Trautonist – Ember

La proposta dei Trautonist si rivela impeccabile formalmente ma pecca di quella componente emotiva che invece non dovrebbe latitare in un genere come il post black/shoegaze.

Ember è il secondo full length per questa band di Coblenza denominata Trautonist, dopo l’esordio omonimo del 2016.

Il duo formato da Katharina e da Dennis, con l’ausilio di Hendrik alla batteria, ripropone un post black dalle sfumature shoegaze di buona fattura e nella media delle proposte attuali.
La vocalist si disimpegna bene sia con lo screaming che con le cleans, anche se i brani che vedono prevalere quest’ultima soluzione appaiono più a fuoco degli altri.
La proposta dei Trautonist si rivela impeccabile formalmente ma pecca, a mio avviso, di quella componente emotiva che invece non dovrebbe latitare in un genere come questo: per esempio, un brano come Smoke and Ember rappresenta nel migliore dei modi ciò che intendo, con un’ultima parte che cresce a livello d’impatto all’interno di una struttura ritmica più ragionata.
Il fatto è che, nonostante diversi ascolti di Ember, ciò che mi resta una sensazione gradevole che non è sufficiente a spingermi ad ulteriori passaggi del disco nel lettore perché, in un lavoro che non dubito possa trovare buoni riscontri tra chi frequenta il genere con maggiore assiduità, quello che non sono riuscito a rinvenire è il momento chiave, quello capace di conquistare l’attenzione rendendo la fruizione di un album un’esperienza in qualche modo unica.
Nè valgono, in tal senso, una traccia bizzarra e del tutto a sé stante come la conclusiva Woody Allen o la bellissima copertina a modificare sostanzialmente tale opinione.

Tracklist:
1. Fire and Ember
2. Vanish
3. The Garden
4. Smoke and Ember
5. Hills of Gold
6. Sunwalk
7. Woody Allen

Line-up:
Katharina – Vocals (female)
Dennis – All instruments, Vocals
Hendrik – Drums

TRAUTONIST – Facebook

 

Mortiis – Perfectly Defect

Un disco davvero interessante da parte una grande mente musicale, che quando si perde fa cose pessime, ma che quando è in forma come qui i suoi lavori sono un bellissimo sentire.

Håvard Ellefsen, in arte Mortiis, è un musicista che si ama o si odia, non si possono avere mezzi termini, ma forse la definizione migliore è interessante, perché la sua musica è sempre un qualcosa da sentire.

In questo periodo stiamo vivendo un intenso revival di Mortiis, ci sono ristampe come questa di Perfectly Defect del 2010 da parte della sua etichetta Omnipresence Records, viene pubblicato nuovamente il suo controverso libro Secrets Of My Kingdom; Return To Dimensions Unknown. Inoltre il 25 maggio sarà alle Officine Sonore di Vercelli per la sua unica data italiana con Nibiru e altri gruppi, e in quella occasione sfodererà l’opera prima della sua Era I, ovvero Anden Som Gjorde Oppror del 1994, un disco molto oscuro e quasi dungeon. Di Mortiis si potrebbe parlare per giorni, di come a 15 anni sia entrato a suonare negli Emperor, la fuga e poi la lunga carriera solista, ma concentriamoci su questo Perfectly Defect, che è un disco di elettronica al cento per cento, e di quella elettronica ipnotica e dalla grana grossa in quota Prodigy e Crystal Vegas. Il nostro norvegese possiede uno spiccato talento per il genere, del quale tesse trame molto interessanti, sviluppando bene i vari temi sonori, anche se a volte si dilunga un po’. Il disco nel 2010 segnava il suo ritorno sulle scene, dopo un’assenza dovuta ai suoi problemi con l’industria discografica. Perfectly Defect veniva regalato ai fan che si recavano a vedere la sua tournée con i Combichrist, e vi erano due versioni : una tour edition in cd con dieci brani, e una digitale sempre con dieci tracce. L’attuale edizione ha al suo interno dodici tracce, ed è un’esperienza amplificata rispetto all’originale. Mortiis spazia in molti territori elettronici, e come molti metallari che fanno elettronica, dà un taglio totalmente diverso rispetto a quella tradizionale. Perfectly Defect è un oscuro scrutare, sembra la colonna sonora di un videogioco gotico e perverso. La produzione è ottimale, come del resto tutti i suoni, ci sono canzoni che si avvicinano ai Prodigy, mentre altre sono composizioni più lente e di grande pathos. Un disco davvero interessante da parte una grande mente musicale, che quando si perde fa cose pessime, ma che quando è in forma come qui i suoi lavori sono un bellissimo sentire. Per festeggiare la ristampa Mortiis ha rilasciato in download libero un disco di remix chiamato Perfectly Reject che trovate qui http://perfectreject.mortiis.com/

Tracklist
1. Closer to the End
2. Perfectly Defect
3. The Sphere
4. Sensation of Guilt
5. Sole Defeat
6. Thieving Bastards
7. The Punished
8. Halo of Arms
9. Impossible to Believe
10. This Absolution
11. Hermaphro Superior
12. Contrition

MORTIIS – Facebook

Revel In Flesh – Relics Of The Deathkult

Il growl catacombale accompagna questa visita guidata dai Revel In Flesh nell’inferno sulla terra, tra putride atmosfere nelle quali il genere trova la massima espressione fuori dalla sua terra natia.

Tornano i tedeschi Revel In Flesh a due anni di distanza dal monumentale Emissary of All Plagues, un altare costruito in un cimitero abbandonato dove i morti sacrificano i vivi al dio dello Swedish Death.

La band non può che essere considerata come una delle migliori realtà che il death metal di stampo scandinavo possa annoverare di questi tempi , anche se il luogo di nascita del gruppo è da ricercare nel centro del vecchio continente.
Questa volta Haubersson , Maggesson e compagni ci torturano con una compilation di brani usciti solo su 7′, ep o come bonus track nelle versioni degli album in vinile, quindi vanno dall’epoca del debutto (Deathevokation) fino all’ultimo lavoro.
Con ancora due geni all’opera come Dan Swano, a lavorare sui brani senza snaturare il suono originale, e Juanjo Castellano, ad illustrare un altro artwork splendidamente horror, Relics Of The Deathkult è un album imperdibile per i fans del gruppo e per gli amanti del death metal old school suonato al nord nei primi anni novanta.
Mid tempos vengono scolpiti su lapidi inclinate dalla terra smossa dai cadaveri, mentre riff di scuola Entombed sono lame con cui si d° inizio al sacrificio; il growl catacombale accompagna questa visita guidata dai Revel In Flesh nell’inferno sulla terra, tra putride atmosfere nelle quali il genere trova la massima espressione fuori dalla sua terra natia: il risultato è quasi un’ora di grande metal estremo composto da otto brani originali, tutti di spessore tanto che diventa difficile considerarli delle tracce minori, e tre cover pescate dalle discografie di Master, Death e Headhunter D.C.
Relics Of The Deathkult è l’ennesimo lavoro che riconcilia con il genere e mantiene il gruppo tedesco sul podio delle mie preferenze per quanto riguarda il death metal di scuola nord europea: da non perdere per alcun motivo.

Tracklist
1.Bonecrusher
2.Corpus Vermis
3.Chant Of Misery
4.Deathkult
5.Phlebotomy – Blood Dripping Healing
6.Nightrealm Ghouls – The Dead Will Walk The Earth
7.The Ending In Fire
8.Casket Ride
9.Pay To Die (Master – Cover)
10.Mutilation (Death – Cover)
11.Deny The Light (Headhunter D.C. – Cover)

Line-up
Gotzberg – Bass
Herrmannsgard – Guitars
Maggesson – Drums, Guitars
Haubersson – Guitars, Bass, Vocals
Henrikson – Drums

REVEL IN FLESH – Facebook

Assumption – Absconditus

Un biglietto di sola andata verso i meandri dell’esistenza con Absconditus, per un funeral doom che non lascia nulla al caso e si colloca in uno stile fortemente innovativo.

Grande forza e motivazione per questa band italiana di recente formazione, ovvero gli Assumption, un duo direttamente da Palermo con il loro primo effettivo full-length, dopo un demo ed un EP nel quale avevano già sperimentato diversi orizzonti di un genere mai facile da approcciare, ovvero il funeral death doom, tanto di nicchia quanto musicalmente vasto.

Questa volta gli Assumption sembrano davvero aver trovato una loro dimensione, tirando fuori dal cilindro un album variegato, deciso ma mai pretenzioso. Il ridotto numero di brani, solo tre, è una scelta di grande coraggio in un mercato in cui si abbonda per accontentare un pubblico sempre affamato, perdendone in qualità. Ma non si tratta nemmeno di “brevis”, perché la durata totale dell’album è di quasi 40 minuti, fedelmente alla tradizione funeral.
I tre brani si intrecciano come se avessero una storia comune che trova la sua sintesi, culmine e conclusione naturale con l’ultimo evocativo brano Beholder of the Asteroid Oceans Part I & II.
Il percorso della band palermitana ha portato a sonorità raramente udibili nel doom, e sta contemporaneamente nel mezzo ma anche fuori da band come Disembowelment, Evoken e non solo, dalle quali sicuramente i due musicisti hanno tratto grandissima ispirazione.
Un biglietto di sola andata verso i meandri dell’esistenza con Absconditus, per un funeral death doom che non lascia nulla al caso e si colloca in uno stile fortemente innovativo. L’album è quindi fortemente consigliato per tutti i fan di un genere che mantiene pur sempre quella sacra classicità che lo contraddistingue, ma che possiede anche la curiosità di esplorare.

Tracklist
1. Liberation
2. Resurgence
3. Beholder of the Asteroid Oceans (Part I & II)

Line-up
D. – Drums
G. – Guitars, Bass, Vocals, Keyboards, Flute

ASSUMPTION – Facebook

LE INTERVISTE DI OVERTHEWALL: PERSEUS

Grazie alla reciproca collaborazione con la conduttrice radiofonica Mirella Catena, abbiamo la gradita opportunità di pubblicare la versione scritta delle interviste effettuate nel corso del suo programma Overthewall, in onda ogni mercoledì alle 21.30 ed ogni domenica alle 22.00 su www.energywebradio.it.
Questa volta tocca ai pugliesi Perseus, ottimi esponenti della scena heavy metal tricolore.

MC Ospite stasera Antonio Abate leader dei Perseus! Benvenuto su Overthewall!

Ciao Mirella è un vero piacere essere qui con voi!

MC Come nasce questo progetto e quali sono le vostre precedenti esperienze musicali?

I Perseus nascono nel 2011, dall’incontro di due band rinomate dell’underground cittadino, i miei Defenders Of the Faith, una tribute band dei Judas Priest, e gli Hastings, band prog metal che fine anni 90 aveva avuto ottime recensioni dalla stampa specializzata.

MC Una delle cose che mi ha più affascinato dei Perseus è la vostra passione per il fantasy. Mi parli di come realizzate i vostri brani e cosa vi ispira maggiormente?

Sia io che Cristian, il nostro chitarrista che è il maggiore compositore del testi dei Perseus, siamo appassionati di fantasy, di recente mi sono avvicinato e appassionato delle saghe di JK Rowling e in passato sono stato e sono ancora oggi amante dell’epica greca; Cristian è un appassionato di cultura medioevale, tra l’altro scrive libri a riguardo, poi i brani maturano da idee che a volte nascono anche per strada e riproponiamo in sala prove, oppure, da altre che vengono mentre proviamo e che poi con varie jam vengono sviluppate.

MC Il vostro ultimo lavoro discografico è stato pubblicato nel 2016 . Ci sono novità che ci attendono?

Guarda, attualmente siamo come una nave che naviga a vista! Sì, abbiamo del nuovo materiale proposto di recente  anche dal vivo nel nostro ultimo tour nei paese dell’est a febbraio, e devo dire che la gente ha gradito. Stiamo aspettando il momento giusto per uscire al momento più opportuno!

MC Che importanza ha, nel mondo underground, essere supportati da una valida etichetta come la Nadir Music?

Sai, spesso molti si lamentano delle etichette, io spezzerei una lancia a favore, in quanto è davvero coraggioso mettere su un’etichetta; nella musica oggi in tutti i campi non ci sono molti soldi, quindi credere in band emergenti è molto coraggioso. Quelli della Nadir con noi sono stati molto onesti e soprattutto professionali.

MC Vi trovate più a vostro agio in studio o su un palco?

Personalmente amo la sede live, posso dire che ho fatto esperienze varie nel campo della musica e in vari generi: pop, pianobar… diciamo che per sopravvivere ho fatto tante cose, quindi, amo molto i live; lo studio è bello ma dipende dei momenti, perché ci sono giorni che si diventa un po’ stressanti, ahahah

MC Quali sono state le vostre più importanti esperienze live ?

Di esperienze live importanti nei abbiamo fatte molte e abbiamo condiviso il palco con parecchie band famose come Vision Divine, Pino Scotto, Dragonhammer, Queensryche, Civil War e Fabio Lione.

MC Secondo te il web può penalizzare un genere di nicchia come l’underground? O pensi che invece serva e sia utile a farsi conoscere dappertutto?

Questa è una risposta che ha tante sfaccettature:  internet di sicuro ha dato opportunità a band minori come la nostra di essere conosciute in paesi impensabili, comunque non ha danneggiato le vendite, perché i cd vengono venduti in sede live; la guerra fatta dalle band grosse secondo me è stupida.

MC Dove i nostri ascoltatori possono seguirvi?

Ci possono seguire sulla nostra pagina di Facebook, su Twitter e sul nostro sito Web

MC Grazie di essere stato su Overthewall! Vuoi dire qualcosa ai nostri ascoltatori?

Grazie per l’opportunità e un grosso abbraccio, STAY HARD!

Valgrind – Blackest Horizon

Blackest Horizon si sviluppa su dieci brani suonati e prodotti in maniera impeccabile: la devastante atmosfera dei brani si poggia su un sound che mette in evidenza il gran lavoro dei musicisti sia nelle ritmiche che negli splendidi intrecci chitarristici, a tratti urlanti sofferenza estrema.

Vi avevamo parlato dei Valgrind in modo entusiastico lo scorso anno in occasione dell’uscita di Seal Of Phobos, ep che confermava il talento estremo dell’ex Raw Power Gianmarco Agosti e dei suoi compagni.

La band emiliana, attiva addirittura dal 1993 con annesso un lungo periodo di silenzio tra il 2002 ed il 2012, torna con un lavoro sulla lunga distanza, dando un seguito ai due precedenti full length Morning Will Come No More e Speech Of The Flame.
Poco tempo è passato tra Blackest Horizon ed il suo predecessore, eppure la band continua a vivere in uno stato di grazia compositivo assolutamente vincente, così che il nuovo album è da considerare come l’ennesima conferma della bontà della scena death metal tricolore.
Quello dei Valgrind è un death metal old school, ispirato alla scena americana dei primissimi anni novanta, un nido di demoni che devastava la Bay Area prima e poi il resto del mondo, dividendosi gli onori dei fans con la scuola scandinava.
Morbid Angel, Deicide, Monstrosity, le ispirazioni sono quelle che hanno forgiato il quartetto fin dagli esordi, quindi niente di nuovo, ma perfetto nel ricalcare il death metal old school.
Blackest Horizon si sviluppa su dieci brani suonati e prodotti in maniera impeccabile: la devastante atmosfera dei brani si poggia su un sound che mette in evidenza il gran lavoro dei musicisti sia nelle ritmiche che negli splendidi intrecci chitarristici, a tratti urlanti sofferenza estrema.
Dall’opener Victorius veniamo travolti da questo combo nostrano, la musica forma una montagna che si sposta sospinta dalla forza estrema: i solos risultano uno più bello dell’altro, l’atmosfera creata favorisce l’ascolto, incollandoci alle cuffie prima che Third And Last, The Empire Burns e le tre parti di Last Angel ci spazzino via, veri tornado estremi di straordinario impatto valorizzati da un bagaglio tecnico impressionante.
I Valgrind confermano la loro ottima forma con un album riuscito e a tratti entusiasmante e i deathsters sono pregati di non lasciarselo sfuggire.

Tracklist
1.Victorius
2.Sunken Temple Of Initiated
3.Third And last
4.The Blackest Horizon
5.Sacrificial Journey
6.The Empire Burns
7.The Fist
8.Last Angel (Into The Unknown)
9.Last Angel (The Psychonaut)
10.Last Angel (Hades Horseman)

Line-up
Daniele Lupidi – Vocals/bass
Massimiliano Elia – Lead and rhythm guitars/keyboards
Umberto Poncina – Rhythm and lead guitars/keyboards
Gianmarco Agosti – Drums

VALGRIND – Facebook

Eye Of Solitude – Slaves To Solitude

Slaves To Solitude si va a collocare a metà strada tra i due lavori che l’hanno preceduto, recuperando, anche grazie agli arrangiamenti, il senso drammatico di Canto III ma conservando l’incedere più controllato di Cenotaph.

Gli Eye Of Solitude sono stati i protagonisti indiscussi del funeral death doom di questo decennio, non solo per la loro prolificità, inusuale per chi si cimenta con il genere (basti pensare ai tempi biblici che sono intercorsi tra un lavoro e l’altro per band seminali come Mournful Congregation o Skepticism, oppure da quanto tempo siamo in attesa di nuove opere da parte di Evoken, Esoteric o Worship), ma soprattutto per la qualità che accomuna ogni singola uscita, partendo dai cinque full length per arrivare ai vari split album ed ep.

Slaves To Solitude arriva due anni dopo Cenotaph, che rappresentò un momento molto delicato per gli Eye Of Solitude proprio perché, a sua volta, veniva dopo Canto III, il capolavoro che ne fece letteralmente deflagrare il potenziale, e allo splendido ep Dear Insanity; in quell’occasione Daniel Neagoe, con una band rinnovata rispetto a quella che, come Caronte, ci traghettò nelle sonorità aspre e disperate dell’inferno dantesco, optò per l’approdo a sonorità più rarefatte, che riconducevano in parte a quanto fatto dal musicista rumeno con l’altro suo splendido progetto Clouds, senza smarrire comunque i tratti peculiari di un sound che ai fruitori più esperti palesa tutta la sua unicità.
Slaves To Solitude, fin dalle dichiarazioni d’intenti di Daniel, si va a collocare a metà strada tra i due lavori che l’hanno preceduto, recuperando anche grazie agli arrangiamenti il senso drammatico di Canto III ma conservando l’incedere più controllato di Cenotaph: il risultato è l’ennesimo grande disco che offre oltre cinquanta minuti di musica oscillante tra il funeral ed il death doom melodico, sempre avvolta da un’aura tra il tragico ed il maestoso, che l’ineguagliabile growl del vocalist, ogni qualvolta sale al proscenio, fa piombare in una plumbea oscurità.
Gli Eye Of Solitude erano nati nel 2010 come progetto solista di Neagoe ma, dopo l’esordio The Ghost, da Sui Caedere in poi avevano assunto una struttura di band a tutti gli effetti, anche in sede di registrazione: in Slaves To Solitude, invece, ad accompagnare il leader troviamo il solo connazionale Xander, musicista che conosciamo per la sua militanza negli ottimi Descend Into Despair, oltre che nei Deos e oggi anche nei Clouds, nelle vesti di chitarrista ritmico in sede live.
Questo ovviamente non va a detrimento della riuscita dell’album, non scalfendo minimamente l’eccellenza qualitativa associata ad ogni uscita degli Eye Of Solitude: Slaves To Solitude, il cui magnifico artwork è curato da Gogo Melone, inizia con un brano come The Blind Earth che, dopo una lunga introduzione fatta di voci sussurrate, esplode nel consueto drammatico connubio tra il growl e le atmosfere da tregenda tessuta da un mirabile sfondo tastieristico. E questo è, in fondo, il trademark dell’album, fatto di sospensioni punteggiate da passaggi pianistici (in questo almeno si riscontra anche a livello compositivo una corrispondenza con i Clouds) per poi esplodere in quel drammatico parossismo che è l’elemento peculiare degli Eye Of Solitude, capaci di esprimere in maniera unica la devastazione psichica e morale che assale l’uomo “pensante” allorché realizza la propria insignificanza di fronte all’immensità dello spazio e del tempo, ed il senso di caducità che ne deriva.
Ogni uscita di questo prolifico musicista non può essere mai banale, perché il il suo impulso compositivo non è frutto di un manierismo calligrafico ma trae linfa da una sensibilità superiore, e se gli scostamenti possono apparire minimi, se si prendono superficialmente in esame le varie uscite, questo deriva essenzialmente dalla natura stessa del sound offerto e dalle sue finalità.
Tra i cinque brani, dovendo sceglierne forzatamente uno opterei per The Cold Grip Of Time, ma farei torto ad ogni singola nota di un’altro lavoro magnifico: Canto III rimarrà probabilmente un capolavoro ineguagliabile in questo decennio, questo non solo per gli Eye Of Solitude, ma ogni uscita della creatura di Daniel Neagoe si rivela un appuntamento sempre imperdibile per chiunque voglia trovare un’ideale valvola di sfogo per l’angoscia e la tristezza che sono compagne fedeli della nostra esistenza, anche se si cerca sempre di dissimularne la presenza relegandole in un angolino della nostra mente.

Tracklist:
1. The Blind Earth
2. Still Descending
3. Confinement
4. The Cold Grip Of Time
5. Boundless Silence

Line-up:
Daniel Neagoe
Xander

EYE OF SOLITUDE – Facebook

TRAILER VIDEO

Hybridized – Mental Connections

Mental Connections è un ep che coniuga il thrash metal al più moderno groove, la cui poca durata non consente un giudizio definitivo sul sound del gruppo romano, anche se i tre brani presentati lasciano presagire ulteriori margini di miglioramento.

Dalla capitale arrivano gli Hybridized, band nata un paio di anni fa da un’idea del batterista Fabio Mancinelli e del chitarrista Fabrizio Valenti, amici di vecchia data e compagni in passati progetti, a cui si aggiungono il cantante Marco Patarca, il chitarrista Andrea Scarinci ed il bassista Emanuele Gazzellini.

Mental Connections è un ep di tre brani che coniuga thrash metal al più moderno groove, la cui poca durata ed una produzione appena sufficiente per gli standard odierni, non consentono un giudizio definitivo sul sound del gruppo romano, anche se i tre brani presentati lasciano presagire buoni margini di miglioramento.
La tradizione estrema di ispirazione statunitense, con Slayer e Pantera in testa, si unisce alle più moderna attitudine ed impatto del metal odierno e ne scaturiscono tre mazzate potenti, valorizzate da un gran lavoro delle chitarre, ottime sia in fase ritmica che nei assoli.
Il growl dona una certa dosa di cattiveria death ai brani che hanno nell’opener Live In Lie un mid tempo che accelera a tratti per poi tornare nel classico andamento alla Pantera era Far Beyond Driven.
Subliminal Messages risulta la traccia più moderna del lotto, mentre House Of Nightmares è un brano slayerano con un altro  ottimo assolo nella parte centrale.
Mental Connections finisce qui, tra ottime idee e qualche difetto da limare, ma gli Hybridized, puntando sull’impatto e sulle proprie potenzialità, potrebbero regalare soddisfazioni in futuro.

Tracklist
1.Live In Lie
2.Subliminal Message
3.House Of Nightmares

Line-up
Marco Patarca – Vocals
Fabio Mancinelli – Drums
Andrea Scarinci – Lead Guitar
Emanuele Gazzellini – Bass Guitar
Fabrizio Valenti – Rhythm Guitar, Artistic Direction

HYBRIDIZED – Facebook

Fallen Angels – Even Priest Knows

I Fallen Angels vogliono rappresentare, in tutto e per tutto, il decennio ottantiano e ci riescono pure bene, perché con Even Priest Knows si rivive il clima delle notti di Los Angeles.

I Fallen Angels firmano per Sliptrick e danno alle stampe Even Priest Knows, più che un album una magica macchina del tempo che ci riporta agli anni ottanta e alle scorribande sul Sunset Boulevard.

I quattro rockers dal look alla Motley Crue e dal sound che rispecchia in toto (anche a livello di produzione) il rock nato negli States, tra fumosi locali, valanghe di mascara e capelli cotonati, ci consegnano un lavoro onesto, vintage nell’approccio, ma assolutamente in grado di risvegliare i sensi sopiti degli appassionati del genere.
I Fallen Angels vogliono rappresentare, in tutto e per tutto, il decennio ottantiano e ci riescono pure bene, perché con Even Priest Knows si rivive il clima delle notti di Los Angeles, tra un concerto al Troubadour, uno al Viper Room e poi a far mattina al Whisky A Go Go.
Motley Crue (Pink High Hills sembra uscita dalle sessions del mitico Shout At The Devil), ma anche Ratt, Poison e i sempre eterni Kiss e Twisted Sister, vi danno il benvenuto a questa serata in compagnia del mondo street glam delle sue molte contraddizioni, dei suoi eccessi e dei suoi personaggi, molti dei quali persi e perdenti prima ancora di arrivare al successo.
E in effetti Fallen Angels è un monicker che rispecchia molto bene la storia del glam rock, e di tutto quello che girava intorno alla città degli angeli, descritta dal sound di brani come Captain In The Dark, Millionaire Man, la ballad Jennifer Drugs e la conclusiva ed esplosiva For A Piece Of Bread.
Even Priest Knows è un album che troverebbe il suo perfetto formato nello storico vinile, ora che sta tornando il supporto più amato dai fans, testimone di un’era in cui la puntina del giradischi era la chiave per entrare nel dorato e sporco mondo del rock’n’roll.

Tracklist
01.Intro
02.Captain In The Dark
03.Feast With The Beast
04.Millionaire Man
05.Pink High Hills
06.Jennifer Drugs
07.The Force In The Mind
08.Psycholove
09.But I’ll Live Forever
10.For A Piece Of Bread

Line-up
Matty Mannant – Vocals
Ste Wizard – Guitar
Luke Gyzz – Drums
Matthew Ice – Bass

FALLEN ANGELS – Facebook

https://soundcloud.com/sliptrickrds/fallen-angel-millionaire-man

Pungent Stench – Smut Kingdom

Cibo perverso per menti folli che vogliono gozzovigliare con marce sonorità death non sempre fedeli alla linea, ma ricche di personalità e soluzioni geniali.Il commiato dei Pungent Stench è, come sempre, opera avventurosa e pregiata.

E’ un peccato sapere, avendone la conferma da una recente intervista del drummer Alex Wank, che l’avventura dei Pungent Stench sia giunta al capolinea già da molto tempo e non abbia alcuna possibilità di rinascita.

Tante sono le divergenze tra Wank e Martin Schirenc che, dal 2013 ha iniziato a fare attività live con il monicker Schirenc plays Pungent Stench, accompagnato da altri due musicisti che nulla hanno a che fare con la storia di questo leggendario gruppo viennese attivo dal lontano 1988 e autore di alcuni tra i migliori album di death in Europa; quest’anno la Disssonance Records ha avviato un programma di ristampe del loro materiale che vi consiglio di ripescare. Splendidi lavori come Been caught buttering (1990) o For God your soul…for me your flesh del 1987, sono cibo perverso per menti folli che vogliono gozzovigliare con marce sonorità death non sempre fedeli alla linea, ma ricche di personalità e soluzioni geniali. La loro visione depravata, fin dalle copertine sempre particolari e ridondanti, ha tracciato strade intossicanti e impervie partorendo opere non particolarmente sperimentali ma sempre con quel tocco avventuroso che ha impregnato ogni loro opera fino a questo Smut Kingdom, inciso tra il 2006 e il 2007 e che ora pone l’epitaffio sulla loro carriera. Opera bella e cangiante, non facilmente inquadrabile, anche se il drummer riferisce che “i Pungent Stench appartengono agli ’80 e alla prima ondata Death “; brani di media durata lineari, buona capacità melodica, ritmiche variabili mai spinte troppo, aggressività e capacità non comune di saper scrivere songs con un quid peculiare: sembrano ingredienti semplici ma il difficile è rendere ogni brano particolare. Già dall’opener Aztec Holiday queste caratteristiche sono esaltate e in seguito ogni altro brano si ricorda per il gran lavoro alla chitarra di Schirenc (Don Cochino), capace di inventare riff e atmosfere oscure e aggressive ben delineate in un suono death molto carico (Persona non grata e Devil’s work). Forse una produzione lievemente più grezza avrebbe ulteriormente esaltato il tutto, ma sono sottigliezze di fronte a brani che filano decisi e potenti, con assoli che denotano un grande gusto nel ricercare soluzioni non tecnicistiche ma consone al brano; il groove e gli aromi di Brute dimostrano che la band non si è mai seduta sugli allori ma ha cercato di allargare i propri orizzonti, stimolando i nostri sensi. E’ una sfida scoprire cosa apparirà in ogni brano, suoni trash che si sovrappongono a ritmiche death e talvolta qualche rallentamento doom sempre indovinato nello sviluppo del brano. La cover colorata e come al solito ricca di spunti completa un piatto ricco da parte di una band che avrebbe ancora molto da dire e da insegnare, ma purtroppo dobbiamo accontentarci di questo commiato, fortunatamente stampato dalla stimolante etichetta albionica.

Tracklist
1. Aztec Holiday
2. Persona non grata
3. Devil’s Work
4. Brute
5. King of Smut
6. Suicide Bombshell
7. Opus Dei
8. I Require Death Sentence
9. Me Gonzo
10. Planet of the Dead

Line-up
Rector Stench – Drums
Don Cochino – Guitars, Lead Vocals
El Gore – Bass, Vocals

PUNGENT STENCH – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=40FjLPv8-Ew

Nibiru – Netrayoni

Se aveste la fortuna di parlare con i Nibiru, e ne vale la pena perché capireste molto di più della loro musica, vi sentireste dire che Netrayoni è il disco che rappresenta al meglio lo spirito di questo gruppo, che è quasi un medium per portare in mezzo a noi esseri di altri dimensioni, seguendo il flusso che esce quando diventiamo per davvero noi stessi, nel bene e nel male, oppure quando ci buttiamo dentro la musica, in questo caso facendola.

Netrayoni dei torinesi Nibiru è un disco che non è ascrivibile ad una sola dimensione, perché più che musica è un fluido che si espande in diverse direzioni, e l’umano non riesce a cogliere tutto di questo ciò, ora rimasterizzato e riproposto sul mercato da Argonauta Records.

Questo doppio disco ha tantissimi livelli e sottolivelli, è un detonatore che scoppia nel nostro cervello. Dal punto di vista compositivo non esiste una pianificazione, i brani sono stati creati con coscienze alterate per coscienze alterate. Una lunghissima jam, ed il lato musicale è solo uno dei tanti. La via carnale, la vita che sfiamma nei nostri corpi, dei antichi e poco benigni che ci guardando ed aspettano il nostro sangue. Tantissime visioni, in un disco ricco di immagini e di forza vitale, che non è detto che sia positivo, ed è anche un’opera che non rispecchia nessun bene e nessun male, è. Se aveste la fortuna di parlare con i Nibiru, e ne vale la pena perché capireste molto di più della loro musica, vi sentireste dire che Netrayoni è il disco che rappresenta al meglio lo spirito di questo gruppo, che è quasi un medium per portare in mezzo a noi esseri di altri dimensioni, seguendo il flusso che esce quando diventiamo per davvero noi stessi, nel bene e nel male, oppure quando ci buttiamo dentro la musica, in questo caso facendola. Netrayoni è un lunghissimo requiem, che anche quando finisce continua, come una radiazione di fondo, come un antico meccanismo dentro di noi, anche perché questo disco è fortemente contro la modernità e le sue asettiche sensazioni. Qui non c’è anestesia, a volte fa malissimo e disturba, ma questo è quello che c’è sotto la cortina delle buone intenzioni e delle nostre falsità di tutti i giorni. La rimasterizzazione del disco, e la conseguente fedeltà migliorata, ci proietta maggiormente all’interno di un piano astrale che non è per tutti. Parlando personalmente questo disco, e mi permetto di fare un’annotazione personale che ritengo sbagliata in una recensione ma questo è il caso, mi ha fatto conoscere i Nibiru e mi ha aperto tantissime porte, facendomi conoscere persone per me molto importanti, e mi ha fatto capire molto di me stesso. Spero avvenga lo stesso per voi, ma non è indolore, e non lo deve essere.

Tracklist
1.Kshanika mukta
2.Apsara
3.Sekhet aahru
4.Qaa-om sapah
5.Arkashani
6.Kwaw-loon
7.Sekhmet
8.Celeste samsara is broken
9.Viparita karani
10.Sothis
11.Carma geta

Line-up
Ardat : Guitars, Percussions and Vocals
Ri – Bass, Drones and Synthesizers
L.C. Chertan – Drums

NIBIRU – Facebook

Mos Generator – Shadowlands

Sia su disco che dal vivo è sempre una gioia incontrare i Mos Generator, e questa ultima fatica è forse il loro miglior lavoro, che è un po’ la frase che quasi tutti i musicisti vorrebbero sentirsi dire.

Sono tornati i Mos Generator e sono cambiati, in meglio se possibile.

Il gruppo americano è sempre stato fautore di un buon stoner rock, un ponte fra anni settanta, ottanta e oltre, ma in questo disco aumenta la velocità e la consapevolezza di fare un qualcosa di unico ed originale. Con quello che ha prodotto e anche grazie al suo fedele seguito, il gruppo di Tony Reed non dovrebbe dimostrare più nulla, ma anche grazie allo smisurato amore che ha il leader per la musica, il discorso musicale compie un ulteriore passo in avanti, andando a ripescare molto dal passato, ma anche dotandosi di passaggi molto più oscuri come suggerisce il titolo. In Shadowlands si può trovare un suono indurito e un grande odore di southern rock, che è sempre stato presente nei lavori dei Mos Generator, ma qui è in misura maggiore rispetto al passato. La loro musica è sempre molto bilanciata ed equilibrata e trovano sempre la giusta miscela musicale, anche grazie ad una produzione davvero efficace. Le composizioni sono sempre interessanti e con un trama ritmica interessante che ne rende piacevole l’ascolto: la conoscenza musicale del trio è notevole, e anche fra di loro si sente che si trovano molto bene. Non è certo un disco innovativo, ma il prodotto di un gruppo che ha un’identità ben definita e porta avanti con successo un discorso musicale di impatto e molto piacevole. Ci sono anche momenti nei quali si rimane piacevolmente stupiti da cosa esce fuori da Shadowlands scoprendo un qualcosa di ricco. A volte ricordano il meglio dei Kiss fuso con una bella e robusta selezione del meglio del rock americano. Insomma, sia su disco che dal vivo è sempre una gioia incontrare i Mos Generator, e questa ultima fatica è forse il loro miglior lavoro, che è un po’ la frase che quasi tutti i musicisti vorrebbero sentirsi dire.

Tracklist
01. Shadowlands
02. The Destroyer
03. Drowning In Your Loving Cup
04. Stolen Ages
05. Gamma Hydra
06. The Blasting Concept
07. Woman Song
08. The Wild & Gentle Dogs

Line-up
TONY REED – guitar, vocals, keyboards, assorted instruments
SEAN BOOTH – bass
JON GARRETT – drums

MOS GENERATOR – Facebook

Djinn And Miskatonic – Even Gods Must Die

La band prende le distanze dagli stilemi dello stoner doom più tradizionale optando per sonorità grevi ed ossessive piuttosto che scopertamente psichedeliche, benché tale componente non possa certo definirsi assente.

Even Gods Must Die è il secondo full length per la questa band indiana, espressione di un doom stonerizzato che non sembra essere così naturalmente nelle corde dei musicisti metal provenienti dalla nazione asiatica.

Djinn And Miskatonic è un monicker invero particolare, che richiama inevitabilmente l’immaginario lovecraftiano al quale il quartetto di Bangalore si riallaccia con il suo sound essenziale e dalle tonalità molto ribassate.
Il tutto va letto ovviamente con un’accezione positiva, in quanto la band prende le distanze dagli stilemi dello stoner doom più tradizionale optando per sonorità grevi ed ossessive piuttosto che scopertamente psichedeliche, benché tale componente non possa certo definirsi assente.
Chiaramente il sound della band trae linfa da un monumento del genere come gli Sleep, passando poi per Electric Wizard e da tutto ciò che ne è conseguito, quindi è normale che la proposta finisca per essere mastodontica per dimensioni (6 tracce per 66 minuti, certo non una coincidenza) e monolitica nel suo incedere, con rare accelerazioni, riff pesanti e reiterati, ed una voce ora salmodiante ora più aggressiva, magari non eccelsa ma essenziale nel conferire una linea ben precisa ad ogni brano.
Even Gods Must Die non può rappresentare per tutto questo un qualcosa di originale ma è un album intanto coraggioso, perché per caratteristiche e dimensioni si rivolge ad un pubblico selezionato e inoltre non soffre di eccessiva ripetitività in quanto, tutto sommato, ogni brano mostra caratteristiche ben definite anche se messi tutti  risultano troppo diluiti, ma si sa che il dono della sintesi non è proprio insito in chi suona doom e in fondo a noi piace cosi.
Anche per questo, probabilmente, sono i primi tre brani (I, Zombie, Bones Of My Brothers e Doombringer) ad impressionare maggiormente, visto che dopo oltre mezz’ora il rischio di assuefazione si fa concreto, ma in generale questo nuovo lavoro dei Djinn And Miskatonic impressiona per maturità e coerenza nell’approccio al genere e rappresenta senz’altro la conferma delle doti di un gruppo che ha tutte le carte in regola per ritagliarsi in maniera definitiva uno spazio importante nella scienza doom, nonostante i rischi corsi a causa di un improvviso scioglimento intervenuto dopo il primo album, fortunatamente poi rientrato per la soddisfazione di tutti.

Tracklist:
1. I, Zombie
2. Bones Of My Brothers
3. Doombringer
4. Frost And Steel
5. Harvest of Kings
6. Hangman’s Hope

Line-up:
Gautham Khandige – Vocals
Sriram Kvlteswaran – Guitar, Backing Vocals
Mushaf Nazeer – Guitar
Jayaprakash Satanmurthy – Bass
Siddharth Manorahan – Drums

DJINN AND MISKATONIC – Facebook

2017

Anthrax – Kings Among Scotland

Per il popolo del thrash metal, Kings Among Scotland è un live imperdibile, trattandosi della celebrazione di un’epoca, una festa che ancora non ha visto sorgere l’alba e continua senza freni, mentre dal palco gli Anthrax se la godono e non hanno nessuna intenzione di scendere, anche dopo tutto questo tempo…

E’ arrivato anche per gli Anthrax il momento di festeggiare una delle loro più famose creature.

A trent’anni suonati, Among The Living rimane uno degli esempi più fulgidi della discografia del gruppo, ed uno dei pilastri su cui si regge la storia del thrash metal mondiale, un buon motivo per fare festa insieme ai thrashers scozzesi intervenuti per l’evento al Barrowland Ballroom di Glasgow il 15 Febbraio dello scorso anno.
L’uscita prevista in cd e nel supporto video, vede all’opera i cinque storici ragazzacci americani, con un Joey Belladonna in buona forma e gli altri compari a formare il solito muro metallico thrash/punk, su cui si erge quel monumento al genere che risulta Scott Ian, scaldare l’ambiente con qualche brano pescato qua e là per la loro discografia, prima di rivoltare come un calzino sala e astanti con la scaletta di Among The Living.
Il tempo passa inesorabile, mentre la scena metal non è certo più quella di trent’anni fa e gli Anthrax non sono più quegli irriverenti giovanotti che suonavano veloci come il vento, ma la classe, unita ad un lotto di canzoni irresistibilmente devastanti per impatto e per quell’attitudine punk che ha caratterizzato la band nei primi lavori, continua a divertire, lasciando che le nostre membra stanche tornino a fremere come la terra scossa dal terremoto quando la title track dello storico album dà inizio ai fuochi di artificio metallici.
La band di New York ci prende per il colletto e ci urla in faccia che, se si parla di thrash metal, loro sono ancora qui a farci saltare con Caught In A Mosh e A Skeleton In The Closet, mentre le nuove leve devono inseguire ancora un po’ prima che gli Anthrax possano rallentare e lasciare il passo.
Per il popolo del thrash metal, Kings Among Scotland è un live imperdibile, trattandosi della celebrazione di un’epoca, una festa che ancora non ha visto sorgere l’alba e continua senza freni, mentre dal palco gli Anthrax se la godono e non hanno nessuna intenzione di scendere, anche dopo tutto questo tempo…

Tracklist
01. Intro
02. A.I.R.
03. Madhouse
04. Evil Twin
05. Medusa
06. Blood Eagle Wings
07. Fight ‘Em ‘Til You Can’t
08. Be All, End All
09. Breathing Lightning
10. Among The Living
11. Caught In A Mosh
12. One World
13. I Am The Law
14. A Skeleton In The Closet
15. N.F.L.
16. A.D.I. / Horror Of It All
17. Indians
18. Imitation Of Life
19. Antisocial

Line-up
Joey Belladonna – Vocals
Frank Bello – Bass
Charlie Benante – Drums
Jonathan Donais – Lead guitars
Scott Ian – Rhythm guitars

ANTHRAX – Facebook

Kenos – Pest

Pest è un album distruttivo e senza compromessi, con un sound ispirato a quello americano ma assolutamente personale nella sua natura estrema, cattivissimo e perfetto, anche nella produzione e negli arrangiamenti che risultano al top, e quindi imperdibile per gli amanti del metal estremo.

I Kenos possono ormai essere considerati dei veterani della scena estrema tricolore.

Attivi dal 1996 come Underwise e cambiato il monicker nel 2001 nell’attuale Kenos, il quartetto ha dato alle stampe tre full length e due ep, prima di questo devastante lavoro dal titolo che è tutto un programma, Pest.
Licenziato dalla My Kingdon Music (una delle label nazionali più attive e con un roster di alta qualità), il nuovo album dei Kenos è un massacro brutale e devastante, un virus purulento e letale che porta morte e disperazione.
Composto da otto brani, Pest in trentadue minuti circa distrugge ogni anticorpo presente nell’organismo e ci riempie di pustole purulente, mentre Michele Spallieri vomita growl insanguinato, la chitarra di Domenico Conte tesse tele con solos al limite dell’umano e la sezione ritmica composta dal basso di Marcello Fachin e dalla batteria di Sergio Gasparini è un panzer che butta giù le case infettate dalla morte nera.
Tra ratti che si nutrono dei cadaveri infetti, fuochi che si alzano nel cielo scuro e fetore di resti bruciati, un sound tecnicamente impeccabile e al limite del brutal viene attraversato da attimi di melodia gregoriana, in un delirio estremo senza soluzione di continuità.
I Kenos non scherzano, ci investono con la loro furia distruttrice e ci regalano un autentico gioiellino di death metal estremo, violentissimo, ma venato da un’anima nera melodicamente affascinante, un ombra che attraversa le devastanti trame dell’opener Sons Of Martyrdom, della magnifica e tecnicissima Immortal Breath e delle mitragliate di Shooting At The Moon.
Pest è un album distruttivo e senza compromessi, con un sound ispirato a quello americano ma assolutamente personale nella sua natura estrema, cattivissimo e perfetto, anche nella produzione e negli arrangiamenti che risultano al top, e quindi imperdibile per gli amanti del metal estremo.

Tracklist
1. Sons Of Martyrdom
2. B.D.C. (Black Death Curse)
3. Buried And Forgotten
4. Immortal Breath
5. Leave Me Now
6. My Wooden Frame
7. Shooting At The Moon
8. The Sweeper Of Remains

Line-up
Michele Spallieri – vocals
Domenico Conte – guitar, backing vocals
Marcello Fachin – bass
Sergio Gasparini – drums

KENOS – Facebook

TIFONE CREW presenta JETTASANGU FEST VOL. 3

Jettasangu Fest è la prima produzione del collettivo catanese Tifone Crew, dedicata alle realtà estreme locali giunta al terzo capitolo. Nelle due serate precedenti, datate 17 febbraio e 7 aprile, si sono alternati sul palco Gangrenctomy, Fordømth, Whispering Haze, BuiOmegA, Torpore e 600000 Mountains.
In occasione della terza serata l’evento apre a band provenienti da oltre lo Stretto, ospitando il combo progressive death metal senese Coexistence, che si appresta a pubblicare il proprio debut EP Contact with the Entity per ETN Records. Con loro i ragusani Mass Turbo, quartetto dedito a un goliardico hardcore/thrash metal al vetriolo, e gli Undergrav, giovane band di Reggio Calabria dedita al più puro old school death metal. L’appuntamento è fissato per sabato 12 maggio 2018 al Ramblas DiscoPub di Catania.
Di seguito tutti i dettagli e il flyer, realizzato da Gore Occulto.

JETTASANGU FEST VOL. 3 W/
UNDERGRAV [Death metal from Reggio Calabria]
https://www.facebook.com/undergrav666/
MASS TURBO [Thrash metal/punk hardcore from Ragusa]
https://www.facebook.com/alcoholicdivision/
COEXISTENCE [Progressive death metal from Siena]
https://www.facebook.com/coexistenceprogdeath/

12.05.2018 H 22.00
Ramblas DiscoPub, Via Manzoni 86, Catania
Ingresso: 3€https://www.facebook.com/tifonecrew/
Evento Facebook: https://www.facebook.com/events/459529384484396/
Tifone Crew: https://www.facebook.com/tifonecrew/
E-mail: tifonecrew@gmail.com

FLESHGOD APOCALYPSE – 22.09. Perugia – Afterlife Live Club

I death metaller sinfonici FLESHGOD APOCALYPSE sono lieti di annunciare che il loro concerto gratuito di Perugia si terrà il 22 Settembre 2018. La band riprenderà la serata (con ospiti speciali e diverse sorprese) per l’uscita di un nuovo DVD. Impossibile mancare a un evento così unico – maggiori dettagli saranno presto svelati!

Il frontman Francesco Paoli ha commentato:
“Tristemente, dopo essere stati derubati a Gothenburg qualche settimana fa, siamo stati obbligati a posticipare di qualche mese il nostro show all’Afterlife Live Club di Perugia. La nuova data è fissata per il 22 Settembre con ingresso gratuito. Come saprete, lo show sarà registrato per il nostro primo DVD live. Sarà un’esperienza unica ed irripetibile, con la partecipazione di tanti ospiti, un vero quartetto di archi e molte altre sorprese quindi… non mancate! Grazie per tutto il supporto che ci avete dimostrato!”

FLESHGOD APOCALYPSE live:

16.05. F Seyssinet-Pariset – L’Ilyade
17.05. D Lindau – Club Vaudeville
19.05. NL Amsterdam – Amsterdam Metalfest
20.05. CH Fribourg – Le Nouveau Monde

w/ THE BLACK DAHLIA MURDER, WHITECHAPEL,
AVERSIONS CROWN, SHADOW OF INTENT
08.06. USA Chicago, IL – House of Blues
09.06. USA Cleveland, OH – Agora Theatre
10.06. USA Detroit, MI – Saint Andrew’s Hall
11.06. USA Pittsburgh, PA – Cattivo*
12.06. CDN Toronto, ON – The Opera House
13.06. USA Rochester, NY – Funk ’n Waffles
14.06. USA Boston, MA – Paradise Rock Club
15.06. USA New York, NY – Stage 48
16.06. USA Philadelphia, PA – Trocadero Theatre
17.06. USA Baltimore, MD – Soundstage
19.06. USA Norfolk, VA – Norva Theatre
20.06. USA Jacksonville, NC – The Tarheel
22.06. USA St. Petersburg, FL – Jannus Live
23.06. USA Ft. Lauderdale, FL – Revolution Live
24.06. USA Atlanta, GA – Masquerade
26.06. USA Nashville, TN – The Basement East
27.06. USA New Orleans, LA – Southport Hall
28.06. USA Houston, TX – White Oak Music Hall
29.06. USA San Antonio, TX – Vibes Event Center
30.06. USA Dallas, TX – Gas Monkey Live!
02.07. USA Albuquerque, NM – El Rey Theater
03.07. USA Phoenix, AZ – The Pressroom
04.07. USA San Diego, CA – Brick by Brick*
05.07. USA Fresno, CA – Strummer’s
06.07. USA Anaheim, CA – House of Blues
07.07. USA Berkeley, CA – UC Theatre
08.07. USA Sacramento, CA – Ace of Spades
09.07. USA Salt Lake City, UT – Metro Music Hall*
10.07. USA Denver, CO – Ogden Theatre
11.07. USA Kansas City, MO – The Truman
12.07. USA Sioux Falls, SD – Icon Lounge
13.07. USA Minneapolis, MN – The Cabooze
*FA + support only

02. – 05.08. RO Rasnov – Rockstadt Extreme Fest
22.09. I Perugia – Afterlife Live Club (Free Show)

Ordina “King”, qui: http://nblast.de/FleshgodKingNB
In digitale: http://nblast.de/FleshgodDownloads

“King” è stato prodotto da Jens Bogren (OPETH, KATATONIA, SOILWORK), con l’aiuto del tecnico Marco Mastrobuono. Il bellissimo artwork è stato creato dall’acclamato artista contemporaneo Eliran Kantor (TESTAMENT, ICED EARTH, KATAKLYSM, HATEBREED).

Altro su “King”:
‘Cold As Perfection’ OFFICIAL MUSIC VIDEO:
https://www.youtube.com/watch?v=67pJg8dsPcs (censored version)
‘Cold As Perfection’ OFFICIAL MUSIC VIDEO:
https://vimeo.com/153750101 (uncensored version)
‘The Fool’ OFFICIAL TRACK:
https://www.youtube.com/watch?v=GXOucG8rM5k
‘Gravity’ OFFICIAL LYRICVIDEO:
https://www.youtube.com/watch?v=jDzShhI6g3w


Maggiori info:
www.fleshgodapocalypse.com
www.facebook.com/fleshgodapocalypse
www.nuclearblast.de/fleshgodapocalypse

Crying Steel – Stay Steel

Stay Steel è un album dal taglio internazionale che ritroveremo sicuramente nelle classifiche di fine anno, almeno per quanto riguarda il metallo classico.

Si torna a parlare di una delle più importanti band heavy metal della nostra penisola, i Crying Steel, leggendario combo attivo dal lontano 1982, anno di uscita del primo demo.

Ovvio che qui si parli della storia del metal classico tricolore, trattandosi di uno dei dei gruppi proposti dal mitico Beppe Riva nella compilation HM Eruprion, che in quegli anni fu una sorta di Vangelo metallico.
Un primo full length licenziato nel 1987 (On The Prowl) e poi venti lunghi anni di silenzio fino al 2007, quando la band bolognese rientra in gioco con il primo di tre lavori arrivando così al 2018, con un Tony Mills in più dietro al microfono (Shy ,TNT, China Blue, tra gli altri) e dando fuoco alle polveri con questo manifesto all’hard & heavy classico intitolato Stay Steel, un pezzo di acciaio indistruttibile, tagliente e melodico, un ritorno imperdibile per tutti gli appassionati del metal duro e puro.
Le chitarre si incendiano sotto le dita dei due chitarristi Franco Nipoti e JJ Frati, la sezione ritmica supporta potente e massiccia con un Luca Ferri kraken dai devastanti tentacoli e Angelo Franchini preciso al basso, il tutto valorizzato da un Mills debordante: questo risulta in sintesi questo nuovo entusiasmante lavoro che si apre con una Hammerfall che lancia le carte e sbanca il tavolo da gioco, asso di una scala reale metallica.
Con The Killer Inside, Blackout e uno dopo l’altro tutti i brani, Stay Steel rappresenta l’heavy metal che ogni fan di Judas Priest e Accept vorrebbe sentire, suonato da un gruppo che non emula ma che, vista la lunga militanza, è custode della tradizione di un modo di fare metal che continua, malgrado gli anni che passano, ad essere nei cuori dei defenders.
Licenziato dalla Pride & Joy Music, Stay Steel è un album dal taglio internazionale che ritroveremo sicuramente nelle classifiche di fine anno, almeno per quanto riguarda il metallo classico.

Tracklist
1. Hammerfall
2. The Killer Inside
3. Speed Of Light
4. Born In The Fire
5. Blackout
6. Barricades
7. Raise Your Hell
8. Crank It Up
9. Sail The Brave
9. Name Of The Father
10. Name Of The Father
11. Warriors
12. Road To Glory

Line-up
Tony Mills – Vocals
Luca Ferri – Drums
Angelo Franchini – Bass
JJ Frati – Guitar
Franco Nipoti – Guitar

CRYING STEEL – Facebook

Goblin 4 – Four Of A Kind

Four Of A Kind risulta ritorno molto convincente, ancora di più se pensiamo alla qualità altissima di queste nuove composizioni che non risentono minimamente dell’anagrafe dei loro creatori, musicisti eccezionali con ancora molto da dire nel panorama progressivo nazionale ed internazionale.

I Goblin sono, insieme ad una manciata di altri nomi illustri, la storia del progressive rock tricolore, famosi in tutto il mondo per aver legato il proprio nome alle fortunate pellicole dalle tematiche horror di Dario Argento.

Nel corso degli anni il loro monicker è stato modificato più volte per non inciampare in diatribe legali con il membro fondatore e tastierista Claudio Simonetti, riavvicinatosi alla band nel 2011, ma subito tornato ai suoi Claudio Simonetti’s Goblin.
New Goblin, Goblin Rebirth, Claudio Simonetti’s Goblin e Goblin 4: la quarta anima del folletto più importante della storia del progressive rock è formata dai quattro quinti della band originale, quindi Fabio Pignatelli al basso, Massimo Morante alla chitarra, Maurizio Guarini alle tastiere e Agostino Marangolo alla batteria.
Four Of a Kind segue il precedente Back To The Goblin e risulta un viaggio strumentale nel mondo progressivo, misterioso e oscuro di chi del genere è diventato l’icona, realtà intoccabile da quarant’anni di un certo modo di fare musica, sempre con quelle sfumature da colonna sonora che ne sono il marchio di fabbrica.
Fin da Uneven Times, splendida apertura, questo nuovo lavoro ci presenta un sound immortale, personalissimo, prodotto e suonato come il monicker in calce alla copertina richiede, pregno di atmosfere pressanti ma valorizzate da un’eleganza compositiva rimasta intatta dopo tutti gli anni trascorsi.
Si passa così da ovvie celebrazioni di sé stessi, a brani capolavoro come Kingdom o Dark Blue(s), sofferto blues dove la sei corde lacrima solos sanguigni, in un contesto che rimane progressivo ed altamente emozionale.
Un ritorno molto convincente, ancora di più se pensiamo alla qualità altissima di queste nuove composizioni che non risentono minimamente dell’anagrafe dei loro creatori, musicisti eccezionali con ancora molto da dire nel panorama progressivo nazionale ed internazionale.

Tracklist
1. Uneven Times
2. In the Name of Goblin
3. Mousse Roll
4. Bon Ton
5. Kingdom
6. Dark Blue(s)
7. Love & Hate
8. 008
9. Goblin [Recorded live in Austin]

Line-up
Maurizio Guarini – keyboards, Hammond orgena, clavicembalo
Fabio Pignatelli – bass, keyboards
Massimo Morante – electric & acoustic guitars, bouzouki
Agostino Marangolo – drums, keyboards

Guest:
Antonio Marangolo – sax (1)

GOBLIN – Facebook