A Taste Of Fear – God’s Design

La potenza degli A Taste Of Fear cammina di pari passo con la loro tecnica musicale, che non è affatto mera ostentazione di un saper fare, ma è sicura esposizione di un saper creare musica, esprimendo se stessi e ciò che si portano dentro.

Gli A Taste Of Fear vengono da Roma e confezionano un buon assalto sonoro, in bilico fra thrash metal e death metal.

Innanzitutto sono molto immediati e hanno una tecnica notevole, cose assai difficili da coniugare e riescono a creare un impasto sonoro incandescente. I riferimenti sono i grandi nomi dei generi suddetti, ma il risultato è assolutamente personale. Le canzoni sono tutte sviluppate in maniera strutturata, con impalcature sonore molto forti che hanno alla base una notevole dose di melodia, alla lunga destinata ad uscire fuori dando un notevole valore aggiunto al disco. Il gruppo è al suo debutto discografico, ma è nato nel 2014 da un’idea del bassista Michele Attolino, che voleva suonare in maniera potente i suoi due generi preferiti, ovvero il thrash metal ed il death metal, riuscendo ad attingere il meglio dai due sottogeneri. La prima prova di questo gruppo ne mostre le buone doti e la capacità di trovare sempre la soluzione musicale adatta al passaggio ed al momento. La potenza degli A Taste Of Fear cammina di pari passo con la loro tecnica musicale, che non è affatto mera ostentazione di un saper fare, ma è sicura esposizione di un saper creare musica, esprimendo se stessi e ciò che si portano dentro. God’s Design è un disco mai scontato e che galoppa forte verso un’orizzonte che ci riserverà molte gioie, visto il buon inizio.

1.God’s Design
2.Into Hell
3.Out Of Place
4.A Feared Secret
5.Make Suffer
6.Ripped Soul’s Gift
7.The Passage
8.A Taste Of Fear

Line-up
Stefano Sciamanna: vocals
Emiliano Pacioni: guitars
Michele Attolino: bass
Flavio Castagnoli: drums

A TASTE OF FEAR – Facebook

DEINONYCHUS

Il video di “For This I Silence You”, dall’album “Ode To Acts Of Murder, Dystopia And Suicide” (My Kingdom Music).

Il video di “For This I Silence You”, dall’album “Ode To Acts Of Murder, Dystopia And Suicide” (My Kingdom Music).

Howling Giant – Black Hole Space Wizard: Part 2

L’unione delle due parti dell’album (la prima è uscita lo scorso anno) farebbe di Black Hole Space Wizard un lavoro di culto almeno per gli amanti dei viaggi musicali.

Nashville, Tenneessee, in un anno imprecisato tra il 2010 ed il 2014, tre ragazzi furono invitati sul disco volante apparso vicino alla loro tenda.

Quando tornarono a terra, ancora sbalorditi e sopresi da quell’avventura fondarono una band chiamata Howling Giant, era il 2014 appunto.
Dopo tre anni i tre musicisti americani arrivano al traguardo del terzo ep, la seconda parte del concept Black Hole Space Wizard, un viaggio doom psichedelico tra lo spazio e la mente, ancora probabilmente in trip dopo l’esperienza sull’oggetto volante non indentificato.
Mezz’ora di musica rock traviata da allucinate atmosfere space stoner, l’album si dipana così in una lunga jam divisa in sei capitoli, sei trip, sei acidi trovati sulla nave interstellare che ha portato Tom Polzine, Roger Marks e Zach Wheeler in giro per l’universo.
Ora non si sa bene se i tre abbiano raggiunto una tale pace interiore, magari dovuta al contatto con menti superiori o perché si siano trovati al cospetto di diavolerie chimiche provenienti da un altro pianeta con effetti devastanti sulla mente, fatto sta che brani come l’opener Henry Tate o i sette minuti da viaggio mentale di Visions sono un micidiale cocktail space/psych/stoner rock da urlo di Munch.
L’unione delle due parti dell’album (la prima è uscita lo scorso anno) farebbe di Black Hole Space Wizard un lavoro di culto almeno per gli amanti dei viaggi musicali.

Tracklist
1.Henry Tate
2.The Pioneer
3.Visions
4.The Forest Speaks
5.Circle of Druids
6.Earth Wizard

Line-up
Tom Polzine – Guitar and Vocals
Roger Marks – Bass and Vocals
Zach Wheeler – Drums and Vocals

HOWLING GIANT – Facebook

Almanac – Kingslayer

Suonato e cantato benissimo, valorizzato da un suono potente e cristallino e reso appetibile da ritmiche che non nascondono un tocco groove nella loro folle corsa verso la gloria metallica, Kingslayer è un altro bersaglio centrato dal chitarrista bielorusso e dai suoi Almanac

Gli Almanac, la band fondata dal chitarrista bielorusso Victor Smolski dopo il commiato dai Rage, interpreta alla perfezione quello che dovrebbe essere la band metal di stampo classico nel 2017 e questo secondo album, licenziato a distanza di un anno dall’esordio Tsar, lo conferma in pieno.

Lasciate le molte sfumature barocche che valorizzavano l’album precedente per un approccio più diretto, heavy e groove, pur rimanendo ben saldo nel genere classico, Kingslayer affronta la materia con un’aggressività ed un impatto che non mancherà di piacere anche a chi il metal tradizionale lo consuma a piccole dosi.
Ovviamente rimane forte la componente orchestrale, anche se non più così ispirata dall’anima sinfonica dei Rage (Lingua Mortis Orchestra) ma molto più vicina al power metal tutto impatto ed epicità.
Grande è il lavoro (come ovvio che sia) di Smolski alla sei corde, questa volta impegnato anche con i tasti d’avorio, presente e compatta la sezione ritmica nuova di zecca con Athanasios “Zacky” Tsoukas alle pelli e Tim Rashid al basso e spettacolari le evoluzioni dei tre vocalist che come nel primo album sono Jeannette Marchewka (Lingua Mortis Orchestra), Andy B. Franck (Brainstorm) e David Readman (Pink Cream 69).
Registrato agli HeyDay Studios a Wuppertal in Germania e licenziato dalla Nuclear Blast, l’album parte in quarta con l’opener Regicide, power metal song potente e veloce che da subito mette in chiaro il nuovo trademark targato Almanac, seguita da Children Of The Sacred Path, altro brano da autovelox impazzito con Smolski che con gusto rifila solos neoclassici su bordate power, sostenute da ritmiche mozzafiato e potenti sinfonie.
Kingslayer corre dritto fino alla fine, ci consegna ancora almeno quattro devastanti brani di power metal epico ed orchestrale (il singolo Losing My Mind, Hail To King, Headstrong e la conclusiva, epicissima Red Flag) accomiatandosi tra fuochi d’artificio metallici.
Suonato e cantato benissimo, valorizzato da un suono potente e cristallino e reso appetibile da ritmiche che non nascondono un tocco groove nella loro folle corsa verso la gloria metallica, Kingslayer è un altro bersaglio centrato dal chitarrista bielorusso e dai suoi Almanac, esempio di ottimo metal tradizionale ed orchestrale per i defenders del nuovo millennio.

Tracklist
1. Regicide
2. Children Of The Sacred Path
3. Guilty As Charged
4. Hail To The King
5. Losing My Mind
6. Kingslayer
7. Kingdom Of The Blind
8. Headstrong
9. Last Farewell
10. Red Flag

Line-up
Victor Smolski – guitars, keyboards
Andy B. Franck – vocals
David Readman – vocals
Jeannette Marchewka – vocals
Athanasios “Zacky” Tsoukas – drums
Tim Rashid – bass

ALMANAC – Facebook

Camerata Mediolanense – Le Vergini Folli

Le Vergini Folli è rivolto ad un pubblico selezionato, il quale deve porsi come obiettivo primario quello di godere della purezza stilistica e poetica di un lavoro che ferma lo scorrere del tempo, obbligando ad ascoltare musica spogliata delle convenzioni strumentali e compositive della nostra epoca.

Da oltre vent’anni la Camerata Mediolanense costituisce una delle più piacevoli anomalie musicali del nostro paese.

Anomalia in quanto, nonostante uno stile che rifugge ogni accenno di rumorosità o modernità, l’ensemble è sempre gravitato anche nella sfera di gradimento della fascia di ascoltatori di rock e metal dotati di una naturale propensione verso sonorità impattanti dal punto di vita emotivo.
A tutto questo, poi, contribuisce poi l’ingresso nel nuovo decennio della Camerata Mediolanense nel roster della Prophecy Productions, etichetta tedesca che propone ogni volta dischi di straordinaria qualità afferenti a generi che vanno dal black metal sino al neofolk o appunto, alla derivazione neoclassica che troviamo elevata alla sua massima espressione in questo Le Vergini Folli.
Come sostiene Elena Previdi, fondatrice del collettivo, l’album può apparire datato per sonorità ed approccio perché lo è a tutti gli effetti, collocandosi ben al di fuori di ogni tentazione modaiola: proprio per questo Le Vergini Folli è rivolto ad un pubblico selezionato, il quale deve porsi come obiettivo primario quello di godere della purezza stilistica e poetica di un lavoro che ferma lo scorrere del tempo, obbligando ad ascoltare musica spogliata delle convenzioni strumentali e compositive della nostra epoca, ancor più in questa occasione che non prevede alcun intervento delle percussioni, molto importanti invece nell’economia degli album precedenti.
A dominare la scena sono quindi il pianoforte della Previdi e l’intreccio delle voci femminili di Desirée Corapi, Carmen D’Onofrio e Chiara Rolando che, assieme a quella maschile di 3vor, interpretano i sei componimenti poetici scritti da altrettante ed anonime autrici femminili d’altri tempi, oltre a due sonetti del Petrarca che si rivelano, peraltro, una gradita appendice a Vertute, Honor, Bellezza, uscito nel 2013 e del tutto basato a livello lirico sull’opera del poeta aretino.
A colpire, nell’operato della Camerata Mediolanense, è l’esibizione di una limpidezza compositiva che non può lasciare indifferenti, con le cristalline voci delle splendide interpreti che declamano versi scritti in un italiano pregno di una ricchezza espressiva destinata, irrimediabilmente, a scemare di pari passo con l’abbrutimento etico e sociale.
Gli otto brani riconciliano con l’arte, in virtù di una proposta che non ha nulla dello snobismo intellettuale di certe proposte elitarie, ma riporta direttamente all’essenza della musica, quella che riluce in particolare nella conclusiva Quando ‘l sol, dove la poetica petrarchesca viene sublimata in una trasposizione di abbagliante bellezza, grazie all’interpretazione vocale di Desirée Corapi ed al talento pianistico di Elena Previdi.
E’ magnifica anche Mi Vuoi, dal beffardo e trascinante finale, mentre l’altra traccia ispirata dal poeta toscano è Pace Non Trovo, perfetta nel suo duetto tra voce femminile e maschile: anche per questi due brani, oltre al già citato Quando ‘l sol, sono stai girati altrettanti video, meritevoli di visione anche per la cura dei particolari che li contraddistingue.
Le Vergini Folli è un album da non perdere, è un lampo di struggente poesia che si fa musica (nel senso più letterale) ed essendo in qualche modo collocabile artisticamente nel passato, per un ascolto ideale necessita dell’astrazione da un presente che non contempla soverchie pause di riflessione.

Tracklist:
1.Lacrime di gioia
2.Scrissi con stile amaro
3.Notte di novelli sogni
4.Mi vuoi
5.Notte ancora
6.Pace non trovo
7.Dolce salire
8.Quando ‘l sol

Line up:
Elena Previdi – composizione, tastiere, clavicembalo, organo, fisarmonica e percussioni
Giancarlo Vighi – tastiere, percussioni, voce (coro)
3vor – voce (baritono), percussioni, tastiere e campionamenti
Manuel Aroldi – percussioni
Marco Colombo – percussioni
Desirée Corapi – voce
Carmen D’Onofrio – voce (soprano lirico)
Chiara Rolando – voce

CAMERATA MEDIOLANENSE – Facebook

Paramnesia / Ultha – Split

I francesi Paramnesia ed i tedeschi Ultha si rivelano due ottime band che, in qualche modo, fotografano nitidamente le tendenze delle rispettive scuole nazionali in ambito black metal.

La Les Acteurs De L’Ombre Productions è un’altra etichetta che si sta facendo pazientemente largo, puntando sulla pubblicazione di album di qualità i cui autori sono spesso gruppi ancora relativamente poco conosciuti.

In quest’occasione le band portate all’attenzione del pubblico sono due, visto che l’oggetto dell’articolo è uno split album che accomuna i francesi Paramnesia ed i tedeschi Ultha.
La prima parte è appannaggio dei Paramnesia, autori di un post black dai connotati piuttosto cupi: VI è un brano decisamente elaborato che vive di qualche brusca accelerazione alternata a momenti di liquida calma, riuscendo con buona continuità a mantenere sempre alta la tensione. L’offerta del gruppo di Strasburgo va lavorata con pazienza perché non presenta grandi aperture melodiche vivendo, come detto, di una sorta di compressione sonora in un misto di rabbia e disperazione.
Se l’ambito stilistico, almeno a livello di assegnazione di un etichetta, può essere lo stesso per i teschi Ultha, in realtà l’approccio che rinveniamo è ben diverso e più canonicamente collocabile nel black metal, con ritmiche quasi sempre sostenute, chitarre che esprimono al meglio uno spiccato senso melodico con il ricorso al tradizionale tremolo e la differenza fatta da un’intensità non comune, che rende i diciotto minuti di The Seventh Sorrow un piccolo gioiello da maneggiare con estrema cura, confermando i riscontri entusiastici che la band di Colonia aveva ottenuto con il full length Converging Sins, uscito lo scorso anno.
Paramnesia e Ultha si rivelano due ottime band che, in qualche modo, fotografano nitidamente le tendenze delle rispettive scuole nazionali: se in Francia si prediligono spesso sonorità meno immediate e sovente intricate, con pulsioni estreme provenienti da altri sottogeneri, in Germnania il black metal possiede quel senso di solennità che si può esprimere sia con un mood malinconico sia come un senso di incombente minaccia.
Due maniere diverse, ma entrambe ugualmente apprezzabili, di interpretare il genere: per gusto personale preferisco gli Ultha, anche perché non posso nascondere la mia predilezione per il gusto con il quale il black viene maneggiato in terra tedesca, ma i Paramnesia non sono affatto da meno, anche se la loro proposta è naturalmente rivolta a chi preferisce un sound più disturbato ed obliquo.

Tracklist:
1. PARAMNESIA – VI
2. ULTHA – The Seventh Sorrow

Line-up
PARAMNESIA
Pierre Perichaud Drums
Antonin Gerard – Guitars
Simon Barth – Bass
Thibault Bapst – Vocals

ULTHA
Chris – Bass, Vocals
Ralph – Guitars, Vocals
Manu – Drums
Andy – Electronics
Ralf – Guitars

PARAMNESIA – Facebook

ULTHA – Facebook

Shrine Of The Serpent / Black Urn – Shrine Of The Serpent / Black Urn

Lo split album favorisce la scoperta di una band di notevole solidità come gli Shrine Of The Serpent, perché i quasi venti minuti di musica inedita offerti lasciano davvero un ottima impressione, mentre per i Black Urn, aldilà della cover degli AIC, si può comunque intuire un potenziale ugualmente interessante.

Altro giro, altro regalo, altro split album.

La label polacca Godz Ov War Productions ha immesso sul mercato la versione in CD di questo lavoro che vede all’opera con due brani ciascuno le band statunitensi Shrine Of The Serpent e Black Urn; per amore di precisione va aggiunto che il lavoro è stato contemporaneamente edito in formato musicassetta dalla Caligari Records.
Gli Shrine Of The Serpent provengono da Portland e questa è la loro seconda uscita dopo l’ep omonimo del 2015: la band evidentemente si sta prendendo tutto il tempo necessario prima di fare il passo del full length, ma la strada intrapresa, benché lenta come la loro musica, pare rivelarsi quella giusta visto che il doom death catacombale esibito nelle monolitiche Desicrated Tomb e Catacombs of Flesh è molto vicino, per indole ed approccio, a quello di un album seminale per il genere come Foresto Of Equlibrium dei Cathedral, il tutto rivisto scremato dalla componente psichedelica. Ciò che viene offerto è un sound dal grande impatto e di altrettanta qualità, inclusa una produzione del tutto all’altezza della situazione.
I Black Urn arrivano invece da Philadelphia, hanno una storia non dissimile da quelle dei compagni di split sia per anzianità di servizio che di fatturato discografico, ed appaiono fin dalle prime note di Catacombs of Flesh propensi ad uno stile più vario, con un’alternanza ritmica marcata a fronte di un’incisività appena inferiore; il colpaccio però questi ragazzi lo piazzano con una micidiale cover di Junkhead, brano degli immensi Alice In Chains che si presta in maniera naturale ad una “doomizzazione” aspra ma che ne mantiene intatte le principali caratteristiche (a parte lo screming furioso che, rimpiazzando la magia vocale di Layne Staley, inevitabilmente può risultare spiazzante).
A livello di consuntivo resta sicuramente la scoperta di una band di notevole solidità come gli Shrine Of The Serpent, perché i quasi venti minuti di musica inedita offerti lasciano davvero un ottima impressione, mentre per i Black Urn, aldilà della citata cover, si può comunque intuire un potenziale ugualmente interessante.

Tracklist:
Side A
1. Shrine of the Serpent – Desicrated Tomb
2. Shrine of the Serpent – Catacombs of Flesh
Side B
3. Black Urn – My Strength Is Within Heavenless Plains
4. Black Urn – Junkhead

Line-up:
Shrine Of The Serpent
Todd Janeczek – Guitars, Vocals
Chuck Watkins – Drums
Adam DePrez – Guitars, Bass

Black Urn
Alex Onderdonk – Bass
Tim Lewis – Drums
Jordan Pierce – Guitars
Ryan Manley – Guitars, Vocals
John Jones – Vocals

SHRINE OF THE SERPENT – Facebook

BLACK URN – Facebook

Blowout – Buried Strength

Un album potentissimo e dall’impatto devastante, assolutamente in grado di tenere legati allo stereo prima che le cuffie si trasformino in un ammasso di plastica e fili, fusi dall’inferno di lava bollente che improvvisamente scende tra le note dall’album.

Continua senza sosta l’ottima forma della scena alternativa made in Italy, da un po’ di anni ben assestata nei piani alti dell’underground nazionale ed internazionale e che ci fa partecipi di ottime realtà e tanta buona musica.

L’alternative metal dai rimandi stoner e soprattutto doom è il sound offerto dai Blowout, band trentina con nel sangue la sabbia del deserto e non la neve delle loro bellissime montagne.
I Blowout hanno dato inizio al loro viaggio tra pianure assolate e vulcani addormentati nel 2013, hanno trovato rimedio a diverse defezioni nella line up e un paio di anni fa hanno licenziato il loro primo ep.
E’ giunto il momento per la band del meritato esordio sulla lunga distanza che arriva quest’anno con Buried Strength, album di otto brani che vede la partecipazione in veste di ospite dello storico chitarrista Dario Cappanera (Strana Officina, Rebeldevil) sul brano Stomp On Fire.
Buried Strength è un vulcano in eruzione, un potentissimo calcio nei denti che farà tremare le pareti di casa vostra come il terremoto che precede l’esplosione di lava, un pesante album di metallo alternativo che amalgama impatto ed attitudine stoner metal a più tradizionali bordate di doom, il tutto perfettamente legato da sfumature southern e grunge che modernizzano e rendono molto americano il tutto.
Ed è proprio la traccia che vede come ospite il Kappa, l’esempio perfetto del sound lavico del gruppo, dove i Cathedral di Lee Dorian jammano con i Kyuss, i Black Sabbath e i Down, in un’atmosfera catacombale.
Ma non ci si ferma qui e i Blowout hanno diverse frecce da scagliare,  e l’atmosfera settantiana ritual e cadenzata (ancora la bellissima title track) è alternata a passeggiate nella Sky Valley (l’opener Cheers In Hell e Slum) prima che tutto si tramuti in cenere che lenta cade sul nostro stereo al ritmo della sabbathiana Scars On The Road.
Un album potentissimo e dall’impatto devastante, assolutamente in grado di tenere legati allo stereo prima che le cuffie si trasformino in un ammasso di plastica e fili, fusi dall’inferno di lava bollente che improvvisamente scende tra le note dall’album.

Tracklist
1. Cheers in hell
2. Slum
3. Feel The Phantom Pain
4. Be Divided Be Ruled
5. Stomp On Fire
6. Ghost Shadow
7. Buried Strength
8. Scars of the Road

Line-up
Lorenzo Helfer – Bass
Giuseppe Fontanari – Guitars
Igor Rossi – Vocals
Michele Matuella – Drums
Andrea Avancini – Guitars

BLOWOUT – Facebook

Honeymoon Disease – Part Human, Mostly Beast

Un altro album che merita la giusta attenzione: Part Human, Mostly Beast insegue a poca distanza i migliori lavori italiani del genere, risultando un ascolto gradito anche per i rockers più attempati.

Quando si parla di hard rock o classic rock il sottoscritto va in brodo di giuggiole, e i rockers svedesi Honeymoon Disease ce la mettono tutta per non deludere le aspettative create dal loro secondo lavoro, Part Human, Mostly Beast, successore dell’ottimo The Transcendence, debutto sulla lunga distanza uscito un paio di anni fa.

Un quartetto equamente diviso tra maschietti (il bassista Nick, ed il batterista Jimi) e gentil donzelle (la singer Jenna e la chitarrista Acid), un sound coinvolgente che del classic rock si nutre irrobustendolo di watt ed una raccolta di brani piacevolmente retrò o vintage, come usa dirsi di questi tempi, ma alla fine è solo rock ‘n’ roll, o meglio hard rock pregno di blues come si usava negli anni settanta e che oggi è tornato a fare la voce grossa sul mercato musicale grazie anche alle molte realtà scandinave.
Il gruppo ha nei Thin Lizzy i suoi padrini, ed ovviamente il sound si sposta sul classic rock di matrice britannica per poi spingersi tra le strade impervie del rock e finire sperduto tra le praterie americane degli anni cinquanta, quando il rock’n’roll era valvola di sfogo del popolo di colore e Chuck Berry faceva meraviglie con Johnny B.Goode (Fly Bird, Fly High e splendida in questo senso) e Suzi Quatro e le Girlschool sono state, in epoche diverse, le riot girl, dal rock all’hard & heavy.
Rymdvals è la perla blues di un lavoro che ha non poche frecce al proprio arco: chorus azzeccati, ottimi riff ed una buona alternanza tra atmosfere più dirette e rock ed altre più vicine al metal dei primissimi anni ottanta.
Un altro album che merita la giusta attenzione: Part Human, Mostly Beast insegue a poca distanza i migliori lavori italiani del genere, risultando un ascolto gradito anche per i rockers più attempati.

Tracklist
1 – Doin’ it Again
2 – Only Thing Alive
3 – Tail Twister
4 – Rymdvals
5 – Needle In Your Eye
6 – Fly Bird, Fly High
7 – Calling You
8 – Four Stroke Woman
9 – Night By Night
10 – It’s Alright
11 – Coal Burnin’
12 – Electric Eel

Line-up
Jenna – Vocals & Guitar
Acid – Guitar
Cedric – Bass
Jimi – Drums

HONEYMOON DISEASE – Facebook

Luna – Swallow Me Leaden Sky

Swallow Me Leaden Sky regala quasi tre quarti d’ora di buon funeral death doom atmosferico, che ben difficilmente non farà breccia negli estimatori del genere.

Su quest’ultimo lavoro della one man band ucraina Luna avei potuto più o meno fare un copia incolla di quanto scritto nelle precedenti occasioni: DeMort, titolare del progetto, continua imperterrito a sfornare un buon funeral doom atmosferico interamente strumentale e che trae ispirazione in maniera piuttosto marcata dal sound degli Ea, anche se Swallow Me Leaden Sky mostra una progressione importante, se non dal punto di vista dall’originalità, sicuramente da quello prettamente qualitativo.

D’altronde, come già detto parlando di Ashes to Ashes e On the Other Side of Life, i due full length usciti rispettivamente nel 2014 e nel 2015, il rifarsi al sound tipico della misteriosa band americana non è certo da considerarsi deprecabile, specialmente se si apprezza in toto questa espressione musicale che qui viene riproposta con competenza e buona ispirazione.
Il permanere della struttura interamente strumentale resta pur sempre un limite, anche se forse in questo genere lo è meno che in altri; d’altro canto, però, in questo ultimo lavoro, non si può fare a meno di notare che alcuni degli elementi di discontinuità inseriti nel bellissimo ep There Is No Tomorrow Gone Beyond Sorrow Under a Sheltering Mask, uscito a cavallo tra i primi due full length, vengono ripresi dal musicista ucraino riuscendo cosi a conferire al tutto un’aura più drammatica e solenne, specialmente nella seconda delle due lunghe tracce, la title track. E’ proprio qui che il sound acquista parecchi punti in personalità e profondità rispetto al pur buono brano iniziale Everything Becomes Dust, con l’aggiunta di una sorta di vocalizzo campionato che si fa gradevolmente ossessivo nella seconda metà della traccia: la chitarra diviene finalmente protagonista soppiantando le tastiere nel ruolo preponderante assunto fino ad allora, spostando il tutto su un piano più cosmico affine a quello dei Monolithe, altra importante fonte di ispirazione per la musica marchiata Luna.
Grazie a questo l’operato di DeMort acquista quello spessore che era mancato talvolta nei lavori precedenti, assurgendo ad una forma decisamente compiuta e ben diversa da quella di buon surrogato del già esistente, definizione che sembrava essere fino ad oggi quella più calzante per la one man band di Kiev.
Swallow Me Leaden Sky regala così quasi tre quarti d’ora di buon funeral death doom atmosferico, che ben difficilmente non farà breccia negli estimatori del genere.

Tracklist:
1.Everything Becomes Dust
2.Swallow Me Leaden Sky

Line-up
DeMort

Worstenemy – Deception

E’ giunta l’ora in cui la seconda apocalisse targata Worstenemy si abbatta su di voi senza lasciarvi scampo.

E’ giunta l’ora in cui la seconda apocalisse targata Worstenemy si abbatta su di voi senza lasciarvi scampo.

Il gruppo sardo torna con un nuovo lavoro, il devastante parto estremo intitolato Deception, a quattro anni di distanza dal notevole Revelation, album che lo aveva fatto conoscere ad una più ampia fetta di amanti del death metal tramite la Wormholedeath.
I nuovi Worstenemy sono formati dall’ormai storico chitarrista e cantante Mario Pulisci, accompagnato questa volta dall’ex Hour Of Penance Simone “Arconda” Piras alla batteria e Luigi Cara (Deathcrush / Malignant Defecation) alle prese con basso e voce.
Di death metal si tratta, chiamatelo old school o come volete, rimane il fatto che Deception è un martello pneumatico che penetra inesorabile sulla vostra testa, seminando materia cerebrale nella stanza dove senza cautela alcuna avrete schiacciato il tasto play.
Una sezione ritmica devastante, un sound pieno, mastodontico e pesantissimo, una prova notevole a livello tecnico al servizio di un lotto di brani debordanti, fanno di Deception uno degli album più riusciti degli ultimi tempi, ovviamente parlando di death metal.
La title track è un inizio fulminante e i brani da macello metallico alternano a tratti rallentamenti doom/death da copione per poi ripartire più minacciosi e cattivi di prima; le band storiche del panorama estremo statunitense sono ancora ben presenti nel sound degli Worstenemy i quali, dalla loro, possono vantare un songwriting ispirato e tanta personalità.
Conquer The Illusion, Blood And Dust, Seasons Of War, in odore di Bolt Thrower ed unica concessione “europea” al sound di Deception, e la magnifica cover di Grind (brano degli Alice In Chains dall’omonimo terzo lavoro), prendono per mano l’intera tracklist formando un muro sonoro invalicabile; mastodontico e penetrante, l’album non concede tregua, e le macerie su cui passeggiano i tre musicisti nostrani dopo il micidiale passaggio di questi inesorabili undici schiacciasassi estremi confermano il tiro di un’altra categoria del combo sardo.

Tracklist
1.Deception
2.Solis
3.Conquer the Illusions
4.Fog or Shine
5.Blood and Dust
6.A Mortal God
7.5th Level of Suffering
8.Seasons of War
9.New Era of Terror
10.Grind (Alice in Chains cover)
11.I

Line-up
Mario Pulisci – Vocals, Guitars
Luigi Cara – Bass, Vocals
Simone “Arconda” Piras – Drums

WORSTENEMY – Facebook

Black Capricorn – Omega

Un ottimo lavoro tutto italiano per un ascolto doom che vale la pena di fare. Sporco quanto basta, estroverso ma controllato, il disco è un salutare tuffo in immaginari non scontati.

Pronti? Anche qualora non lo foste, i Black Capricorn hanno le idee più chiare che mai sul loro intento in questo nuovo disco, Omega.

La band sarda ha già degli ottimi trascorsi alle spalle, e non si lascia intimidire dalla sperimentazione, essendo cosciente dei propri mezzi.
È un doom sempre di ottimo livello il loro, e con questo ultimo album decidono di guardare verso una direzione più rituale e mistica rispetto, per esempio, ad un disco molto deciso e dirompente come Cult of Black Friars (2014).
C’è un sentore di solennità già dalle prime note, ovvero l’intro, che ci accompagna dentro il loro mondo inesplorato con tanta curiosità ma anche con un leggero timore. Il cantato risulta sempre evocativo e pregnante con il contesto per tutta la durata dell’ascolto, e su questo certamente non avevamo dubbi da parte di una band con parecchia esperienza e consapevolezza.
La loro scelta stilistica per questo album non abbandona però le classiche e immancabili schitarrate senza pietà che caratterizzano questo supremo genere. I Black Capricorn cercano un equilibrio tra queste due componenti, forse tenendo ben presente in testa l’immagine dei colossi Candlemass. Il brano Antartide, il più lungo di tutto l’album, intrappola un minaccioso torpore tra due estremi, all’inizio e alla fine della canzone, in cui invece sembra venirci concessa una pausa di riflessione, la quale, ovviamente, non si realizza mai del tutto.
Questa band italiana fa esattamente il proprio dovere, il che forse è uno dei limiti di questo disco, dal sound molto diretto anche se non molto elaborato. Se questo è un ottimo pregio è anche vero che, a tratti, l’impatto sonoro sembra accontentarsi e adagiarsi su alcuni standard musicali.
Tuttavia questa band conferma tutta la sua esperienza, competenza e conoscenza dei propri mezzi. Non c’è alcun dubbio che ne vedremo ancora delle belle.

Tracklist
1. Alpha
2. Evil Horde of Lucifer
3. Accabadora
4. Flower of Revelation
5. Antartide
6. Black Capricorn’ seal
7. Devil and the Death
8. The man who dared
9. Stars of Orion
10. Quest for Agartha
11. Omega

Line-up
Virginia – Bass
Rakela – Drums
Kjxu – Guitars (rhythm), Vocals

BLACK CAPRIORN – Facebook

Deos – In Nomine Romae

In Nomine Romae è consigliato sia ai fans del black metal sinfonico che a quelli del death epico e guerresco.

L’impero romano glorificato a colpi di blackened death metal, orchestrale e melodico, epico e suggestivo, questo è In Nomine Romae secondo album dei francesi Deos.

Attiva da soli tre anni e con il precedente album licenziato due anni fa (Ghosts Of The Empire), la legione romana trapiantata in Francia strappa la firma con Buil2Kill Records e ci scaraventa in pieno impero, alla conquista del mondo all’epoca conosciuto, celebrando la sua grandezza ad ogni nota che compone l’opera divisa in tredici brani più intro.
Ovviamente epico, il sound dei Deos, a tratti davvero suggestivo, prende forza dal black metal, lo potenzia con il death che fa da fedele centurione e lo armonizza con tappeti orchestrali che tanto sanno di Emperor.
Dopo l’intro “italiana” L’armata Dei Coraggiosi, l’opera prende il via tra ritmiche veloci, orchestrazioni oscure ed un scream/growl che riempie di epica e guerresca cattiveria le atmosfere di brani come Caput Mundi, mentre le sfumature si fanno sempre più oscure e l’odore di morte più intenso all’ascolto di Memento Mori e Laudatio Funebris, un mid tempo funereo e molto suggestivo.
L’atmosfera dell’album non accenna a lasciare territori oscuri, mentre le conquiste si moltiplicano e così le lodi all’impero; le trame epiche si avvicinano agli Amon Amarth, ma sono le band fedeli alla storia dell’Urbe che tornano prepotentemente in auge all’ascolto dell’opera (Ex Deo ed i nostrani Ade, coi quali il gruppo partirà per un tour).
Più vicini al black metal, i Deos risultano sicuramente più oscuri e maligni: In Nomine Romae è quindi consigliato sia ai fans del black metal sinfonico che a quelli del death epico e guerresco, che troveranno di che esaltarsi tra le trame delle varie Cunctator e Delenda Carthago.

Tracklist
1.L’armatura dei coraggiosi
2.Pro Iovis Pro Mars
3.Caput Mundi
4.Sapere Aude
5.Oderint Dum Metuant
6.Memento Mori
7.Cincinnatus
8.Laudatio Funebris
9.Mylae
10.Post Tenebras Lux
11.Cunctator
12.Aut Vincere Aut Mori
13.Delenda Carthago

Line-up
Jack Graved – Bass, Vocals
Loïc Depauwe – Drums
François Giraud – Guitars
Fabio Battistella – Guitars
Harsh Wave – Keyboards

DEOS – Facebook

MACHINE HEAD

Il video dal vivo di ‘Now We Die’, dal bonus DVD di “Catharsis”, in uscita a gennaio (Nuclear Blast).

Il video dal vivo di ‘Now We Die’, dal bonus DVD di “Catharsis”, in uscita a gennaio (Nuclear Blast).

Premiata Forneria Marconi – Emotional Tattoos

Il ritorno della Premiata Forneria Marconi è il trionfo della classe, del talento e della passione, è il veicolo ideale di quelle emozioni che solo la musica sa regalare, imprimendole virtualmente sulla nostra pelle affinché si trasformino in nutrimento per l’anima.

E’ sempre difficile raccontare ciò che contiene e restituisce in termini di sensazioni un disco qualsiasi, figuriamoci se questo corrisponde al ritorno ad un album di inediti dopo oltre un decennio da parte di musicisti che hanno fatto la storia del rock progressivo, non solo in Italia.

Stiamo parlando della Premiata Forneria Marconi, band che è stata una delle tre punte del movimento tricolore negli anni settanta assieme a Banco ed Orme ma che, magari, quelli un po’ meno vetusti del sottoscritto assoceranno più naturalmente al gruppo che diede una nuova veste alle canzoni di Fabrizio De Andrè, accompagnandolo a lungo in tour ed ottenendo un enorme successo.
Il tempo passa inesorabile (sono quarantacinque gli anni che ci dividono da Storia di Un Minuto), ma i due brillanti settantenni che rispondono ai nomi di Franz Di Cioccio e e Patrick Djivas hanno ancora voglia di mostrare a tutti quanto abbiano da dire; e proprio il tempo, con il suo inesorabile trascorrere, connesso alla necessità di cogliere l’attimo e sfruttare ogni occasione senza porsi alcun limite, men che meno anagrafico, è un po’ il filo conduttore di un lavoro che non è solo splendido da un punto di vista strettamente musicale ma, appunto, da quello concettuale.
Giusto per essere chiari fin da subito, Emotional Tattoos, è quanto più lontano si possa immaginare dal fiacco ritorno di un gruppo di reduci:  Di Cioccio e Djivas, assieme al loro storico sodale Lucio Fabbri, hanno radunato attorno a loro una band che è uno spettacolare mix tra esperienza e talento; così, alle tastiere troviamo due giovani come Alessandro Scaglione e Alberto Bravin (quest’ultimo si occupa anche della backing vocals), mentre alla batteria, ad alternarsi allo storico Franz, troviamo uno dei più richiesti professionisti dello strumento come Roberto Gualdi e, infine, alla chitarra, il non facile compito di sostituire per la prima volta su un album di inediti Franco Mussida è stato affidato al napoletano Marco Sfogli, uno degli astri nascenti delle sei corde, già ampiamente apprezzato anche fuori dai nostri confini in quanto titolare del ruolo nella band che accompagna James LaBrie in veste solista.
Con queste premesse, gli scettici potrebbero continuare a ritenere che, in fondo, dal punto di vista tecnico non ci sarebbe stato nulla da eccepire a prescindere, ma riguardo ai contenuti? Ecco, qui sta il bello: i tatuaggi emotivi evocati dal titolo si stampano adornando senza soluzione di continuità la pelle dell’ascoltatore, ed ogni immagine corrisponde ad un brano che mostra una ricchezza ed una qualità che, nonostante tutto, riesce ugualmente a stupire.
Gli undici brani rappresentano un viaggio nella memoria per i più anziani e l’eccitante scoperta per i più giovani di un epopea che magari si è persa in tempo reale, ma che nulla vieta di recuperare facendola propria a posteriori: Emotional Tattoos, però, è bene ribadirlo, non ha nulla di nostalgico a livello di sonorità, bensì appare in tutto e per tutto un album assolutamente al passo con i tempi, e se l’impronta della vecchia PFM è sempre lì, ben presente nel ricordarci chi siano gli autori di Celebration (Freedom Square), sono brani dal tocco più moderno come il favoloso singolo La Lezione o caleidoscopici come La danza degli specchi, con la quale i nostri portano a scuola diverse generazioni di musicisti, a risplendere con tratti quasi accecanti all’interno di una tracklist tutta da godersi e della quale appare quanto mai superfluo, se non irrispettoso, stare a raccontarne ogni singolo episodio per filo e per segno, facendo le pulci all’operato di musicisti ai quali andrebbero piuttosto intitolate vie e piazze in segno di imperitura gratitudine.
Come ciliegina sulla torta la PFM ha pubblicato Emotional Tattoos nel formato in doppio cd offrendo agli appassionati la possibilità di ascoltare l’album sia in lingua madre che in inglese: il mio consiglio è quello di godere di entrambe le versioni, in quanto alcuni brani si esaltano nella versione anglofona (The Lesson è molto più efficace rispetto a La Lezione), mentre in altri casi l’afflato poetico che l’italiano emana a prescindere fa la differenza nel confronto tra Il Regno e We’re Not An Island e tra La Danza degli SpecchiA Day We Share.
Il ritorno della Premiata Forneria Marconi è il trionfo della classe, del talento e della passione, è il veicolo ideale di quelle emozioni che solo la musica sa regalare, imprimendole virtualmente sulla nostra pelle affinché si trasformino in nutrimento per l’anima.

Tracklist:
CD 1 – English version
1. We’re Not An Island
2. Morning Freedom
3. The Lesson
4. So Long
5. A Day We Share
6. There’s A Fire In Me
7. Central District
8. Freedom Square
9. I’m Just A Sound
10. Hannah
11. It’s My Road

CD 2 – Italian version
1. Il Regno
2. Oniro
3. La lezione
4. Mayday
5. La danza degli specchi
6. Il cielo che c’è
7. Quartiere generale
8. Freedom Square
9. Dalla Terra alla Luna
10. Le cose belle
11. Big Bang

Line-up:
Franz Di Cioccio: lead vocals, drums
Patrick Djivas: bass
Alessandro Scaglione: keyboards, Hammond, Moog
Lucio Fabbri: violin
Marco Sfogli: guitars
Roberto Gualdi: drums
Alberto Bravin: keyboards, backing vocals

PREMIATA FORNERIA MARCONI – Facebook

A Devil’s Din – One Hallucination Under God

Il terzo album dei rockers canadesi A Devil’s Din è un’ opera che si destreggia tra il rock psichedelico a cavallo tra gli anni sessanta ed il decennio successivo.

Quest’anno verrà ricordato dagli amanti del rock (oltre che per una serie di reunion più o meno riuscite) per il giusto tributo ad un album che è stato uno dei più influenti della storia della musica, SGT Pepper’s Lonely Hearts Club Band, capolavoro dei The Beatles.

Partiamo da qui per raccontarvi in due parole One Hallucination Under God, terzo lavoro sulla lunga distanza del trio canadese denominato A Devil’s Din, opera che si destreggia tra il rock psichedelico a cavallo tra gli anni sessanta ed il decennio successivo.
Il trio canadese formato da David Lines (voce, chitarra e tastiere), Tom G. Stout (basso e chitarra) e Dominique Salameh (batteria) dà un seguito al primo album uscito nel 2011 (One Day All This Will Be Yours) e a Skylight, uscito lo scorso anno, con questo buon lavoro di rock vintage che qualche tempo fa avremmo probabilmente definito nostalgico, ma che in tempi di rivalutazione delle radici della nostra musica preferita fa bella mostra di sé seguendo i deliri consumati tra erba e LSD dei quattro geni inglesi.
Ovviamente sono passati cinque decenni di rock e gli A Devil’s Din la storia la conoscono a menadito, così che il confine del loro spartito si allarga per abbracciare altre icone e la loro musica si espande, viaggiando su una nuvola di space rock progressivo.
Quaranta minuti in contemplazione, nel giardino dalle siepi formate da piante illegali, abbandonati a sogni dove si incontrano Marc Bolan, Pink Floyd (era Syd Barret) e Hawkwind, il tutto rimaneggiato a creare un cocktail letale di musica psichedelica, rock che trascende per arrivare alla mente dell’ascoltatore in mille e più forme.
Un buon lavoro di musica vintage, consigliato a vecchi rockers dai sogni flower power, o semplicemente agli amanti del rock classico. 2017 s Psychedelic Rock 7.20

Tracklist
1. Eternal Now
2. Brave New World
3. Nearly Normal
4. Home
5. Who You Are
6. Where Do We Go
7. One Hallucination Under God
8. Sea of Time
9. Evolution

Line-up
Dave Lines – Guitar/Keyboards/Vocals
Tom G. Stout – Bass/Guitar/Vocals
Dom Salameh – Drums/Perc/Vocals

A DEVIL’S DIN – Facebook

Descrizione Breve

Autore
Alberto Centenari

Voto
72

Dauthuz – Destined For Death

Un granitico e micidiale attacco all’insegna di un death metal vecchia scuola, una serie di pugni in pieno volto portati dai Dauthuz che rifilano, uno dietro l’altro, dieci ganci estremi senza soluzione di continuità, massacrando e sfigurando, senza lasciare scampo.

Un granitico e micidiale attacco all’insegna di un death metal vecchia scuola, una serie di pugni in pieno volto portati dai Dauthuz che rifilano, uno dietro l’altro, dieci ganci estremi senza soluzione di continuità, massacrando e sfigurando, senza lasciare scampo.

Il quintetto olandese arriva al primo lavoro sulla lunga distanza firmando un contratto per la distribuzione con la Wormholedeath , dopo due anni dalla nascita, un ep ed un singolo prima che Destined For Death arrivi a confermare il buon fiuto della label e la devozione del gruppo per il death metal old school.
Ovviamente ispirato alla scena del loro paese, storica rappresentante del metal estremo dai primi anni novanta, con accenni alla primissima ondata scandinava (specialmente nel riffing), l’album è una mazzata nei denti ben assestata, con un growl che è un’incessante ed animalesca aggressione proveniente dall’angolo più recondito dell’inferno, una pesantezza fuori dal comune e non ultima una serie di tracce che nella loro assoluta natura estrema si attaccano alle pareti della nostra scatola cranica come perfidi e famelici parassiti.
Dying Breed, cantata dalla singer dei conterranei Izegrim, Marloes Voskuil, e da cui è tratto un video, rimane il brano simbolo di Destined For Death, ma lasciate che l’album arrivi alla conclusione perché gli attimi di devastazione sonora di una certa consistenza non mancano (Honoured To Serve, Tormentor e la conclusiva Warmaster) così da regalare agli amanti del death metal vecchia scuola un’altra band da segnare sulla proprio personale e sanguinante taccuino.

Tracklist
1.Destined for Death
2.The Hunt
3.Dying Breed (feat. Marloes Voskuil)
4.Made in Blood
5.Honoured to Serve
6.Killing in the Woods
7.Killed in the Woods (Reprise)
8.Tormentor
9.Deep Inside Your Soul
10.Warmaster

Line-up
Manoloxx – Vocals
Dennis Jak – Guitar
Hans Bijland – Guitar
Tim Roeper – Bass
Nick de Vet – Drums

DAUTHUZ – Facebook

D With Us – Searching For The Light

Melodic death metal e metalcore si uniscono nel sound dei D With Us dando vita così ad un ottimo lavoro, potente e melodico, scandito da ritmiche moderne, ma valorizzato da solos e soluzioni di stampo death e più orientate alla tradizione estrema di stampo classico.

Arrivano all’esordio tramite l’attivissima label napoletana Volcano Records & Promotion i D With Us, quartetto piemontese protagonista di un ottimo melodic death metal unito alla forza ritmica del metalcore.

La band è attiva dal 2013, voluta da Maurizio Molonato in memoria del figlio Davor, chitarrista e pianista scomparso all’età di quindici anni, ma i non pochi cambi di line up hanno portato il gruppo alla formazione attuale che vede impegnati Daniele Salomone (chitarra e voce), Matteo De Faveri (chitarra), Gioele Sechi (basso), Lorenzo Bonak Bonaccorso (batteria); l ‘ep di debutto si intitola Searching For The Light ed è stato registrato nei DDstudiorecords dallo stesso Maurizio Molonato.
Melodic death metal e metalcore si uniscono nel sound dei D With Us dando vita così ad un ottimo lavoro, potente e melodico, scandito da ritmiche moderne, ma valorizzato da solos e soluzioni di stampo death e più orientate alla tradizione estrema di stampo classico; l’ep possiede un tiro sufficiente per destare l’attenzione degli amanti del genere, dall’opener Warrior’s Heart, preceduta dall’intro, passando per l’ottima struttura della title track, scelta come singolo e brano perfetto tra riff di stampo swedish death, ritmi moderni e refrain melodico quanto basta per non uscire più dalla testa.
I quattro giovani musicisti non si fanno pregare e picchiano quando serve oppure valorizzano l’atmosfera dei brani con accordi melodici ed intimisti (The Passage), prima che la tempesta metallica torni ad abbattersi sull’ascoltatore.
Echi elettronici ed atmosfere industrial fanno da preludio alla conclusiva Threat Presence, mentre precedentemente Never Stop Until The End si era rivelato come il brano più diretto di Searching For The Light un buon inizio per i D With Us che, sommato alle ottime impressioni suscitate nel corso delle esibizioni  dal vivo, ne fanno una realtà da seguire con attenzione.

Tracklist
1. Intro
2. Warrior’s Heart
3. Searching For The Light
4. The Passage
5. Never Stop Until The End
6. Threat Presence

Line-up
Daniele Salomone – Vocals, Guitar
Matteo De Faveri – Guitars
Gioele Sechi – Bass)
Lorenzo Bonak Bonaccorso – Drums

D WITH US – Facebook