Codename : Delirious – The Great Heartless

I Codename: Delirious potrebbero suonare benissimo sia il metalcore e l’elettro metal così come il deathcore o il nu metal, invece scelgono la via più difficile, ovvero quella della sintesi originale e personale.

Debutto per gli italiani Codename: Delirious, propugnatori di un metalcore con molto groove e dagli importanti inserti di elettronica.

Il disco ha una sua struttura portante ben definita, sebbene alcuni passaggi siano ancora titubanti. Il gruppo milanese sforna un lavoro che è assai difficile da ascoltare in Italia, con moltissime cose dentro, mostrando ancora notevoli margini di miglioramento. Ci sono molti generi dentro a The Great Heartless, dal metalcore al numetal, fino ad un nuovo ibrido fra metal ed elettronica. Il gruppo stesso si definisce dubmetal e non sbaglia certamente, anzi il dub visto come cambio open source di un suono è proprio il termine adatto. La resa globale è di buona qualità, ma soprattutto il tutto è molto vario ed amalgamato bene. Inevitabilmente, mettendo molta carne al fuoco, ci sono dei momenti di confusione, delle vie ancora da esplorare e alcune titubanze su quale prendere, ma ciò è nulla in confronto a quanto di buono si ascolta qui. La caratteristica migliore del disco è il suo continuo mutare, l’essere perennemente in bilico fra elettronica e metal, con il cantato che detta la linea e il resto del gruppo che fa benissimo il resto. Dal punto di vista del metal questo è sicuramente un lavoro moderno, fatto da giovani curiosi e molto capaci nel plasmare diversi materiali a proprio piacimento. Inoltre il disco è molto divertente da ascoltare, perché si vaga e mentre lo si ascolta si viene piacevolmente presi per mano e condotti a distanza di sicurezza dalla realtà. I Codename: Delirious potrebbero suonare benissimo sia il metalcore e l’elettro metal così come il deathcore o il nu metal, invece scelgono la via più difficile, ovvero quella della sintesi originale e personale. Un buon debutto che lascia intravedere un fulgido futuro.

Tracklist
1 – Act So Tough (HVRD RMX)
2 – Ryo/Leon
3 – Dr. Braun
4 – …chissà
5 – Lost At Sea
6 – Love Song (for people who don’t feel a thing)
7 – Worst Of Me
8 – He Gotta Know The Name
9 – Bridge Over Alpha-Z

Line-up
Luca – Consolle
Marco – Bass/Backing Vocals
Dario – Guitar
Omar – Voice
Chris – Drums

CODENAME: DELIRIOUS

Pale Divine – Pale Divine

Distante sei anni dal precedente Painted Windows Black, Pale Divine presenta da tradizione del trio statunitense un esempio di doom metal pregno di sfumature heavy e di straordinarie jam dove esce prepotentemente l’anima bluesy che è il marchio di fabbrica del sound del gruppo.

La label americana Shadow Kingdom non sbaglia un colpo, specialmente nei generi classici e di stampo heavy metal e doom, con un roster che si avvale di gruppi di livello, partendo dai nostrani e leggendari Death SS e passando per una serie di realtà dell’underground mondiale come Iron Void, Vanik e Death Mask tra le altre.

I Pale Divine, trio proveniente dalla Pennsylvania, sono attivi da più di vent’anni e con una discografia che se non ha regalato tanto numericamente ha sicuramente offerto del doom metal classico di qualità, per mezzo di quattro splendidi lavori a cui si aggiunge il nuovo album omonimo.
Distante sei anni dal precedente Painted Windows Black, Pale Divine presenta da tradizione del trio statunitense un esempio di doom metal pregno di sfumature heavy e di straordinarie jam dove esce prepotentemente l’anima bluesy che è il marchio di fabbrica del sound del gruppo
Lunghe jam si alternano così a brani dal piglio hard & heavy, il sound non rallenta mai troppo ma mantiene una spigliata vena cadenzata su cui la chitarra si scatena in lunghi solos.
Bleeding Soul, So Low, Shades Of Blue e la conclusiva Ship Of Fools sono i brani su cui la band costruisce le fondamenta per rendere ottimo un album marchiato a fuoco dalla vena compositiva ispirata come sempre da Trouble, Pentagram, Revelation e compagnia.
Ottimo ritorno per la band statunitense, Pale Divine è un lavoro consigliato a tutti gli amanti del doom metal classico.

Tracklist
1.Spinning Wheel
2.Bleeding Soul
3.Chemical Decline
4.So Low
5.Curse the Shadows
6.Shades of Blue
7.Silver Tongues
8.Ship of Fools

Line-up
Greg Diener – Guitar/vocals
Darin McCloskey – Drums
Ron McGinnis – Bass

PALE DIVINE – Facebook

Le molte anime della NWOBHM

L’importanza storica irrinunciabile della New Wave of British Heavy Metal è da tempo ampiamente riconosciuta senza riserve. Sull’argomento, presenza fissa in tutte le enciclopedie di rock e hard and heavy, sono stati scritti numerosi libri e articoli (fondamentali e veramente dettagliatissimi quelli di Gianni Della Cioppa). L’intenzione di questo articolo non è pertanto quella di scrivere una ennesima storia di classici, più o meno famosi – riscoperti anche grazie alle tantissime ristampe, pure recenti – quanto semmai quello di illustrare le molte anime musicali del fenomeno.

La NWOBHM non fu, infatti, un genere, né tanto meno un approccio stilistico: al suo interno del resto erano presenti gruppi diversissimi tra loro – basti solo pensare ai più celebri: Iron Maiden, Def Leppard e Saxon – quanto piuttosto una corrente artistica, entro la quale trovavano posto, poi, band stilisticamente anche assai differenti l’una dall’altra.
Molte band della NWOBHM venivano (ed era cosa del tutto naturale, in termini di evoluzione) dal più classico hard rock anni Settanta. E’ il caso dei mitici Samson di Bruce Dickinson, degli Urchin, dei White Spirit. Questi ultimi incisero nel 1981 il loro primo e unico disco: un capolavoro di hard sinfonico, che aggiornava e trasportava nel nuovo decennio la lezione di Deep Purple e Uriah Heep, con la chitarra della futura Vergine di Ferro Janick Gers. Hard rock di alta classe, con retaggi blues di ascendenza Led Zeppelin, porzioni epiche e testi tra l’esoterico e il misticheggiante (con rimandi alla storia ecclesiastica anglo-britannica) per gli indimenticabili Diamond Head. Di formazione HR anche i Rage (1981-1983), formati da membri dei Nutz (1974-1977). Dal canto loro i Def Leppard di Sheffield, con il mini del 1978 e lo storico debutto On Through the Night del 1980, portarono nel Regno Unito le sonorità spaziali dei Rush, prima di svoltare in direzione AC/DC, con High and Dry (1981), e di scrivere quindi – con la triade Pyromania (1983) – Hysteria (1987) – Adrenalize (1992) – pagine immortali di hard tecnologico e melodico, baciate da meritatissimo successo.
Della NWOBHM hanno fatto parte inoltre, rammentiamolo, anche band street (Battle Axe, Heavy Pettin’, Black Rose) e glam (Soldier, Girl, i fantastici Wrathchild). Altri ancora hanno guardato e con sommo frutto al punk ed agli insegnamenti dei Motorhead, come nel caso dei Warfare di Evo e dei Plasmatics (formidabile il loro Coup d’Etat) della compianta Wendy ‘O’ Williams. Più boogie, invece, gli Starfighters e i Vardis, questi ultimi riediti su compact di recente.

Talvolta, anche se nessuno ama ricordarlo, e quasi sempre per partito preso, dalla NWOBHM sono arrivati anche gioielli di hard melodico ed AOR: non tanto gli Aragorn, quanto i seminali Praying Mantis (ancora sulla breccia, e con bellissimi lavori), i Tygers of Pan Tang del sottovalutato The Cage (MCA, 1982), gli stessi Saxon di Destiny (1988) ed in certe ballate pure i Tytan (1982-1985); ad un certo punto, da alcuni, anche i grandiosi Magnum di Birmingham (nati in realtà molto prima, tra il 1972 ed il 1976) sono stati inseriti, un po’ forzatamente, nel filone della NWOBHM, in virtù di talune trame sonore tra primi Black Sabbath e Rainbow di Rising che andavano ad infittire stupende tessiture pomp rock, di matrice talvolta emersoniana. Un discorso simile può farsi per i Nightwing, meno noti, ma comunque di valore, così come per i Tobruk e per i Grand Prix (tre LP alla Uriah Heep in carniere, ristampati dalla Lemon).
Dal pomp al progressive il passo, si sa, è breve e numerosi acts inglesi della NWOBHM flirtarono e non poco con la tradizione del prog. Tra questi i Gaskin (capaci di riecheggiare le lunghe escursioni armoniche dei Wishbone Ash di Argus), i fenomenali e da riscoprire Marquis de Sade e Triarchy (i cui filamentosi riff di tastiere e synth erano a dire poco essenziali nell’economia sonora dei brani), i Demon (passati dalle atmosfere gotiche dei primi due album a più liquidi paesaggi pinkfloydiani), i misteriosi e notevoli Dark Star (1981), la EF Band (responsabile di un oscuro heavy prog, condito di flauto, alla Jethro Tull), i Limelight (il cui esordio omonimo uscito per la Metal Heart nel 1980 si muoveva tra ELP, King Crimson e Status Quo), gli Shiva (Fire Dance, recentemente ristampato, è un gioiellino di Hi-Tech hard prog alla Rush) e gli entusiasmanti Saracen (che, con due dischi, tra il 1981 e il 1984, furono il vero anello di congiunzione fra NWOBHM e new prog alla Marillion).

In ambito traditional doom, vanno qui assolutamente segnalati i sabbathiani Legend (con tastiere), i Ritual (con tematiche legate all’occultismo), i Desolation Angels ed i più tardi Tyrant. Antesignani e padrini del black metal – sin dal 1982, ma venuti fuori con la NWOBHM – ovviamente i Venom da Newcastle.
Spesso confuso con il doom, il dark metal è in realtà una forma di heavy tradizionale che tratta nelle liriche ed a livello iconografico temi legati alla magia, all’esoterismo e alle scienze occulte. Durante la NWOBHM il dark metal, non senza richiami ai Judas Priest, nacque proprio in Inghilterra, grazie a gruppi basilari come Quartz (attivi sin dal 1977), Angel Witch (dal 1979), Satan, Cloven Hoof e Satanic Rites. Oggi il genere, sempre erroneamente confuso con il doom (e quasi mai nominato), è rinato in forma più moderna, grazie a ottime band come Evergrey, Epysode e i riformati Stormwitch (tra Europa settentrionale e Germania).
La NWOBHM ci ha dato anche gruppi epic metal (gli Overdrive), power (Dark Heart) e speed (i capostipiti Raven e gli Holocaust, adorati dai Metallica). Oggi, come si accennava, grazie alle tante riedizioni laser (alla rinfusa possiamo menzionare ad esempio Blietzkrieg, Elixir e Denigh, nonché gli irlandesi Sweet Savage, dell’immenso chitarrista Vivian Campbell, prima che entrasse nei Dio), non è più un’impresa recuperare dunque il materiale originario d’una scena davvero aurea. Scena – non genere, si rammenti – che vede anche apposite tribute-band (i Roxxcalibur, con le copertine di Rodney Matthews, hanno omaggiato, alla grande, Jaguar, Tokyo Blade, Chateaux, More, Cryer, Savage, Grim Reaper, ed i doomsters Witchfynde e Witchfinder General), ristampe anche delle mitiche raccolte di quell’epoca (tra queste, la leggendaria Metal for Muthas II, con i Trespass, Easy Money, Xero, Horse Power, Chevy e Raid, tra gli altri) e di quei gruppi (come i Damascus), che registrarono all’epoca solo singoli. Pezzi di storia, veramente.

Winterdream – Inner Lands

Bellissimo debutto per i Winterdream, duo nostrano al debutto con Inner Lands, convincente lavoro composto all’insegna di un valido symphonic/power/folk metal.

Per suonare dell’ottimo symphonic metal non è necessario avere la carta d’identità scandinava o olandese, anche nel nostro paese non mancano band dalle indubbie capacità nell’affrontare l’anima sinfonica del metal con il talento ed una innata predisposizione nel creare ambientazioni in musica che richiamano tempi andati e leggende di cui il nostro paese è ricco, essendo dal punto di vista storico il fulcro dell’intero pianeta.

Da nord a sud dello stivale ottime realtà sinfoniche si sono create il proprio spazio in un mondo come quello del metal, purtroppo ancora lontano dalla tradizione consolidata di altri paesi, ai quali musicalmente si ispirano questi due artisti campani.
Christian Di Benedetto, autore di musica e testi e alle prese con orchestrazioni, chitarra, tastiere, mix e mastering, e Margherita Palladino, splendida interprete canora, hanno dato vita con questo primo lavoro intitolato Inner Lands, ad un bellissimo affresco di metal sinfonico targato Winterdream.
L’album è composto da sei brani che si nutrono dell’epico ed evocativo incedere delle migliori proposte del genere, lo valorizzano con note folkeggianti, lo potenziano con ritmiche power e lasciano che l’eterea voce della cantante si posi come candida neve sulla radura sul tappeto musicale creato dal polistrumentista nostrano.
Broken Sword Of Isidur è il piccolo capolavoro che funge da sunto di questo primo album del duo, un brano dalle sognati basi folk con break centrale ed ultima parte in un crescendo sinfonico davvero suggestivo.
Ovviamente anche gli altri brani funzionano benissimo, da Escape From The Nightmare a Telling Tales To The Stars, tracce prettamente symphonic metal, fino alla conclusiva ed atmosferica Our Truth.
Inner Lands risulta così una piacevole sorpresa, da consigliare senza indugi agli amanti del genere.

Tracklist
1.In the Reigning Obscurity
2.Escape from the Nightmare
3.Telling Tales to the Stars
4.Winterdream
5.Broken Sword of Isildur
6.Our Truth

Line-up
Margoth (Margherita Palladino) – Vocals
Christian Di Benedetto – Keyboards, Guitars

WINTERDREAM – Facebook

Oberon – Aeon Chaser

La grandezza di Oberon risiede nel suo trattare argomenti di grande profondità, rivestendoli di una struttura musicale sicuramente ricercata ma nel contempo alla portata di un pubblico più ampio, proprio in virtù idi un afflato melodico che costituisce l’asse portante di un sound sempre ricco ed originale.

Dopo qualche anno è un vero piacere ritrovare Oberon, il quale mi incantò nel 2014 con il suo Dream Awakening, album che ne segnava il ritorno sulle scene dopo un lunghissimo silenzio.

Il musicista norvegese oggi si ripresenta dopo aver reso il suo antico progetto solista una band vera e propria, ed il risultato che ne scaturisce è un lavoro che se, da un lato, smarrisce in parte quella magia che ne ammantava il predecessore, d’altro canto acquista uno spessore più rock, con diverse divagazioni nel gothic di matrice novantiana, ovviamente in una versione riveduta, corretta ed arricchita dal talento di Bard Titlestad.
Quella che ne consegue è sempre e comunque una prova di livello sublime, grazie ad un lotto di brani affascinanti, vari e ricchi di intuizioni melodiche nei momenti più soffusi, coinvolgenti allorché il passo assume ritmi più spediti.
Inutile dire che almeno per gusto personale la preferenza va a canzoni di cristallina bellezza come To Live To Die, Worlds Apart, Lost Souls, in cui elementi neo folk si mescolano sapientemente a pulsioni cantautorali dalle reminiscenze buckleyane, andando a comporre un magnifico quadro.
Che dire poi della splendida Laniakea, in odore di progressive con il suo fluido lavoro chitarristico, della travolgente Walk In Twilight, della gotica perfezione di The Secret Fire, altri punti di forza di un album ricco dal punto di vista musicale e come sempre profondo anche a livello lirico, visto che per Bard la musica è sempre stata anche (se non soprattutto) il veicolo per esprimere le proprie elaborate convinzioni filosofiche.
Nelle note di accompagnamento si afferma che Oberon vede l’arte come un progetto sciamanico, ma la cosa che più sorprende è che tale obiettivo venga perseguito tramite una forma musicale tutt’altro che ostica o fatta da interminabili composizioni ritualistiche; la grandezza di Bard risiede nel suo trattare argomenti di grande profondità, rivestendoli di una struttura musicale sicuramente ricercata ma nel contempo alla portata di un pubblico più ampio, proprio in virtù idi un afflato melodico che costituisce l’asse portante di un sound sempre ricco ed originale.

Tracklist:
1.Omega
2.Walk In Twilight
3.To Live To Die
4.Black Aura
5.The Secret Fire
6.Worlds Apart
7.Laniakea
8.Surrender
9.Lost Souls
10.Brother Of The Order
11.Magus Of The Dunes

Line-up:
Bard Oberon: vocals, guitars, bass, keyboards, percussion
James F.: guitars
Jan Petter Sketting: guitars, percussion
Tory J. Raugstad: drums

OBERON – Facebook