Stray Bullets – Shut Up!

L’album ci regala una quarantina di minuti abbondanti intrisi dell’atmosfera sfrontata, irriverente e a tratti malinconica dello street/hard rock.

Ci sono voluti più o meno undici anni prima che i veronesi Stray Bullets riuscissero a licenziare il loro primo album, ma le cose ora sono al loro posto grazie alla collaborazione tra Sneakout Records e Burning Minds Music Group, frangia della grande famiglia Atomic Stuff dedicata all’hard rock melodico e (in questo caso) allo street/glam ottantiano.

Una lunga storia di cambi di line up e i soliti guai che attanagliano molti gruppi ad inizio carriera hanno rallentato l’arrivo sul mercato del quintetto, pronto a conquistare i cuori ribelli dei rockers orfani delle luci e delle notti magiche del Sunset Boulevard con Shut Up! esordio composto da undici brani di street/rock’n’roll adrenalinico.
Prodotto dalla band con la supervisione di Oscar Burato e Stefano Gottardi, mixato e masterizzato negli Atomic Stuff Studio da Oscar Burato, L’album ci regala una quarantina di minuti abbondanti intrisi dell’atmosfera sfrontata, irriverente e a tratti malinconica del genere, con gli Stray Bullets che dimostrano di saperci fare con i punti fermi che hanno fatto la storia del rock a stelle e strisce.
Il riffone di Lost Soul Town dà inizio alle danze, con Ale che dimostra d’essere cantante di razza, e tutto gira a mille tra street rock ed una vena punk rock che lascia all’ascoltatore una piacevole sensazione di attitudine ribelle, almeno fino a One Way, bellissima ballad classic rock.
Che siamo al cospetto di un gruppo dall’alto potenziale lo si evince proprio da questa prova superata con il lentone d’ordinanza, quasi di prassi in album del genere ma non sempre riuscito bene come avviene invece in questo caso.
Da qui in poi si riparte a grande velocità e Shut Up! arriva sparato alla fine senza intoppi e con ancora un paio di brani adrenalinici come Sex Pot e la conclusiva, metallica Crash.
Ottimo debutto quindi, con le ispirazioni e le influenze  tutte riscontrabili nel periodo storico dello street/glam, quindi cari rockers il consiglio è di non perdervi questo lavoro, perché c’è da divertirsi.

Tracklist
01.Lost Soul Town
02.Get On You
03.Hurts
04.Candy
05.One Way Emotion
06.Put Up Or Shut Up
07.Sexpot
08.Be Your Man
09.Rain
10.Blackout
11.Crash

Line-up
Ale – Vocals
Duff – Bass, Backing Vocals
Male – Guitar, Backing Vocals
Nick – Guitar
Zen – Drums, Backing Vocals

STRAY BULLETS – Facebook

NONSUN – Black Snow Desert

Ben dosato ed equilibrato in tutte le sue componenti ed ottimamente eseguito, Black Snow Desert è frutto di un talento compositivo che scongiura il ricorso a soluzioni sonore infinite e prive di alcuno sbocco.

Dopo circa due anni dalla sua prima uscita in autoproduzione, l’album d’esordio dei Nonsun viene pubblicato in formato cd e digitale dalla Cimmerian Shade Recordings ed in vinile dalla Dunk!Records. Per l’occasione riproponiamo la recensione scritta a suo tempo per In Your Eyes, anche perché vale la pena di riportare questo buonissimo lavoro all’attenzione di chi non lo avesse intercettato all’epoca.

Gli ucraini Nonsun di sicuro non si sono posti dei problemi legati alla commercializzazione del loro prodotto, nel momento di comporre l’album: se già il proporre un genere come uno sludge/drone/doom dai tratti sperimentali riduce all’osso il bacino dei potenziali ascoltatori, farlo con un doppio cd per una durata di circa un’ora e mezza equivale all’atto di piantare i chiodi su una bara in cui è stata rinchiusa ogni forma di possibile ammiccamento.
Il bello di tutto questo, però, è che il duo di Lviv riesce a mettere sul piatto un lavoro sicuramente mastodontico ma non pesante, nel senso che, fatta salva la sua natura, si rivela un ascolto impegnativo senza risultare noioso.
Del resto, uno stile musicale di questo tipo, se interpretato senza un minimo di variazioni sul tema, rischia di rimanere troppo indigesto a chiunque: Black Snow Desert non si riduce, quindi, ad una sequela interminabile di sequenze droniche ma offre anche abbondanti porzioni di sludge doom, disturbate e disturbanti quanto basta per attrarre fatalmente l’attenzione. Per assurdo, una lunghezza che potrebbe apparire quasi una forma di autolesionismo,  consente invece ai Nonsun di sviluppare ed esprimere in maniera più congrua quanto hanno da offrire.
Ben dosato ed equilibrato in tutte le sue componenti ed ottimamente eseguito dal polistrumentista Goatooth e dal batterista Alpha, Black Snow Desert è frutto di un talento compositivo che scongiura il ricorso a soluzioni sonore infinite e prive di alcuno sbocco.
Bravi pertanto i Nonsun nell’aggirare questo ostacolo, proponendosi con questo loro esordio su lunga (anzi, lunghissima …) distanza, come qualcosa in più di un semplice surrogato a Sunn O))), Earth e compagnia di sperimentatori.

Tracklist:
1.No Pity for the Beast, No Shelter for the Innocent
2.Ashes of Light, Demons of Justice
3.Peace of Decay, Joy of Collapse
4.Heart’s Heavy Burden
5.Observing the Absurd
6.Rest of Tragedy

Line-up:
Goatooth – guitars
Alpha – drums

NONSUN – Facebook

Thrash 1991: l’inizio di un decennio di crisi

Come cambiano in fretta ed improvvisamente, a volte, le cose. Anche per la musica.

Il 1990 fu per il thrash un anno formidabile, con le uscite di Souls of Black dei Testament, Persistence of Time degli Anthrax, Seasons in the Abyss degli Slayer, The American Way dei Sacred Reich, When the Storm Comes Down dei Flotsam and Jetsam, Can’t Live Without It dei Gang Green, Live Scars dei Dark Angel, In The Red dei CIA (progetto di Glenn Evans, dei Nuclear Assault), The Edge of Sanity degli Hexenhaus, Rust in Peace dei Megadeth, Violent by Nature degli Atrophy, Speak Your Peace dei Cryptic Slaughter, Faded Glory degli Acrophet, Beg to Differ dei Prong, Lights Camera Revolution dei Suicidal Tendencies, Twisted Into Form dei Forbidden, Idolatry dei Devastation, Best of Wishes dei Cro-Mags, Act III dei Death Angel, Vanity/Nemesis dei Celtic Frost, Condemned to Eternity dei Re-Animator, Psychomorphia dei Messiah, For Those Advantage degli Xentrix.

In Germania videro la luce Coma of Souls dei Kreator, Cracked Brain dei Destruction, Better Off Dead dei Sodom, The Meaning of Life dei Tankard, Dances of Death dei Mekong Delta, World Chaos degli Holy Moses, Urm the Mad dei Protector e Parody of Life degli Headhunter. In Canada, gli Annihilator bissarono il già straordinario esordio con Never Neverland.
Il mega-tour mondiale Clash of the Tytans, inoltre, incendiò molti palchi e nulla pareva poter fare presagire una qualunque crisi di sorta. Il genere – per dirla altrimenti – pareva più vitale ed in forma che mai. Oltretutto, diverse band – sia di prima sia di seconda fascia – avevano sensibilmente migliorato le proprie qualità tecniche ed erano maturate non poco, il che lasciava ben sperare in vista del futuro. Eppure, riflusso ed oblio erano dietro l’angolo, come un triste destino e un malaugurato esito ultimo.

Nel 1991 due autentici boom discografici, almeno sul piano delle vendite, furono il black album dei Metallica e Nevermind dei Nirvana. Il primo, pur buono, tradì un genere, una carriera fino ad allora a dir poco ineccepibile e un’intera scena musicale. Il secondo lanciò la nefasta moda dell’alternative e del grunge. Le case discografiche più importanti iniziarono ad interessarsi, quasi solo, di camicie a scacchi e finti depressi.
I gruppi cosiddetti ‘minori’ (ma non sempre per valore artistico) si sciolsero uno dopo l’altro in un clima di crescente e ingiusta indifferenza musicale. I maggiori, come vedremo nel corso di questa inchiesta, dovettero sovente reinventarsi. L’estremo sopravvisse altrove: il black rinacque in Norvegia e terre scandinave, assumendo caratteristiche e tratti peculiari tutto sommato a sé stanti; l’hardcore si trasformò spesso in crossover (altro trend), mentre il grind (che, storicamente, veniva dal crust punk britannico) si uniformò quasi ovunque al death: quest’ultimo, a sua volta, non smise di vivere i suoi anni grandi in Florida ed in generale oltreoceano, ma nel vecchio continente o smussò gli spigoli (pensiamo agli svedesi Entombed, dopo i primi due favolosi LP) o si ammorbidì, con innesti gotici, prog e sinfonici (tre grandi nomi, su tutti: Therion e Dark Tranquillity, per stare sempre in Svezia; Atrocity, se vogliamo spostarci più a sud in terra tedesca).

In effetti, la svolta impressa dai Metallica del 1991, perlomeno nell’immediato, pareva essere senza ritorno (e non solo per i Four Horsemen, che unicamente da Death Magnetic sarebbero ritornati al thrash). Per gli altri loro colleghi, la scelta fu triplice: o sciogliersi (come accadde a tante apprezzate seconde leve statunitensi), o rivolgersi a soluzioni più commerciali, o indurire la proposta.
Dopo il 1991, nulla fu più come prima e si aprì una decade di delusioni ed incertezze. Intendiamoci: l’heavy classico andò anche lui in crisi (solo parzialmente riscattato, da metà anni Novanta in poi, dal power melodico e dal prog-metal). Idem dicasi per il glam, l’epic, il pomp rock e l’AOR, ma per il thrash le cose assunsero una piega forse ancora peggiore e più drammatica.
I Death Angel abbandonarono la partita, così come i Dark Angel di Gene Hoglan, il cui capolavoro, l’indimenticabile Time Does Not Heal, ebbe la sfortuna di uscire proprio nel 1991. I Megadeth, dal canto loro, realizzarono il loro black album con Youthanasia (nel 1995) e chiusero il decennio con il pessimo Risk. Gli Anthrax, con John Bush degli Armored Saint, alla voce, tennero ancora botta con l’ottimo Sound of White Noise (peraltro, molto più industrial), quindi si smarrirono in modo del tutto inatteso (Stomp 442 è tra le autentiche oscenità dei Nineties ed a dirlo non è di certo un purista).

Gli Annihilator modificarono il loro stile, con inflessioni dapprima di ascendenza Dream Theater (Set the World on Fire, 1993) ed in seguito industriali (Remains, 1997). Celtic Frost, Sabbat, Sanctuary e Nasty Savage si separarono, chi temporaneamente e chi per sempre. I Pantera si diedero al groove metal. I Corrosion of Conformity presero la via del southern e dello sludge sperimentale. I Flotsam and Jetsam, tra l’ancora buono Cuatro (1992) e Unnatural Selection (1999), realizzarono due dischi davvero anonimi di piatto e scialbo HM. I Sacred Reich portarono inizialmente avanti il discorso da loro avviato nel 1990, incidendo l’interessante ed originale Independent (1993), che, tuttavia, quasi nessuno allora notò più. E pure per loro la parola fine venne scritta presto.
Con coerenza ed integrità, rimasero in pista Overkill e Metal Church, entrambi dediti nei Novanta a un fecondo e nobile intreccio di retaggio speed-thrash ed elementi di derivazione US metal. Sia gli Overkill, sia i Metal Church, peraltro, furono seguiti quasi soltanto dai fedelissimi e dai defenders di provata intransigenza alle nuove mode. Il techno-thrash mutante non morì (pensiamo ai Voivod e ai Coroner) ma per alcuni esordienti – in Finlandia gli ARG, in Austria i Ravenous – debuttare proprio nel fatidico ’91 fu quanto mai deleterio (ancora oggi infatti sono rimasti nomi di nicchia e di culto, per pochi estimatori).

Esemplare, al riguardo, la parabola dei tedeschi Sieges Even: un fenomenale esordio nel 1988, con il techno-thrash iperconcettuale e cinematico di Lifecycle, quindi il passaggio, guarda caso appunto dal 1991, a un prog metal assai melodico e blandamente jazzato.
Visto che, con i Sieges Even, siamo arrivati a parlare di Germania, vediamo un poco più in dettaglio che cosa accadde nel paese che, dopo gli Stati Uniti, aveva dato di più alla causa del thrash. Dopo il 1991, la scena tedesca subì veramente il colpo. Se da un lato i Kreator cominciarono a sperimentare con intelligenza e coraggio nuovi approcci sonori, di matrice industrial e dark-wave elettronica, ed i Sodom riuscirono a stare sulla breccia sporcando ulteriormente il loro stile, con ruvidi innesti, prima death e poi hardcore punk, moltissimi gruppi – in vero, quasi tutti – che avevano gravitato, attorno a loro, nel ricco panorama thrash germanico scomparvero oppure cambiarono genere, virando verso il power melodico (gli Angel Dust, ad esempio).
I Destruction, da parte loro, rimasero in silenzio per quasi quattro anni, il che già la diceva lunga, circa la loro crisi, e tra il 1994 ed il 1995 pubblicarono due sconcertanti EP, lontanissimi dal genere che li aveva visti tra i grandi protagonisti, convertiti ora ad un groove metal modaiolo e di scarsa qualità. Pessimo fu pure il disco edito nel 1996, dalla Brain Butcher, The Least Successful Human Cannonball: un tradimento bello e buono della antica causa, giustamente e coerentemente rinnegato in seguito dall’act tedesco, tornato a nuova vita a partire dal 1999-2000. Durante i Nineties, in Germania, si persero le tracce di Asgard, Assassin, Brainfever, Darkness, Assorted Heap, Vectom, Deathrow, Despair, Exumer, Grinder, Iron Angel, Living Death, Risk, Vendetta e Violent Force. L’underground speed-thrash pareva scomparso. La rinascita giunse solo, nel 2001, con il ritorno al thrash da parte dei Kreator: il combo di Mille Petrozza, con Violent Revolution, aggiornava, con classe, stile e potenza, l’universo sonoro e anche l’iconografia di Coma of Souls, dando vigore e slancio nuovi a una scena da quel momento in via di resurrezione artistico-musicale.

Il peggio era, ora, alle spalle. Ma ritorniamo al 1991, vero e proprio annus horribilis per il movimento thrash, in particolare per quello della Bay Area di San Francisco.
A conti fatti, i grandi che seppero resistere e ripartire furono coloro che accettarono la sfida, per un verso ammettendo (sia pure a malincuore) che una stagione – durata poi solo otto anni, da Kill ‘Em All e da Show No Mercy all’anno del black album – s’era comunque ormai conclusa e che solamente incattivendo in maniera ulteriore il suono era possibile dar nuova vita e almeno in parte nuovo volto al thrash tradizionale, alzando l’asticella in direzione death e stando così al passo con i tempi, senza però rinnegarsi. E’ quanto fecero i Sadus di Steve Di Giorgio (forse il più grande bassista metal del mondo dopo la scomparsa di Cliff Burton), i Sepultura (non senza flirtare, qua e là, col nu metal più creativo), i Testament (i cui album incisi per la Spitfire non saranno all’altezza dei classici degli anni ’80, ma tuttavia tengono il passo e preparano alla rinascita, anche dell’intero movimento), gli Slayer (i quali, nel 1991, pubblicarono il granitico doppio live A Decade of Aggression, seguito da tutta una serie di album seri, professionali e assolutamente inappuntabili sino ad oggi) e volendo i Demolition Hammer di New York.
Oggi, si sa, il thrash è letteralmente risorto, fra ritorni di vecchi eroi e nuovi promettenti gruppi. Gli Slayer, i Metallica, i Megadeth e gli Anthrax (i così detti Big Four) sono di nuovo in gran spolvero e lo stesso può dirsi di Testament, Death Angel e Annihilator (a dicembre del 2017 apprezzati al Live Club di Trezzo sull’Adda), di Exodus ed Hexx, Laaz Rockit, Prong, Whiplash, Flotsam and Jetsam e dei tedeschi Kreator, Destruction, Sodom, Tankard, Accuser, Protector, Holy Moses, Necronomicon e Paradox. Tutti nuovamente sulle ali della meritata ribalta, non senza una maturità, sia compositiva, sia esecutiva, che è inevitabilmente figlia degli anni e del tempo frattanto trascorso.
Oggi abbondano finalmente le ristampe. La scena italiana è nutritissima e di vivo spessore. Il black-thrash è tornato in auge con Inquisition, Akroterion, Condor, Evil Spirit, Ulvedharr e Bunker 66 (e a breve dovrebbe arrivare l’atteso come-back dei Possessed). Gruppi di culto del passato, oltre a veder finalmente riediti su CD i propri dischi, si sono inoltre ricostituiti, pubblicando nuovi lavori, come nel caso dei californiani Dream Death (non senza consistenti componenti doom) e Detente.

Vi è poi una rinnovata e prolifica scena di nomi nuovi, da seguirsi con la dovuta attenzione: Skeletonwitch, Bonded by Blood, Warbringer, Gama Bomb, Havok, Vektor, Power Trip, Enforcer, Evil Invaders e Ranger in primis. Ma occhio, altresì, a Resistance, Lair of the Minotaur, Without Waves, Black Fast, Revocation e Municipal Waste in America, a Dew-Scented, Disbelief, Grantig, Ravager, Reflection, Repent, Running Death, Septagon, Stormhammer, Valborg, Vulture e Zombie Lake in Germania, ai neozelandesi Stalker, ai russi Hell’s Thrash Horsemen, agli indiani Kryptos, ai finlandesi Ranger, ai polacchi Raging Death, ai brasiliani Woslom, agli ungheresi Ektomorf, agli ellenici Sacral Rage e Chronosphere, agli svizzeri Excruciation (con influenze Killing Joke e post-punk), agli australiani Destroyer 666, Envenomed, Hidden Hintent, Harlott, In Malice’s Wake e soprattutto Meshiaak, agli svedesi Armory e Night Viper, ai danesi Battery ed ai canadesi Droid, Warsenal, Untimely Demise e Arckaic Revolt, senza dimenticare i sempreverdi e inossidabili Onslaught in Inghilterra, sovente in tour e dal catalogo adesso quasi tutto disponibile.
Insomma, la crisi innescatasi nel lontano 1991 è stata positivamente superata. E’ divenuta un ricordo, che sa comunque di storia. Vera e vissuta.

Souldrinker – War Is Coming

War Is Coming risulta un piacevole ascolto pur senza avere un brano portante, ma esprimendo tutta la propria forza metallica nella sua completezza.

Se per voi il metal è grinta, energia, chitarre sature ed un buon mix tra tradizione e modernità, allora War is Coming, debutto dei tedeschi Souldrinker, è l’album che vi è mancato per arrivare in fondo al 2017 più cattivi che mai.

Il gruppo, che vede tra le sue fila due musicisti dal lungo passato nella scena metal tedesca come Markus Pohl  e Steffen Theurer, hanno trovato nella leonessa Iris Boanta la singer perfetta per ruggire a suo modo su questa decina di brani dal tiro micidiale.
Ne escono dieci esplosioni metalliche tutta grinta e appeal, con chorus che entrano in testa aprendola come un cocomero, ritmiche grasse e solos graffianti in un delirio metallico davvero niente male.
Immaginate un mix letale tra Pantera e Black Label Society che, con in corpo una bottiglia di scotch di troppo, cominciano a suonare power metal, ed avrete un’idea di quello che vi aspetta nei quaranta minuti abbondanti di War Is Coming.
Album che esprime tutta l’energia del metal, War Is Coming risulta un piacevole ascolto pur senza avere un brano portante, ma esprimendo tutta la propria forza metallica nella sua completezza, facensoci per di più conoscere un’altra eroina (Iris Boanta) dalla grande voce.

Tracklist
1.Let the King Bleed
2.Souldrinker
3.Promised Land
4.To the Tick
5.Take my Pain
6.Like Rain…
7.Raise the Flag
8.Fire Raiser
9.Voices
10.Final Stand

Line-up
Iris Boanta – Vocals
Markus Pohl – Guitar
Chris Rodens – Bass
Steffen Theurer – Drums

SOULDRINKER – Facebook