Northward – Northward

Northward è un progetto che merita un futuro alla luce dell’eccellente qualità messa in mostra in ogni dettaglio: questo lavoro sarà sicuramente apprezzato dagli amanti dell’hard & heavy, grazie al suo piglio energico, graffiante e splendidamente melodico.

Nel mondo del metal e del rock è accaduto spesso: due talenti si incontrano, magari ad un festival, e scoprono di avere delle affinità, specialmente nei gusti musicali, e così decidere di provare a scrivere qualcosa è un attimo, mentre è molto più difficile trovare il tempo di concretizzare progetti e idee.

E’ quello che è successo una decina di anni fa, quando Floor Jansen, attuale sirena dei Nightwish, e Jorn Viggo Lofstad dei Pagan’s Mind e songwriter di spessore (Jorn), conosciutisi all’epoca dietro le quinte del Progpower USA Festival, decisero di avviare una collaborazione che ha dato vita solo oggi a questo bellissimo lavoro che prende il nome del progetto, Northward.
Ben dieci anni sono passati prima che queste undici canzoni fossero imprigionate sul dischetto ottico, undici tributi all’hard rock classico che, se vede le sue radici ben piantate nella tradizione settantiana, non dimentica il terremoto alternative statunitense né l’approccio al rock duro tipico delle fredde terre del nord.
Ne esce un album che alterna potenza e melodia, leggermente più moderno ma non lontano dal sound del re scandinavo (per quanto riguarda il genere) Jorn Lande: d’altronde Lofstad ha collaborato non poco con il cantante norvegese, e il tutto si rivela un bene visto che tra le varie ispirazioni il Lande solista è quella che più marchia a fuoco il sound di Northward.
Morty Black (TNT), Stian Kristoffersen, Django Nilsen, Ronnie Tegner (Pagan’s Mind) e la sorella della Jansen, Irene, sono gli ospiti che aiutano il duo a rendere questo progetto un album per cui vale la pena spaccare il salvadanaio e correre al negozio di fiducia, pregno di potenza melodica come pochi, a tratti pervaso da un groove micidiale e cantato da Floor come se il suo passato e presente nel metal sinfonico (oltre ai Nightwish non dimentichiamoci i notevoli e ormai defunti After Forever) non esistesse, risultando una vera tigre e dimostrando un eclettismo straordinario.
I brani da annotare sul taccuino corrispondono di fatto all’intera tracklist, ma è pur vero che il singolo While Love Died, la bellissima e accattivante Storm In Glass, la seguente Driftings Islands, l’esaltante Big Boy e la potentissima Let Me Out fanno ancor più la differenza.
Northward è un progetto che merita un futuro alla luce dell’eccellente qualità messa in mostra in ogni dettaglio: questo lavoro sarà sicuramente apprezzato dagli amanti dell’hard & heavy, grazie al suo piglio energico, graffiante e splendidamente melodico.

Tracklist
1. While Love Died
2. Get What You Give
3. Storm In A Glass
4. Drifting Islands
5. Paragon
6. Let Me Out
7. Big Boy
8. Timebomb
9. Bridle Passion
10. I Need
11. Northward

Line-up
Floor Jansen – Vocals
Jorn Viggo Lofstad – Guitars

NORTHWARD – Facebook

Giò – Succederà

Da un personaggio con oltre trent’anni di esperienza nel mondo musicale ci si aspettava qualcosa di più, ma quello che sembra evidente è il parziale distacco di Giò dalla scena rock per un approdo a sonorità più vicine al pop e quindi abbastanza lontane dal target della nostra webzine.

Succederà è il nuovo lavoro di Giordano Gondolo in arte Giò, scrittore e cantante dal 1986 nella scena rock tricolore con un passato che lo ha visto suonare su e giù per lo stivale con musicisti e gruppi del calibro di Diaframma, C.S.I, Marlene Kuntz, Ustmamo, Death SS, Carmen Consoli e Negrita.

Con gli Union Jack prima, poi il progetto Blixxa e con tanta esperienza alle spalle nel mondo della musica a 360°, Giò arriva ad oggi e a questo album che ha tutti i crismi dell’ep, con sei brani per venti minuti di musica che lascia il rock per un approccio molto più pop, vario nel proporre sfumature diverse ad ogni brano, ma comunque fuori dai canoni del rock odierno.
Tra le trame dei brani che compongono il lavoro si passa dall’hip hop adolescenziale dell’opener Io Sarò Li, dal pop/rock di Farò quello che voglio, dai ritmi solari della title track, al Litfiba sound di Cose Che Non Ho Visto Mai, la canzone che lascia trasparire l’animo rock del cantante fino a Noi, con l’ospite Simone Piva, anche autore del brano.
Da un personaggio con oltre trent’anni di esperienza nel mondo musicale ci si aspettava qualcosa di più, ma quello che sembra evidente è il parziale distacco di Giò dalla scena rock per un approdo a sonorità più vicine al pop e quindi abbastanza lontane dal target della nostra webzine.

Tracklist
1.Io Sarò Lì
2.Quello Che Voglio
3.Succederà
4.Cose Che Non Ho Visto Mai
5.Noi (feat. Simone Piva)
6.Io Sarò Lì (acoustic version)

Line-up
Giò – voce
Andrea Faidutti – chitarra
Marco Menazzi – chitarra
Alan Malusà Magno – chitarra
Steve Taboga – basso, chitarra
MArzio Tomada – basso
Geremy Seravalle – piano, tastiere
Fabio Veronese – piano, hammond
Marco D’Orlando – batteria

GIO – Facebook

Grey Czar – Boondoggle

La passione ed il talento portano a fare dischi come questo, una piccola grande gemma che suona molto bene e che potrà piacere trasversalmente agli ascoltatori di generi diversi fra loro.

Attivi dal 2010, gli austriaci Grey Czar propongono un’inusuale miscela di prog, doom e stoner, il tutto con un taglio molto personale e particolare.

La loro musica contiene molti spunti, i ritmi cambiano spesso e i riff vanno a creare un affresco vicino alle opere prog degli anni settanta, seppure con maggiore durezza. Ci sono elementi musicali in questo gruppo che non si possono ritrovare altrove, una certa drammatizzazione della canzone che viene divisa in molti rivoli che poi vanno a sfociare in un fiume che porta al mare. La voce di Roland Hickmann viene utilizzata come uno strumento, elevando ad un altro livello anche i quelli veri che sono sempre ben amalgamati, con una produzione che riesce ad incanalare bene tutto facendoli rendere al massimo. Il respiro delle canzoni tende sempre verso l’alto, per arrivare al cielo con un’epicità che ha preso qualcosa dall’heavy metal, pur essendo fortemente diversa da quel genere. La storia di questi quattro austriaci è comune alla maggior parte dei musicisti nel globo terrestre, ovvero gente che prova e suona sottraendo tempo ad affetti e famiglia, quasi sempre in qualche scantinato dopo aver lavorato tutto il giorno, eppure quel fuoco arde sempre e ti porta, come nel caso dei Grey Czar, a produrre e far uscire il proprio lavoro senza l’ausilio di promoter o etichette. Nella fattispecie, Boondoggle è un’ottima prova, che mostra tante facce diverse di un gruppo dalle notevoli dote e ancora tanta potenzialità. Ciò che stupisce maggiormente è la disinvoltura con la quale cambiano spesso il passo dei loro pezzi, accentuando ora una caratteristica ora un’altra, ma rimanendo sempre fedeli ad un forte struttura, perché si sente che sono un gruppo molto solido. La passione ed il talento portano a fare dischi come questo, una piccola grande gemma che suona molto bene e che potrà piacere trasversalmente agli ascoltatori di generi diversi fra loro. Inoltre i dischi dei Grey Czar sono sempre trampolini per spiccare il volo nei loro infuocati concerti.

Tracklist
1.Age of Man
2.Fire Water Holy Ghost
3.Profession of Faith
4.Weight of Worlds
5.Thunder Bay
6.Forlorn March
7.Sail Away
8.White Velvet
9.Create Break or Animate
10.Vast Empyrean
11.Everqueen
12.Deep Sea

Line-up
Roland Hickmann – Guitar & Vocals
Wolfgang Brunauer – Bass & Vocals
Florian Primavesi – Guitar & Vocals
Wolfgang Ruppitsch – Drums

GREY CZAR – Facebook

Prima del successo: note e appunti sull’alba della new wave britannica

Quando il purismo, non importa di quale segno, ha fatto solo danni. Potremmo iniziare così questa nostra inchiesta storico-musicale, volta a riconsiderare – e rivalutare, perché bisogna, ora, deporre i pregiudizi – dischi e gruppi, emersi al tempo della new wave, che, a causa della fama, hanno fatto (e tuttora fanno) storcere il naso a molti. Ingiustamente, però, dato che prima di svoltare verso suoni e soluzioni di tipo sfacciatamente commerciale, quegli artisti hanno fatto talvolta altro, e sovente con risultati tanto eccellenti quanto purtroppo dimenticati o misconosciuti.

L’anno-cardine, terminato il primo e più noto fermento punk (1976-78), fu il 1979. Nel giro di pochi mesi videro la luce dischi importanti ed iniziatori. Tra questi, sono assolutamente da segnalare il LP d’esordio di Adam and the Ants (Dirk Wears White Sox fu un formidabile incrocio di retaggio punk e dark sperimentale, ed il successo arrivò solo dopo) e Life in a Day, debutto degli scozzesi Simple Minds. Il gruppo di Jim Kerr e Charlie Burchill si spinse ancora più in là, con il successivo Real to Real Cacophony (1979, impregnato di umori alla Can di Tago Mago) e soprattutto con Empires and Dance (1980, permeato di oscura e obliqua ricerca elettronica). Suoni tedeschi, con membri dei Can in cabina di regia, anche per il primo Eurythmics (In the Garden, 1981), proprio due anni prima di Sweet Dreams. Ed entusiasmante new wave sintetica pure per gli australiani INXS degli anni 1980-84, prima che virassero verso un (peraltro brillante) hard pop da classifica.
Anche la fase 1978-80 degli Human League di Sheffield (formatisi sulle ceneri dei Future), prima cioè del successo mondiale di Dare (1981), produsse un EP (The Dignity of Labour) con marziali e incalzanti strumentali di sintetizzatore, nonché due dischi che mostravano apertamente il debito del nuovo pop-rock elettronico verso il varco aperto in Gran Bretagna dal post-punk, varco per il quale passarono pure gli avventurosi – e, almeno a inizio carriera, quasi rumoristici – Cabaret Voltaire. Il primo disco degli OMD di Liverpool, inciso nel 1979 e pubblicato nel 1980, mostrava anch’esso un taglio freddo e minimalista (Colonia e Dusseldorf restavano evidentemente due modelli, cui rifarsi e guardare). Ed anche Organisation, il disco (del 1980) che conteneva il fortunatissimo 45 giri Enola Gay, era un album completamente diverso dal suo singolo trainante, con scelte sonore malinconiche ed autunnali, poco appariscenti e quasi impalpabili nella loro colta orchestrazione di fondo. Occorre rimarcarlo e rifletterci sopra adeguatamente. Anche qui, scelte più facili furono compiute soltanto in seguito, dal pessimo Junk Culture (1984) in poi.

E che dire dei Visage? Si trattava, per riprendere la terminologia in voga tra fine anni ’60 e primi ’70 sulla carta stampata, di un super-gruppo, che comprendeva membri e collaboratori di Ultravox, Rich Kids e Gary Numan, con sugli scudi arrangiamenti sopraffini, recitati femminili, ottime capacità di scrittura ed esecutive (pensiamo solamente al grande violinista e tastierista Billy Currie, il Paganini della new wave inglese, senza voler esagerare). Altro fondamentale anello di congiunzione tra punk del 1978 e ‘nuova onda’ britannica fu l’ex Generation X Billy Idol, che da solista – come il massimo giornalista e storico del punk, Jon Savage, ha sottolineato, in England’s Dreaming – ha ottenuto il suo meritato successo. L’artista, nel prosieguo della sua carriera, si è confrontato anche con la fanta-scienza (in Cyberpunk, del 1993) ed è, di recente, tornato sulle scene, con Kings and Queens of the Underground, ottimo lavoro di AOR moderno e moderatamente tecnologico. A suonare le tastiere e i sintetizzatori sul disco è stato tra l’altro un maestro del pomp rock, Geoff Downes, l’ex leader (con alla voce Trevor Horn, poi con lui negli Yes e celeberrimo produttore) dei Buggles di Video Killed the Radio Stars, una delle canzoni simbolo del 1980 in tutta Europa.
Eccoci quindi a trattare – ebbene sì, è giunta l’ora di farlo – dei Duran Duran. Nati a Birmingham, nel 1978, con uno stile tra glam rock e post-punk, in principio con Stephen Duffy alla voce, i cinque debuttarono con l’ottimo e troppo sottovalutato esordio omonimo, nel 1981: un grande disco di new wave elettronica, con il fantastico strumentale Tel Aviv in chiusura, lavoro che ben poco poteva fare presagire del successo planetario di qualche anno dopo. Rio (1982) iniziò a sbancare i botteghini – è vero – però conteneva ancora un brano eccellente, The Chauffeur, scritto nel 1978 ed intriso di echi progressivi, che si dipanano nei sette minuti del pezzo soprattutto con il notevole lavoro tastieristico di Nick Rhodes. La svolta, totalmente e solo commerciale, giunse con il terzo disco, Seven and the Ragged Tiger (1983), insipido e banale. Le quotazioni del gruppo si risollevarono tuttavia subito col live Arena (1984, molto rock nelle esecuzioni). Dalla band di Birmingham derivarono a quel punto gli Arcadia (1985, David Gilmour fra i prestigiosi collaboratori) ed i techno-funkers Powerstation (con alla voce Robert Palmer, che aveva scoperto il synth-pop in Clues nel 1980). I Duran Duran si rimisero assieme solo nel 1986, per il debole Notorius, che sprecava il riferimento ad Hitchcock del titolo per una sciatta e commerciale mistura mal digerita di pop, dance, r ‘n’ b e smooth jazz. Meglio (almeno in parte) fece Big Thing, due anni più tardi. Quindi crisi, sbandamenti ed abbandoni, sino al ritorno, qualche anno fa, con una serie di CD discreti, che guarda il caso ritornano parzialmente alle origini. Risale al 1987, infine, l’esordio solista Thunder, di Andy Taylor, classico lavoro di hard rock inglese, inserito dagli specialisti d’oltremanica tra i 100 top album nella storia della chitarra. Forse troppo, comunque un disco di qualità e da riscoprire, edito un anno prima che Taylor producesse (e suonasse magistralmente, da vero e autentico professionista) in Out of Order di Rod Stewart (1988).

Discorso assai simile si può fare per i ‘cugini-rivali’ Spandau Ballet. Dal loro terzo disco, col quale svoltarono verso un soul-pop levigato, e baciato da enorme successo commerciale, nessun critico o giornalista li ha mai voluti considerare. Anche, mi permetto di dirlo, per pregiudizio o partito preso: chi e quando ha stabilito che chi ‘vende’ non vale nulla? Rammentiamo che, nella storia del rock, si sono trovati ai primi posti delle classifiche mondiali nomi storici ed imprescindibili, come Jefferson Airplane, Grateful Dead, Bob Dylan, Pink Floyd, Yes, Genesis, Jethro Tull, Elton John, Billy Joel, Supertramp, BJH, ELO, ELP, Asia, Journey, Foreigner, REO Speedwagon, Springsteen, U2, Guns ‘n Roses, Iron Maiden, Metallica, Marillion… E che in Germania, paese da sempre attento al valore e alla qualità della cultura musicale, ai primi posti delle charts abbiamo avuto, proprio in questi mesi, band metal, inossidabili ed incorruttibili, come i Powerwolf e gli Immortal. Ma lasciamo perdere: chi scrive non vuole di certo fare polemica, solo ricostruire verità di fatto, colpevolmente ignorate o volutamente fatte passare sotto silenzio a causa di preconcetti arbitrari.
Torniamo agli Spandau Ballet. Quando non erano ancora nessuno, i cinque inglesi realizzarono, nel 1981, il loro debutto, Journeys to Glory. Intanto, il disco era prodotto da Richard James Burgess, un vero mago della ricerca elettronica inglese. Inoltre, i pezzi del disco palesavano un approccio molto post-punk, con due chitarre affilate e taglienti, suoni squadrati e geometrici, atmosfere tese e spesso cupe, due sintetizzatori, dalle timbriche gelide ed algide, canzoni freddissime e molto ‘tedesche’: un rock elettronico e quasi futuristico, che flirtava sommamente con le nuove tecnologie di allora, non senza una produzione pazzesca e avveniristica. Un capolavoro, anche se nessuno osa ammetterlo. E si tratta di un grave errore, diciamolo chiaro. Con il secondo disco – rifiutando intelligentemente di ripetersi – il quintetto albionico continuò il suo lavoro con il geniale Burgess: sulla prima facciata, a parte lo stupendo singolo Instinction (che rimandava alle sonorità dell’esordio), gli altri tre pezzi si rivolgevano piuttosto a soluzioni ritmate ed accattivanti di marca funky rock; le tracce della seconda facciata, a cominciare da una sublime cavalcata, alla Ultravox, She Loved Like Diamond, tornavano al sound del primo album, con, in più, le suggestioni e misteriose e rarefatte di Pharaoh, e le scale orientali degli ultimi due brani, in grado di anticipare certi schemi cari, in seguito, al duo Sylvian-Sakamoto. Il resto è storia nota: dal 1983 gli Spandau Ballet furono, di fatto, un altro gruppo, che cambiò genere ed incontrò una fama crescente (con dischi comunque gradevoli, per quanto di puro easy listening).

Chiudiamo questa breve rassegna con la scuola definita, già a quel tempo e non senza toni alquanto dispregiativi, new romantic: molto facile e assai sbrigativo, allora come oggi, sottostimare gruppi in realtà interessantissimi, come i Classix Nouveaux, campioni di un decadentismo in musica capace di unire le morbide songs esotiche dei Japan con le progressioni sinfoniche degli Ultravox. E sono, ad ogni modo, tanti i gruppi poco o nulla considerati, perché ritenuti troppo easy (come se scrivere una bella canzone di successo fosse una colpa!): pensiamo agli Alarm (che solo distrattamente sono stati bollati come una ‘brutta copia’ degli U2), agli americani Animotion (che seppero portare negli USA, la tradizionale patria del rock più sanguigno, le melodie del synth-pop), i nostri indimenticati Krisma (passati da sperimentazioni alla Tangerine Dream negli anni Settanta ad un intelligente pop elettronico, durante la decade successiva), sempre in Italia al primo Garbo (che riecheggiava Eno e il Bowie berlinese del 1977-79), ai tedeschi DAF (nati con il kraut rock più astratto e sperimentale) e Alphaville (numeri 1 con Forever Young, ma anche collaboratori del grande Klaus Schulze), agli Art of Noise ed agli Yello (lo spessore delle cui sperimentazioni non può e non deve esser appiattito solo svalutando alcuni singoli di più facile presa), ai Talk Talk (capaci sempre di reinventarsi e di rimettersi in gioco), ai Level 42 (che non furono solo il gruppo della hit Lessons in Love, ma anche una grande band di jazz rock, come attestano il primo omonimo, il doppio live e il primo LP solista del tecnicissimo Mark King, uno dei più grandi bassisti degli ultimi quattro decenni). Né dobbiamo, poi, condannare senza diritto di replica Mission e Bolshoi, solo per avere reso più fruibile il gothic-dark di Leeds e di Londra.
Altro mito da sfatare è quello di una new wave che romperebbe i ponti con il passato (leggasi i ’70), quando, in realtà, è vero spessissimo il contrario: i grandiosi Magazine, di Manchester, ed i Fiction Factory (una splendida meteora del 1984) seppero riportare in auge ed aggiornare in una chiave più melodica la lezione dei Roxy Music di Brian Ferry. Questi ultimi influenzarono non poco anche gli A Flock of Seagulls, di Liverpool, tra i pochissimi artisti che introdussero nel synth-pop la chitarra, strumento che era stato, per un certo periodo, accantonato. Né vanno dimenticati gli All About Eve (che rilessero con gusto ed in una direzione tra ambient e dark-wave il prog lirico e neo-classico dei Renaissance), i comunque gradevolissimi New Musik, il geniale Thomas Dolby (che iniziò con il kraut elettronico tedesco, prima di diventare solista di pregio, produttore ricercatissimo ed autore di colonne sonore, tra le quali Gothic, il visionario e barocco film dedicato da Ken Russell a Shelley e Byron). Persino i norvegesi A-Ha, dopo il boom di Take on Me (1985), seppero maturare, donando, con Scoundrel Days (1986) e Stay on These Roads (1988), perle luminose di nordica intensità. Oggi come riascoltare i dischi ed i gruppi censiti in questa rassegna? Accantonando idiosincrasie, aprendo la mente, evitando letture pre-costituite, allontanando una volta per sempre rigidi quanto ideologici e vuoti schematismi. E soprattutto mettendo finalmente da parte la sciocca equazione successo=pop commerciale=musica senza valore.

Kåabalh – Kåabalh

Un album capace di creare un immaginario fatto di luoghi inesplorati forieri di orrori lovecraftiani, che è più o meno ciò che si attende di ascoltare chi predilige tali sonorità.

Questa nuova band francese, nata dopo la fine dei Torture Throne, raggiunge risultati che con il marchio Kåabalh vanno ben oltre quelli raggiunti precedentemente.

Il death metal catacombale offerto in questo debutto omonimo è, contrariamente alle abitudini dei gruppi transalpini, del tutti privo di impulsi innovativi o di commistioni tra generi: quanto viene servito è un monolitico death i cui rallentamenti lo fanno sconfinare sovente nel doom per finire in scia di Incantantion e morbosa compagnia.
Per quanto sia difficile da credere, però, l’operato dei Kåabalh non risulta affatto derivativo perché il quintetto normanno non si limita a premere sull’acceleratore in maniera indiscriminata, né a riversare una spessa coltre di pece sull’ascoltatore (cosa che peraltro viene eseguita benissimo), ma prova a rendere il proprio prodotto relativamente meno ostico pur senza smarrire l’impatto primitivo del genere.
La pesantezza dei riff viene attenuata così da assoli piuttosto ficcanti e ben delineati melodicamente (Acheron, Dark Wrath Of A New God) ma va detto che quando la componente doom intacca la muraglia sonora creata dai Kåabalh si possono ascoltare i momenti più coinvolgenti del lavoro, come accade nel finale della notevole Death’s Ovation.
Un album capace di creare un immaginario fatto di luoghi inesplorati forieri di orrori lovecraftiani, che è più o meno ciò che si attende di ascoltare chi predilige tali sonorità.

Tracklist:
1. Cabal
2. Acheron
3. Wrath of a New God
4. The Complete Darkness
5. Heavy Boredom Death
6. Death’s Ovation

Line-up:
Damned – Vocals, Lead Guitars
Pierre – Guitars
Marco – Bass:
Fab Dodsmetal – Drums

KAABALH – Facebook