Helslave – Divination

Aspettando il nuovo album, godetevi questi quattro brani che confermano la band romana come una delle più convincenti realtà nel suonare il death metal come lo hanno inventato in Scandinavia.

Tornano gli Helslave con un nuovo ep di quattro brani per ribadire che, se si parla di death metal come lo si suonava in Scandinavia nella prima metà degli anni novanta, il gruppo romano non è secondo a nessuno.

Ovviamente la proposta del quintetto si ispira in toto al sound estremo nord europeo, quindi lasciate perdere inutili disquisizioni sull’originalità del sound e fatevi del male al ritmo assolutamente travolgente di Summoning the Eternal Eclipse , primo delle quattro mazzate che compongono Divination.
Gli Helslave giungono al secondo ep, preceduto dall’uscita del full length An Endless Path, e continuano il loro personale massacro a base di death metal a nomi quali Entombed e Dimember, ma anche Eucharist e primi Edge Of Sanity, specialmente per il growl del nuovo arrivato Diego Laino, che mi ha ricordato il Dan Swanö più feroce ed estremo dei bellissimi Unorthodox e The Spectral Sorrow.
Lord Of Lies, The Spawn Of Astaroth e Desecration continuano il bombardamento sonoro con una ferocia esecutiva che ha del clamoroso: riff chirurgici, sezione ritmica da inferno nordico e tanto impatto vecchia scuola fanno di questo nuovo ep un piccolo gioiello estremo da non perdere assolutamente, almeno se il sangue che sgorga ogni giorno dalle vostre orecchie è dovuto all’ascolto del genere.
Aspettando il nuovo album, godetevi questi quattro brani che confermano gli Helslave come una delle più convincenti realtà nel suonare il death metal come lo hanno inventato nel Nord Europa e il voto non è più alto solo per la breve durata del lavoro, risultato delle doti di una band da sostenere e conservare con estrema cura.

Tracklist
1. Summoning the Eternal Eclipse
2. Lord of Lies
3. The Spawn of Astaroth
4. Desecration

Line-up
Jari – Guitars (lead)
Francesco Comerci – Drums
Lorenzo Fabiani – Guitars
See also: ex-Fallen to Extinction, ex-Liar Angels
Luca Riccardelli – Bass
Diego Laino – Vocals

HELSLAVE – Facebook

Eternal Silence – Mastemind Tyranny

Terzo album e definitiva consacrazione a livello qualitativo degli Eternal Silence che, con Mastermind Tyranny, confermano la bontà del loro symphonic power metal.

Il terzo album per un gruppo dovrebbe risultare quello della consacrazione artistica che, il più delle volte, non va a braccetto con quella commerciale portando però una band o un artista in uno stato più consolidato nella scena in cui si muove, diventandone uno dei punti di riferimento.

I lombardi Eternal Silence arrivano quindi a questa fondamentale prova dopo due bellissimi lavori che ne avevano fatto una delle band più promettenti del panorama power sinfonico dello stivale.
L’esordio Raw Poetry , uscito quattro anni fa, seguito dall’ottimo Chasing Chimera licenziato nel 2015, avevano lasciato con più di un sorriso gli addetti ai lavori, mentre fiumi di inchiostro tessevano le lodi del gruppo capitanato dalla singer Marika Vanni e dal chitarrista cantante Alberto Cassina.
La firma con la SliptrickRecords, la line up invariata, con i bravissimi Davide Rigamonti (chitarra), Alessio Sessa (basso) e Davide Massironi (batteria), il lavoro in studio lasciato come sempre nelle mani di Giulio Capone che, con l’aiuto di Alberto Cassina, ha prodotto il nuovo lavoro, sono i principali dettagli di Mastermind Tyranny.
L’album non delude chi si era innamorato del precedente lavoro, in quanto non abbandona le principali coordinate stilistiche del gruppo, ma continua una progressione che porta questo lavoro su un gradino più alto dei sui predecessori, consegnando appunto la band allo status di cui si diceva in precedenza.
Una sezione ritmica a tratti di una potenza devastante, suoni sinfonici mai troppo banali ma sempre in funzione del power metal, che nell’economia del gruppo è parte assolutamente importante, atmosferici momenti che fungono da camei gotici e tanto talento, fanno del nuovo album del gruppo un’altra perla sinfonica tutta da ascoltare.
Mastermind Tyranny non lascia neanche un minuto di musica all’approssimazione, tutto è in funzione dei brani che escono fluidi, splendidamente sinfonici, tra duetti vocali (con più spazio alla voce maschile rispetto al passato) e ritmiche incalzanti, esponendo tematiche importanti come la manipolazione delle menti, accenni ad opere letterarie immortali come Il Nome Della Rosa e altre molto più attuali, con riferimenti all’estremismo religioso.
Insomma un album a cui non manca nulla per risultare il best seller degli Eternal Silence: non mi soffermo sui brani in particolare ma vi invito a non perdervi Mastermind Tyranny, colpo di coda in questo 2017 per quanto riguarda il power metal sinfonico.

Tracklist
1.Lucifer’s Lair
2.Fighter
3.Mashed
4.Adagio
5.Game of the Beasts
6.Mystic Vision
7.The First Winter Night
8.Foreign Land
9.Icy Spell
10.Ashes of Knowledge

Line-up
Marika Vanni – Vocals
Alberto Cassina – Guitar and Vocals
Davide Rigamonti – Guitar
Alessio Sessa – Bass
Davide Massironi – Drums

ETERNAL SILENCE – Facebook

ZOM

Il video di Solitary, dall’album Nebulos in uscita a gennaio (Argonauta Records).

Il video di Solitary, dall’album Nebulos in uscita a gennaio (Argonauta Records).

Blut Aus Nord – Deus Salutis Meæ

Chapeau a Vindsval, unica mente dei Blut Aus Nord che, dopo venti anni di musica estrema, dimostra una creatività senza pari, presentandoci un’opera breve ma intensa e ricca di stimoli emozionali.

Creatura mutevole i transalpini Blut Aus Nord, attivi ormai sulla scena black metal dal lontano 1995 con “Ultima Thulee”; da qualche album (la trilogia 777) tutto è nelle mani e nel multiforme ingegno di Vindsval, che dimostra anche in questa opera, Deus salutis meae, una grande capacità compositiva ed esecutiva sempre alla ricerca di sensazioni forti.

Nella loro lunga carriera discografica i Blut Aus Nord hanno sempre cercato di rielaborare il verbo black, allargando i confini della musica estrema; non si sono mai persi in derive convenzionali e con un un sacro fuoco interiore hanno dato vita a opere estreme sempre varie e di alta qualità, spingendo l’ascoltatore a continue sfide uditive ed emozionali. E’ il caso anche di questa opera, breve nei suoi trentatré minuti, ma molto intensa e densa nel definire un sound quasi alieno nel fondere death, aromi doom e black nella sua forma più industrial e meno raw; dieci brani, compresi tre intermezzi dai titoli in greco carichi di sonorità dark ambient. Fin dal primo vero brano, Chorea Macchabeorum, il suono è intrigante, sorprendente, distruttivo con fredde linee di synth, taglienti e potente drum machine; le linee vocali, non preponderanti in tutto l’album, sono sommerse dagli strumenti e fuoriescono sinistre e demoniache intessendo raggelanti litanie (Impius). Il suono ha qualcosa di alieno e demoniaco allo stesso tempo, il blend sonoro creato da Vindsval è unico ed è difficile a un primo ascolto, cogliere le tante sfumature nei brani, tutto è fuso in modo vitale e ha un qualcosa di allucinogeno; brani come Apostasis, violenti, carichi di suoni dissonanti ed obliqui, dimostrano che la musica estrema ha ancora molto da dire; i ritmi incalzanti si “ammorbidiscono” in Abisme e lambiscono territori doom titanici e carichi di tensione, dove non vi è alcuna speranza per il genere umano. Le traiettorie sonore che si intersecano in ogni brano danno un tocco avanguardistico, le lobotomizzanti schegge chitarristiche invitano alla catarsi e dimostrano una ricerca non comune, distante dalle recenti opere della band. Una cover virata su varie tonalità di grigio e nero, ad opera della artista ucraina Anna Levytska, dà un tocco visionario alla grande energia dell’opera. Vindsval offre un’ulteriore prova della sua grande vitalità artistica, che è lungi dall’essere esaurita, visto che sono annunciati la IV parte di Memoria Vetusta e un misterioso progetto a nome La lumiere sous le monde. Opera da ascoltare e metabolizzare con molta calma.

Tracklist
1. δημιουργός
2. Chorea Macchabeorum
3. Impius
4. γνῶσις
5. Apostasis
6. Abisme
7. Revelatio
8. ἡσυχασμός
9. Ex Tenebrae Lucis
10. Métanoïa

Line-up
W.D. Feld – Drums, Electronics, Keyboards
Vindsval – Guitars, Vocals
GhÖst – Bass
Thorns – Drums

BLUT AUS NORD – Facebook

Deus Ex Machina – A New World To Come

Se lasciate da parte l’originalità e puntate sull’impatto, questi giovani musicisti svizzeri sapranno lacerarvi i padiglioni auricolari con un album riuscito e devastante.

A suo modo è una sorpresa A New World To Come, debutto di questi giovani deathsters svizzeri provenienti dalla splendida Ginevra e dal monicker impegnativo come Deus Ex Machina.

I cinque musicisti, pur non brillando per originalità puntando ad un impatto estremo diretto, lasciano che le melodie trovino il giusto spazio tra lo spartito, portando il proprio sound là dove riposano i più famosi interpreti del melodic death metal scandinavo.
La vocalist Stephany non può che far pensare alle diaboliche colleghe che si sono date il cambio negli Arch Enemy, una delle influenze primarie del gruppo, ma non la sola, visto il continuo passaggio nella mente dell’ascoltatore di band dalla carta d’identità nord europea.
Il sound non lascia grosso spazio a momenti atmosferici, la parte melodica si evince soprattutto nei solos ed un’anima oscura pervade l’atmosfera di brani indubbiamente diretti, dal buon groove che in alcuni casi appesantisce ancora di più le ritmiche, qualche spazzo rappresentato da devastanti scorribande nel thrash metal; così, A New World To Come si può certo ritagliare un suo spazio, mentre scorrono una dietro l’altra tracce potenti e melodiche come la title track, Unfaithful Wisphers, la violentissima Human Savior, che fa da preludio al crescendo emozionale di Chrysalis, picco dell’album e brano intenso ed oscuro che con Dualism forma il cuore pulsante di questo ottimo lavoro che inesorabilmente cresce alla distanza.
Se lasciate da parte l’originalità e puntate sull’impatto, questi giovani musicisti svizzeri sapranno lacerarvi i padiglioni auricolari con un album riuscito e devastante.

Tracklist
1.A New World To Come
2.Home
3.Unfaithful Whispers
4.Human Savior
5.Chrysalis
6.Dualism
7.My Lament (Before The Disaster)
8.Shadows From The Past
9.Born

Line-up
Stephany – Vocals
Morty – Guitar & Backing vocals
François – Guitar
Sam – Drums
Joseph – Bass

DEUS EX MACHINA – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=kctDXRTwLM4

Black Messiah – Walls of Vanaheim

Walls of Vanaheim è un’opera di buono spessore in un genere in cui non è così semplice lasciare il segno, ma purtroppo non riesce a raggiungere l’eccellenza a causa dell’eccessiva e ridondante verbosità che rischia di tenere lontani gli ascoltatori meno avvezzi a questo tipo di sonorità.

I tedeschi Black Messiah sono una band dallo stato di servizio ultraventennale e, grazie ad un’attività piuttosto regolare, soprattutto nel nuovo secolo, giungono con Walls of Vanaheim al loro settimo full length.

Il combo di Gelsenkirchen in tutti questi anni ha distribuito la propria competente interpretazione di un pagan black sinfonico e dalle ampie sfumarture folk, che si è con il tempo stemperato in qualcosa di più vicino all’heavy metal; Walls of Vanaheim è un album che mantiene ben salde le coordinate stilistiche e liriche della band, capace di regalare un lavoro convincente ma che, con qualche accorgimento in più, avrebbe potuto risultare di livello ancor più elevato.
I nostri hanno la capacità di creare con disinvoltura atmosfere epiche di grande evocatività ed immediatezza, ma pensano bene di appesantire il tutto con ben sei tracce contenenti una voce narrante che sarà anche funzionale alla comprensione del concept (visto che diversi brani sono cantati in lingua madre) ma che, allo stesso tempo, affievolisce all’ennesima potenza la tensione di un lavoro sul cui aspetto musicale c’è invece davvero poco da eccepire.
Un peccato neppure troppo veniale, questo, se pensiamo che al netto delle parti recitate resta comunque un’ora abbondante di musica, che rappresenta pur sempre un fatturato impegnativo in un epoca nella quale la fretta e la necessità della sintesi paiono aver preso il sopravvento; detto questo, però, i Black Messiah regalano una prova bella e convincente, trasportandoci nel loro epico immaginario la cui colonna sonora abbraccia il viking black come il folk, fornendo un risultato complessivo gratificante per chi ama tali sonorità.
La parte del leone in Walls of Vanaheim la fa Zagan, vocalist espressivo e abile violinista, che imprime il proprio marchio in ottimi brani come Mimir’s Head, The Walls of Vanaheim e A Feast of Unity, che sono poi quelli meno folkeggianti e maggiormente orientati ad esaltare la vena epica, anche con bellissimi progressioni chitarristiche, oltre alla notevole chiusura offerta con Epilogue: Farewell, che dopo due minuti di chiosa narrativa si trasforma in uno splendido strumentale che rappresenta idealmente la summa stilistica della band tedesca.
Walls of Vanaheim è un’opera di buono spessore in un genere in cui non è così semplice lasciare il segno, ma purtroppo non riesce a raggiungere l’eccellenza a causa dell’eccessiva e ridondante verbosità che rischia di tenere lontani gli ascoltatori meno avvezzi a questo tipo di sonorità.

Tracklist:
1. Prologue – A New Threat
2. Mimir’s Head
3. Father’s Magic
4. Mime’s Tod
5. Call to Battle
6. Die Bürde des Njörd
7. Satisfaction and Revenge
8. The March
9. The Walls of Vanaheim
10. Decisions
11. Mit Blitz und Donner
12. The Ritual
13. Kvasir
14. A Feast of Unity
15. Epilogue: Farewell

Line up:
Zagan – Vocals, Guitars, Violin
Garm – Bass
Donar – Guitars (lead), Vocals (backing)
Surtr – Drums
Pete – Guitars (rhythm), Vocals (backing)
Ask – Keyboards

Tom Zahner – Narrator

BLACK MESSIAH – Facebook

Forgotten Tomb – We Owe You Nothing

I Forgotten Tomb hanno raggiunto uno status invidiabile, che è quello di una band che può seguire una strada propria infischiandosene delle tendenze o delle convenienze commerciali, senza che questo vada minimamente ad inficiare il risultato finale.

I Forgotten Tomb sono una delle eccellenze italiane del nostro metal estremo fin dagli esordi, quando scuotevano l’audience con un black metal dalla forte impronta depressive sia musicalmente sia a livelli di tematiche.

Il tempo ha parzialmente smussato questo aspetto, anche se una certa disincantata negatività permane a livello lirico, mentre il sound si evoluto in una forma di black death con ampie venature doom, sempre in grado di offrire notevoli spunti melodici e soprattutto, mantenendo una cifra stilistica unica, che è poi il vero e proprio segno distintivo delle band di livelli superiore.
We Owe You Nothing è il nono full length del gruppo di Ferdinando Marchisio (alias Herr Morbid) e ad ogni nuova uscita di band provviste di un simile status è sempre grande il timore di riscontrare un appannamento irrimediabile della freschezza compositiva ma, a giudicare da questi sei brani, si può tranquillamente affermare che tale pericolo sia stato scongiurato.
Certo, bisogna partcire forzatamente dall’assunto che i Forgotten Tomb di oggi non sono più gli stessi di Love’s Burial Ground e nemmeno quelli di Negative Megalomania, il che appare tutt’altro che scontato vista la tendenza di molti a soffermarsi sul passato invece di focalizzarsi sul presente; detto questo We Owe You Nothing mantiene impresso a fuoco il marchio della band e ciò accade sia quando nella title track si palesano quelle sfumature southern che Marchisio ha sfogato nel recente passato con i Tombstone Highway, sia in Second Chances, allorchè il brano si stempera in un magnifico rallentamento di pura matrice doom.
L’ormao storica base ritmica, formata da Alessandro “Algol” Comerio al basso e da Kyoo Nam “Asher” Rossi alla batteria), che accompagna il leader fin da Love’s Burial Ground è un sinonimo di garanzia e coesione che valorizza ulteriormente il lavoro, anche quando prendono piede le caratteristiche progressioni chitarristiche come in Saboteur e, soprattutto, nel tellurico finale di Abandon Everything.
Longing For Decay è un buon brano dalle pesanti sfumature stoner sludge che però scorre via senza fornire particolari scossoni emotivi, che giungono invece con Black Overture (che contraddicendo il titolo in realtà chiude il lavoro) , splendido strumentale contraddistinto da un black doom atmosferico e melodico.
I Forgotten Tomb hanno raggiunto uno status invidiabile, che è quello di una band che può seguire una strada propria infischiandosene delle tendenze o delle convenienze commerciali, senza che questo vada minimamente ad inficiare il risultato finale; per quanto mi riguarda, ritengo che We Owe You Nothing sia il miglior album sfornato dalla band piacentina in questo nuovo decennio, rivelandosi molto più incisivo e ricco di sfumature rispetto ai pur buoni Under Saturn Retrograde, …and Don’t Deliver Us from Evil e Hurt Yourself and the Ones You Love, e questo non affatto cosa da poco …

Tracklist:
1. We Owe You Nothing
2. Second Chances
3. Saboteur
4. Abandon Everything
5. Longing For Decay
6. Black Overture

Line-up:
Ferdinando “Herr Morbid” Marchisio – guitars, vocals
Alessandro “Algol” Comerio – bass
Kyoo Nam “Asher” Rossi – drums

FORGOTTEN TOMB – Facebook

Right To The Void – Lūnātĭo

Sempre furiosi nelle ritmiche, che in certi casi rasentano la frangia melodica del black metal, i Right To The Void mettono sul tavolo un gustoso antipasto di quello che potrebbe essere il prossimo lavoro su lunga distanza.

E’ tempo per nuova musica targata Right To The Void, la band francese che avevamo lasciato all’indomani dell’uscita del secondo lavoro, Light Of The Fallen Gods, esattamente tre anni fa.

Qualche assestamento nella line up, la collaborazione con la nostrana Wormholedeath ben salda e questi nuovi tre brani che vanno a formare l’ep in questione dal titolo Lūnātĭo, composto da una tempesta di suoni metallici con le melodie sempre in primo piano ed ancora una volta un buon songwriting che valorizza queste nuove bordate melodic death metal.
Perché ci si può girare attorno quanto si vuole, ma il sound prodotto dal gruppo transalpino è da annoverare nell’immensa famiglia del death melodico mondiale, sicuramente irrobustito da sferzate thrash, da un uso moderno delle clean vocals, ma pur sempre debitore nei confronti della scena nord europea.
Rispetto ai lavori precedenti (il primo album, Kingdom Of Vanity uscì nel 2013) la band francese si è spostata leggermente verso un sound che, pur conservando la sua natura nordica, risulta più in linea con le uscite che invadono il mercato degli States lasciando quell’aura old school per un approccio moderno.
Sempre furiosi nelle ritmiche, che in certi casi rasentano la frangia melodica del black metal, i Right To The Void mettono sul tavolo un gustoso antipasto di quello che potrebbe essere il prossimo lavoro su lunga distanza, con tre brani che dall’opener Lines, passando per 3.747 e Let The Ruins Fall, confermano la furiosa battaglia a colpi di metal estremo insita nel proprio sound, tra il classico swedish death ed il moderno thrash metal melodico di scuola statunitense.

Tracklist
1. Lines
2. 3.474
3. Let The Ruins Fall

Line-up
Guillaume – Vocals
Paul – Guitars
Romain – Bass
Alex – Drums

RIGHT TO THE VOID – Facebook

Rudhen – Di(o)scuro

Le chitarre ribassate raccontano di una psichedelia altra, un percorso di sabba che cominciò a Birmingham molto tempo fa ed arriva anche a Treviso, dove viene rielaborato in maniera inedita dai Rudhen, un gruppo che macina musica e tanto altro.

I trevigiani Rudhen arrivano al debutto sulla lunga distanza dopo due buoni ep, ed è davvero un gran disco.

Musicalmente siamo in territori stoner, con molte influenze, anche post metal in certi momenti. La cosa che spicca maggiormente è la creazione di questo groove continuo, un magma non velocissimo ma inesorabile che erode ogni cosa che incontra. Come detto già nella recensione di un loro ep su queste pagine, i Rudhen sono un gruppo che non si disperde nella nebbia di un genere abbastanza abusato, ma risaltano grazie alla loro potenza e alla varietà sonora. Inoltre come argomenti questo disco non si fa mancare nulla e spazia dalla presa della Bastiglia alla vicenda mai abbastanza narrata di Cartagine. Si spazia con la musica e con la mente, non si rimane mai fermi per più di qualche secondo, o perché spazzati via dai Rudhen, o perché loro stessi ti portano lontano. Più che essere sopra la media come qualità, è un lavoro fatto bene e con canoni personali. Certamente le loro coordinate sono conosciute, ma non è mai una musica scontata, e le chitarre ribassate raccontano di una psichedelia altra, un percorso di sabba che cominciò a Birmingham molto tempo fa ed arriva anche a Treviso, dove viene rielaborato in maniera inedita dai Rudhen, un gruppo che macina musica e tanto altro.

Tracklist
1.Castore
2.Magnetic Hole
3.Fragile Moon
4.14-07-1789 (Prise de la Bastille)
5.Carthago Delenda Est
6.My Girls are like Hallucinogenic Frogs
7.Polluce

Line-up
Alessandro Groppo: Voice
Fabio Torresan: Guitar
Davide Lucato: Bass
Luca De Gaspari: Drums

RUDHEN – Facebook

No Self – Human​-​Cyborg Relations Episode 1

Aiutato dal mastermind della label Noah “Shark” Robertson (Motograter), il quartetto floridiano aggiunge una buona tacca sulla cintura del nu metal con questi sette brani duri, moderni e diretti, un concentrato di metal pesante, dalle ritmiche groove, con l’impatto di un carro armato e chitarroni che fanno male tra mid tempo e tappeti elettronici.

Nu metal che ormai si può definire classico, quindi nessuna deviazione core ma moderno come si usava a cavallo tra i due millenni, è quello che ci propongono i No Self, band in arrivo dalla Florida, in pista da quindici anni ma con solo due ep ed un album omonimo rilasciato nel 2014.

Molti problemi di line up ed un ritorno che si preannuncia in ritardo di un bel po’ di anni su rullino di marcia del genere, ma poco importa visto il buon risultato ottenuto, riscontrabile su Human​-​Cyborg Relations Episode 1, album licenziato dalla Zombie Shark Records e registrato da Matt Johnson ai Revelation Studios.
Aiutato dal mastermind della label Noah “Shark” Robertson (Motograter), il quartetto floridiano aggiunge una buona tacca sulla cintura del nu metal con questi sette brani duri, moderni e diretti, un concentrato di metal pesante, dalle ritmiche groove, con l’impatto di un carro armato e chitarroni che fanno male tra mid tempo e tappeti elettronici;
Human​-​Cyborg Relations Episode 1, dalle chiare ispirazioni sci-fi e una prossima seconda parte suggerita dal titolo, non fa prigionieri e nei suoi espliciti riferimenti a gruppi come Deftones, Spineshank, Adema e Nothingface farà solleticare i palati di più di un appassionato di metal moderno, ormai abituato a farsi sconvolgere i padiglioni auricolari dal metalcore e dall’alternative metal: sette brani, sette pugni nello stomaco guidati dal singolo Frisco e dall’opener Casting Stone per un ritorno ad un sound che a suo modo ha fatto epoca.

Tracklist
1.Casting Stones
2.Save Me
3.Nudisease
4.Through Your Eyes
5.Outatime
6.Frisco
7.Ctrl-Z

Line-up
Dylan Hart Kleinhans – Vocals
Justin Dabney – Guitars
Drew Miller – Drums
Joey Bivo – Bass

NO SELF – Facebook

Blood – Mental Conflict

Grind e death metal sono le armi con cui i Blood portano l’assalto al genere umano, uno sconquassante sound estremo ed oscuro che amalgama Napalm Death, Bolt Thrower e hardcore in uno tsunami di note violentissime.

Tornano con la riedizione del classico Mental Conflict (uscito originariamente nel 1994) gli storici grinders tedeschi Blood, nati nella seconda metà degli anni ottanta e con una discografia che arriva al non full length e che in tutti questi anni tramite demo, live, split ed ep non si è mai arrestata.

Solo qualche pausa ad inframezzare le uscite, specialmente nel nuovo millennio, ma anche tante carne al fuoco per i fans del gruppo, da sempre portatori del verbo satanico con l’ausilio del grind core.
Grind e death metal sono appunto le armi con cui i Blood portano l’assalto al genere umano, un sconquassante sound estremo ed oscuro che amalgama Napalm Death, Bolt Thrower e hardcore in uno tsunami di note violentissime: growl efferato, attitudine da vendere e brani che non superano i tre minuti, esplosioni di metallo terremotante con l’inserimento di camei musicali presi da musichette natalizie, colonne sonore e pubblicità.
Avranno anche molte primavere sulle spalle ma i Blood attaccano al muro e stringono la manona intorno alla gola, penetranti e profondi come un abisso infernale, animaleschi come i migliori act grindcore e dall’impatto disumano come la più efferata delle band brutal.

Tracklist
1. Intro (Tentacles)
2. Insomnia
3. Toothache
4. Master’s Clemency
5. Secrets Of Blood
6. Mental Conflict
7. Bleed For Me
8. Spreading The Thoughts
9. Blood
10. Stretched
11. Away Is Away
12. For Auld Lang Syne
13. Crown Court
14. Inflame
15. Texas Chainsaw Massacre
16. Naked Frozen
17. Blood Price
18. The Favour Of Ecstasy
19. Morpheus
20. I Dream Dead

Line-up
Taki – Bass
Eisen – Guitars
Ventilator – Drums
Clausi – Vocals

BLOOD – Facebook

Monkey Onecanobey – Moco

Questo è il debutto di qualcosa che potrebbe essere di grande importanza per la musica italiana del sottobosco, ma che intanto è un piacere da ascoltare e da godere.

Il giovane duo spoletino dei Monkey Onecanobey è un qualcosa che non avete mia visto né sentito.

Sav e Phil sono amici fin dall’asilo, il primo suona la chitarra e canta, il secondo è un magistrale beatboxer, sì proprio quei moderni menestrelli che fanno il ritmo della batteria con la bocca: insieme fanno un blues così blues che parte dal cuore ed arriva fino al cervello. La formula sonora è pressoché inedita, e se ci pensa è un qualcosa di davvero atavico e semplice, ma farlo bene non è così facile. I due sono arrivati a suonare insieme dopo aver percorso sentieri differenti nella musica, e non si divertivano nemmeno tanto: poi Phil ha conosciuto l’opera del beatboxer inglese Dave Crowe, e da lì è partita questa fantastica avventura, Strange Days canterebbero i Doors. La voce di Sav è molto calda e ti entra dentro, inoltre con le sue vibrazioni riesce a fare diversi registri stilistici, anche se qui il blues, nel suo senso auemtico,  permea il tutto. Ascoltando questo caldo impasto sonoro si viaggia in diversi posti, dal deserto grazie a linee di chitarra e a suggestioni care a Kyuss e compagnia varia, a cose più particolari come i White Stripes più blues, o i primi Black Keys, anche se qui l’atmosfera generale è più psichedelica e potente, come un sogno che si trasforma in trip o viceversa. Si viene trasportati dalla forte carica di questo particolare incrocio musicale, e la nostra mente viaggia dolce. Il beatbox è fatto benissimo, ed è una delle cose che grondano più blues che possiate incontrare. Il risultato è un disco con parecchi elementi innovatori e soprattutto una cifra stilistica unica ed originale. Questo è il debutto di qualcosa che potrebbe essere di grande importanza per la musica italiana del sottobosco, ma che intanto è un piacere da ascoltare e da godere.

Tracklist
1. Evolution PlayStation
2. Philled Lungs
3. Grinning in your face
4. Route66
5. I know
6. Traintears
7. Lose your mind
8. Personal Jesus

Line-up
Filippo Lombardelli – Beatbox
Saverio Baiocco – Voce/Chitarra

MONKEY ONECANOBEY – Facebook

Hyperion – Dangerous Days

Dangerous Days è un album consigliato agli amanti del metal classico e rappresenta sicuramente un’ottima partenza per la band bolognese.

Un’altra nuova band si va ad aggiungere alla scena metal classica dello stivale, si tratta dei bolognesi Hyperion.

Le fondamenta del gruppo sono state poste un paio di anni fa e ora è il momento per il gruppo di scendere in pista con il proprio debutto sulla lunga distanza, un buon album di sano heavy metal ottantiano, potenziato da soluzioni power thrash ma legato indissolubilmente all’heavy metal di ispirazione Judas Priest, tanto per fare il riferimento più storico e, a mio parere, calzante.
Ovviamente la band ci mette del suo: sono passati quasi quarant’anni dal decennio che ha decretato l’immortalità della nostra musica preferita e, come è giusto che sia, gli Hyperion scendono in campo con un album che guarda alla tradizione ma con i piedi ben saldi nel nuovo millennio, che tradotto vuol dire un ottimo lavoro in studio, con i brani che escono potenti e cristallini il giusto, ed un buon songwriting che non lascia scampo, proponendo otto brani medio lunghi, ma dall’ottimo tiro.
I musicisti che compongono la line up dimostrano di saperci fare, dalla sezione ritmica, alle due chitarre per passare all’ottima prova dietro al microfono del singer Michelangelo Carano, un vero animale metallico, personale e pressoché perfetto in tutta la sua prova.
Dicevamo dei brani, medio lunghi ma che mantengono un approccio diretto ed hanno la virtù di farsi ricordare dopo pochi passaggi grazie ad una scrittura fluida che permette di godere di riff potenti, con le chitarre che tagliano l’aria con fendenti micidiali e la voce che imprime un sentore epico a chorus nati per inorgoglire qualsiasi appassionato.
Gli Hyperion aprono con Ultimatum, il brano più classicamente power del lotto, tutto acciaio e cuoio, dove le due chitarre ci danno il benvenuto e ci accompagnano verso la title track,  nella quale potenza e melodia ci prendono a braccetto e il ritornello ci stende, rivelandosi melodico e perfettamente inserito tra cavalcate ritmiche ed assoli che premono sui bassifondi prima di lasciare la presa per farci respirare.
Da qui in poi l’album sterza verso un heavy metal più elaborato e roccioso anche se, come detto, il tiro rimane inalterato, così che veniamo travolti dalla carica metallica di brani come Incognitus, Ground And Pound, il mid tempo The Grave Of Time e la conclusiva Hyperion.
Per gli amanti della fantascienza d’autore, va aggiunto che il monicker della band fa riferimento alla magnifica saga scritta da Dan Simmons e, semmai ci fossero stati dubbi, l’inquietante figura dello Shrike  in copertina li dissipa all’istante.
Dangerous Days è un album caldamente consigliato agli amanti del metal classico e rappresenta sicuramente un’ottima partenza per la band bolognese: da non perdere se avete a cuore una scena nazionale splendida, ma ancora troppo spesso sottovaluta.

Tracklist
1.Ultimatum
2.Dangerous Days
3.Incognitus
4.Ground And Pound
5.Forbidden Pages
6.The Killing Hope
7.The Grave Of Time
8.Hyperion

Line-up
Michelangelo Carano – Vocals
Davide Cotti – Guitar
Luke Fortini – Guitar
Antonio Scalia – Bass Guitar
Marco Jason Beghelli – Drums

HYPERION – Facebook

Epitaph – Claws

Claws possiede in gran parte le caratteristiche in grado di soddisfare ampiamente fasce di ascoltatori come gli estimatori del doom classico o dell’heavy metal dalle trame occulte, alle quali un disco di questa fattura è naturalmente indirizzato.

Gli Epitaph sono una tra le prime band italiane ad essersi cimentate con il doom metal e questo giustifica sicuramente la buona notorietà ottenuta in questi ultimi anni.

Infatti, il loro primo demo, dei tre pubblicati, risale al 1988 mentre l’ultimo è datato 1994: vent’anni dopo Mauro Tollini (batteria) e Nicola Murari (basso) hanno ridato vita alla loro creatura pubblicando l’esordio su lunga distanza, costituito in buona parte da rivisitazioni del materiale più datato.
Dopo lo split album con gli Abysmal Grief, gli Epitaph approdano oggi a quello che, di fatto, è il loro primo full length di inediti, che resta comunque strettamente connesso a quanto fatto in passato: il doom proposto dalla band veneta è quanto mai devoto ai numi tutelari del genere (Candlemass in primis) e questo non è assolutamente un male, perché non sono i primi e neppure saranno gli ultimi a farlo, il problema è che personalmente, fatico a riscontrare quegli spunti capaci di spingermi oltre un sincero ma non entusiastico apprezzamento.
Il quartetto veronese, completato dal vocalist Emiliano Cioffi e dal chitarrista Lorenzo Loatelli, si rende autore anche stavolta di un’interpretazione del doom quanto mai ortodossa e competente, con tutti i tasselli al proprio posto, sotto forma di sapienti rimandi all’heavy tricolore dalle tinte orrorifiche, una produzione pulita ed un songwriting a tratti efficace pur nella sua linearità, sfruttando al meglio le doti del bravo chitarrista, di una base ritmica precisa e puntuale e aderendo con lodevole coerenza alle linee guida del genere nella sua versione più tradizionale.
Meno convincente è invece, per mio gusto personale, lo stile canoro di un Cioffi che, sebbene apprezzabile nel suo non voler scimmiottare i vari Marcolin o Lowe, alla lunga si rivela stucchevole, soprattutto in brani come Wicked Lady e Declaration Of Woe, meno brillanti e convincenti rispetto invece agli ottimi Gossamer Claws e Sizigia e, parzialmente, Waco The King.
Claws resta comunque un album di buon valore ma sostanzialmente incapace di coinvolgermi del tutto dal punto di vista emotivo, considerando anche che, alla luce di quanto riferito in precedenza, dopo una partenza ottimale l’intensità della scaletta tende a scemare nel corso delle sue lunghe cinque tracce; detto questo ritengo che il lavoro possieda in gran parte le caratteristiche in grado di soddisfare ampiamente fasce di ascoltatori come gli estimatori del doom classico o dell’heavy metal dalle trame occulte, alle quali un disco di questa fattura è naturalmente indirizzato.

Tracklist:
1. Gossamer Claws
2. Waco The King
3. Sizigia
4. Wicked Lady
5. Declaration Of Woe

Line up:
Emiliano Cioffi – Vocals
Lorenzo Loatelli – Guitars
Nicola Murari – Bass
Mauro Tollini – Drums

EPITAPH – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=QGtkv6tIBYE

Aphonic Threnody – Of Loss and Grief

Il death doom regala un’altra perla nel 2017 con il secondo full length degli Aphonic Threnody, band capace di raggiungere notevoli vette di lirismo e di emozioni.

Una delicata melodia ci introduce al secondo full length degli Aphonic Threnody e diventa subito complicato esprimere a parole il profondo senso di smarrimento di cui queste note si nutrono; la disperazione, l’abbattimento, il viaggio verso una profonda depressione che permeano i settantatré minuti di Of Loss and Grief  rappresentano uno specchio in cui l’ascoltatore deve riflettersi per catturare appieno l’arte della band, attiva dal 2013 con l’EP First Funeral.

Una creatura internazionale comprendente musicisti italiani, cileni e inglesi che, in questo disco, si circondano di ospiti provenienti da alcune tra le migliori band del settore (My Shameful, Worship, Mournful Congregation, Ataraxie, Alunah) per dare “vita” a un’opera intensa, affascinante e debitrice del migliore death doom degli anni 90 ammantato di oscurità funeral.
Il disagio emozionale è grande, così come è importante la capacità creativa dei musicisti che trovano sempre il “quid” giusto in ogni brano per farci intraprendere un viaggio carico di disperazione e dolore; non si inventa nulla di nuovo, ma colpisce la sensibilità e l’intensità della’arte espressa.
Il growl espressivo, presente in tutti i brani, colpisce profondamente e l’alternarsi con female vocals in All I’ve Loved dà un’ulteriore sapore tragico al brano, che pur iniziando con una melodia più limpida si inabissa in lidi doom di gran livello e in liriche di tristezza sconfinata … all I’ve loved is lost.
Brani lunghi con punte di circa venti minuti (Lies) in cui il suono si dipana lento, maestoso quando le chitarre erigono muri melodici ricchi di sfumature, sfrangiandosi talvolta in intarsi acustici e madrigaleschi molto suggestivi per poi lasciarsi andare in parti soliste cariche di lirismo e forza.
Nei sei brani non ci sono riempitivi, tutto è frutto di una vera e sentita ispirazione per il lato oscuro della vita che è in ognuno di noi e di cui l’ascoltatore del doom si alimenta costantemente. Le idee e i suoni fluiscono naturalmente, non vi è nulla di manieristico: questi brani raccontano un viaggio nelle miserie umane, nella perdita di ogni speranza, e un interminabile brano come Lies deve trovare l’ascoltatore predisposto verso questa forma d’arte che, in un mondo frenetico e spesso inconcludente, ha bisogno di essere metabolizzata lentamente per poter penetrare a fondo nell’anima. Disco perfetto per le fredde e umide serate novembrine.

Tracklist
1. Despondency
2. Life Stabbed Me Once Again
3. All I’ve Loved
4. Lies
5. Red Spirits in the Water
6. A Thousand Years Sleep

Line-up
Roberto Mura – vocals
Riccardo Veronese – bass\guitars
Juan Escobar – keys\vocals

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Strike Master – Strike Master

L’album omonimo dei messicani Strike Master è un esempio di thrash massiccio ed old school, consigliato ai fans del genere che vogliono staccare il cordone ombelicale dai i soliti storici nomi.

Il vecchio thrash metal, pur non trovando più il successo degli anni ottanta (a parte la solita manciata di nomi storici), continua a regalare buoni dischi e ottime sensazioni, almeno a chi è sempre in caccia di nuove realtà o band che si muovono da anni nell’underground metallico mondiale ma rimaste ad uso e consumo di pochi Indiana Jones del metal, perennemente alla ricerca della metallica arca perduta.

Gli Strike Master sono nati a Mexico City nel 2005 e sono diventati una delle band più amate e consolidate nella scena del loro paese, valicando i confini con i paesi vicini ed arrivando oltreoceano a colpi di thrash metal che, se strizza l’occhio a quello storico della Bay Area, mantiene una sua forte identità e cattiveria dai rimandi alla vecchia Europa.
Con una discografia che conta ormai cinque full length più una serie di lavori minori e un live, gli Strike Master continuano la loro missione musicale: il trio anche questa volta parte all’assalto con una serie di brani che alternano thrash metal americano in quota primi Metallica a bordate cattivissime dai rimandi ai Kreator.
Velocità, potenza e nessuna concessione alla modernità sono le carte messe sul tavolo dal gruppo centro americano, composto dal Col. Francisco Kmu (chitarra e voce), Corp. Picos (batteria) e Pach (basso) che non le mandano certo a dire travolgendo con tutta la loro forza l’ascoltatore.
Dotata di una sufficiente tecnica per regalare ottime trame strumentali, la band confeziona un lavoro assolutamente in grado di non passare inosservato tra i thrashers che ancora non hanno avuto a che fare con la sua musica e che faticheranno a stare fermi sulla sedia al passaggio delle varie No Future, As I March, Anti Aereal Witchunt Battery e lo strumentale Machines Of Mercy.
Strike Master è un esempio di thrash massiccio ed old school, consigliato ai fans del genere che vogliono staccare il cordone ombelicale dai i soliti storici nomi.

Tracklist
1.Follow Me
2.No Future
3.Boy in the Hole
4.As I March
5.Urban Phantasms
6.The Mortarist
7.Anti Aereal Witchunt Battery
8.Chant of Falcons
9.Machines of Mercy
10.Born Horrible

Line-up
COL.KMU – Vocals, Guitars
CORP.PICOS – Drums
PACH – Bass

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Then Comes Silence – Blood

Melodico ed accattivante, il sound di Blood, quarto lavoro dei Then Comes Silence, vi riporterà indietro nel tempo per poi tornare velocemente al 2017 in un’altalena di umori dark rock, tra chitarre torturate e liquidi tappeti elettro/pop.

Dark rock, postpunk e new wave, tutto rigorosamente ottantiano ma perfettamente calato nel nuovo millennio, assolutamente fuori da umori alternativi e debitore delle band che hanno fatto storia nel genere oscuro per antonomasia.

Melodico ed accattivante, il sound di Blood, quarto lavoro dei Then Comes Silence, vi riporterà indietro nel tempo per poi tornare velocemente al 2017 in un’altalena di umori dark rock, tra chitarre torturate e liquidi tappeti elettro/pop: il gruppo svedese trova la firma prestigiosa con Nuclear Blast con cui licenzia un album dall’appeal molto alto, sempre in bilico tra affascinati sfumature da locale notturno per soli vampirelli e più nobile post punk o dark wave ottanta style.
Ne esce quindi un buon lavoro, che non mancherà di produrre brividi a chi degli anni ottanta ha potuto godere delle trame dark rock dei Sister Of Mercy e post punk dei Joy Division, dell’hard rock ombroso dei primi The Cult e delle litanie stregonesche dei Siouxsie and The Banshees.
Non solo album nostalgico, Blood tiene ben saldi i piedi nel nuovo millennio con un impatto più corposo, con la sua musica a riempire una stanza che trabocca di note melanconiche e colme di raffinato romanticismo.
Un lavoro d’altri tempi ma assolutamente figlio dei tempi, con Alex Svensson perfetto cantore dark di questi undici brani, indiscutibilmente affascinanti e dalla facile presa.
Una raccolta di tracce in cui spiccano i brani più veloci e cool, ma che a ben sentire dà il meglio di sé quando l’anima introspettiva prende il sopravvento, anche se non riesce mai ad uscire dai binari di una melodia che non fa prigionieri, sicuramente un bene in tempi in cui un disco ha poche possibilità di far breccia su una generazione di ascoltatori per lo più frettolosi.
Strange Kicks, la più articolata My Bones, Good Friday e l’oscura Magnetic (con la quale si fa un salto tra le note dei Fields Of The Nephilim), sono i brani che a mio avviso hanno qualcosa in più in un album da ascoltare tutto d’un fiato ed ottimo ascolto per chi ama il dark rock classico ed i suoi derivati.

Tracklist
01. The Dead Cry For No One
02. Flashing Pangs Of Love
03. Strange Kicks
04. My Bones
05. In Leash
06. Choose Your Poison
07. Good Friday
08. The Rest Will Follow
09. Magnetic
10. Warm Like Blood
11. Mercury

Line-up
Alex Svenson – vocals, bass, synthesizers
Seth Kapadia – guitars
Jens Karnstedt – guitars
Jonas Fransson – drums

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