Sorrowful Land – I Remember

Un’altra opera di grande consistenza per questo ottimo musicista di Kharkiv che sembra aver momentaneamente congelato la sua precedente creatura Edenian per convogliare tutti i propri sforzi su un progetto solista, come quello dei Sorrowful Land, decisamente foriero di soddisfazioni, sicuramente almeno a livello qualitativo.

Per il suo nuovo lavoro a nome Sorrowful Land, Max Molodtsov non ha lasciato nulla di intentato, radunando diversi nomi di spicco della scena doom e assegnando loro il compito di arricchire questo secondo full length del suo progetto, intitolato I Remember.

In ogni brano troviamo voci note alla platea di appassionati del death doom come due figure carismatiche del peso di Daniel Neagoe (Clouds, Eye Of Solitude) ed Evander Sinque (Who Dies In Siberian Slush, Umercenaries) ma non solo, se pensiamo anche alla presenza di Kaivan Sarei (A Dream Of Poe), Vladislav Shahin (Mournful Gust) e Daniel Arvidsson (Draconian), oltre al prezioso contributo chitarristico di Vito Marchese dei Novembers Doom.
Quanto di buono già dimostrato dal musicista ucraino con i precedenti lavori, trova in I Remember una sua ideale finalizzazione proprio grazie alla varietà di soluzioni consentite dal diversi stili vocali degli ospiti; pertanto, se la suadente voce pulita di sarei si presta ad un brano morbidamente malinconico come And Wilt Thou Weep When I Am Low?, il growl antologico di Neagoe sposta la successiva canzone When the World’s Gone Cold su ritmi più rallentati ed atmosfere più tragiche, anche se l’intreccio tra le clean dello stesso Daniel e di Max ingentilisce il tutto senza dimenticare il limpido e melodico chitarrismo del musicista ucraino.
A Father I Never Had è una delle perle del lavoro e anche il solo brano in cui Molotsdov non si avvale di ospiti: il suo stile vocale, del resto, non sfigura certo per espressività e l’innata facilità nello sciorinare linee chitarristche magnifiche (non dissimili da un modello come quello rappresentato da Johan Ericsson) rende questa traccia davvero splendida.
In Weep On, Weep On troviamo un altro dei growl più efficaci della scena, quello di Evander Sinque, personaggio di spicco della scena moscovita del quale non avevamo più avuto il piacere di ascoltare il profondo timbro dopo la prematura scomparsa del suo storico sodale Gungrind: il brano è meno immediato nonché il più aspro e più profondo della tracklist, nonostante non venga mai meno il tocco atmosferico che è tratto comune dell’intero lavoro.
In I Am the Only Being Whose Doom tocca ad una delle icone della scena ucraina, quel Vladimir Shahin che con i suo Mournful Gust è stato uno dei primi nella sua terra ad esplorare con perizia quelle dolenti sonorità; la sua interpretazione vocale dona grande enfasi ad un brano in cui anche il tocco chitarristico di Marchese, differente da quello di Molotsdsov, conferisce una certa discontinuità rispetto alle altre tracce.
L’album si chiude con un’altra gemma imperlata di dolore come The Kingdom of Nothingness, interpretata da un ottimo Daniel Arvidsson, usualmente solo chitarrista nei Draconian, andando mettere il tassello finale ad un’altra opera di grande consistenza di questo ottimo musicista di Kharkiv che sembra aver momentaneamente congelato la sua precedente creatura Edenian per convogliare tutti i propri sforzi su un progetto solista, come quello dei Sorrowful Land, decisamente foriero di soddisfazioni, sicuramente almeno a livello qualitativo.
L’unica nota di biasimo attribuibile a Molodtsov è la scelta di una copertina che non rende giustizia alla bellezza dell’album, la di là dei significati reconditi che magari questa possa rivestire all’interno del contesto lirico: un peccato veniale che non rende affatto meno appetibile per gli appassionati del death doom melodico un lavoro come I Remember.

Tracklist:
1. And Wilt Thou Weep When I Am Low?
2. When the World’s Gone Cold
3. A Father I Never Ha
4. Weep On, Weep On
5. I Am the Only Being Whose Doom
6. The Kingdom of Nothingness

Line-up:
Max Molodtsov – Vocals, Guitars, Bass, Keyboards, Drum programming, Songwriting, Lyrics

Guests:
Kaivan Saraei – Vocals (track 1)
Daniel Neagoe – Vocals (track 2)
Evander Sinque – Vocals (track 4)
Vladislav Shahin – Vocals (track 5)
Vito Marchese – Guitars (lead) (track 5)
Daniel Arvidsson Vocals (track 6)

SORROWFUL LAND – Facebook

SADIST

Il lyric video di ‘Bloody Bates’, dall’album ‘Spellbound’, in uscita a novembre (Scarlet Records).

Il lyric video di ‘Bloody Bates’, dall’album ‘Spellbound’, in uscita a novembre (Scarlet Records).

I Sadist hanno pubblicato il lyric video di ‘Bloody Bates’, il primo singolo tratto dal nuovo, attesissimo album della band ‘Spellbound’, in uscita il prossimo 9 novembre suScarlet Records.

‘Spellbound’, il nuovo, attesissimo album dei Sadist, veterani della scena Progressive Death Metal europea che tornano dunque con l’ottavo lavoro in studio. Il filo conduttore di questo nuovo lavoro è la filmografia del maestro indiscusso del brivido Alfred Hitchcock. Ogni traccia ripercorre infatti la trama di un film, tinteggiandola ovviamente di “nuances’ tipicamente Sadist, da ‘Frenzy’ a ‘Notorius’, passando per ‘The Birds’ e naturalmente per l’indimenticabile ‘Psycho’. ‘Spellbound’ è un’opera matura, un album solido ed aggressivo (sicuramente il più estremo della band ad oggi) ma sempre con gli immancabili richiami Prog/Death che hanno reso noto ed apprezzato in tutto il mondo il marchio Sadist.

La bellissima cover è opera di SoloMacello (Ennio Morricone, Nick Oliveri, Mos Generator).

Revolutio – Vagrant

Le influenze del gruppo vanno dai gruppi storici del thrash metal a quelli più moderni del groove ma con una forte impronta personale, e tutto cio contribuisca fare di Vagrant un’opera riuscita.

I Revolutio sono una band bolognese attiva dal 2011, con un primo ep licenziato due anni dopo ed un lungo silenzio prima del buon ritorno intitolato Vagrant.

Ambientazioni da film d’azione in un futuro neanche troppo distante, se continueremo a maltrattare il pianeta, vengono raccontate tramite un thrash/groove power metal che ovviamente risulta pregno di input moderni e di un impatto “nucleare”.
Si corre nel deserto post atomico con questo bolide metallico che non rinuncia a potenza e a soluzioni estreme, ma neanche alla melodia che affiora, ora timida, ora a dettare l’atmosfera che si respira lungo tutto il lavoro con armonie semi acustiche capaci di creare il giusto effetto prima che il sound torni a deflagrare in uno tsunami modern metal.
Dalla loro i guerrieri bolognesi hanno un controllo perfetto del sound, che pur mantenendo un clima di tensione altissima, anche quando le scorribande metalliche si placano non perdono mai la bussola e di questo l’ascolto se ne giova non poco.
Vagrant è un’opera di moderno metallo dal clima estremo che diventa sempre più intrigante e riuscita man mano che si entra nel suo cuore, una escalation qualitativa che ha il suo epicentro tra The Oracle e le atmosfere dark della “Metallica” Silver Dawn, ma che continua a crescere in emozioni fino alla sua conclusione, lasciata alle atmosfere evocative e modern/thrash di Daydream e a The Great Silence, che conclude l’album immergendoci nei rumori del deserto nucleare.
Le influenze del gruppo vanno dai gruppi storici del thrash metal a quelli più moderni del groove ma con una forte impronta personale, e tutto ciò contribuisca fare di Vagrant un’opera riuscita.

Tracklist
1. Aftermath
2. Meek and the Bold
3. What Breaks Inside
4. The Oracle
5. Ozymandias
6. Eclipse
7. Silver Dawn
8. Requiem
9. Daydream
10. The Great Silence

Line-up
Maurizio Di Timoteo – Vocals
Luca Barbieri – Lead Guitars
Carlos Reyes Vergara – Rhythm Guitars
Francesco Querzè – Bass
Davide Pulito – Drums

REVOLUTIO – Facebook

Vitja – Mistaken

Siamo nel più classico prodotto di genere, molto melodico, contraddistinto dall’uso della doppia voce come da copione e composto da un lotto di brani accattivanti, radiofonici e perfetti per non deludere i pruriti metallici degli adolescenti votati alla dannazione eterna del rock.

Il metalcore non molla la presa sui giovani del nuovo millennio che, oltre alle moltissime proposte underground, possono avvalersi di uscite importanti anche da parte delle più importanti label mondiali, almeno per quanto riguarda il metal e i generi affini.

La Century Media, per esempio, licenzia il nuovo album dei Vitja, giovane band al terzo lavoro dopo il buon successo di Digital Love, precedente lavoro uscito lo scorso anno.
Siamo nel più classico prodotto di genere, molto melodico, contraddistinto dall’uso della doppia voce come da copione e composto da un lotto di brani accattivanti, radiofonici e perfetti per non deludere i pruriti metallici degli adolescenti votati alla dannazione eterna del rock.
Perfetto in fase di produzione, spettacolare nei suoni ed altrettanto innocuo, Mistaken è l’album che tutti si aspettavano dai ragazzi dei Vitja, i quali non deludono le aspettative e sparano i loro proiettili rigorosamente a salve, facendo tanto rumore per nulla.
E’ lontana chilometri la furia estrema del deathcore e di certo metal moderno, in Mistaken tutto è studiato per arrivare ai cuori dei giovani kids, fagocitati dal web e dalle sue diavolerie, dunque abituati al freddo emozionale di una musica che ripete all’infinito la stessa formula, recitando un copione assolutamente perfetto.
Mistaken, Down, Black And Blue, ma potrei nominarveli tutti e nessuno, sono i brani migliori di questo lavoro, perfetto per il suo compito, ma avaro di emozioni.
Se non arrivate ai vent’anni e vi piace il metalcore da classifica, troverete sicuramente ottimi motivi per fare vostro questo lavoro, altrimenti rivolgete la vostra attenzione altrove, i Vitja non fanno per voi.

Tracklist
1. Mistaken
2. Overdose (feat. Andy Dörner)
3. Friends Don’t Lie
4. Down
5. Anxiety
6. Black and Blue
7. High on You
8. To the Moon
9. Sedamine
10. Filthy
11. Kings of Nothing

Line-up
David Beule – Vocals
Mario Metzler – Bass
Vladimir Dontschenko – Guitar
Daniel Pampuch – Drums

VITJA – Facebook

BLACK FUNERAL – THE DUST AND DARKNESS

Prodotto dalla gloriosa ed attivissima Iron Bonehead, The Dust And The Darkness contiene 4 tracce di pura acherontea malvagità.

L’amore spassionato per occultismo, satanismo (più precisamente per il “Luciferianismo”) e vampirismo, costituisce l’anima di tutta la produzione del leader del duo di Houston.

Baron Drakkonian Abaddon (alias Michael W. Ford), voce, basso ed effetti del combo, è un appassionato delle scienze occulte e di tutto ciò che graviti intorno al Satanismo e all’Esoterismo più arcano e imperscrutabile. Un Aleister Crowley dei giorni nostri, autore di numerosi libri sull’argomento e proprietario della Luciefrian Apotheca (www.luciferianapotheca.com – negozio online adatto a chiunque si voglia sbizzarrire nell’acquistare testi esoterici, oggetti satanici, incensi, erbe misteriose e così via, ed organizzarsi un Sabba casalingo), non poteva che essere contemporaneamente il front-man di numerose famose band Black Metal americane (Darkness Enshroud, Empire Of Blood e i concittadini Valefor per citarne alcune). In tutte le sue produzioni, le tematiche sopra citate, costituiscono il leitmotiv, il motivo conduttore di tutta la sua attività da strumentista, attiva da oramai 25 anni. Tutta la sua vita risulta imperniata dal tenebroso interesse per le pratiche di magia nera che, negli anni, ne hanno influenzato anche la vita privata. Sposato inizialmente con quella che viene definita un “primeva strega” dei giorni nostri, la medium Lux Ferro (alias Elda Isela Ford), scrittrice di libri esoterici e compositrice per alcune band dedite ad arcane sonorità rituali (tra cui i dark dance Psychonaut 75), Mr. Ford dedicherà la maggior parte dei suoi sforzi e delle sue attenzioni al progetto Black Funeral, oggetto di questa recensione, di cui la moglie ne è stata – seppur per un breve periodo – anche cantante.
Coadiuvato da Mr. Azgorh Drakenhof, polistrumentista australiano già proprietario dell’etichetta Dark Adversary Productions, ma soprattutto leader incontrastato della one-man band Drowning the Light, la più famosa (e prolifica) band della terra dei canguri, Abaddon ci dona questo ep ricco di nere atmosfere, occulte ambientazioni e malvagie auree, che farà sicuramente la gioia di dei fan più legati al Black Ambient più nero e tetro, ottimamente arricchito di empi rimandi ritualistici, sprigionanti nere icore direttamente provenienti dai più oscuri antri dell’Inferno.
Prodotto dalla gloriosa ed attivissima Iron Bonehead, contiene 4 tracce di pura acherontea malvagità. Dankuis Daganzipas (dalla lingua Ittita -Dark Earth) è un elogio rituale alle malvagie divinità dell’antico e misterioso popolo dell’Anatolia. Intro tribale per Alanni Goddess of the Underworld, un pezzo che si dipana su 3 minuti e mezzo circa di classico cupo Black Metal in pieno stile old school scandinavo. Versi infernali che presumibilmente gorgogliano blasfemie, annunciano l’ingresso di Chemosh of the Dust and Darkness: un elogio al Dio dei Moabiti, popolazione vissuta circa tremila anni fa sulle rive del Mar Morto, più precisamente sull’attuale altopiano del Kerak. Oscuro Dio della distruzione, a cui venivano dedicati sacrifici umani, viene qui idolatrato grazie ad un Black veloce, senza particolari fronzoli e senza nessuna tregua; un suono corvino come l’animo della divinità stessa, spesso etichettata come “abominio di Moab”, che non lascia dubbi sulla sua antica empia malvagità. Sfumature classiche in Mistress of the Pit, vero cantico consacrato ad una non ben definita nera regina dell’Abisso. Nulla a che vedere con il Black Metal nel senso stretto del termine. Cupe armonie cullate da un sapiente uso dei sinth, ne fanno un pezzo di ottimo Dark Ambient che ci strugge di malinconia e instilla nei più sensibili, desideri di abbandono all’eterno sonno, avvolti dal crepuscolo.
Un mini album di buona fattura che potrà accendere la curiosità di chi prima non si è mai accostato al sound del combo americano. Black ed Ambient in una cagliostrica miscela che appassionerà tanti, e che forse li condurrà alla scoperta della loro intera produzione (9 full-length e svariate produzioni minori).

Tracklist
1. Dankuis Daganzipas (Dark Earth)
2. Alanni Goddess of the Underworld
3. Chemosh of the Dust and Darkness
4. Mistress of the Pit

Line-up
Baron Drakkonian Abaddon (Michael Ford Nachttoter) – Vocals, Bass, Electronics
Azgorh Drakenhof – Guitars, Bass, Keyboards

BLACK FUNERAL – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=5SDv0JFqqUo

Atlas – Primitive

Il disco funziona molto bene, non ha momenti di stanca e gli Atlas presentano notevoli margini di miglioramento rivelandosi una delle maggior sorprese in campo metalcore degli ultimi tempi.

Potente e melodico album di metalcore dalla Finlandia per il debutto degli Atlas, un gruppo che si inserirà molto bene nel movimento del metal moderno.

Mutuando in linguaggio sportivo, gli Atlas fanno bene entrambe le fasi, sia quella più aggressiva e legata al metal che quella più melodica che è caratteristica del metal moderno. L’album è stato in lavorazione dal 2015 al 2017 e c’è dentro tutta la prima fase della carriera della band e i suoi sforzi notevoli, soprattutto in fase di composizione che è la di sopra della media. La caratteristica migliore del gruppo è il saper incastonare pezzi più duri con ventate melodiche e con inserti di elettronica molto azzeccati e funzionali, con le tastiere che entrano sempre al momento giusto. Gli Atlas sono molto più fisici e reali della maggior parte dei gruppi metalcore che interpreta un canovaccio ormai trito e ritrito: il genere richiede maggior talento di prima, perché tante cose sono state dette e fatte e non rimane granché da aggiungere, se non la volontà di essere originali. Primitive è un disco indirizzato alla platea metalcore, ma che richiede un ascolto più attento rispetto alla maggioranza dei dischi di quel genere. La resa sonora è ottimamente orchestrata da Tuomas Yli-Jaskari alla produzione e da Buster Odeholm alla masterizzazione; il disco funziona molto bene e non ha momenti di stanca, il gruppo presenta notevoli margini di miglioramento rivelandosi, una delle maggior sorprese in campo metalcore degli ultimi tempi. Ascoltando il lavoro si possono trovare anche spunti vicini al post rock, e queste cose le fa solo una band che ha talento, inventiva e voglia di mettersi in gioco, senza fare sempre il solito disco metalcore.

Tracklist
1. Skinwalker
2. Feel
3. Kaamos
4. On Crooked Stones
5. Primitive
6. Pareidolia
7. Pendulum Swing
8. Bloodline (feat. Ben English)
9. Rust

Line-up
Patrik Nuorteva – Vocals
Leevi Luoto – Vocals & Bass
Tuomas Kurikka – Guitar
Aleksi Viinikka – Guitar
Aku Karjalainen – Drums

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God Of The Basement – God Of The Basement

I God Of The Basement fanno un disco che merita di essere ascoltato molte volte, perché ha una traiettoria che non è affatto usuale in Italia, dove rendiamo tutto o molto difficile o molto rassicurante, il che è molto peggio.

I God Of The Basement vengono da Firenze e fanno un indie rock di difficile classificazione, ma di grande resa.

Il gruppo toscano, nato nel 2016, tratta tematiche molto lontane da quelle in voga nella musica più commerciale ed è uno di quelli che, ad un ascolto distratto e nevrotico tipico del nostro tempo, può essere etichettato come leggerino e senza sostanza, mentre invece se si procede ad un ascolto più attento si riesce a cogliere la capacità di rendere corposo un suono che in mano ad altri sarebbe davvero poca cosa. I God Of The Basement stupiscono in ogni pezzo, perché prendono sempre la direzione meno ovvia, ed hanno un groove che non ti aspetti ma che è davvero magniloquente e molto bello. Prendete gli Spiritual Front ed aggiungete una maggiore ampiezza di vedute e la forza che avevano certi gruppi alternativi anni novanta, ovvero quella di esplorare e di fare musicalmente ciò che volevano, che poi sarebbe la cosa più naturale e giusta per chi fa musica. Il ritmo di questo disco non lascia differenti, perché è in continuo movimento, come un serpente sinuoso che non lascia tempo per stare fermi. Gli elementi in gioco sono molti e tutti molto validi, in quanto il suono dei God Of The Basement incorpora molte istanze, arrivando anche vicino all’hip-hop, come lo usavano i Fun Lovin’ Criminals, ovvero come elemento di un certo tipo di indie rock. Ascoltando questo debutto si possono ritrovare anche alcune istanze del brit rock inglese, anche se è tutto originale e quasi per nulla derivativo. I God Of The Basement fanno un disco che merita di essere ascoltato molte volte, perché ha una traiettoria che non è affatto usuale in Italia, dove rendiamo tutto o molto difficile o molto rassicurante, il che è molto peggio. Un bel pezzo di pop rock, che ci fa girare ad ascoltarlo quando passa.

Tracklist
1 Intro
2 Hell Boar
3 Monday Monkey
4 With The Lights Off
5 Intermission #1
6 We Do Know
7 Beaten Up
8 Kay
9 Bobby Bones
10 Intermission #2
11 Get Loose
12 The Saviour
13 The Sinner

Line-up
Tommaso Tiranno
Rebecca Lena
Enrico Giannini
Stefano Genero

GOD OF THE BASEMENT – Facebook