Ataraxia – Synchronicity Embraced

Quella degli Ataraxia è musica senza vincoli spazio-temporali e, anche se può talvolta offrire l’ingannevole impressione di provenire da un remoto passato, è in realtà come sempre ricca di sfumature che ne rendono l’ambientazione saldamente attuale.

Quando ci viene concessa la possibilità di poter ascoltare un album degli Ataraxia, non si può fare a meno di pensare quanto la nostra vita sarebbe misera se privata di quella forma d’arte suprema che è la musica.

Un disco come Synchronicity Embraced rappresenta quel prodigio che si ripete in maniera puntuale in corrispondenza di ogni uscita del gruppo emiliano, vera e propria eccellenza del movimento musicale italiano, indipendentemente dalle suddivisioni di genere.
Quella degli Ataraxia è musica senza vincoli spazio-temporali e, anche se può talvolta offrire l’ingannevole impressione di provenire da un remoto passato, è in realtà come sempre ricca di sfumature che ne rendono l’ambientazione saldamente attuale.
Forse è proprio in questo aspetto che l’ensemble, guidato dalla voce di Francesca Nicoli e dal genio compositivo di Vittorio Vandelli, differisce da un’altra gemma sonora italica che si muove su territori contigui come la Camerata Mediolanense: infatti, benché i punti di contatto tra queste due magnifiche realtà non siano pochi, il gruppo lombardo sembra però più orientato ad una ricerca filologica che volge inevitabilmente lo sguardo all’indietro.
Gli Ataraxia aprono invece le loro ali in un volo che sovrasta ora il neo folk, ora la dark wave, lambisce contrafforti morriconiani per poi planare appoggiandosi sulle basi della più colta tradizione musicale tricolore.
Synchronicity Embraced è il regalo che musicisti di livello inarrivabile mettono a disposizione di chi voglia appropriarsene, godendo del contenuto poetico ed evocativo di un lavoro che incanta e sorprende ancora, perché l’ascolto di brani di irreale bellezza come Sikia, Chiron Quartz e la title track restituisce emozioni difficilmente riproducibili in altri ambiti.
Prendiamoci tutto il tempo che ci serve, in queste uggiose giornate autunnali, per elevare il nostro spirito al di sopra delle nefandezze terrene grazie all’ascolto di questo ultimo capolavoro degli Ataraxia: un’occasione che si presenta di rado e che, a maggior ragione, non va assolutamente sprecata.

Tracklist:
1.Oenoe
2.Sikia
3.Ieros
4.Prayer Of The Archangel
5.Rose Of The Wild Forces
6.Chiron Quartz
7. La Vista Del Bardo
8.Synchronicity Embraced

Line-up:
Francesca Nicoli– vocals
Vittorio Vandelli – Electric, classical and acoustic guitars, bass guitar, back vocals
Giovanni Pagliari – Keyboards, piano, back vocals
Riccardo Spaggiari – drums
Totem Bara – cello

ATARAXIA – Facebook

Dopo il 1977 – Il punk inglese anni Ottanta

Che il ’77 sia stato un anno cardine, un crocevia temporale imprescindibile, nessuno lo discute più o lo ha mai discusso.

Fu realmente l’anno zero del rock, non solo nel Regno Unito, che fu e il luogo e il motore della svolta e della rivolta (non solo artistico-canora). Correttamente, i giornali e la stampa dedicati alla musica sono soliti affermare che la linfa vitale del punk britannico primevo si esaurì in circa due anni scarsi, dalla nascita dei Sex Pistols nel 1976 (anche se i seminali Stranglers erano nati addirittura nel 1974) sino alla morte di Nancy Spugen e Sid Vicious all’inizio del 1978. Vero. Si dice giustamente che presto – dal 1978-79 in poi, per l’esattezza – vennero il post punk (PIL, Pop Group, Killing Joke, ed altri nomi storici) e la new wave (ramificatasi in fretta in tre filoni fondamentali: il synth-pop elettronico, inaugurato dai Tubeway Army di Gary Numan e dagli Ultravox; il dark, sorto grazie ai Cure; la neo-psichedelia di Liverpool). Vero, di nuovo. Altrettanto vero è che chi dal primo punk inglese veniva e rimase in circolazione, cambiò spesso genere nel nuovo decennio. Al riguardo si può ripensare alla bella e brava Siouxie, oppure ai mitici Damned, che flirtarono, dapprima, con l’eredità dei Doors (nel Black Album, del 1980) e in seguito con sonorità gotico-elettroniche pregne di atmosfere prog e tastieristiche (lo stupendo Phantasmagoria, 1985: un vero spartiacque). Anche i Clash di Joe Strummer e Mick Jones cercarono nuovi orizzonti, dopo London Calling (1979). Tanto il reggae quanto il funk andarono infatti ad innervare le trame sonore del complesso Sandinista nel 1980. Alla asciutta ed abrasiva essenzialità del punk i Clash ritornarono poi nel 1982, con il classico Combat Rock (un titolo, una garanzia). Il loro ultimo lavoro, il discusso ma fantastico Cut the Crap (1985) uscì in una Gran Bretagna raggelata dalla Tatcher e fu, comunque, una fotografia dello stato della nazione, a partire dal magnifico singolo This Is England, forte di cori da stadio, drum machine e sperimentazioni con il sintetizzatore ai limiti del dub e del rap newyorkese di allora.

Tuttavia – e non si tratta certo di sopravvivenze marginali, come anche la pubblicistica di settore ha, seppure tardivamente, riconosciuto – il punk non morì, né scomparve. Vi fu, in Gran Bretagna, chi continuò a suonarlo e, soprattutto, a credere nei suoi principi, incarnando il nichilismo, la ribellione sociale e il pessimismo in nuove forme, tutte comunque fedeli ai modelli originali e da esso derivate attraverso una filiazione cronologica e valoriale diretta. Anche quella inglese degli anni ’80, in altre parole, fu una generazione del No Future. Ripensiamo al tatcherismo, alle periferie londinesi (e non solo), alle condizioni di vita dei minatori ed in generale ai problemi lavorativi della low class, allo stesso fenomeno degli Hooligans contiguo allo street punk nonché a certe frange dell’estrema destra britannica (la mente va qui agli scontri tra gli ultras del West Ham e quelli del Millwall, immortalati splendidamente dal film intitolato appunto Hooligans, diretto nel Lexi Alexander da 2005).

Tra i gruppi che portarono lo spirito del punk – eccola l’espressione giusta – negli Eighties vi furono in primis gli appartenenti al movimento Oi! e si tratta di grandi band, senza discussioni. Impossibile non ricordare in questa sede i Chelsea, i Lurkers, i Blood, i Vice Squad, i Last Resort (veri leader della corrente skinhead, insieme ai più famosi 4 Skins), i Menace, i capostipiti Sham 69, i Ruts (in seguito collaboratori dell’americano Henry Rollins post Black Flag). Né si può dimenticare qui, poi, la scena di Sunderland, legatissima alla squadra di calcio: i Wall di Personal Troubles and Public Issues, i Red Alert (che misero lo stemma dei loro beniamini sulla copertina di Wearside), gli stessi Red London, che si esibivano sul palco con la maglia dei Black Cats. Esponenti di spicco del filone Oi!, anche i grandi Cocksparrer, importante punto di riferimento pure per il thrash metal europeo: la loro We’re Coming Back è stata superbamente coverizzata dai tedeschi Tankard nel loro Beast of Bourbon (2004). Da molteplici punti di vista, anche se di rado membri ed esponenti hanno voluto ammetterlo, l’Oi! ha ripreso, aggiornato, radicalizzato ed indurito il messaggio dei Mods inglesi più disincantati di metà anni Sessanta: all’alba di tutto, ancora una volta, ritroviamo così My Generation degli Who, autentica pietra miliare e punto di partenza irrinunciabile, anche per il discorso che, qui, si sta svolgendo.

Molte volte, in relazione al movimento Oi!, si è parlato di stretti legami con la destra radicale. Altre volte, la cosa è stata invece smentita. Una vexata quaestio, si potrebbe dire, che si trascina dal 1981-82 almeno. La verità è probabilmente nel mezzo. Gruppi fondamentali come gli Angelic Upstarts, effettivamente, furono socialisti (come idee politiche) e nazionalisti (per animo patriottico: si ascolti la loro stupenda ed emblematica ballata England), ma non nazisti. In altri casi – gli Skrewdriver di Ian Stewart, successivamente leader del National Front – i rapporti con il cosmo dell’estrema destra vi furono e anche alquanto forti. Altre volte ancora, come nel caso degli scozzesi Skids, il discorso fu assai più sfumato: il loro capolavoro Days in Europa (1980), prodotto nel 1979 da Bill Nelson, dei glamsters Be-Bop Deluxe, attinse sin dalla copertina all’iconografia dei Giochi Olimpici di Berlino del 1936. Il disco conteneva almeno due pezzi-simbolo: Working for the Yankee Dollars (un’invettiva dura ed esplicita contro il capitalismo statunitense) e Dulce et decorum est pro patria mori (un grande inno in effetti ultranazionalista). Una considerazione da fare riguardo agli Skrewdriver di Stewart: al di là delle posizioni ideologiche (furono, in effetti e dichiaratamente, neo-fascisti), la loro fu grande musica, che in un’Inghilterra e in un Europa che soltanto a parole amano dirsi democratiche, liberali, tolleranti ed aperte, non ha mai visto una ristampa ufficiale su compact per mero pregiudizio, benpensante e bigotto. Un’indecenza. Senza contare, inoltre, che diverse punk band giudicate magari a torto neo-naziste erano in realtà anarchiche di destra. Punto.

Visto che abbiamo parlato di Scozia, impossibile fare passare sotto silenzio gli Exploited, assieme agli UK Subs di Diminished Responsibility (1981, nella Top Twenty britannica) ed ai Disorder di Distortion to Deafness i veri creatori del punk-metal. Il gruppo di Wattie, forse la voce più sgraziata di sempre, ha scritto la storia con il manifesto Punk’s Not Dead (1981) ed ha poi saputo reinventarsi con il più cupo e sinistro Horror Epics (1985), sino a fondare di fatto il metal-core nel 1987 (anche se definizioni ed etichette sono arrivate dopo) con lo storico e magnifico Death Before Dishonour. Il titolo del come-back in studio degli scozzesi, nel 2002, è stato non a caso Fuck the System, il segno che lo spirito dell’82 vive ancora incessantemente, puro ed incontaminato. Affini allo street punk – sia pure molto meno estremi, rispetto agli Exploited – e prossimi all’Oi!, abbiamo, inoltre, i Blitz, i Total Chaos, i giustamente celebri Anti-Nowhere League ed in anni più recenti i Tempars, ultimi epigoni di una scena davvero gloriosa.
Gli Exploited sono altresì il trait-d’union fra street punk e anarco-punk. Di quest’ultimo genere sono assolutamente da ascoltare Icons of Filth, Exit-stance, Instigators, Conflict, Xpozez, Zounds e i Kronstadt Uprising, che presero il nome dall’insurrezione anti-sovietica di marinai e soldati russi nel 1921. Quasi tutti i lavori di queste band sono stati ristampati su CD – all’epoca incisero singoli e demo tapes, split e mini soprattutto – e si possono dunque recuperare oggi con relativa facilità.

Per ragioni lirico-tematiche, oltre che stilistiche e di approccio, l’anarco-punk è sfociato, presto, nel crust punk (da cui, con i Napalm Death, è nato il grind). Padrini del crust punk sono stati gli storici Discharge, nati proprio nel 1977 e quindi al momento dell’origine di tutto, autentico e solido anello di congiunzione tra il primissimo punk inglese e i suoi itinerari ottantiani. Il crust punk del gruppo – un modello per moltissimi colleghi, a partire dai Metallica – è un hardcore minimalista e metallico, screziato di speed-thrash a tratti rumoristico. Veri pionieri i Discharge, ispiratori dei Charged GBH di Birmingham (memorabile il loro periodo su Clay Records 1981-1984). Poi Antisect – costituitisi, nel 1982, a Daventry, nel Northamptonshire – Extreme Noise Terror (fondati da membri dei Chaos UK) del masterpiece A Holocaust in Your Head (1988) ed Amebix del capolavoro Arise (1985) han definito in forma compiuta le coordinate del crust punk, ponendo le basi per gli sviluppi successivi, ad opera delle singole scuole nazionali: finlandese (Impaled Nazarene, in un contesto black e grind), svedese (Driller Killer, Skitsystem e Wolf Brigade), americana (Disrupt e Nux Vomica), brasiliana (i leggendari antesignani Ratos de Porao) e giapponese (i blacksters Gallhammer).

Il crust punk, nel Regno Unito di fine anni Ottanta, si è fuso – una naturale evoluzione – con l’allora neonato crossover thrash. In merito, le band basilari sono state Cerebral Fix, Hellbastard, English Dogs ed Unseen Terror tra gli altri. A loro volta, questi ultimi appartengono altresì alla prima storia del grind albionico, raccontata nel documentario (su VHS) Punk As Fuck, per la visione del quale sono debitore all’amico ‘helvetiano’ Michele Massari. In quel filmato, amatoriale e casalingo, come del resto l’etica spartana del punk impone, sono ripresi dal vivo, tra gli altri, artisti quali i Joyce McKinney Experience, i melodici HDQ, i laceranti proto-grinders Heresy e Ripcord (tutte band riedite dalla Boss Tuneage) e i Doom (ristampati dalla Peaceville), così come i Deviated Instinct, i quali traghettarono il crust punk in direzione death metal, con il sette pollici Welcome to the Orgy (1987) ed i due LP seguenti (Rock ‘n Roll Conformity e Guttural Breath, rispettivamente del 1988 e del 1989). Sulla medesima falsariga, segnaliamo anche Concrete Sox e Sore Throat.
Oggi, riattingere all’universo del punk inglese anni ’80 è facilissimo e assai comodo grazie alle tante ristampe, molto ben curate, anche sotto il profilo grafico ed informativo, della Cherry Red (sovente in cofanetto) e della Westworld (Anti-Pasti, Business, Chaotic Dischord, The Dark, Infa Riot, Chron Gen, Outcasts, Toy Dolls e 999, i formidabili One Way System e gli storici Broken Bones). Buona caccia. Perché quel mondo merita, e non poco. Tra le sue canzoni, vi si legge – controluce – anche la storia della Gran Bretagna, in una decade difficile e controversa. Ed i più giovani lo tengano bene a mente: il vero punk non sono Green Day, Lagwagon e company.

THE SELFISH CALES

Il video di Haapsalu, dall’album omonimo (Volcano Records).

Il video di Haapsalu, dall’album omonimo (Volcano Records).

THE SELFISH CALES were born in Turin in 2010, thanks to some fortunate meetings on Myspace between Garage/Psych sounds addicts; their passionate idea is to bring a complete music reality, also concerned to live performances and visual impact. The path of the Cales takes place through two initial EPs, first chapters of a simple but already close-knit alchemy. Dozens of gigs in North West Italy bring the Cales to the self-production of two Albums, dated respectively 2013 and 2015; here the typical sound of the band comes to light, distinguished by straddling lush Hammond, vocal harmonisations, a protagonist bass guitar and jangle guitars. The upcoming third album, “Haapsalu”, features the new line up, completely renewed in 2017: Andy is the only original member left, as well as the main mind of this third chapter of the band coming out on October 19th, 2018 for Volcano Records. EPK: https://volcanorecordsband.wixsite.com/theselfishcales

“Haapsalu” tracklist:
1. Baltic Memories
2. Smokey Shades
3. Haapsalu
4. Beyond The Last Horizon
5. Winterfell
6. Chestnut Maze
7. Fairytales, Nowadays
8. Kaspar Hauser
9. You Can’t Sit With The Sabbath
Running Time: 47’20”

THE SELFISH CALES are:
Andy Cale – Vocals, Guitar, Sitar
Alberto Rocca – Keyboards
Luca Zanon Drums
Giuseppe Floridia – Bass

More information at:
BAND: https://www.facebook.com/theselfishcales/
LABEL: http://www.volcanopromotion.com

Madder Mortem – Marrow

Marrow è l’ennesimo capolavoro di un gruppo unico, dotato di una sensibilità fuori dal comune e di un talento compositivo che rende ogni album un’opera oscura e drammaticamente di livello superiore alla media.

Il mondo della musica gioca brutti scherzi, lo sanno bene i Madder Mortem, band norvegese di un certo spessore attiva nella scena metal da oltre vent’anni, eppure poco considerata rispetto ad altri nomi dall’inferiore talento compositivo.

Ma i fratelli Kirkevaag (Agnete M. e BP M.) vanno avanti per la loro strada ed accompagnati dai fidi Richard Wikstrand, Tormod L. Moseng e Mads Solås ci regalano l’ennesima cascata di splendide note malinconiche, dal piglio dark e pregne di magnetica poesia progressiva.
Partiti nel 1997 come band gothic doom, i Madder Mortem si sono trasformati nel tempo e lungo sette album in un’entità che fagocita emozioni per rigettarle sotto forma metal/rock progressivo, nel quale di gotico non rimane nulla se non quell’aura costituita da oscure emozioni interiori che si riflettono ancora una volta in nove splendidi brani.
Marrow, settimo album di questa inarrivabile realtà scandinava, è composto da nove brani più intro ed outro, è prodotto da BP M. Kirkevaag e non lascia un solo punto di riferimento, giocando con le atmosfere di cui sopra e travolgendoci tra parti progressive tout court, groove e durissimi sfoghi estremi, per poi tornare a deliziarci con suadenti sfumature valorizzate dalla voce personale e magnetica della cantante.
I musicisti, dotati di tecnica da vendere, assecondano un songwriting sovraumano, quindi va da sé che Marrow finisca per rivelarsi l’ennesimo capolavoro di un gruppo unico, dotato di una sensibilità fuori dal comune e di un talento compositivo che rende ogni album un’opera oscura e drammaticamente di livello superiore alla media.
Il progressive di scuola nordica, che tanto ha donato in termini qualitativi in questi ultimi anni, si esalta in brani come Moonlight Over Silver White, Far From Home, White Snow Red Shadows e Waiting To Fall che vanno a comporre un’altra originale e straordinaria opera firmata Madder Mortem.

Tracklist
01.Untethered
02.Liberator
03.Moonlight Over Silver White
04.Until You Return
05.My Will Be Done
06.Far From Home
07.Marrow
08.White Snow, Red Shadows
09.Stumble On
10.Waiting To Fall
11.Tethered

Line-up
Agnete M. Kirkevaag – Vocals
BP. M. Kirkevaag – Guitar & vocals
Richard Wikstrand – Guitar
Tormod L. Moseng – Bass
Mads Solås – Drums

MADDER MORTEM – Facebook

Rain – Dad Is Dead

Accompagnato dal nuovissimo artwork creato per l’occasione da Umberto Stagni, Dad Is Dead si conferma ancora oggi un esempio fulgido del sound di una band che ha fatto la storia del metal tricolore.

I Rain sono una delle band storiche del panorama metal tricolore, essendo attivi dal 1980 con una serie di album di altissimo livello che hanno trovato il loro apice in questo lavoro, uscito originariamente nel 2008.

Dad Is Dead ancora oggi è l’album più venduto ed ascoltato del gruppo bolognese, per questo la band, di comune accordo con l’etichetta Aural Music, ha deciso di ristamparlo con una nuova veste composta da due cd: il primo vede la versione rimasterizzata dell’album, con la cover di Rain, famoso brano dei The Cult, registrata dalla band assieme a Steve Sylvester e Freddy Delirio dei Death SS e con la partecipazione di Simone Mularoni dei DGM, mentre il secondo comprende undici tracce dal vivo registrate nel 2010 che vedono la band in perfetta forma, dopo il tour americano di supporto agli W.A.S.P.
Accompagnato dal nuovissimo artwork creato per l’occasione da Umberto Stagni, Dad Is Dead si conferma ancora oggi un esempio fulgido del sound di una band che ha fatto la storia del metal tricolore.
Con l’intreccio ai massimi livelli di NWOBHM ed hard & heavy statunitense, Dad Is Dead non concede tregua: tredici brani che colpiscono al cuore dei defenders, pregni di solos scolpiti nell’acciaio e ritmiche che affondano come coltelli nell’anima metallica di chi ha cuore le sorti del metal classico.
Un album imperdibile ed un sound che alterna brani maideniani ad altri che affondano le loro radici nella Los Angeles metallica di Twisted Sister e Motley Crue, regalando grande musica metal incastonata in tracce divenute storiche come 8 Bar, Mr. 2 Words, The Party e la title track.
Il secondo cd è un’apoteosi del metal in versione live: la band, appena tornata dal tour con Lawless e soci e rodata a dovere, dà letteralmente spettacolo con una prestazione incendiaria ed esaltante facendo sì che il tutto non sia solo un bonus per accontentare il fans, ma un imperdibile esempio delle potenzialità dei Rain.
Per tutti questi motivi la ristampa di Dad Is Dead è un acquisto obbligato non solo per i fans del gruppo, ma per tutti gli amanti dell’heavy metal classico.

Tracklist
CD 1
1. 8 Bar
2. Blind Fury
3. Mr. 2 Words
4. Love In The Back
5. Rain Are Us
6. Red Kiss
7. The Party
8. Last Friday
9. Dad Is Dead
10. Swan Tears
11. The Reason
12. Bang Bus
13. Rain

CD 2
1.Love in the Back (live in Russi 2010)
2.Dad is Dead (Live in Russi 2010)
3.Mr. 2 Words (Live in Russi 2010)
4.Rain (Live in russi 2010 (the Cult cover))
5.Swan Tears (Live in Russi 2010)
6.Rain Are Us (Live in Russi 2010)
7.Red Kiss (Live in Russi 2010)
8.Bang Bus (Live in Russi 2010)
9.Introducing the Band (Live in Russi 2010)
10.Only for the Rain Crew (Live in Russi 2010)
11.Highway to Hell (Live in Russi 2010)

Line-up
Francesco “Il Biondo” Grandi – vocals
Marco “The Master” Rizzi – guitar
Alessio “Amos” Amorati – guitar
Gianni “Gino” Zenari – bass
Andrea “Mario” Baldi – drums

RAIN – Facebook