Crippled Black Phoenix – The Great Escape

Ci sono concatenazioni sonore che sono tipiche del gruppo di Waters, Gilmour e soci, e poi c’è quel tocco in stile Mogwai in libera uscita che è qualcosa di bellissimo.

Quando sei un collettivo che annovera fra i propri membri molti nomi fra il meglio della scena psichedelica mondiale e specialmente quella inglese non è facile fare ottimi dischi e non sbagliarne uno, ma i Crippled Black Phoenix ci riescono anche questa volta.

Tutte le dilatate note di questo ultimo lavoro valgono la pena di essere ascoltate e sofferte, perché qui c’è il fumo che esce dallo specchio rotto delle nostre esistenze. Ogni disco del collettivo britannico ha rappresentato un episodio particolare e a sé stante, nel senso che ogni volta era uno splendido capitolo a parte, un qualcosa di assoluto. Il filo che lega tutti i loro dischi è la qualità, la bravura nel creare un’atmosfera oppiacea e particolarissima, e in The Great Escape ci si può immergere e non ne uscirete come prima. Qui siamo maggiormente nei territori dello slow core, ma con un disegno assai più ampio di quello a cui ci hanno abituato gli altri gruppi. Personalmente, e come tutte le visioni soggettive può essere sbagliata, ho sempre visto i Crippled Black Phoenix come la versione moderna e in certi frangenti migliore dei Pink Floyd, e questo lavoro rafforza ulteriormente la mia convinzione. Ci sono concatenazioni sonore che sono tipiche del gruppo di Waters, Gilmour e soci, e poi c’è quel tocco in stile Mogwai in libera uscita che è qualcosa di bellissimo. Come detto sopra ogni disco è a sé, e qui addirittura ogni canzone vive in uno proprio stato, sempre di grazia ma con sfumature diverse. Il lavoro questa volta è doppio, anche perché ogni canzone è di lunga durata, e questo gruppo riesce a fare brani di nove minuti come il singolo To You I Give ( sentite i primi due minuti della canzone e pensate a chi somigliano…) dei quali non si ha mai abbastanza. Nell’underground questo collettivo ha una grande e solida reputazione ed è più che meritata, ogni album è sempre ottimo e denota un ulteriore avanzamento. Il primo disco è più lento, nel secondo invece ci sono delle cose più veloci, quasi tribali, ma sempre uniche e particolari. I Crippled Balck Phoenix sono uno dei gruppi migliori e più originali della scena underground, da sentire e risentire sia questo disco che tutta la loro produzione.

Tracklist
1 You Brought It Upon Yourselves
2 To You I Give
3 Uncivil War (Pt I)
4 Madman
5 Times, They Are A’Raging
6 Rain Black, Reign Heavy
7 Slow Motion Breakdown
8 Nebulas
9 Las Diabolicas
10 Great Escape (Pt I)
11 Great Escape (Pt II)
12 Hunok Csataja (Bonus)
13 An Uncivil War (Pt. I & II) (Bonus)

Line-up:
Justin Greaves
Daniel Änghede
Mark Furnevall

Ben Wilsker
Tom Greenway
Jonas Stålhammar
Belinda Kordic
Helen Stanley

CRIPPLED BLACK PHOENIX – Facebook

Rigor Sardonicous – Ridenti Mortuus

Il funeral, nell’interpretazione del duo di Long Island, è quanto mai essenziale e minimale ed è rivolto perciò a chi apprezza il genere nella sua versione più ottundente e meno atmosferica.

I Rigor Sardonicous sono una delle realtà più longeve in ambito funeral doom sul suolo statunitense, considerando che il loro primo demo è datato 1994, anche se il primo dei loro sei full length ha visto la luce (si fa per dire…) solo nel 1999.

Ridenti Mortuus è un ep che rompe un silenzio lungo sei anni e l’occasione, colta peraltro da molte altre band in ambito metal, è stata quella di pubblicare un lavoro collegato alla ricorrenza del centenario della fine della prima guerra mondiale.
Il funeral, nell’interpretazione del duo di Long Island, è quanto mai essenziale e minimale ed è rivolto perciò a chi apprezza il genere nella sua versione più ottundente e meno atmosferica: del resto il genere in questo frangente non assume sembianze consolatorie ma semmai è volto a ribadire come in generale la vita sia quello schifo che molti pensano, con l’inclusione di una (in)sana dose di misantropia ad appesantire il tutto anche a livello concettuale.
Ridenti Mortuus non lascia respiro, schiaccia ed opprime senza soluzione di continuità e a nulla valgono le rare rarefazioni del sound per sfuggire alla morsa; poi, paradossalmente, l’album si chiude con l’incremento ritmico di Intereo Parum Infantia, primo ed unico elemento di discontinuità di un lavoro che offre oltre mezz’ora di growl catacombali e suoni ribassati all’inverosimile.
Chi è pronto a subire tutto questo, troverà anche più di un perché nell’ascolto di questo ritorno dei Rigor Sardonicous che racchiude, in qualche modo, la quintessenza del funeral nella sua forma più primitiva e priva di alleggerimenti di sorta.

Tracklist:
1. The Smiling Dead
2. The Hound
3. The Unsepulchered Dead
4. Intereo Parum Infantia

Line-up:
Glenn Hampton – Bass
Joseph J. Fogarazzo – Vocals, Guitars

RIGOR SARDONICOUS – Facebook

Althea – The Art Of Trees

Una cascata di note che non mantiene prigionieri gli Althea in un determinato spazio temporale, ma permette loro di muoversi a piacimento tra il rock progressivo di ogni epoca.

E’ incredibile come la musica sia capace di troncare ogni parola superflua e dare sempre una risposta, zittire tutti e regalare a coloro che la colgono una via di fuga al piattume di una società con poche certezze e tanta stupidità.

Drammi che lasciano posto ad una sequela di frasi senza capo ne coda e che l’uomo saggio dovrebbe ignorare, cercano risposte tra le trame splendide di opere come il secondo lavoro su lunga distanza degli Althea dopo le meraviglie progressive di Memories Have No Name, licenziato un paio di anni fa e tornato lo scorso anno in versione fisica tramite la Sliptrick Records, etichetta che licenzia anche questo bellissimo The Art Of Trees.
Dario Bortot e compagni, da band collaudata, non cambiano di molto il proprio sound rispetto al primo lavoro. gli Althea hanno un loro approccio alla musica progressiva che li fa riconoscere immediatamente, sempre supportati da produzioni ed arrangiamenti di livello superiore e da un’alternanza tra le parti metalliche e quelle più soft che, oltre ad essere assolutamente personali, sono anche il loro maggior pregio.
Una musica delicata, raffinata ed elegante, supportata da un talento melodico straordinario si muove sinuosa tra le partiture progressive dei brani: una cascata di note che non mantiene prigionieri gli Althea in un determinato spazio temporale, ma permette loro di muoversi a piacimento tra il rock progressivo di ogni epoca.
Gli Althea sono bravi a non lasciarsi attrarre troppo da soluzioni cervellotiche e, invece di limitarsi ad esibire al mondo le loro capacità tecniche, lasciano che siano le emozioni scaturite dalla voce di Bortot e dalle splendide melodie di brani come One More Time, Evelyn, The Art Of Trees e Away From Me a prendere per mano l’ascoltatore accompagnandolo in questo bellissimo viaggio a ritroso in una vita che potrebbe essere quella di ciascuno di di noi.

Tracklist
01. For Now
02. Deformed to Frame
03. One More Time
04. Today
05. Evelyn
06. Not Me
07. The Shade
08. The Art of Trees
09. Away From Me feat. Michele Guaitoli
10. Burnout

Line-up
Dario Bortot – Guitars, Keys & Synths
Alessio Accardo – Vocals
Sergio Sampietro – Drums
Andrea Trapani – Bass

ALTHEA – Facebook

MALAMORTE

Il lyryc video di “Antichrist”, dall’album “Hell For All” in uscita a gennaio (Rockshots Records).

Il lyryc video di “Antichrist”, dall’album “Hell For All” in uscita a gennaio (Rockshots Records).

Malamorte; the side project of Alex Nunziati (Lord Vampyr, Cain, Nailed God, Shadowsreign, Sepolcrum, ex VII Arcano, ex Theatres des Vampires) is a ferocious evil metal band hailing from Italy. Telling tales of the occult, mysticism and more with a back drop of power, thrash and black metal, the band will be offering their third full length “Hell For All” via Rockshots Records on January 25, 2019 (Europe) and February 8, 2019 (North America). Ready to resurrect the “Antichrist”, the band is sacrificing their first lyric video in support of the album.

“Hell For All” was written as a cohesive album, with each song being composed in a complementary fashion to the rest of the tracks. Compared to their 2016 album “Devilish Illusions”, this new record brings more thrash and power elements as the band deviates from their black metal origins.

Keeping the listener in mind, Malamorte desires to formulate a trip, one that “alternates hard times to more reflective or lighter moments” and can be played on repeat with each new listen creating a new perspective. Quality and energy are the primary focuses for these Italians, who allow their fans to escape into an alternate reality and cite influences from a broad range of musical greats including Mercyful Fate, King Diamond, Iron Maiden and Slayer.

Track Listing:
1. Advent (0:49)
2. Antichrist (4:16)
3. Warriors of Hell (4:35)
4. Holy or Unholy (5:47)
5. Mother (4:55)
6. Hell For All (4:42)
7. Son (4:47)
8. The Worshipers of Evil (3:50)
9. Satan’s Slave (5:07)
10. God Is Nothing (4:38)
Album Length: 43:31

For More Info:
www.rockshots.eu
http://malamorte.wixsite.com/malamorte
https://www.facebook.com/Malamorte-1549227968623731/

BIO:

MALAMORTE is a side project of Alex Nunziati (Lord Vampyr, Cain, Nailed God, Shadowsreign, Sepolcrum, ex VII Arcano, ex Theatres des Vampires) and was born in 2009. The first album “The Fall of Babylon” was recorded in 2009 and out on CD and tape in 2014. In 2015 “Devilish Illusions” is out, produced by MurdHer Records & Satanath Records. In 2016 they went to the studio in October to record the new album. After two album of Heavy/Black Metal the new way for the next album is oriented towards Occult/Doom Heavy Metal sound (Mercyful Fate, Black Sabbath). In March 2017, Malamorte signed a worldwide deal with Pure Steel Records and in June 2017 the new album “Satan Goes to Heaven to Destroy the Kingdom of God” was released.

Silver Dust – House 21

Un mix di Type O Negative, Sisters Of Mercy e Secret Discovery in versione Grand Guignol, con qualche passaggio estremo e modern metal: un buon ascolto per gli amanti dei suoni gothic/dark del nuovo millennio.

Il mondo del rock da Grand Guignol si arricchisce di un altro spettacolo, questa volta offerto da un quartetto di artisti, musicisti ed eleganti anime nere chiamato Silver Dust, capitanato dal chitarrista e cantante Lord Campbell che, tramite la Escudero Records, licenzia la seconda opera della sua carriera intitolata House 21.

Dieci brani (più la cover del classico Bette Davis Eyes portato al successo dalla cantante Kim Carnes e che vede come ospite Mr.Lordi), è quello che ci propongono questi alternative gothic rockers francesi, saliti sul palco di un virtuale teatro nei sobborghi parigini per dar vita al concept di House 21, in un’atmosfera di grigio e nebbioso mondo gotico, animato da accenni al metal moderno, danze tribali ed arrangiamenti magniloquenti che a tratti arricchiscono il sound.
I Silver Dust cercano di variare le atmosfere rimanendo legati ad un mood horror rock convincente, anche se la moltitudine di sfumature che compongono il mondo musicale creato dalla band a tratti porta leggermente fuori tema.
The Unknown Soldier, Forever e The Witches Dance sono i brani migliori di questo mix di Type O Negative, Sisters Of Mercy e Secret Discovery in versione Grand Guignol, con qualche passaggio estremo e modern metal: un buon ascolto per gli amanti dei suoni gothic/dark del nuovo millennio.

Tracklist
1.Libera Me
2.The Unknown Soldier
3.House 21
4.Forever
5.Once Upon A Time
6.La La La La
7.Bette Davis Eyes (feat. Mr.Lordi)
8.This War Is Not Mine
9.The Witches Dance
10.It’s Time
11.The Calling

Line-up
Lord Campbell – Vocals, guitar
Tiny Pistol – Guitars, vocals
Kurghan – Bass
Mr.Killjoy – Drums

SILVER DUST – Facebook

Australia: alla scoperta musicale di un’isola

Il rock australiano è stato e rimane un caso a sé stante nel quadro musicale internazionale.

Se da una parte è nato, anche e soprattutto, importando quanto si andava facendo nel mondo anglofono, per un altro verso, ciò ha messo capo molto spesso ad una attenta e personale opera di rielaborazione e di trasformazione artistica di codici e veicoli espressivi, nati altrove e rimodellati in maniera creativa e originale.
Va altresì detto che numerosi solisti o gruppi aussie hanno dovuto prima o poi, per potere emergere e farsi strada, attraverso platee più vaste, emigrare, per ovvie ragioni principalmente nella Gran Bretagna (qualcuno pure in America). A Canterbury, sul finire degli anni Sessanta, finì Daevid Allen, fondatore come noto dei Gong, solo per fare qui un probante ed illustre esempio.

Quando si parla di Australia, giustamente, i primi nomi a venire in mente sono quelli dei Bee Gees e degli AC/DC. Tuttavia, anche di altri si deve parlare. Gli anni Settanta hanno visto nascere i Jet (fra glam rock e AOR), gli hard-doomsters Buffalo (i Black Sabbath australiani), i Rose Tattoo (emuli di Angus Young e compagni, attivi anche in Inghilterra, all’inizio con il nome di Tatts), la Little River Band (che nell’arco della sua sterminata discografia – ben 28 titoli! – ha saputo passare dal pop-soft rock più di maniera ad un ottimo AOR pomp sulla scia di Styx, Yes e Foreigner), i Cold Chisel (con nove album di r ‘n’ b in carniere tra il 1974 e il 1989, da Adelaide).
In realtà, fin dagli anni Sessanta, il rock è stato presente in Australia. Il beat è stato importato dagli Easybeats e dai Master’s Apprentices. Grande prog è quindi venuto, nella decade successiva, con i romantici Aleph (1977: tra Yes e Starcastle, con belle melodie, americaneggianti), fusion-progsters quali Sebastian Hardie e Windchase (tre grandi dischi, tra il 1975 e il 1979, fra Camel e Santana), gli Spectrum (passati dal singolare country psichedelico-avanguardistico degli esordi al progressive con Moog della maturità), i Galadriel (un solo e raro vinile, nel 1971, di psych-blues leggero), gli Headband (anche loro del 1971 ed analoghi a tanti gruppi West Coast), i Rainbow Theatre (molto ridondanti, quasi musical, per via degli eccessi di archi e fiati), i Bakery (1971: jazz rock, difficile da reperire), i Chetarca (più orientati sul rock & roll, con momenti anche alla Tom Jones), l’unico long playing del polistrumentista Chris Neal (1974: un bel prog classicheggiante e tastieristico, alla Mike Oldfield, con drum machine), i Mackenzie Theory (due interessanti lavori di jazz rock molto sinfonico tra il 1973 e il 1974, entrambi per la Mushroom, con una viola elettrica impegnata a citare John Cale dei Velvet Underground) ed i Kahvas Jute del grande Bob Daisley – destinato alla fama con Ozzy Osbourne, Gary Moore, Uriah Heep e Rainbow – sospesi tra l’eredità dei Black Sabbath e quella degli Atomic Rooster, riscritta in una chiave più underground: per loro un solo album, Wide Open, uscito per la Infinity nel 1971, con intriganti frangenti hard-blues e proto-fusion.
Fondamentale, in Australia, anche la scena elettronica. Gruppo di punta sono stati i Cybotron, nati nel 1975, per iniziativa di Steve Maxwell Von Braund. I primi due album erano ancora acerbi, nella loro un po’ ingenua e derivativa psichedelia (Cybotron del 1976 e Colossus del 1978). Dopo il live Saturday Night (1979), il gruppo realizzò il proprio capolavoro con il penultimo disco, Implosion, letteralmente dominato da un coinvolgente space rock elettronico, in cui gli echi cosmici di matrice teutonico-kraut rock si combinavano con l’amore per i paesaggi sonori delineati da Klaus Schulze, primi Ash Ra Tempel e Tangerine Dream. Ancora un disco, il sintetico e new wave oriented Abbey Moor (1981) e quindi un immeritato scioglimento. L’eredità dei Cybotron è stata raccolta, in tempi a noi più recenti, dai Brainstorm (da non confondersi con quelli tedeschi degli anni Settanta): gruppo di space rock elettronico innamorato dell’astronomia e della sua storia (Keplero in particolare). Tra i loro non pochi lavori, il migliore resta forse il terzo Tales of the Future (1997). I Brainstorm inoltre hanno contribuito al tributo collettivo agli Hawkwind di Daze of the Underground (2003).
Tuttavia, il più celebre ed importante gruppo di prog rock australiano rimangono gli Aragon, i quali incisero per la piccola Ugum – volenterosa e piccola label inglese, responsabile anche di ristampe dei Twelfth Night – il loro capolavoro, nel 1988: Don’t Bring the Rain, intarsiato di belle atmosfere marillioniane. Più moderno e neo-prog il sound dei tre lavori successivi, pubblicati dalla purtroppo disciolta olandese SI Music – Rocking Horse (1990), il mini Mouse (1991) e The Meeting (1992) – e il malinconico epitaffio The Angel’s Tear, registrato anch’esso nel 1990 ed edito, in seguito, per la Labra d’Or.

Dal 1974 al 1978 furono attivi a Sidney gli storici Radio Birdman, gli Stooges d’Australia: due LP per la Sire e poi sporadiche riformazioni da parte di questo gruppo seminale, che ha lasciato segni e profondi e indelebili nel punk australiano (gli X e i Saints, anche se questi secondi si trasferirono in Inghilterra e punk lo furono davvero per poco) e nel post-punk. Autentici maestri in questo secondo filone furono, sorti dalle ceneri dei Boys Next Door, i Birthday Party di Nick Cave. Trasferitosi in Gran Bretagna anche lui, il cantautore australiano ha in seguito avviato, si sa, una notevole carriera mainstream, prima di fondare pochi anni fa i Grinderman, esponenti del rock alternativo di marca aussie sulla scorta dei connazionali Died Pretty e Go Betweens. Indimenticabili, citati anche nella enciclopedia di Dennis Meyer, gli storici Midnight Oil, vero e proprio trait-d’union fra UK punk e US hard. Una band longeva ed importante, da riascoltare con la dovuta attenzione.
Fenomenali, in linea con i Birthday Party, sono stati poi i Crime and the City Solution, formidabili nel proporre un post-punk sperimentale ed intriso di dark, dissonante e debitore tanto verso Captain Beefheart quanto nei riguardi dei Père Ubu. Più morbide, ammalianti e dai risvolti talvolta cosmici, le atmosfere sognanti di grandi band della Australia anni ’80, come Church, Stems e Scientist. Nel caso di questi ultimi troviamo ancora una volta l’eredità dell’Iggy Pop meno addomesticato. Quanto ai Church, rispetto ai primi lavori risulta forse preferibile il più maturo e completo Forget Yourself (2003), quasi progressivo nei suoi rimandi a Robert Fripp, Adrian Belew, U2 e Eno, disco di space-dark atmosferico e moderatamente sintetico, con fascinosi pad ambientali.
Se Hoodoo Gurus ed Hard Ons sono stati in quel decennio l’equivalente del Paisley Underground, ancora meglio hanno fatto i Dead Can Dance, di Lisa Gerrard e Brendan Perry, tra gothic dark stile prima Siouxie-Cocteau Twins e tastiere ambient, dai tocchi medievaleggianti e rinascimentali, non senza opportune ed azzeccatissime incursioni in territori afro (prima di perdersi nella world music, il cui successo ha veramente inghiottito fior fiore di artisti altrimenti preparati).

Molto popolari nel corso degli anni Ottanta sono stati in Australia gli INXS (nel periodo 1980-1984 synth-rock alla Ultravox, successivamente hard pop di spessore), i gradevolissimi Icehouse e Flash and the Pan (ambedue padrini del techno-pop nell’emisfero australe), i Men at Work (in bilico tra new wave e AOR alla Cristopher Cross) e i Real Life dell’indimenticato singolo Send Me an Angel, con uno dei giri di sintetizzatore più belli e famosi della storia.
Oggi, la scena metal e rock australiana è più viva che mai, in linea con la sua grande tradizione. In ambito sleazy-street, abbiamo i Dead Daisies (che in Australia fanno base), i Wolfmother (alfieri del ritorno al più grintoso e sanguigno hard settantiano), i meravigliosi Night Terrors (tra i migliori esponenti odierni dello space rock hawkwindiano: futuristici, siderali ed oscuri), Red Shore e Thy Art Is Murder (campioni del death-core), i Tame Impala (in vero alquanto sopravvalutati ed assai commerciali nel settore del pop neo-psichedelico, di Perth), i grandiosi Vanishing Point (tra AOR e prog metal sinfonico), i Mournful Congregation (signori del funeral doom), i Foetus (i Nine Inch Nails australiani, sorti nel lontano 1981), i Dirty Three (post rock strumentale, da Melbourne) ed i Pirate, realmente entusiasmanti, nel loro inimitabile mix di Rush e Voivod, King Crimson e primi Pink Floyd.
Particolarissimo il caso dei validi Mortification, una band cristiana, che si muove abilmente fra le scuole thrash e death statunitensi, il groove metal dei Pantera e il grindcore dei Napalm Death. Sono nati nel 1987, vicino a Victoria, e tuttora attivi. Altri nomi storici nel dominio del thrash – e a livelli di statura mondiale – sono stati i pionieristici Armoured Angel, Mortal Sin ed Hobbs Angels of Death. A loro deve molto l’ottima scena thrash australiana di oggi: i fenomenali (anche sul piano del songwriting) e tecnicissimi Meshiaak, gli speed-metallers Harlott ed il trittico di band scoperte da Punishment 18 Records, ossia Envenomed, In Malice’s Wake e Hidden Intent, testimonianza di una grande e promettente vitalità espressiva. Si sono purtroppo sciolti – ma hanno fatto la storia – i fantastici The Berzerker, in assoluto tra gli inventori del cyber-grind e dello speed-core industriale, mentre restano sulla breccia invece i Destroyer 666, perfetti nella loro capacità di sapere incrociare il black con il thrash, i Sodom con gli Aura Noir, i Destruction con gli Slayer. Grande black, invece, con gli estremamente prolifici Drowning the Light: occulti, lovecraftiani e vampireschi, certo non distanti dalle atmosfere dei connazionali Striborg e degli americani Xasthur. Membri dei Drowning the Light hanno inoltre operato pure sotto altre single, tra cui quella dei Black Funeral.