Esben And The Witch – Nowhere

Praticamente l’album è un sogno lungo diverse decine di minuti, nel corso del quale il tempo e lo spazio sono sospesi e si va via con gli Esben And The Witch.

Come in un sogno, la musica degli Esben And The Witch si snoda nel nostro cervello, generando quel piacere del toccare ciò che non è reale, poiché la realtà qui non è di casa.

La musica del gruppo, che si divide fra Berlino e l’Inghilterra, è da annoverare nella psichedelia pesante, ma in realtà c’è molto di più. Il tappeto sonicamente distorto di Daniel e Thomas è fertile per la bellissima voce di Rachel, la strega che officia il rito che ci porta in un’altra bellissima dimensione. La musica è quasi uno shoegaze più pesante e dilatato dove sembra quasi che ogni strumento vada per conto suo, mentre si amalgama alla perfezione con gli altri. L’etereo cantato e ciò che succede sotto creano una trama che avvince l’ascoltatore per prepararlo alle tante esplosioni sonore che ci sono in tutto il disco. Praticamente l’album è un sogno lungo diverse decine di minuti, nel corso del quale il tempo e lo spazio sono sospesi e si va via con gli Esben And The Witch. Poche band riescono a catturare in maniera tale l’ascoltatore e qui stupisce anche la grande profondità dei suoni, che riescono a penetrare molto a fondo nella psiche dell’ascoltatore, lasciando un segno indelebile. La carriera del gruppo anglo tedesco è stata un continuum ben preciso, una decisa scalata verso vette molto alte: Nowhere è per ora il loro picco, ma possono dare ancora molto. Seppur non appartengano a nessun genere ben preciso, o forse proprio per questo motivo, gli Esben And The Witch sono uno di quelle sparute band che riescono a creare un genere a sé stante, rinnovando profondamente alcuni codici musicali. Un disco che fa sognare ma che non è sicuramente un prodromo della gioia, bensì una presa di coscienza della nostra fallibilità e della nostra brevità, ma ci sono musiche che fortunatamente ci conducono lontano.

Tracklist
1. A Desire For Light
2. Dull Gret
3. Golden Purifier
4. The Unspoiled
5. Seclusion
6. Darkness

Line-up
Daniel
Thomas
Rachel

ESBEN AND THE WITCH – Facebook

Metal Church – Damned If You Do

In questo ultimo album le atmosfere dark sono presenti così come le accelerazioni di scuola thrash metal, e le melodie incastonate in assoli e chorus che hanno fatto scuola permettono ai Metal Church di ripresentarsi in buona forma.

I veterani Metal Church pubblicano il loro dodicesimo album e si torna così a parlare della storia del metal statunitense.

Infatti la band americana è forse la più indicata quale pioniera di un sound diventato marchio di fabbrica dell’heavy metal classico made un U.S.A., dalle tinte dark, drammatico e thrashy, ma sempre con un occhio attento alle melodie.
Diversi gruppi hanno costruito intere carriere con le regole che i Metal Church hanno definito fin dai primi anni ottanta passando alla storia metallica con lavori leggendari che, per quanto riguarda la band di Kurdt Vanderhoof, sono scritti sulle tavole della legge dell’heavy metal (The Dark, Blessing In Disguise e The Human Factor su tutti).
Dodici album non sono neppure così tanti, ma la qualità dei lavori licenziati è rimasta elevata per oltre trent’anni e i vecchietti terribili del metal classico a stelle e strisce non mancano all’appuntamento con i loro fans neppure questa volta.
Il ritorno del batterista Stet Howland dopo i gravi problemi di salute che gli impedirono di subentrare immediatamente a Jeff Plate, è la novità che si porta dietro questo nuovo lavoro, per il resto tutto funziona alla grande e Damned If You Do risulta l’ennesimo buon lavoro; potente e melodico.
In questo ultimo album le atmosfere dark sono presenti così come le accelerazioni di scuola thrash metal, e le melodie incastonate in assoli e chorus che hanno fatto scuola permettono ai Metal Church di ripresentarsi in buona forma.
L’album parte con la title track, brano che segna il percorso assolutamente ovvio e privo di sorprese di questo lavoro, alternando mid tempo, armonie pregne di oscure melodie e sfuriate metalliche sulle quali Mike Howe ruggisce e graffia da par suo.
Damned If You Do è un album che nei suoi perfetti automatismi regala canzoni di alto livello come The Black Things, Guillotine e Monkey Finger, quindi in grado di soddisfare gli amanti del gruppo e del metal classico d’oltreoceano; dal vivo i Metal Church continuano ad essere una macchina da guerra, mentre in studio si confermano come gruppo ancora lontano dalla quiescenza compositiva.

Tracklist
1. Damned If You Do
2. The Black Things
3. By The Numbers
4. Revolution Underway
5. Guillotine
6. Rot Away
7. Into The Fold
8. Monkey Finger
9. Out Of Balance
10. The War Electric

Line-up
Mike Howe – Vocals
Kurdt Vanderhoof – Guitars
Stet Howland – Drums
Steve Unger – Bass
Rick Van Zandt – Guitars

METAL CHURCH – Facebook

Death Waltz – Born To Burn

I Death Waltz guardano avanti e, pur non nascondendo ispirazioni ed influenze, licenziano un buon lavoro provando a farsi spazio nella scena underground nostrana.

I bresciani Death Waltz si definiscono semplicemente una band “metal” e fanno bene, sarebbe forse troppo lungo etichettare il sound del loro primo lavoro come melodic death, thrash, heavy metal.

Nata ormai quattro anni fa, la band lombarda arriva a licenziare il primo lavoro dopo alcuni cambi di line up e la solita gavetta in giro per i locali della provincia bresciana, prima che questo roccioso, metallico e melodico Born To Burn veda la luce e venga promosso dalla Ad Noctem Records.
Questi undici brani che formano quaranta minuti di musica, vedono la band impegnata nel proporre metal che prende ispirazione tanto dal melodic death metal, quanto dall’heavy, potenziando a tratti l’atmosfera con sferzate thrash che velocizzano le ritmiche ed estremizzano il sound.
Ne esce un lavoro piacevole, grezzo e melodico, attraversato da armonie che richiamano i Sentenced di Down, i Maiden ed in generale il thrash metal, ma che trovano una loro strada, sicuramente ancora più da personalizzare in futuro.
Born To Burn risulta quindi un buon ascolto, un tocco moderno in qualche arrangiamento non manca e dona a brani come Blood Moon, Dream e Samarra quel che basta per essere inserito nel metal del nuovo millennio.
I Death Waltz guardano avanti e, pur non nascondendo ispirazioni ed influenze, licenziano un buon lavoro provando a farsi spazio nella scena underground nostrana.

Tracklist
1.Intro
2.Juliet
3.Blood Moon
4.Beast
5.Death Waltz
6.Dream
7.This Is War
8.Samarra
9.Born to Burn
10.Riot
11.Asylum

Line-up
Jacopo “Jack” Polonioli – Drums
Mirko “J” Scarpellini – Guitars
Diego Dangolini – Bass
Stefano “Stef” Comensoli – Guitars
Alberto Scolari – Vocals

DEATH WALTZ – Facebook

Coffin Birth – The Serpent Insignia

I Coffin Birth sono una nuova formazione nata nel 2018 dalla collaborazione fra musicisti metal maltesi ed italiani.

Non deve stupire il fatto che vi siano dei componenti maltesi, perché la scena metal dell’isola, in special modo quella doom, è molto fiorente e valida. Il gruppo offre una potente miscela di death metal con un taglio vecchia scuola, con molte influenze punk e con incursioni nel groove metal. Il risultato è un disco di debutto molto potente, calibrato alla perfezione anche grazie alla grande esperienza degli attori coinvolti. I nostri sono Giulio Moschini (Hour of Penance), Marco Mastrobuono (Hour of Penance), Francesco Paoli (Fleshgod Apocalypse, ex-Hour of Penance), Davide Billia (Hour of Penance, Beheaded) e Frank Calleja (Beheaded). Visti i nomi ciò che viene fuori con i Coffin Birth non dovrebbe stupire più di tanto, ma si va ben oltre le aspettative. La media del disco è molto alta, l’intensità non viene mai meno, e con essa c’è una grande potenza di fondo che lega con una capacità compositiva importante. La musica è molto pesante e veloce, con dei mid tempo devastanti, e la produzione fa rendere al meglio il tutto. Era da tempo che non si ascoltava un disco come questo, in grado di partire dal death metal e spaziare in altri ambiti, senza creare steccati, ma anzi andando a ricercare aspetti differenti per creare un ottimo groove. Infatti The Serpent Insignia non sfigura nemmeno in quest’ultimo ambito, dove spesso ci sono lavori che segnano il passo mentre qui è tutto fresco e ben composto. I Coffin Birth sono ben al di sopra della media e il disco è un debutto che si proietta direttamente nelle migliori uscite dell’anno che volge al termine per i generi coinvolti.

Tracklist
01. Throne of Skulls
02. The 13th Apostle
03. Godless Wasteland
04. Red Sky Season
05. Christ infection Jesus Disease
06. From the Dead to the Dead
07. Casket Ritual
08. Sanguinary
09. The Serpent Insignia
10. Zombie Anarchy

Line-up
Frank Calleja – Lyrics & Vocals
Giulio Moschini – Guitars
Francesco Paoli – Guitars
Marco Mastrobuono – Bass
Davide Billia – Drums

COFFIN BIRTH – Facebook

Who Dies in Siberian Slush – Intimate Death Experience

Convincente ritorno, a sei anni dall’ultimo full length, di una delle più influenti band della scena doom moscovita, gli Who Dies in Siberian Slush di Evander Sinque.

A sei anni dall’ultimo full length We Have Been Dead Since Long Ago… torna una delle più influenti band della scena doom moscovita, gli Who Dies in Siberian Slush di Evander Sinque.

Quel lavoro, seppure di buna fattura, non aveva comunque raggiunto il ragguardevole livello dell’esordio Bitterness of the Years That Are Lost del quale erano state mantenute sostanzialmente le principali linee guida, sotto forma di un funeral death doom a tratti dissonante e poco incline alla melodia.
Intimate Death Experience, in tal senso, conferma invece il cambio di direzione giù mostrato nei due brani presenti nello split The Symmetry Of Grief (in coppia con il finnici My Shameful) , facendo intuire fin dall’inizio che il sound non sarà affatto scevro di malinconici passaggi, per lo più chitarristici ma anche delineati dalla tastiera.
Inoltre, a fornire quella peculiarità che è sempre la benvenuta purché non si tramuti in un un elemento spiazzante, troviamo l’interessante contributo del flauto e soprattutto del trombone, uno strumento che più di altri, utilizzato in un simile contesto, restituisce la sensazione di trovarsi al cospetto della banda che accompagna il defunto nel suo ultimo viaggio.
Va detto che i due brani presenti nello split album citato, And It Will Pass e The Tomb of Kustodiev, li ritroviamo anche in quest’occasione, sebbene riarrangiati, il che non è un male perché trattasi di tracce decisamente buone, ma non si può fare a meno di notare al contempo che la musica inedita presente in Intimate Death Experience ammonta a poco meno di venti minuti.
Poco male, però, quando i due brani di nuovo conio, al netto dell’intro Through the Heavens e del breve recitato Solace, si rivelano alcune delle cose migliori offerte dagli Who Dies in Siberian Slush nella loro storia: infatti Remembrance e, soprattutto, On Different Sides lasciano finalmente sfogo ad un indole melodica che, comunque, non finisce per sopraffare lo stie sempre un po’ naif e originale dei moscoviti.
In particolare la traccia che chiude il lavoro è davvero splendida, nel suo tragico e doloroso crescendo conclusivo che mette in mostra quello che a mio avviso è il lato migliore della band di Evander Sinque, come sempre autore di un’interpretazione vocale di grande intensità.
Il ritorno, quasi contemporaneo, di due dei nomi più pesanti della scena doom russa come gli Who Dies in Siberian Slush ed i Comatos Vigil (sia pure con il suffisso A.K. causa beghe tra gli ex membi originari) riporta ala luce un movimento che negli ultimi anni era stato messo in ombra da altre stimolanti realtà provenienti dalle nazioni dell’area ex-sovientica; non è stato facile per Evander ripartire, specialmente dopo la prematura e dolorosa scomparsa di Gungrind, ma i risultati che scaturiscono da Intimate Death Experience sono oltremodo convincenti.

Tracklist:
1. Through the Heavens
2. And It Will Pass
3. Remembrance
4. The Tomb of Kustodiev
5. Solace
6. On Different Sides

Line-up:
Igor T. – Drums
E.S. – Vocals
Flint – Guitars (lead)
A. Kraev – Bass
A.Z. – Flute
L.K. – Keyboards, Trombone
Alexey K. – Guitars, Vocals (backing), Synthesizer

WHO DIES IN SIBERIAN SLUSH – Facebook

Hypnotheticall

Il lyric Video di Industrial Memories, dall’album Synchreality (Revalve Records).

Il lyric Video di Industrial Memories, dall’album Synchreality (Revalve Records).

Prog Metal band Hypnotheticall has released the Lyric Video for the song Industrial Memories available on the Spaceuntravel channel.

The track is taken from the last album Synchreality, available now on CD/DIGITAL at: http://player.believe.fr/v2/3614979678152
https://www.revalverecords.com/Hypnotheticall.html
https://www.facebook.com/hypnotheticall/
Hypnotheticall debuts in 2002 with an EP entitled “In Need Of A God?”, followed by “Thorns” in 2003 and by “Fragments Of Truth” in 2006!!! A completely self-produced triptych that only in the latest phase is able to lead to the first record deal!!!

During these five years the band deals with various concerts consolidating its reputation of technical and solid band and gets very good reviews, a good critical acclaim culminating in a record deal signed with INSANITY RECORDS, Polish label particularly impressed by the band’s progressive metal proposal!!! “Dead World” is born, first official full-length album accompanied by a video clip of the single “Fear Of A Suffocated Wrath”!!!

It’s 2009 and the band, after several dates in the north of Italy, faces the first strong line-up change!!! The drummer Paolo Veronese and the singer Francesco Dal Barco pass the baton to Francesco Tresca and Marco Ciscato!!! In the line-up there’s also a place for keyboardist Davide Pretto who, along with guitarists Giuseppe Zaupa and Mirko Marchesini and bassist Luca Capalbo, records the band’s second official full-length album called “A Farewell To Gravity”, published by the Italian label LOGIC (IL) LOGIC!!!

The album, promoted by several videos, interviews and various concerts culminating with the participation at the MASTERS OF ROCK Festival in Czech Republic, receives great reviews highlightning the band’s personality and variety of style!!!

In 2014 the band tackles the last change of skin becoming a creature with 4 heads!!!

Giuseppe Zaupa and Luca Capalbo square the circle by incorporating the technical and incisive style of drummer Giulio Cariolato and the versatile and charismatic voice of Davide Pellichero!!!

With this line-up the band records a first single entitled “Awake(ning)”, publishing it in February 2016 and jumping headlong into the writing of the third official full-length album which will see the light in 2017!!!

MEMBERS
Davide Pellichero – Vocals
Giuseppe Zaupa – Lead & Rhythm Guitar, Programming
Luca Capalbo – Bass Guitar & Backing Vocals
Giulio Cariolato – Drums

Black Paisley – Perennials

Che si parli di ballate o ruvide canzoni hard rock, i Black Paisley non sbagliano un colpo e ci regalano un album splendido, consigliato senza riserve agli amanti del classic rock e del rock melodico.

Ottimo lavoro all’insegna dell’hard rock più classico e d’autore con gli svedesi Black Paisley, band di rocker D.O.C. che, dopo aver iniziato la sua avventura nel 1998, licenzia il suo nuovo lavoro dal titolo Perennials.

Nato appunto vent’anni fa come cover band, il quintetto proveniente da Stoccolma decide di puntare sulle proprie canzoni e direi che la scelta è stata azzeccata vista la qualità dei brani che compongono anche questa nuova raccolta di brani, che si muovono eleganti e ruvidi tra l’hard rock dei due decenni più importanti per il genere, tra il mood classico degli anni ottanta e quello più groove del decennio successivo.
La sfida a singolar tenzone la vince sicuramente l’anima ottantiana del sound di Perennials, con la band che sfoggia una freschezza compositiva invidiabile ed un lotto di brani che non lasciano scampo, tra graffiante hard rock di scuola Bryan Adams, impreziosito da sfumature west coast, accenni hard blues di marca Coverdale e rock melodico raffinato ed impreziosito da cori sempre all’altezza.
I rockers svedesi sfoggiano così un songwriting invidiabile e la grande presa che le canzoni hanno sull’ascoltatore sottolineano la cura che i Black Paisley hanno messo in questo bellissimo lavoro.
Che si parli di ballad (Without You) o ruvide hard rock song (Mother, Step Back) la band non sbaglia un colpo e ci regala un album splendido, consigliato senza riserve agli amanti del classic rock e del rock melodico.

Tracklist
1.I Want Your Soul
2.Day by Day
3.Out of My Life
4.Alone
5.Think
6.Sometimes
7.Step Back
8.Trying
9.Secret
10.Miss Me
11.Once in a Lifetime
12.Without You

Line-up
Stefan Blomqvist – Lead vocal and guitar
Ulf Hedin – Guitars
Jan Emanuelsson – Bass
Robert Wirensjö – Keyboards
Mikael Kerslow – Drums and Percussion

BLACK PAISLEY – Facebook

HISS FROM THE MOAT

Il video di “The Harrier”, dall’album omonimo in uscita a febbraio (M-Theory Audio).

Il lyric video di “The Harrier”, dall’album omonimo in uscita a febbraio (M-Theory Audio).

HISS FROM THE MOAT, the transcontinental black/death metal band founded by acclaimed drummer James Payne (Vital Remains, Hour of Penance), have unveiled a video for the title track of their sophomore album “The Harrier,” due out via M-Theory Audio on February 22, 2019. The clip can be seen at this location: https://youtu.be/i7CvngRLlUw

The song can also be streamed on Spotify, Apple Music and other digital platforms. In addition, the M-Theory webshop has launched the pre-order for “The Harrier,” which is available on CD and limited-edition moat-black vinyl (200 copies). Digital pre-orders via Bandcamp include an instant download of the title track.

“The song, ‘The Harrier,’ represents the identity of the album both for the instrumental part and the lyrics. The instrumental part is composed by many dynamic parts that create crescendos that then explode into more opened and epic parts, which is also how we composed the album itself — powerful, but not only fast,” explains drummer James Payne. “The lyrics, instead, are composed from extracts of sacred and political texts (as it’s indicated from the inscription in brackets) that, isolated and used in a more direct way, express and show how violent and brutal these books are, and sums up a good part of what the album itself talks about.

The video is composed from the lyrics that are supported from some illustrations that represent what the lyrics are saying. We chose to do this as a reference to how the illustrations were used in the past, to explain to whoever couldn’t read, what was written in the sacred texts. We wanted to do the same thing here since, nowadays, almost everybody can read, but everyone have their own interpretation of whatever is written, instead, since we have a specific and clear message to deliver, we’ve used the images to kind of have the same role that they had in the past — to explain to whoever gets our message, the meaning of it, to avoid misinterpretations.”

“The Harrier” – which features cover artwork by Stefano Bonora – was recorded, mixed and mastered at Milan’s SPVN Studio with Stefano Orkid Santi, who produced the latest Cripple Bastards album and previously worked as live engineer for bands such as Origin, Suffocation and Cattle Decapitation.

The U.S.-based Payne formed HISS FROM THE MOAT with two Italian friends – bassist/vocalist Carlo Cremascoli and guitarist Giacomo Poli – when he was just 18 years old. In 2009, the group self-released their debut EP, “The Carved Flesh Message,” which they supported by performing alongside the likes of Psycroptic, Skeletonwitch and The Black Dahlia Murder.

Four years later, HISS FROM THE MOAT released their debut full-length, “Misanthropy,” via Lacerated Enemy/Nuclear Blast. The band’s intense use of both extremes of death and black metal produced an album that stood alongside the delivery of acts such as Behemoth, Belphegor and Rotting Christ.

Following the release of the album, HISS FROM THE MOAT embarked on an extensive tour across Russia, Europe and Asia, delivering aggressive and visually engaging performances backed by the blackened intensity of the band’s new material. During this period, Payne left the legendary death metal act Vital Remains – a group he joined following a two-year stint with Italian death metal powerhouse Hour of Penance – to focus full-time on HISS FROM THE MOAT, and the band extended from a three-piece to a quartet with the addition of Max Cirelli (guitar/vocals).

Over the past two years, the band has toured extensively worldwide while working between the U.S. and Italy to write “The Harrier.” Now, HISS FROM THE MOAT aim to unleash another sonic onslaught that captures the band’s range of death and black metal inspiration while creating a unique and intense presence in the world of extreme music.

HISS FROM THE MOAT are:
Max Cirelli – Guitar/Vocals
James Payne – Drums
Carlo Cremascoli – Bass/Vocals
Jack Poli – Guitar

www.facebook.com/hissfromthemoat
www.twitter.com/hissfromthemoat
www.instagram.com/hissfromthemoat
www.m-theoryaudio.com

Perpetual Fate – Cordis

I Perpetual Fate giocano con il rock alternativo e lo sanno fare molto bene, fanno trasparire le loro influenze ma le assecondano con una già spiccata personalità.

Dopo tre anni di attività e qualche aggiustamento nella line up, i Perpetual Fate licenziano il loro primo lavoro sulla lunga distanza, che segue l’ep uscito lo scorso anno intitolato Secret.

E’ la sempre attenta Revalve Records a prendersi cura di questo prodotto, che si può senz’altro inserire nell’universo del rock alternativo, di questi tempi valorizzato dalle molte uscite con passaporto italiano.
E la scena alternative tricolore trova un’altra ottima ragione per essere considerata come una delle più attive della vecchia Europa, con la qualità dei prodotti che si alza piano ma con costanza.
I Perpetual Fate puntano molto sulla voce della cantante Maria Grazia Zancopè, ottima interprete degli undici brani che compongono quasi un’ora di musica rock moderna e melodica, con le chitarre che a tratti graffiano, qualche accenno di groove nelle ritmiche e tastiere presenti con suoni che si ispirano a quelli elettronici della new wave.
Tra l’alternanza di potenza e melodia di brani dall’ottimo appeal come l’opener Rabbit Hole, Smothered, la splendida Cannibal, la metallica The Land (con la partecipazione di Michele Guaitoli e Marco Pastorino) ed il singolo Rainfall, si muove un gruppo dall’approccio personale e convincente, forte di un lotto di belle canzoni, prodotte benissimo ed anche per questo dalle elevate potenzialità.
I Perpetual Fate giocano con il rock alternativo e lo sanno fare molto bene, fanno trasparire le loro influenze ma le assecondano con una già spiccata personalità.

Tracklist
1.Rabbit Hole
2.Enslavement
3.Smothered
4.The Path (I See You)
5.Cannibal
6.Mark Any Youth
7.Rainfall
4:28
8.The Land
3.Eternal Destiny
10.When They Cry
11.A Word Between You and Me

Line-up
Maria Grazia Zancopè – Voice
Gianluca Evangelista – Guitar
Massimiliano Pistore – Guitar
Diego Ponchio – Bass
Marco Andreetto- Drums

PERPETUAL FATE – Facebook

Eternal Candle – The Carved Karma

The Carved Karma è un lavoro ottimo, maturo benché i musicisti coinvolti siano ancora oggi relativamente molto giovani, convincente in ogni sua parte, sia quando vengono tessute dolenti melodie che rimandano al death doom sia quando è un’anima progressiva a prendere il sopravvento.

Le difficoltà nel proporre musica di un certo tipo nei paesi arabi i cui governi sono profondamente connessi alla religione islamica sono note a tutti ma questo non impedisce a musicisti meritevoli e capaci di porsi in evidenza sia pure magari in tempi più dilatati rispetto a quelli abituali.

È questo il caso degli iraniani Eternal Candle, il cui esordio The Carved Karma, nonostante abbia visto la luce nelle scorsa primavera, risale a circa sei anni fa e questo a ben vedere fa ancora più rabbia specialmente dopo essersi resi conto del valore intrinseco di quest’opera,
Togliendo subito qualsiasi dubbio in merito, va detto infatti che The Carved Karma è un lavoro ottimo, maturo benché i musicisti coinvolti siano ancora oggi relativamente molto giovani, convincente in ogni sua parte, sia quando vengono tessute dolenti melodie che rimandano al death doom sia quando è un’anima progressiva a prendere il sopravvento.
La band guidata da Mahdi Vaezpour non esprime un sound nuovo di zecca ma brilla nel fondere in maniera mirabile tutte quelle istanze musicali che, per fortuna, sono immuni a qualsiasi tipo di barriera fisica o mentale: tutto questo dà vita ad un’opera che, al di là delle inevitabili reminiscenze che può provocare in questo o quel passaggio, gode di un’impronta forte e della freschezza tipica delle band collocate geograficamente ai margini del mondo musicale che conta.
Volendo molto semplificare, gli Eternal Candle propongono un sound che risulta un’ideale punto di incontro tra i Novembers Doom e gli Opeth di Deliverance (a mio avviso l’ultimo dei lavori in cui Åkerfeldt ha saputo equilibrare al meglio le contrastanti pulsioni del suo immaginario musicale), ma è bene ribadire che ciò è utile solo ad inquadrare parzialmente la band asiatica in un ambito stilistico perché The Carved Karma offre decisamente molto di più di un compitino all’insegna del taglia e cuci.
Il malinconico e oscuro incedere del death doom viene costantemente incalzato dalle turbolenze progressive che si manifestano ora sotto forma di un riffing nervoso ora di eleganti arpeggi acustici per poi incontrarsi e stringersi in un saldo abbraccio quando è la chitarra dì Mahdi tesse splendide linee soliste
L’efficace tonalità harsh e growl di Babak Torkzadeh ben si sposa agli interventi con voce pulita dello stesso Vaezpour e tutto ciò avviene in maniera assai fluida, così come passaggi decisamente robusti si stemperano naturalmente in eleganti soluzioni melodiche.
L’album si rivela così compatto e senza punti deboli, tanto che si fatica a trovare un brano che spicca in particolare sugli altri, anche se The Ripped Soul, dovendo scegliere, si fa preferire perché incarna al meglio lo stile degli Eternal Candle, con l’alternanza tra il progressive death doom alla Novembers Doom della prima parte ed il sognante e melodico finale.
In The Carved Karma si rinvengono talvolta accenni ai Dark Suns del capolavoro Existence così come, in certe soluzioni strumentali, alla scena death doom melodica russa (non è casuale probabilmente il fatto che proprio da quelle parti si sia scelto di mixare e masterizzare il lavoro prima d’essere finalmente pubblicato).
Tutto questo va a comporre un quadro complessivo che rende doveroso dare una possibilità a questi valenti ragazzi iraniani, con la speranza che la loro ispirazione trovi nuovo impulso per offrirci altro materiale inedito di conio più recente.

Tracklist:
1. In the Absence of Us
2. The Ripped Soul
3. Sick Romance
4. A Path to Infinity
5. A Dismal Inhabitant
6. The Absurd Sanity
7. The Void
8. Hear My Cry
9. My Turn
10. Prayer of the Hopeless
11. A Wage of Affliction

Line-up:
Mahdi Vaezpour: Composer,Clean Vocal,Lead Guitar
Babak Torkzadeh: Growl And Harsh Vocal
Armin Afzali: Bass
Amir Taqavi: Electric Guitar
Josef Habibi: Drums

ETERNAL CANDLE – Facebook

Spleen Flipper – Myndbreyting

L’aggressività è notevole, i testi sono interessanti e personali, mai banali o scontati, il risultato è un graditissimo ritorno di un gruppo che scalcia tantissimo e non ti lascia tregua, e che insegna che l’attitudine non scompare, ma anzi è maggiore quando si fa qualcosa di originale e non di derivativo.

Dopo l’ultimo disco del 2013 The Will To Kill, tornano gli Spleen Flipper da Crema.

Il loro esordio uscì nel 2003 per la gloriosa Vacation House di Rudi Medea, lo storico cantante degli Indigesti. E’ passato molto tempo da allora, e giunti ai nostri cupi giorni il gruppo non ha perso nulla, anzi è tornato più aggressivo e carico di prima, con un ottimo ep. Il suono è un hardcore metal, con venature newyorchesi e non solo, eseguito con passione e credibilità. In questi quattro pezzi gli Spleen Flipper fanno ben presto capire che l’hardcore per loro è una cosa seria e fa parte della loro vita, non è un passatempo temporaneo o una moda. I nostri hanno il cuore dalla parte giusta, e dimostrano di essere un gruppo al di sopra della media, fin dai primi momenti dell’iniziale The Mirror Room, un pezzo che rende subito chiare le coordinate entro le quali si muovono i lombardi. Le radici sono nel terreno hardcore punk, il metal è molto presente, perché si arriva a contaminarsi con death e anche alcuni sprazzi di black. Il discorso musicale intavolato dal gruppo è molto ampio e verte su argomenti musicali che è bello veder veicolati ora, in un momento nel quale si era perso un certo tipo di hardcore metal, specialmente in Italia con la dipartita di alcuni gruppi storici. La lunghezza dei brani permette al gruppo di avere una struttura complessa che ne mostra la bravura compositiva. L’aggressività è notevole, i testi sono interessanti e personali, mai banali o scontati. Il risultato è un graditissimo ritorno di una band che scalcia tantissimo e non ti lascia tregua, e che insegna che l’attitudine non scompare, ma anzi è maggiore quando si fa qualcosa di originale e non di derivativo. Come suono ci sono momenti che rimandano direttamente all’epoca della suddetta Vacation House, e se avete voglia andate a riprendervi il loro catalogo, che oltre agli Spleen Flipper annoverava cosa davvero notevoli.

Tracklist
1.The mirror room
2.No escape
3.I have a dream
4.Falling

Line-up
Katta – chitarra
Nico – basso
Charlie – batteria
Catta – chitarra
Topper – voce

SPLEEN FLIPPER – Facebook

Nattravnen – Kult Of The Raven

Kult Of The Raven è l’ennesimo gioiello estremo nato dal talento di questi due grandi musicisti uniti sotto il monicker Nattravnen.

Dall’unione di due loschi personaggi dal talento estremo come il vocalist Kam Lee (ex-Death, ex-Massacre, The Grotesquery) e il polistrumentista Jonny Pettersson (Heads For The Dead, Wombbath, Henry Kane) non poteva che uscire grande musica oscura dai rimandi death/black.

Ispirato dalla leggenda del Night Raven, Lee ha scritto il concept che sta dietro a questo bellissimo album, mentre Pettersson, confermando il suo immenso talento, sfoggiato nei mostruosi lavori di Heads For The Dead e Wombbath (usciti in questi ultimi mesi) ha dato vita ad un mostruoso esempio di metallo oscuro e terrificante.
Death metal, atmosfere black e doom, creano un’atmosfera pregna di malevolo metallo estremo, con l’oscurità che si tocca con mano in queste nove tracce che compongono quest’opera maligna e dannata.
Accompagnato dalla splendida copertina creata da Juanjo Castellano e licenziato dalla Transcending Obscurity di Kunal Choksi (anche ideatore del logo del gruppo), Kult Of The Raven è un album in cui l’oscurità e il terrore scorrono sulla pelle dell’ascoltatore, circondato ed avvolto dal maligno incedere di brani nei quali la potenza del death metal viene intrisa di orchestrazioni horror black e i momenti di matrice doom non fanno che aumentare il senso di oppressione che attanaglia capolavori di musica nera come la pece.
Kam Lee regala un’interpretazione spaventosa in tutti i sensi, mostruoso quando il growl prende il sopravvento, da brividi quando i toni si fanno atmosferici e malati.
Dal primo all’ultimo brano si entra in un mondo di malvagia oscurità, i corvi banchettano con le nostre anime al suono debordante delle varie The Night Of The Raven, Upon The Sound Of Her Wings e The Anger Of Despair When Coping With Your Death, picco e sunto compositivo di questo bellissimo lavoro.
Kult Of The Raven è l’ennesimo gioiello estremo nato dal talento di questi due grandi musicisti uniti sotto il monicker Nattravnen.

Tracklist
1.The Night Of The Raven
2.Suicidium, The Seductress Of Death
3.Corvus Corax Crown
4.Upon The Sound Of Her Wings
5.Return To Nevermore
6.From The Haunted Sea
7.The Anger Of Despair When Coping With Your Death
8.Kingdom Of The Nattravnen
9.Kult Av Ravnen

Line-up
Kam Lee – Vocals and lyrics
Jonny Pettersson – All instruments

NATTRAVNEN – Facebook

Taur-Im-Duinath – Del Flusso Eterno

La ricchezza dei mondi tolkeniani si rispecchia in questo splendido disco di black metal cantato in italiano, che parla al cuore dipingendo bellissime e terribili immagini.

Bellissimo progetto solista di F. Oudeis, già coinvolto nell’altrettanto valido progetto black metal partenopeo Scuorn.

Taur-Im-Duinath in lingua Sindarin significa “foresta fra i fiumi”. La lingua Sindarin è uno dei molti linguaggi usati dagli elfi nei mondi inventati dal sommo Tolkien. In particolare il Sindarin è il linguaggio elfico più parlato in una regione di Arda, la Terra di Mezzo, durante la Terza Era, essendo l’idioma degli Elfi Grigi, coloro che rifiutarono di recarsi in Valinor come fecero i Noldor: “essi rimasero dunque nella Terra di Mezzo, e svilupparono una lingua propria” ( dal sito web https://ilrifugiodeglielfi.blogspot.com/2012/04/linguaggio-elfico-secondo-tolkien-il.html). La ricchezza dei mondi tolkeniani si rispecchia in questo splendido disco di black metal cantato in italiano, che parla al cuore dipingendo bellissime e terribili immagini. Il lavoro solista di Oudeis è davvero un qualcosa di straordinario, uno scrigno ricolmo di ricchezze dimenticato in un’ombrosa foresta, dove è stato poi ritrovato e portato fino a noi. Per chi possiede un po’ di amore per il black metal ortodosso molto vicino all’atomospheric, vivrà qui autentici momenti di illuminazione e stupenda bellezza. La voce è in italiano e si capisce tutto ciò che dice, anche grazie ad una produzione molto buona ed adeguata. Per capire ciò che vuole trasmetterci Taur-Im-Duinath bisogna che ognuno lo ascolti, poiché per ogni persona c’è un messaggio diverso contenuto in questo disco che va bene oltre la musica. In questi suono ed in queste parole c’è qualcosa di estremamente atavico che ci parla, uno spirito guida che ritorna dopo eoni a riprenderci, perché non siamo ciò che crediamo, e soprattutto ci sarà un nuovo inizio. La musica è bellissima ed evocativa, uno dei migliori black metal mai fatti in Italia, potente, melodico e affascinante. I testi smuoveranno anche i cuori più duri, non tanto per la tenerezza ma per la loro esoterica sincerità. Un disco da sentire e risentire, un piccolo capolavoro da conservare gelosamente.

Tracklist
1.Symbelmynë
2.Rinascita
3.Così Parlò il Tuono
4.Del Flusso Eterno
5.Hírilorn
6.Il Mare dello Spirito
7.Ceneri e Promesse
8.Mallorn

Line-up
F. Oudeis – All instruments, Vocals,Programming

TAUR IM DUINATH – Facebook

INNERO

Il video di “The Shaman”, dall’album “ChaosWolf”, in uscita a gennaio (Third I Rex).

Il video di “The Shaman”, dall’album “ChaosWolf”, in uscita a gennaio (Third I Rex).

Ecco a voi “The Shaman”, tratto dal disco d’esordio della band “ChaosWolf”, in uscita il 27 di Gennaio per l’inglese Third I Rex!
Per pre-ordini ed ulteriori informazioni recatevi al link 3rdirex.bandcamp.com!

The Black Crown – Entropy

Un suono malinconico e dalle atmosfere dark si muove tra crescendo emotivi di scuola Tool in questo buon lavoro, tra bassi pulsanti come cuori carichi di disagio, sfuriate metalliche di chitarre urlanti ed atmosfere dark rock dal buon groove, impreziosite da armonie pianistiche di delicato rock gotico.

I The Black Crown sono un progetto nato da un’idea del musicista campano Paolo Navarretta.

Il primo album intitolato Fragments fu licenziato dalla label statunitense Zombie Shark Records un paio di anni fa ed ora i The Black Crown tornano con Entropy, una raccolta di brani dal sound che ripercorre certo metal moderno e progressivo in voga in America negli anni novanta e nei primi anni del nuovo millennio.
Un suono malinconico e dalle atmosfere dark si muove tra crescendo emotivi di scuola Tool in questo buon lavoro, tra bassi pulsanti come cuori carichi di disagio, sfuriate metalliche di chitarre urlanti ed atmosfere dark rock dal buon groove, impreziosite da armonie pianistiche di delicato rock gotico.
L’album entra nel vivo dopo l’intro Venus: la tooliana Path che ci porta al centro delle visioni musicali del gruppo, con un Navarretta convincente nella parti vocali ed un sound che, anche nella successiva Furious, risulta un crescendo di emozionante musica alternative dal piglio dark.
Le ispirazioni che hanno aiutato Navarretta alla creazione di questo lotto di brani sono da rinvenire appunto in Tool, A Perfect Circle e Nine Inch Nails, poi sapientemente miscelate con suoni ed arrangiamenti di matrice dark rock per creare una musica malinconica come nella splendida Seeking, canzone che si poggia su un giro di piano di scuola Katatonia, unica concessione alla scena europea.
Entropy scivola via liquido e duro, drammatico e melodico, con ancora la pacata Consequences e la più nervosa Fade che scrivono la parola fine in un lavoro consigliato senza remore ai fans delle band citate e agli amanti del rock alternativo dalle tinte più oscure.

Tracklist
1.Venus
2.Path
3.Furious
4.Cage
5.Habit
6.Seeking
7.Turnaround
8.Consequences
9.Somewhere
10.Fade

Line-up
Alessandro Pascolo – Drums
Enzo Napoli – Bass
Antonio Vittozzi – Guitar
Paolo Navarretta – Vox & Guitar

THE BLACK CROWN – Facebook

MAYHEM – GRAND DECLARATION OF WAR

I comuni mortali da secoli attendono – costantemente, con trepidazione – un nuovo gesto, un improvviso cenno, un tanto agognato segno dai propri Dei. Così, molti di noi, si stanno ancora internamente arroventando, per l’aspettativa di un nuovo full-length dei mitici Mayhem. Purtroppo, anche questa volta, non sarà così. La nona ristampa su CD del mitico album del 2000 ci coccola, però, nella trepidante attesa di una nuova uscita.

Parlare dei Mayhem oggi, vorrebbe dire raccontare la storia di una delle band più famose al mondo, almeno in ambito estremo, ma soprattutto, significherebbe citare centinaia di aneddoti storici, sociali e culturali, di uno dei gruppi che più di tutti ha influenzato e sconvolto – da tutti i punti di vista – la scena Black Metal.

Di loro si è detto e scritto tantissimo; negli anni – tra finzione e realtà – vi si è creato intorno un alone epico, leggendario – meritatamente aggiungerei – che, oggi, fa dei Nostri non una band semplicemente storica, da cui attingere a piene mani, quale fonte di ispirazione, bensì un vero e proprio mito. Oggi, quasi si nominano i Mayhem sottovoce, per l’enorme rispetto che i fan (non solo blacksters) hanno per questi ragazzi norvegesi che, fin dal 1984, furono capaci di sconvolgere il mondo di allora, e non solo musicalmente! Tra Inner Circle, Helvete (oggi eretto a museo in quel di Oslo), chiese bruciate, show imperniati di lanci di sangue e teste suine, ma soprattutto tristemente diventati famosi per morti violente dei formers (chi può dimenticare lo sconvolgente suicidio di Dead – all’anagrafe Per Yngve Ohlin e l’altrettanto scioccante omicidio di Euronymous – all’anagrafe Øystein Aarseth – , per mano di un giovanissimo Varg Vikernes – alias Count Grishnackh, alias Burzum – oggi all’anagrafe Louis Cachet) e per le tante vicissitudini legali che ne conseguirono.
Spesso, le band che vivono la loro esperienza musicale in un contesto così sconvolgente, passando da un cambio di formazione ad un altro, tra traumatiche dipartite (anche nel senso letterale del termine), lunghe pause, ritorni e pseudo-collaborazioni che durano il tempo di una canzone, tendono – a lungo andare – a sciogliersi. In realtà i Mayhem hanno stoicamente proceduto di gran carriera (soprattutto grazie alla costanza e all’impegno di Hellhammer, oggi anima e cuore della band), giungendo ai giorni nostri , sicuramente con poche effettive produzioni (solo 5 album ufficiali in 34 anni…), ma hanno però contribuito a fomentare quell’alone di sacralità che li circonda, portando con sé fama e gloria, leggenda e miticità che, ancora nel 2018, non trovano eguali.
La ristampa dell’album qui recensito – la nona su CD per essere precisi!- non deve necessariamente aggiungere alcunché, se non semplicemente rendere nuovamente disponibile un masterpiece che, ancora oggi, dona emozioni ai fan. Grand Declaration Of War – uscito originariamente nel 2000 – trova ancora Maniac alla voce (Attila, dopo aver “prestato” le sue doti vocali per De Mysteriis Dom Sathanas, il primo mitico lavoro, si dedicò ad altri progetti quali – tra gli altri – Plasma Pool, Sunn O))), Aborym, e Korog, per poi ritornare in pianta stabile, solo nel 2007, in occasione dell’uscita di Ordo Ad Chaos), Blasphemer alla chitarra, Necrobutcher al basso e ovviamente il mitico Hellhammer.
E’ il primo full-length che vede il cambiamento del logo da Mayhem a The True Mayhem; album fortemente voluto da Hellhammer che, già nel 1995 con una nuova formazione, faceva uscire lo storico The Dawn Of The Black Hearts, il live bootleg semi-ufficiale, registrato in quel di Sarpsborg/Norvegia nel 1990, con in copertina originale, la foto tanto controversa del cadavere di Dead, e appunto il nuovo logo. Piccolo aneddoto su questo bootleg (che è tanto curioso quanto terrificante): la leggenda narra che fu proprio Euronymous a trovare il cadavere; lo stesso Aarseth avrebbe poi prelevato dal cranio del povero suicida, parti di ossa, con cui avrebbe “adornato” collane per i membri del Gruppo. Indignato da tale atto, Necrobutcher avrebbe lasciato la band, sostituito dal celeberrimo Vikernes. Se così fosse, viste le conseguenze di tale cambio di line-up, si potrebbe affermare chiaramente, che mai Fato fu così impietoso per il povero Euronymous…
Ma torniamo a Grand Declaration Of War; qui è palesemente dichiarato il netto distacco con il passato (che suscitò non pochi dubbi e critiche dai fan di allora). Un album sicuramente più maturo, più complesso e – per dirla tutta – molto progressive, sia quasi letteralmente (un album davvero “progressista” per quei tempi) sia nel senso musicale del termine. Già dalla title-track si percepisce il forte cambiamento: orientamenti sonori, oggi accostabili più ad un Avantgarde che al puro vecchio Black. Il sovente utilizzo della “clean voice” (come anche nella successiva In The Lies Where Upon You Lay) fa presupporre che con questo album i Mayhem volessero dare una svolta decisiva al loro sound. Un album molto articolato, con una struttura davvero inusuale per quel tempo (e per i Mayhem stessi). Decisi inserti di elettronica – come in A Bloodsword And A Colder Sun e in Completion In Science Of Agony), rendono ancor più interessante l’opera intera, corroborata dalla tecnica sopraffina di Blasphemer (lontano anni luce dal grezzo, rozzo, sporco – ma non meno favoloso – guitar sound del compianto predecessore). I cambi di tempo sono impressionanti: da cadenzati mid-tempo a feroci up-tempo, da marce militari e rulli di tamburi, a variegate scale Death Prog, un po’ à la Necrophagist, o meglio ancora à la Cynic (come in View From Nihil). Grand Declaration Of War è – in definitiva – un capolavoro di tecnica, novità (per quegli anni) e originalità. Un album mai noioso, che riserva sempre sorprese dietro l’angolo: assaporate To Daimonion che, dopo un intro sci-fi, si libra in un Heavy Funk Prog (vagamente Mordred di Fool’s Game) imperniato da sublimi ritmiche Thrash, ove lo scream Black non imperversa mai, bensì si miscela in un sublime divino coniugio.
Scontentò molti allora, ne incuriosì altrettanti; ma oggi – abituati come siamo, a questo imperversare di generi e sottogeneri, nuove influenze musicali e nuove suggestioni sonore, che spesso impreziosiscono il nostro caro Black Metal – si può affermare con assoluta certezza, che è amato da tutti.

Tracklist
1. A Grand Declaration of War
2. In the Lies Where upon You Lay
3. A Time to Die
4. View from Nihil (Part I of II)
5. View from Nihil (Part II of II)
6. A Bloodsword and a Colder Sun (Part I of II)
7. A Bloodsword and a Colder Sun (Part II of II)
8. Crystalized Pain in Deconstruction
9. Completion in Science of Agony (Part I of II)
10. To Daimonion (Part I of III)
11. To Daimonion (Part II of III)
12. To Daimonion (Part III of III)
13. Completion in Science of Agony (Part II of II)

Line-up
Maniac – Vocals
Blasphemer -Guitars
Necrobutcher -Bass
Hellhammer -Drums

MAYHEM – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=3yxrje6jNJ0

Sacrificium Carmen – Hermetica

Non sarà nulla di nuovo o di particolarmente impressionante, ma un disco come Hermetica lo si potrebbe ascoltare anche tutti i giorni senza provare alcun senso di stanchezza.

Il secondo full length dei finlandesi Sacrificium Carmen è un lavoro che dimostra come e quanto il black metal sia genere in grado di offrire lavori di grande spessore, pur restando nell’ambito di un’interpretazione piuttosto tradizionale.

Un valore aggiunto riscontrabile in Hermetica è una freschezza compositiva traducibile in un incedere trascinante che non mostra momenti di pausa nel corso di questi cinquanta minuti: un bel progresso, anche a livello qualitativo, per la band di Tampere, visto che il precedente Ikuisen tulen kammiossa superava di poco la mezz’ora di durata.
Ritmiche indiavolate sostengono un lavoro chitarristico spesso rivolto alla creazione di melodie ben fruibili, mentre Hoath Cambion strepita con il suo screaming liriche in lingua madre che, per quanto ci è dato sapere, non esulano dalle consuete tematiche (occultismo, satanismo e quant’altro).
Ciò che impressiona nell’operato dei Sacrificium Carmen è l’impatto prorompente che trova sfogo in maniera mirabile in tracce come la title track e Mysteerion nietoksilla: quello dei finnici è un black metal in linea con la propria provenienza, facendo proprie le pulsioni melodiche del metal estremo e amalgamandole con la misantropica furia del genere nella sua espressione tradizionale.
Non mancano travolgenti derive black’n’roll a rendere ancora più fruibile un lavoro che riesce a far convivere l’asprezza del black primevo con una scorrevolezza che non è affatto cosa scontata. Non sarà nulla di nuovo o di particolarmente impressionante, ma un disco come Hermetica lo si potrebbe ascoltare anche tutti i giorni senza provare alcun senso di stanchezza.

Tracklist:
1. Alttaritaulut
2. Kaitselmuksen tähti
3. Mysteerion nietoksilla
4. Hermetica
5. Valheennäkijä, kuoleva mestari
6. Noidanpolku
7. Valonkantajan adventti
8. Arvet & henki

Line-up:
Hypnos – Bass
Advorsvs – Guitars
Profostus – Guitars
Hoath Cambion – Vocals
Xeth – Drums

SACRIFICIUM CARMEN – Facebook

Crippled Black Phoenix – The Great Escape

Ci sono concatenazioni sonore che sono tipiche del gruppo di Waters, Gilmour e soci, e poi c’è quel tocco in stile Mogwai in libera uscita che è qualcosa di bellissimo.

Quando sei un collettivo che annovera fra i propri membri molti nomi fra il meglio della scena psichedelica mondiale e specialmente quella inglese non è facile fare ottimi dischi e non sbagliarne uno, ma i Crippled Black Phoenix ci riescono anche questa volta.

Tutte le dilatate note di questo ultimo lavoro valgono la pena di essere ascoltate e sofferte, perché qui c’è il fumo che esce dallo specchio rotto delle nostre esistenze. Ogni disco del collettivo britannico ha rappresentato un episodio particolare e a sé stante, nel senso che ogni volta era uno splendido capitolo a parte, un qualcosa di assoluto. Il filo che lega tutti i loro dischi è la qualità, la bravura nel creare un’atmosfera oppiacea e particolarissima, e in The Great Escape ci si può immergere e non ne uscirete come prima. Qui siamo maggiormente nei territori dello slow core, ma con un disegno assai più ampio di quello a cui ci hanno abituato gli altri gruppi. Personalmente, e come tutte le visioni soggettive può essere sbagliata, ho sempre visto i Crippled Black Phoenix come la versione moderna e in certi frangenti migliore dei Pink Floyd, e questo lavoro rafforza ulteriormente la mia convinzione. Ci sono concatenazioni sonore che sono tipiche del gruppo di Waters, Gilmour e soci, e poi c’è quel tocco in stile Mogwai in libera uscita che è qualcosa di bellissimo. Come detto sopra ogni disco è a sé, e qui addirittura ogni canzone vive in uno proprio stato, sempre di grazia ma con sfumature diverse. Il lavoro questa volta è doppio, anche perché ogni canzone è di lunga durata, e questo gruppo riesce a fare brani di nove minuti come il singolo To You I Give ( sentite i primi due minuti della canzone e pensate a chi somigliano…) dei quali non si ha mai abbastanza. Nell’underground questo collettivo ha una grande e solida reputazione ed è più che meritata, ogni album è sempre ottimo e denota un ulteriore avanzamento. Il primo disco è più lento, nel secondo invece ci sono delle cose più veloci, quasi tribali, ma sempre uniche e particolari. I Crippled Balck Phoenix sono uno dei gruppi migliori e più originali della scena underground, da sentire e risentire sia questo disco che tutta la loro produzione.

Tracklist
1 You Brought It Upon Yourselves
2 To You I Give
3 Uncivil War (Pt I)
4 Madman
5 Times, They Are A’Raging
6 Rain Black, Reign Heavy
7 Slow Motion Breakdown
8 Nebulas
9 Las Diabolicas
10 Great Escape (Pt I)
11 Great Escape (Pt II)
12 Hunok Csataja (Bonus)
13 An Uncivil War (Pt. I & II) (Bonus)

Line-up:
Justin Greaves
Daniel Änghede
Mark Furnevall

Ben Wilsker
Tom Greenway
Jonas Stålhammar
Belinda Kordic
Helen Stanley

CRIPPLED BLACK PHOENIX – Facebook

Rigor Sardonicous – Ridenti Mortuus

Il funeral, nell’interpretazione del duo di Long Island, è quanto mai essenziale e minimale ed è rivolto perciò a chi apprezza il genere nella sua versione più ottundente e meno atmosferica.

I Rigor Sardonicous sono una delle realtà più longeve in ambito funeral doom sul suolo statunitense, considerando che il loro primo demo è datato 1994, anche se il primo dei loro sei full length ha visto la luce (si fa per dire…) solo nel 1999.

Ridenti Mortuus è un ep che rompe un silenzio lungo sei anni e l’occasione, colta peraltro da molte altre band in ambito metal, è stata quella di pubblicare un lavoro collegato alla ricorrenza del centenario della fine della prima guerra mondiale.
Il funeral, nell’interpretazione del duo di Long Island, è quanto mai essenziale e minimale ed è rivolto perciò a chi apprezza il genere nella sua versione più ottundente e meno atmosferica: del resto il genere in questo frangente non assume sembianze consolatorie ma semmai è volto a ribadire come in generale la vita sia quello schifo che molti pensano, con l’inclusione di una (in)sana dose di misantropia ad appesantire il tutto anche a livello concettuale.
Ridenti Mortuus non lascia respiro, schiaccia ed opprime senza soluzione di continuità e a nulla valgono le rare rarefazioni del sound per sfuggire alla morsa; poi, paradossalmente, l’album si chiude con l’incremento ritmico di Intereo Parum Infantia, primo ed unico elemento di discontinuità di un lavoro che offre oltre mezz’ora di growl catacombali e suoni ribassati all’inverosimile.
Chi è pronto a subire tutto questo, troverà anche più di un perché nell’ascolto di questo ritorno dei Rigor Sardonicous che racchiude, in qualche modo, la quintessenza del funeral nella sua forma più primitiva e priva di alleggerimenti di sorta.

Tracklist:
1. The Smiling Dead
2. The Hound
3. The Unsepulchered Dead
4. Intereo Parum Infantia

Line-up:
Glenn Hampton – Bass
Joseph J. Fogarazzo – Vocals, Guitars

RIGOR SARDONICOUS – Facebook

Althea – The Art Of Trees

Una cascata di note che non mantiene prigionieri gli Althea in un determinato spazio temporale, ma permette loro di muoversi a piacimento tra il rock progressivo di ogni epoca.

E’ incredibile come la musica sia capace di troncare ogni parola superflua e dare sempre una risposta, zittire tutti e regalare a coloro che la colgono una via di fuga al piattume di una società con poche certezze e tanta stupidità.

Drammi che lasciano posto ad una sequela di frasi senza capo ne coda e che l’uomo saggio dovrebbe ignorare, cercano risposte tra le trame splendide di opere come il secondo lavoro su lunga distanza degli Althea dopo le meraviglie progressive di Memories Have No Name, licenziato un paio di anni fa e tornato lo scorso anno in versione fisica tramite la Sliptrick Records, etichetta che licenzia anche questo bellissimo The Art Of Trees.
Dario Bortot e compagni, da band collaudata, non cambiano di molto il proprio sound rispetto al primo lavoro. gli Althea hanno un loro approccio alla musica progressiva che li fa riconoscere immediatamente, sempre supportati da produzioni ed arrangiamenti di livello superiore e da un’alternanza tra le parti metalliche e quelle più soft che, oltre ad essere assolutamente personali, sono anche il loro maggior pregio.
Una musica delicata, raffinata ed elegante, supportata da un talento melodico straordinario si muove sinuosa tra le partiture progressive dei brani: una cascata di note che non mantiene prigionieri gli Althea in un determinato spazio temporale, ma permette loro di muoversi a piacimento tra il rock progressivo di ogni epoca.
Gli Althea sono bravi a non lasciarsi attrarre troppo da soluzioni cervellotiche e, invece di limitarsi ad esibire al mondo le loro capacità tecniche, lasciano che siano le emozioni scaturite dalla voce di Bortot e dalle splendide melodie di brani come One More Time, Evelyn, The Art Of Trees e Away From Me a prendere per mano l’ascoltatore accompagnandolo in questo bellissimo viaggio a ritroso in una vita che potrebbe essere quella di ciascuno di di noi.

Tracklist
01. For Now
02. Deformed to Frame
03. One More Time
04. Today
05. Evelyn
06. Not Me
07. The Shade
08. The Art of Trees
09. Away From Me feat. Michele Guaitoli
10. Burnout

Line-up
Dario Bortot – Guitars, Keys & Synths
Alessio Accardo – Vocals
Sergio Sampietro – Drums
Andrea Trapani – Bass

ALTHEA – Facebook