremo moderno in un unico sound, che dalle orchestrazioni prende la propria forza e dal death la cattiveria ed il senso di terrore profondo che l’ignoto causa nell’essere umano.
Splendidamente attraversato dall’orientaleggiante ed evocativa voce di Mel Rose, molto più protagonista che sul precedente Progenitor, la nuova opera fantascientifica dei Mechina si sviluppa immaginando la morte del pianeta in una terribile sequenza di catastrofi ed attacchi alieni, mentre il genere umano si estingue e tutto brucia in un paesaggio di morte e desolazione.
L’opener Godspeed Vanguards segue il sound di Progenitor, la voce pulita riempie di impulsi new wave la musica di Tiberi, ma l’entrata in scena della Rose a duettare con il growl di Holch torna a far scorrere brividi di gelido terrore con Creation Level Event e, soprattutto, con la magnifica Impact Proxy.
Le orchestrazioni tornano a dominare la scena come sul mastodontico Acheron, una fantastica e magniloquente colonna sonora di un disfacimento, una biblica punizione a cui il pianeta non può sottrarsi.
Da una supernova arrivano le note pianistiche di Aetherion Rain, che col tempo si trasforma nella sublime The Synesthesia Signal, alimentata dalla stupenda interpretazione della Rose e dai tasti d’avorio che, in sottofondo, continuano a mandare nello spazio note, ultimi esempi di un mondo annientato dalle nefaste conseguenze espresse dalla violentissima Unearthing The Daedal.
Joe Tiberi conferma di essere al sound del precedente album con la devastante The Tellurian Pathos, mentre le tastiere si riprendono la scena nella galassia martoriata con le armonie di Thus Always To Tyrants.
La title track posta in chiusura è un outro atmosferica atta a descrive il nulla che segue alla distruzione totale, mentre il dito si avvicina al tasto play per ripetere questa straordinaria sequela di emozioni che ancora una volta i Mechina ci hanno saputo donare, in un genere che di per se è freddo come lo spazio profondo.
Pensavo fossero umani, invece niente, anche il 2017 lo chiudiamo in anticipo, almeno per quanto riguarda il sound proposto dal gruppo americano … ennesimo capolavoro.

TRACKLIST
01. Godspeed, Vanguards
02. Creation Level Event
03. Impact Proxy
04. Aetherion Rain
05. The Synesthesia Signal
06. Unearthing the Daedalian Ancient
07. The Tellurian Pathos
08. Thus Always to Tyrants
09. Division Through Distance
10. As Embers Turn to Dust

LINE-UP
Mel Rose – Vocals
David Holch – Vocals
Joe Tiberi – Guitars, Programming

MECHINA – Facebook

Naked Star – Ancient Rites

Il maggior difetto di Ancient Rites è la mancanza di un brano trainante, sommato ad una formula che si ripete all’infinito, lasciando l’amaro in bocca per le potenzialità non del tutto sfruttate dai due musicisti.

Tornano a tormentare le notti degli amanti del doom classico i Naked Star, duo tedesco composto dal polistrumentista Tim Schmidt dei Seamount e Jim Grant, vocalist dei Vampyromorpha.

Dopo il primo ep di tre brani uscito all’inizio dell’anno (Bloodmoon Prophecy), è già ora di tornare, questa volta con il debutto sulla lunga distanza: Ancient Rites un buon prodotto di doom classico ed oscuro, devoto alla parte occulta e sabbatica del genere, quindi fuori da ogni velleità stoner.
Come già proposto nell’ep i Naked Star ci vanno pesante con le atmosfere dark, il loro sound che rimane potentissimo e saturo di elettricità ha nel lato oscuro e messianico della musica del destino il fedele alleato.
Un incedere cadenzato e potentissimo, musica della notte e dedicata alle sue creature, una lunga messa nera divisa in otto capitoli che senza soluzione di continuità seguono la strada verso l’inferno tracciata da Black Sabbath prima e in seguito intrapresa da Saint Vitus, Count Raven, con l’aggiunta di sfumature horror ed atmosfere dark metal.
Sinceramente dopo il primo ep mi aspettavo qualcosa di più, la band sulla lunga distanza risulta leggermente monocorde e i brani tendono ad assomigliarsi un po’ troppo, facendo perdere l’attenzione in chi ascolta dopo i primi brani.
Infatti, il maggior difetto di Ancient Rites è la mancanza di un brano trainante, sommato ad una formula che si ripete all’infinito, lasciando l’amaro in bocca per le potenzialità non del tutto sfruttate dai due musicisti.
Stoned Demon e il monolite I Am The Antichrist i brani migliori, per il resto si viaggia con il pilota automatico e le emozioni scarseggiano, un vero peccato.

TRACKLIST
1. Purgamantic
2. Stoned Demon
3. Spawn Of The Witch
4. Be My Sacrifice
5. Bound To Hell
6.. Alter Ego
7. I Am The Antichrist
8. Necrolust

LINE-UP
Tim Schmidt – Guitar, Drums, Bass
Jim Grant – Vocals

Live Members:
Markus Ströhlein (Drums)
Christian Bogisch (Bass)

NAKED STAR – Facebook

Scáth na Déithe – Pledge Nothing But Flesh

Quattro brani di oltre dieci minuti, più due brevi tracce ambient, sono il fatturato di un album di sicuro interesse ma da lavorare con una certa assiduità per coglierne l’essenza.

Full length d’esordio per il duo irlandese Scáth na Déithe, all’insegna di un black metal oscuro atmosferici e dai frequenti sconfinamenti sul terreno doom.

Dici Irlanda in campo metal e pensi ai Primordial: come è naturale, ogni tanto i riferimenti all’imprescindibile band di Alan Averill emergono, in particolare in una certa algida solennità che avvolge l’intero album, mentre manca del tutto agli Scáth na Déithe lo stesso afflato epico a fronte di passaggi talvolta più meditati ai limiti dell’ambient.
Proprio per questo il lavoro non è di fruibilità immediata: il sound possiede un impronta cupa che il growl finisce per accentuare ulteriormente: ad alleggerire le atmosfere in senso melodico contribuiscono buoni passaggi di chitarra solista ma, alla fine, Pledge Nothing But Flesh si rivela un’efficace esempio di arte musicale oscura, dove black, doom e ambient confluiscono in maniera sufficientemente fluida per renderne oltremodo stimolante l’ascolto.
Quattro brani di oltre dieci minuti, più due brevi tracce ambient, sono il fatturato di un album di sicuro interesse ma da lavorare con una certa assiduità per coglierne l’essenza: il premio è l’approdo a Search Unending, bellissimo episodio conclusivo che racchiude idealmente il sound del duo di Dublino, aprendosi leggermente a barlumi melodici (oltre ad un finale acustico) che sono per lo più negati in un contesto sovente claustrofobico e, anche per questo, a suo modo affascinante.

Tracklist:
1.Si Gaoithe
2.Bloodless
3.This Unrecognized Disease
4.Failte Na Marbh
5.The Shackled Mind
6.Search Unending

Line up:
Stephen Todd – drums
Cathal Hughes – vocals, guitars, bass, synth

SCATH NA DEITHE – Facebook

Teleport – Ascendance ep

I Teleport hanno tutti i crismi per diventare una band di culto nel panorama estremo europeo, e un prossimo full length potrebbe lanciare definitivamente il quartetto sloveno

Loro lo chiamano sci-fi death metal o cosmic metal, io vi consiglio di ascoltare questo mini cd, ultimo lavoro dei Teleport, perché porta con se un pizzico di originalità ed un songwriting nobilitato dalla geniale pazzia dei Voivod.

Ma andiamo con ordine: i Teleport sono una band slovena, nata nel 2010 e in questi sette anni di attività ha pubblicato tre demo e questo primo ep dal titolo Ascendance.
Il quartetto proveniente dalla capitale Lubiana, la bellissima città dei draghi, ha creato un sound che amalgama thrash metal voivodiano e death/black in un contesto progressivo e dal concept sci-fi.
Una bellezza questi quattro brani più intro, estremi e devastanti, progressivi nelle ritmiche e spazzati da un vento death/black che soffia dalla Scandinavia e arriva gelido nel loro paese natio.
Dimenticatevi una sola ritmica che sia scontata, e anche nelle veloci e devastanti sfuriate il lavoro ritmico è da applausi, lo scream ricorda Jon Nodveidt compianto leader e cantante dei Dissection, mentre lo spirito di Dimension Hatross e Nothing Face aleggia su brani bellissimi e ricchi di dettagli e note, destabilizzanti ed originali come in The Monolith e Artificial Divination, primi due brani capolavoro di questo ep.
Darian Kocmur alle pelli, ultimo arrivato in casa Teleport, e Lovro Babič al basso formano la sezione ritmica, mentre le due chitarre che fanno fuoco e fiamme sull’ottovolante Real Of Solar Darkness sono armi letali tra le mani di Jan Medved (alle prese con il microfono) e Matija “Dole” Dolinar.
I Teleport hanno tutti i crismi per diventare una band di culto nel panorama estremo europeo, e un prossimo full length potrebbe lanciare definitivamente il quartetto sloveno: staremo a vedere, per ora gustiamoci questa ventina di minuti di musica estrema spettacolare.

TRACKLIST
1. Nihility
2. The Monolith
3. Artificial divination
4. Realm of solar darkness
5. Path to omniscience

LINE-UP
Jan Medved – vocals, guitars
Lovro Babič – bass
Matija “Dole” Dolinar – guitars
Darian Kocmur – drums

TELEPORT – Facebook

Acts Of Tragedy – Left With Nothing

Questi ragazzi riescono a creare un magma sonoro figlio dell’incontro tra metal e qualcosa dalle parti dei Dillinger Escape Plan, il tutto lanciato a mille all’ora, con una produzione notevole.

Al primissimo ascolto dei cagliaritani Acts Of Tragedy mi sembrava di trovarmi davanti all’ennesimo disco di metalcore melodico, con parti più dure e altre parti molto, anzi fin troppo melodiche.

E invece sbagliavo, e di molto, vittima di pregiudizi che non dovrebbero esserci. Gli Acts Of Tragedy fanno metalcore, o meglio metal moderno, ma hanno una potenza, un tiro ed una tecnica che li portano molto al di sopra della media del genere. Questi ragazzi riescono a creare un magma sonoro figlio dell’incontro tra metal e qualcosa dalle parti dei Dillinger Escape Plan, il tutto lanciato a mille all’ora, con una produzione notevole. Gli Acts Of Tragedy sono potenti e molto coinvolgenti, e hanno prodotto un disco che spacca, come direbbero i giovani. Left With Nothing, il suo titolo, potrebbe essere l’epitaffio sulla tomba dei giovani di oggi che si mangiano la merda che hanno lasciato quelli di prima: è un disco di metal moderno a trecentosessanta gradi, e dentro c’è tutto il meglio degli ultimi venti anni di metal melodico, dove melodia non sta per commercializzazione scontata, ma per ricerca di qualcosa di piacevole in mezzo alla durezza. l’album funziona benissimo anche grazie al notevole apporto della produzione, che fa rendere al meglio questo suono che piacerà su ogni lato dell’oceano, perché le sue radici sono comunque americane. Un disco molto bello, dall’inizio fino alla fine, e non è poco.

TRACKLIST
1.Under the Stone
2.Melting Wax
3.The Worst Has yet to Come
4.The Man of the Crowd, Pt. 1
5.Smoke Sculptures and Fog…
6.The Man of the Crowd, Pt. 2
7.Incomplete
8.Nothing
9.Vice
10.Oaks

LINE-UP
Alessandro Castellano – Drums
Andrea Orrù – Vocals
Lorenzo Meli – Bass
Paolo Mulas – Guitar
Gabriele Murgia – Guitar & Backing Vocals

ACTS OF TRAGEDY – Facebook

Danko Jones – Wild Cat

Si arriva facilmente alla fine senza riscontrare il minimo calo di tensione in quanto Wild Cat è un album trascinante e pieno di hit: i Danko Jones sono tornati in forma e tutto gira a meraviglia, lunga vita al rock’n’roll.

Il rock’n’roll è come un gatto e lo sa bene chi ha avuto a che fare con i notturni felini: pigri e sornioni, quando sembrano abbandonati ad un sonno perenne ecco che una scintilla scatena la loro natura selvaggia, ed è il caos …

Wild Cat, ultimo lavoro dei canadesi Danko Jones in uscita per AFM Records in tutto il mondo, tranne nella terra natia del gruppo (in Canada il disco uscirà per eOne), accompagnato da una copertina vintage raffigurante un amico felino tutto grinta e cattiveria, ci consegna un gruppo che, come un gatto, si scrolla di dosso un pizzico di pigrizia creativa uscita nelle ultime prove e sforna la miglior prova da un po’ di tempo a questa parte.
It’s only rock ‘n’ roll ovviamente, ma con Wild Cat i Danko Jones ritrovano uno stato di grazia nel songwriting che permette all’ascoltatore di godere di tutte le caratteristiche della loro musica, ovvero grinta, impatto e urgenza rock’n’roll unita ad un flavour settantiano, che fa da sempre la differenza.
Poco meno di quaranta minuti, durata perfetta per una mitragliata di musica rock sanguigna e ricca di killer songs una più indiavolata dell’altra, fin dall’opener I Gotta Rock, passando per l’irresistibile ritmica di My Little RnR, unica concessione da parte del gruppo alla scena scandinava ed in particolare ai Backyard Babies degli esordi.
Poi è un’apoteosi di hard rock stradaiolo, con i Thin Lizzy padri spirituali della musica prodotta dal chitarrista e cantante canadese ed i suoi degni compari (John Calabrese al basso e Rich Knox alle pelli).
Going Out Tonight gode di un refrain che entra in testa al primo ascolto, l’album risulta come sempre concepito per essere suonato dal vivo, l’elemento migliore per il rock’n’roll e You Are My Woman vi farà saltare sotto il palco ai prossimi concerti del gruppo con Jones sempre più erede di Phil Lynott.
Arrivati alla quarta canzone possiamo sicuramente affermare di esserci divertiti, mentre si avvicina la metà dell’album e si continua a balzare come gatti selvaggi, sulle note di Let’s Start Dancing e la title track irresistibile inno da felini persi nelle strade umide di una metropoli notturna.
Si arriva facilmente alla fine senza riscontrare il minimo calo di tensione in quanto Wild Cat è un album trascinante e pieno di hit: i Danko Jones sono tornati in forma e tutto gira a meraviglia, lunga vita al rock’n’roll.

TRACKLIST
1. I Gotta Rock
2. My Little RnR
3. Going Out Tonight
4. You Are My Woman
5. Do This Every Night
6. Let’s Start Dancing
7. Wild Cat
8. She Likes It
9. Success In Bed
10. Diamond Lady
11. Revolution (But Then We Make Love)

LINE-UP
Danko Jones – Vocals, Guitars
John Calabrese – Bass
Rich Knox – Drums

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