Proliferhate – Demigod Of Perfection

Demigod Of Perfection è un bellissimo esempio di prog death di matrice tradizionale, lontano dalle ispirazioni post rock di molti gruppi odierni o da tecnicismi esasperati, quindi rivolto più ad emozionare che a perdersi in ghirigori esecutivi fini a sé stessi.

Dopo i Brvmak, fuori con il bellissimo In Nomine Patris, ecco che la scena estrema tricolore ci regala un altro gioiellino di death metal, maturo e progressivo: la seconda opera dei Proliferhate, band torinese attiva dal 2012 ed arrivata sul mercato con il debutto In No Man’s Memory, datato 2015.

Demigod Of Perfection è un bellissimo esempio di prog death di matrice tradizionale, lontano dalle ispirazioni post rock di molti gruppi odierni o da tecnicismi esasperati, quindi rivolto più ad emozionare che a perdersi in ghirigori esecutivi fini a sé stessi.
L’album è dunque un’ottima esibizione di metal estremo, che trova spazio nei tanti e repentini cambi di atmosfera, in un’altalena assolutamente riuscita tra tempeste metalliche di stampo old school e pacati momenti di musica progressiva, rock ma soprattutto jazz.
Questo continuo mutare atmosfere e tensioni musicali porta ad un sound che, pur rifacendosi ai soliti nomi del metal estremo di fine secolo scorso, ha nella personalità la sua massima forza, in virtù di un’espressività che porta la band a confrontarsi con nomi storici senza timori reverenziali.
E facciamoli questi nomi: Opeth e Between the Buried and Me su tutti, anche se, come scritto, il gruppo torinese si districa bene quel tanto che basta per non risultare una band clone, grazie alle tante digressioni jazz/fusion che sull’album abbondano e rendono l’ascolto molto interessante.
La tecnica c’è, si sente ma non è la virtù primaria dei Proliferhate, risultando ben inserita nel sontuoso songwriting di cui si possono vantare brani del calibro di Conjuring the Black Hound, The Frailty of a Tender Soul e Naked Monstrosity.
In conclusione Demigod Of Perfection è un lavoro che conferma i Proliferhate come una delle band da seguire con più attenzione nel suo cammino nel mondo del metal estremo progressivo.

Tracklist
1. Prologue to Damnation
2. Conjuring the Black Hound
3. Auerbach’s Vineyard
4. The Frailty of a Tender Soul
5. Oberon
6. Naked Monstrocity
7. A Shadow from an Ancient Past
8. Euphorion
9. Demigod of Perfection
10. Elegant in Decay

Line-up
Omar Durante – Vocals/Guitar
Andrea Simioni – Bass
Daniele Varlonga – Drums
Lorenzo Moffa – Rhythm Guitar

PROLIFERHATE – Facebook

METEORE: ASTAROTH

Tra le più oscure entità musicali di una Polonia appena uscita dagli anni della Guerra fredda: quattro musicisti ottimamente preparati che hanno lasciato un solo leggendario disco

Formatisi nel 1988, a Bielsko-Biala, i polacchi Astharoth si fecero notare ai festival Metal Battle e Metalmania, l’anno seguente.

Nel 1990, uscì il loro unico disco: un concentrato di thrash, sia tecnico sia violento, che non aveva veramente nulla da invidiare ai più quotati colleghi europei e americani, con liriche interessanti dedicate a sogni ed incubi degli esseri umani, differenti pertanto da quanto si proponeva, allora, a livello testuale. Gloomy Experiments – oggi finalmente ristampato, dalla Metal Mind, in tiratura limitata, a duemila copie (l’originale era andato presto esaurito e si era trasformato in una vera e propria chicca, per collezionisti) – rimase purtroppo una meteora. Il fatto di provenire geograficamente da un paese arretrato, che iniziava solo allora a rialzarsi, e la crisi che dal 1991 finì per investire tutto il movimento thrash a livello mondiale fecero cadere gli Astharoth nell’oblio. Non bastarono quattro demo, passati di fatto del tutto inosservati. La band si divise nel 1994: altri suoni andavano ormai per la maggiore. Ma fu una fine ingiusta e non meritata. Da rivalutare senza remore o dubbi.

Track list
1- Gloomy Experiments
2- Speed of Light
3- Obsession
4- Tool of Crime
5- Amnesia
6- Mirror’s World
7- Good Night My Dear
8- Insomnia
9- My Difference

Line up
Jarek Tatarek – Vocals, Guitars
Dorota Homme – Guitars
Witold Wirth – Bass
Dariusz Malysiak – Drums

Jamaica Suk – Whispers Ep

Ottima techno fatta da una metallara, che va ben oltre i generi.

Ep di techno claustrofobica, con accenni di industrial e con una struttura musicale molto vicina al metal.

La produttrice americana Jamaica Suk, trapiantata a Berlino, è una dei nomi più caldi della attuale scena techno internazionale, e lo dimostra molto bene con questo ep. Whispers contiene tre tracce molto potenti e che vanno dritte al bersaglio. Jamaica Suk ha radici metal che ha coltivato essendo nata in una zona a forte concentrazione di suoni metallici, ovvero la Bay Area di San Francisco. Da giovane ha suonato il basso in gruppi math, grindcore e jazz, ed infatti le sue strutture sonore sono molto superiori a quelle della media degli altri produttori. Jamaica riesce a portare a livelli molto alti la tensione sonora, con un uso imponente del basso e dei synth, non lasciando mai tregua all’ascoltatore, come se fosse metal suonato dai computer. Per chi apprezza la techno Whispers è un gran bel catalogo di cosa si possa fare nel regno della techno più dark ed eterodossa, mentre per chi vuole scoprire queste sonorità è un gran bel punto di partenza. Ascoltando l’ep ci sono anche molti riferimenti a colossi del genere, ma la sintesi è strettamente originale, tutta opera di Jamaica Suk. Dissonanze, bassi che spingono e tanta oscurità resa da strumenti elettronici dipingono un quadro perfettamente in linea con le distopie che stiamo vivendo, e questo ritmo è il battito delle nostre vite. Ottima techno fatta da una metallara, che va ben oltre i generi.

Tracklist
1. Stinger Ray
2. Fallen
3. Whispers
4. Twilight Rain

JAMAICA SUK – Facebook

NOISKIN

Il video di “Haze”, dall’album “Hold Sway Over” in uscita a gennaio (Freemod).

Il video di “Haze”, dall’album “Hold Sway Over” in uscita a gennaio (Freemod).

La band Alternative Metal Noiskin annuncia l’album di debutto “Hold Sway Over”.

I Noiskin sono un gruppo Alternative Metal di Bergamo nato nel 2015 dall’unione di 4 musicisti provenienti da diverse realtà musicali.

Dopo un anno dalla formazione rilasciano il loro primo singolo “Haze” accompagnato da un caratteristico videoclip girato tra le montagne del Trentino e distribuito da Vevo.
Il gruppo si esibisce in diverse manifestazioni tra cui Rockin Park, Clamore Festival, Emergenza Festival e nel frattempo scrive nuovi brani che porteranno alla realizzazione delle 10 tracce di “Hold Sway Over”; album di debutto che uscirà il prossimo 19 Febbraio per l’etichetta Freemood ed edizioni Tanzan Music.

Il disco è stato registrato e mixato da Francesco Benelli e masterizzato da Michele Luppi, tastierista degli Whitesnake.

L’uscita dell’album verrà preceduta dal singolo e title track del disco “Hold Sway Over”, che verrà pubblicato il 17 Gennaio assieme ad un nuovo videoclip.

Lineup:
Voce e Chitarra Ritmica: Luca Taverna,
Chitarra solista e Cori: Marco Depriori,
Basso: Simone Tarenghi,
Batteria: Federico Bombardieri.

Moloch – The Experiment

The Experiment è un altro tassello posto da quello che oggi si sta confermando uno dei migliori e più credibili esponenti della scena dark synth.

Ritorna il geniale esponente polacco della darkwave elettronica con questo singolo contenente tre brani inediti più la riproposizione del cavallo di battaglia F.E.A.R.

Moloch possiede la dote di collocare la propria musica su un terreno raggiungibile da svariati punti di partenza, quindi anche per chi vi giunge da un background metal; del resto una traccia magnifica come The Experiment, pur nel suo essere tremendamente attuale, profuma intensamente di Ultravox e Kraftwerk, entità che fanno parte del vissuto di molti appassionati di musica a 360°.
Un quarto d’ora di puro e danzereccio godimento sonoro è quanto scaturisce da questo lavoro ispirato ai primi due film della serie Specie Mortale (Species), all’insegna di un horror fantascientifico che si rivela un’ideale accompagnamento visivo alla musica di Moloch.
The Experiment è un altro tassello posto da quello che oggi si sta confermando uno dei migliori e più credibili esponenti della scena dark synth.

Tracklist:
01. The Experiment
02. She Has Returned!
03. Catch-22
04. F.E.A.R. (Bonus)

MOLOCH – Facebook

SELDON

Il videoclip di “Corpo e anima”, dall’album “Per quale sentiero” (Suburbansky Records).

Il videoclip di “Corpo e anima”, dall’album “Per quale sentiero” (Suburbansky Records).

“Per quale sentiero”, nuovo album della band Alt/Progressive SELDON, è in uscita questo venerdì 14 dicembre per SUBURBANSKY RECORDS, tramite Audioglobe e The Orchard.

Il nuovo album dei Seldon “Per Quale Sentiero” affronta una profonda esplorazione dei territori del progressive e anche del jazz-rock. I sette brani hanno una durata consistente e sono pregni di parti strumentali intense e raffinate, accostate a testi pieni di suggestioni surreali, drammatiche e fantascientifiche, con riferimenti sempre più diretti al mondo immaginifico di Asimov. Il titolo, che è una title track, sta a significare la metafora ricorrente all’interno del disco dell’esplorazione o del viaggio dentro noi stessi, comunque sempre verso una destinazione ignota.

CONTATTI BAND:
www.facebook.com/Seldon-154619527891984/

LABEL:
http://www.suburbansky.it

Scarlet Aura – Hot’N’Heavy

Melodie che si incastrano tra ritmiche potenti, accenni thrash impastati di groove e solos di stampo classico compongono le dodici nuove tracce di Hot’n’Heavy, un macigno sonoro che perde qualcosa in eleganza ma acquista in potenza ed impatto.

Tornano sul mercato gli Scarlet Aura, band rumena capitanata dalla singer Aura Danciulescu, bellissima e grintosa vocalist che, lontano dalle sirene power gothic metal sfoggia una voce da vera pantera metallica.

Il debutto Falling Sky aveva ben impressionato presentando un gruppo con la propria personalità e pronto per accompagnare in tour la divina Tarja Turunen.
Il nuovo album conferma il valore del quartetto di Bucarest, rivelandosi più metallico rispetto al suo predecessore, licenziato dalla band in concomitanza con il primo libro scritto dalla Danciulescu, The Book of Scarlet- Ignition.
Questa volta la band picchia da par suo, l’hard rock è a metà strada tra quello tradizionale e quello moderno pendendo più verso il secondo aspetto, e i brani risultano pregni di groove, aggressivi e metallici così come più arrabbiata è la voce della singer.
Melodie che si incastrano tra ritmiche potenti, accenni thrash impastati di groove e solos di stampo classico compongono le dodici nuove tracce di Hot’n’Heavy, un macigno sonoro che perde qualcosa in eleganza ma acquista in potenza ed impatto.
La bella vocalist torna in parte alle melodie del primo album sulle note ottantiane di Glimpse In The Mirror, Silver City e nella ballad Light Be My Guide, mentre il resto dell’album, come già descritto, calca la mano sull’aggressività regalando momenti di hard & heavy duro come l’acciaio in Hail To You, o nel macigno che sono la title track e Let’s Go Fucking Wild.
Ritorno assolutamente degno dei complimenti ricevuti per il primo lavoro, Hot’n’Heavy non deluderà gli amanti del rock duro.

Tracklist
1.The future becomes our past
2.Hail to you
3.In the name of my pain
4.Hot’n’heavy
5.Fallin’ to pieces
6.Glimpse in the mirror
7.You bite me I bite you back
8.Hate is evanescent, violence is forever
9.Silver city
10.Light be my guide
11.Let’s go fuckin’ Wild

Line-up
Aura Danciulescu – Lead Vocals
Mihai Thor Danciulescu – Lead Guitars and Vocals
Rene Nistor – Bass Guitar
Sorin Ristea – Drums

SCARLET AURA – Facebook

Zero – Waves Of Grief, Seas Of Regrets

In un genere nel quale molti pensano che si possa fare la differenza con una vocina pulita e qualche strillo, band come gli Zero portano tanta qualità ed un impatto devastante che disegna sorrisi soddisfatti sulle labbra degli amanti del metal estremo e moderno.

Metallo moderno e progressivo, una potente miscela di metalcore e djent che non lascia indifferenti per songwriting e livello esecutivo dall’alto tasso tecnico.

Tutto questo troverete in Waves of Griefs, Seas of Regrets nuovo lavoro dei nostrani Zero, band veneta nata tre anni fa dalle ceneri degli Zero Fucks Given, band metalcore trasformatasi in una nuova realtà, molto più matura e personale.
Proprio il metalcore, genere abusato in questi anni dalle nuove leve del metallo mondiale, si trasforma nelle mani degli Zero in un mostro musicale che non lascia scampo per tecnica esecutiva, violenza ed impatto, non perdendo un grammo di attitudine melodica in un contesto comunque estremo.
Nessuna concessione al metal adolescenziale da radio rock: in Waves Of Grief, Seas Of Regrets ci si imbatte in una tempesta di note e suoni di spessore, in mareggiate ritmiche che passano da cambi di tempo repentini a potentissimi stacchi core, in un lavoro chitarristico di prim’ordine ed una growl che ricorda il melodic death metal.
Nove brani che non fanno prigionieri prendono il via con l’intro strumentale Overwhelming Waves ed esplodono in tuoni e fulmini metallici già da Goodbye, Brother Sea, il brano più vecchio del lotto e da un paio di anni supportata da un lyric video.
Le tracce che compongono l’album non lasciano trasparire punti deboli e il gruppo di Thiene ne esce alla grande convincendo con la sua padronanza della materia e brani a tratti entusiasmanti (Stronger Than Ever, la title track, Choosing Oblivion).
In un genere nel quale molti pensano che si possa fare la differenza con una vocina pulita e qualche strillo, band come gli Zero portano tanta qualità ed un impatto devastante che disegna sorrisi soddisfatti sulle labbra degli amanti del metal estremo e moderno.

Tracklist
1.Overwhelming Waves
2.Goodbye, Brother Sea
3.Before You Judge
4.Stronger Than Ever
5.The Way Through
6.Waves of Griefs, Seas of Regrets
7.Future Debts
8.Choosing Oblivion
9.Yearning Shores

Line-up
Marco Zavagnin – vocals
Jacopo Bidese – drums
Tommaso Corrà – guitars
Matteo Nardello – bass

ZERO – Facebook

Felis Catus – Answers To Human Hypocrisy

Felis Catus è uno splendido visionario e ogni suo disco è particolare, ma forse questo Answers To Human Hypocrisy è davvero il migliore, sicuramente da sentire se si vuole correre liberi per terreni lunari e guardare le nostre vite dall’alto.

Il metal, e i suoi tanti sottogeneri, possono servire a tante cose, a scatenarsi o a dimenticare qualcosa, e in questo caso è un affilato strumento di ricerca, dentro e fuori di noi.

Fin dalla bellissima intro Babylon Returns si capisce che il progetto di Francesco Cucinotta, voce e chitarra dei catanesi Sinaoth, che è partito nel 2010, è di grande spessore ed è giustamente ambizioso. Come per il precedente Banquet On The Moon, Felis racconta delle storie, sviluppando narrazioni per andare oltre la musica, coinvolgendo altre discipline ed emozionando sempre. Felis Catus ci porta lontano, in altre dimensioni, dove il mondo e l’uomo sono visti da angolazioni non usuali. Anche la musica, suprema regina del regno di Felis Catus, non è per nulla ascrivibile a qualche genere o sottogenere in particolare, tutto fluttua ed è usato come si userebbero dei costumi di scena in un’opera teatrale. Troviamo del black metal, come dell’elettronica, alcuni momenti di illuminata improvvisazione e poi musica da film e molto altro. Non ci si muove per canzoni, ma per visioni, e la vena di Cucinotta è praticamente irresistibile, essendo egli una di quelle anime musicali di grandissimo talento che, se fosse nato trecento anni fa, sarebbe stato un eccellente compositore di musica classica. Per fortuna nostra ama il metal e ci regala qualcosa che va ben oltre il mondo metallico e anche la gamma delle nostre percezioni, questa è musica che è da ascoltare con attenzione, descrive le nostre vite umane, corte, tristi e faticose, perché questa è la realtà, poi possiamo raccontarci quello che si vuole. Felis Catus è uno splendido visionario e ogni suo disco è particolare, ma forse questo Answers To Human Hypocrisy è davvero il migliore, sicuramente da sentire se si vuole correre liberi per terreni lunari e guardare le nostre vite dall’alto.

Tracklist
01 Babylon Returns
02 Apocatastasis
03 Bohémien Bizarre
04 Through The Centuries
05 Commemoration
06 Ophis (Felix Culpa)
07 Somewhere
08 Wine And Roses
09 Jakob Lorber
10 Night Gaunts
11 Cupio Dissolvi
12 La Bàs
13 Ruins Of Shining Grace (Bonus Track)

FELIS CATUS – Facebook

Cult of Self Destruction – Exitium

Exitium costituisce per i Cult of Self Destruction una discreta base di partenza sulla quale provare costruire qualcosa di ancor meglio focalizzato nel prossimo futuro.

Esordio su lunga distanza per questo duo spagnolo denominato Cult of Self Destruction, con Exitium, anticipato quest’estate dal singolo Descending to the Deepest of the Abyss.

E’ proprio questo il brano che di fatto apre il lavoro dopo la breve intro: il sound offerto dagli iberici è un black death ben costruito e dal gradevole impatto, anche melodico, sul quale incombe un suono della batteria troppo secco e preponderante sul resto della strumentazione.
Uno squilibrio, questo, che non inficia comunque il lavoro complessivo di P. e M., capaci di offrire nel corso di questi trentacinque minuti una buona dimostrazione di efficienza, all’interno della quale manca solo quella scintilla decisiva in grado di far spiccare il volo ai Cult Of Self Destruction.
Infatti, l’album arriva al termine senza annoiare ma senza neppure provocare quei sussulti che ognuno si attende nel corso dell’ascolto: nel ribadire che il suono della batteria alla lunga si rivela un elemento vagamente di disturbo, troviamo un brano emblematico come Sui Caedere che, a tratti, sembra indicare la strada ideale da percorrere, con il suo incedere diretto e incalzante, opportunamente spezzato da un break centrale che crea i presupposti per una ripartenza a ritmi sempre serrati.
Exitium costituisce per i Cult of Self Destruction una discreta base di partenza sulla quale provare costruire qualcosa di ancor meglio focalizzato nel prossimo futuro.

Tracklist:
1. Initium
2. Descending to the Deepest of the Abyss
3. Misanthropic Condition
4. Moon on Saturn
5. Sui Cædere
6. We Will Be Wolves
7. Until the Dying
8. The Curse of the Witch
9. Exitium

Line-up:
P. – Guitars, Bass, Keyboards, Drums
M. – Vocals, Drums, Keyboards, Samplers

SIEGE

Il video di “Mummified”, dall’album “Autumn Of Earth – Spirit Of Agony Pt 2″

I Siege presentano il nuovo video di “Mummified”, che anticipa l’uscita dell’album “Autumn Of Earth – Spirit Of Agony Pt 2.

Video by Stefano Mastronicola.

Foto by Melissa Ghezzo.

www.facebook.com/Siegeofficial

Sylvaine – Atoms Aligned, Coming Undone

La sensibilità artistica di Sylvaine si concretizza soprattutto nei brani in cui la sua eterea interpretazione è l’ideale completamento di un sound atmosferico e sognante, ma non dispiace neppure imbattersi in qualche ruvidezza che ci ricorda che anche le creature più angeliche nascondono un loro lato oscuro.

Quando ci si trova a dover parlare del disco di un’artista non proprio tra i più noti, il fatto che compaia tra gli ospiti invece qualche nome “pesante” spinge in maniera istintiva a fare accostamenti che talvolta si rivelano fuorvianti, soprattutto perché finiscono per spostare l’attenzione a margine degli album invece che focalizzarsi sui loro effettivi contenuti.

Il fatto che, ancora una volta, la brava ed affascinante Sylvaine si avvalga della collaborazione di Stephan Paut (alias Neige) rende automatico l’avvicinare il progetto solista della musicista norvegese agli Alcest; tale abbinamento è sicuramente fondato, ma non deve però far pensare però che tale imprimatur faccia scadere una album come Atoms Aligned, Coming Undone nel calderone delle copie sbiadite di una qualcosa di già sentito.
Il post rock/shoegaze di Sylvaine è più personale di quanto non possano farci presumere tutti questi indizi e se l’impronta melodica che traspare in gran parte del lavoro ci riconduce sicuramente nei pressi di Les Voyages de l’âme e dintorni, è fuor di dubbio che la suadente voce femminile ed un approccio molto più soffuso, talvolta rarefatto, conferiscono al tutto una fisionomia propria piuttosto lontana da una conclamata derivatività.
Non resta quindi che godersi l’incedere per lo più morbido, ma non privo di un fondo di inquietudine che (questo sì) è tratto comune di chi si cimenta con queste sonorità. La sensibilità artistica di Sylvaine si concretizza soprattutto nei brani in cui la sua eterea interpretazione è l’ideale completamento di un sound atmosferico e sognante (Worlds Collide, per esempio), ma non dispiace neppure imbattersi in qualche ruvidezza che ci ricorda che anche le creature più angeliche nascondono un loro lato oscuro, pronto a travolgerci con disperati soprassalti sonori (Mørklagt).
Se poi, alla fine, si tratta di rispondere a qualcuno che ci chiede se Atoms Aligned, Coming Undone sia un album consigliato agli estimatori degli Alcest e della conseguente genia, la risposta è ovviamente sì, ribadendo però con forza che quanto offerto da Sylvaine non è solo una bella copia bensì un’opera di grande qualità che è, semmai, un’importante alternativa ai nomi più noti in ambito post rock/shoegaze.

Tracklist:
1. Atoms Aligned, Coming Undone
2. Mørklagt
3. Abeyance
4. Worlds Collide
5. Severance
6. L’Appel du Vide

Line-up:
Sylvaine: vocals, guitars, synthesizers, bass, drums, percussion

Stephen Shepard: session drums on tracks 3 & 5
Stéphane “Neige” Paut: session drums on tracks 1, 2, 4 & 6

SYLVAINE – Facebook

Black Tiger – Black Tiger

Dieci brani che ci spingono a ritroso verso il periodo d’oro del genere, curati in ogni minimo dettaglio e valorizzati da un buon songwriting che alterna buone tracce da arena rock, graffianti esempi di rock duro dalle accentuate melodie e rock melodico d’autore.

L’ottimo stato di salute della scena rock melodica tricolore è confermata anche da questa uscita targata Black Tiger, band ceca volata nel nostro paese per registrare questo omonimo debutto sulla lunga distanza nei Tanzan Music Studio e prodotto da Mario Percudani, chitarrista dei nostrani Hungryheart, uno dei gruppi più importanti per quanto riguarda il genere in Italia.

La band, unica in Repubblica Ceca a rappresentare l’hard rock melodico a certi livelli, risulta attiva dal 2010 e ha pubblicato tre ep, All Over Night (2010), Road To Rock (2013) e l’ultimo Songs From Abyss (2015), prima di tuffarsi nell’avventura che l’ha portata nel nostro paese, dopo aver diviso il palco con House Of Lords, Dan Reed, Pretty Maids, Mike Tramp, Little Caesar, Hungryheart, Michael Schenker in giro per i festival del centro/est Europa.
Una manciata di ospiti importanti come Dan Reed (Dan Reed Network), Mario Percudani e Josh Zighetti (Hungryheart), Giulio Garghentini, Alessandro Moro ed Edoardo Giovanelli, hanno contribuito a rendere Black Tiger una delle uscite più interessanti del periodo per queste sonorità, ancora lontane dal successo degli anni ottanta, ma qualitativamente sopra le righe.
Dieci brani che ci spingono a ritroso verso il periodo d’oro del genere, curati in ogni minimo dettaglio e valorizzati da un buon songwriting che alterna buone tracce da arena rock, graffianti esempi di rock duro dalle accentuate melodie e rock melodico d’autore.
Il gruppo regala dunque quarantacinque minuti di piacevole hard rock a supportare una valanga di melodie, a tratti raffinate ed leganti quanto basta per donare a tracce come l’opener, Don’t Leave Me, la grintosa She’s A Liar, le ariose e graffianti Against The Grain e Reason To Live ed alle due ultra ballad Solitary Man e Silent Cry quell’appeal necessario per far innamorare gli amanti dell’AOR, a cui va l’invito a non perdersi questo buon lavoro targato Black Tiger.

Tracklist
1. DON’T LEAVE ME
2. LIFE IS A GAME
3. SOLITARY MAN
4. SHE’S A LIAR
5. AGAINST THE GRAIN
6. REASON TO LIVE
7. WHO IS TO BLAME
8. SILENT CRY
9. NEVER TOO LATE
10. OPEN YOUR EYES

Line-up
Jan Trbusek – Vocals
Jiri Doelzel – Guitars, Keyboards
Lubos Ferbas – Bass
Petr Konecny – Drums

Guests:
Mario Percudani Guitars, Chorus
Dan Reed – Chorus
Josh Zighetti – Chorus
Giulio Garghentini – Chorus
Alessandro Moro – Sax
Edoardo Giovanelli – Arrangiamento archi

BLACK TIGER – Facebook

Wasted Theory – Warlords Of The New Electric

L’ascolto di Warlords Of The New Electric è coinvolgente e assai scorrevole, le canzoni non presentano pause o riflussi, ma si è sempre lanciati verso l’incandescente magma.

Torna uno dei gruppi più divertenti e devastanti della musica pesante, dal Delaware e dal Maryland ecco a voi i Wasted Theory, sempre per l’italiana Argonauta Records.

Il loro suono è divertente e dà assuefazione molto presto, è come un joint di ottima erba, che ti fa volare la testa e magari ascoltare una colata di riffs e sezione ritmica incessante, questo è ciò che offrono i Wasted Theory. La musica ce la mettono loro, la droga no, che poi magari qualcuno capisce male. I nostri americani sono al loro terzo album sulla lunga distanza, e se già i precedenti dischi erano ottimi questo li supera tutti, portando alla massima altezza possibile le loro caratteristiche migliori, ovvero dare musica pesante e divertente che deriva dai sacri Black Sabbath, prende molto dallo stoner ma anche dal metal southern, il tutto con una miscela davvero esplosiva, condita da molta ironia. Pochi gruppi possono vantare un groove imponente e allo stesso tempo ben strutturato come i Wasted Theory, che avevano già stupito tutti con il precedente Defenders Of The Riff, che li aveva portati alla ribalta internazionale. Chi aveva amato il precedente album rimarrà ancora più colpito da questo ultimo lavoro, davvero completo e curato fin nei minimi particolari. L’ascolto di Warlords Of The New Electric è coinvolgente e assai scorrevole, le canzoni non presentano pause o riflussi, ma si è sempre lanciati verso l’incandescente magma. Oltre a possedere un groove tra i migliori nel genere, i Wasted Theory sono capaci di sviluppare ritornelli che stendono chiunque e che non lasciano indifferenti. Nel disco si possono trovare molti riferimenti al meglio dell’hard rock e del metal, ad esempio ci sono passaggi che riportano alle sonorità dei Thin Lizzy, un gruppo che è nelle orecchie di molti e che, a volte anche inconsciamente, ritornano. Come si diceva prima, c’è anche un grande sapore southern, che da un tocco in più al tutto. Un disco davvero divertente e molto corposo.

Tracklist
1.Rawhide Hellride
2.Drug Buzzard
3.Bongronaut 05:38
4.The Son of a Son of a Bitch
5.Bastard County
6.Heavy Bite
7.Weed Creature
8.Doomslut Rodeo

Line-up
Larry Jackson, Jr.- Vocals/Guitars
Andrew Petkovic – Guitars
Brendan Burns – Drums

WASTED THEORY – Facebook

Sankta Kruco – Glacialis

Doom atmosferico e black metal , una tono evocativo che declama testi in aramaico e melodie d’altri tempi, sono le peculiarità del sound di Glacialis che , come suggerisce il titolo, vive di fredde atmosfere, tra le nebbie di foreste dove si nascondono antichi culti.

La Ghost Label records licenzia il primo full length di questa misteriosa band chiamata Sankta Kruco, trio di musicisti estremi dei quali non si conosce quasi nulla a parte il fatto che l’album è stato anticipato dal singolo Sulfuran.

Doom atmosferico e black metal , una tono evocativo che declama testi in aramaico e melodie d’altri tempi, sono le peculiarità del sound di Glacialis che , come suggerisce il titolo, vive di fredde atmosfere, tra le nebbie di foreste dove si nascondono antichi culti.
La tensione sale piano, mentre la musica si avvicina a noi, proveniente dal buio profondo: nell’opener Foresta Nigra le ritmiche black si alternano ad evocativi passaggi doom con orchestrazioni che aggiungono sfumature dall’epico incedere creando un sound pieno e potente nelle splendide Ultio Matris Terris e Vlad, The Lord Of Bran.
Glacialis risulta così un album affascinante: la voce ricorda il Ribeiro più evocativo e dark, ma le similitudini finiscono li, con il trio di oscuri sacerdoti a solcare una propria via musicale nel profondo dell’underground metallico estremo, dimostrandosi una realtà dal talento melodico debordante.

Tracklist
1.Foresta Nigra
2.Sulfuran
3.Ultio Matris Tetris
4.Glacialis
5.Elemiah
6.Vlad, the Lord of Bran
7.Mother of the Last Lycan
8.Serpenton/Oblio (Outro)
9.Ultio Matris Terris Orchestral

Line-up
Sal – Guitar and vox
Isaak – Bass
Jb – Drum
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SANKTA KRUCO – Facebook

Satan’s Grind – Degenerazione EP

Accompagnata da testi più articolati che in passato, la musica segue il nuovo corso concedendosi non solo alla violenza tout court, ma sorprendendo per una vena elettronica e, se mi passate il termine, progressiva, variando atmosfere e ritmi anche nello spazio di un brano lungo un solo minuto.

I Satan’s Grind sono di fatto la band del musicista pugliese Antonio, chitarrista con un passato nei Blood Soda che nel 2016 decide di lasciare il gruppo per dedicarsi a questo progetto estremo dai taglio grind.

Una serie di ep e split, un paio di cambi al microfono, ed un presente che vede il nuovo cantante Giovanni (proveniente anch’egli dai Blood Soda) alle prese con i nove brani che compongono questi dieci minuti di musica estrema alquanto sperimentale intitolata Degenerazione.
Accompagnata da testi più articolati che in passato, la musica segue il nuovo corso concedendosi non solo alla violenza tout court, ma sorprendendo per una vena elettronica e, se mi passate il termine, progressiva, variando atmosfere e ritmi anche nello spazio di un brano lungo un solo minuto.
La presenza del piano in alcuni brani, l’alternanza tra elettronica e grind efferato fanno di brani come Indulto, Elettroesecuzione, la title track e la conclusiva Reprobo un modo originale per proporre una musica estrema come il grind, orchestrato con sagacia dai Satan’s Grind.
Il duo sta lavorando al full length che dovrebbe uscire il prossimo anno, noi vi terremo informati, nel frattempo non perdetevi questi dieci minuti di musica targata Satan’s Grind.

Tracklist
1.Pozzo Per L’Ade
2.Indulto
3.Bagno Nel Cocito
4.Pietà e Coscienza
5.Elettroesecuzione
6.Palpitazioni
7.Morbo
8.Degenerazione
9.Reprobo

Line-up
Antonio – Drum, Guitar and Bass programming
Giovanni – Lyrics and Vocals

SATAN’S GRIND – Facebook

Anomalie – Integra

Nonostante si tratti di un ep, Integra vale ampiamente a livello qualitativo un album completo, rafforzando le reputazione del nome Anomalie al quale, forse, sarebbe opportuno dedicare qualche attenzione in più in futuro.

Anomalie è un progetto solista austriaco in circolazione dal 2011 con all’attivo già tre full length molto ben accolti: questa nuova uscita è un ep comunque abbastanza corposo, visto che presenta quattro tracce per poco meno di mezz’ora di musica.

Il black atmosferico offerto da Christian “Marrok” Brauch, il quale si fa accompagnare dall’ottimo batterista Lukas Schlintl, si rivela indubbiamente di buona qualità, mantenendo quell’andamento austero di matrice mitteleuropea al quale fornisce il suo ideale imprimatur Markus Stock in sala di registrazione.
Tutti questi elementi vanno a comporre una quadro compositivo convincente e vario, pur nel suo esibire per lo più un volto oscuro che non deroga mai dalla propria matrice stilistica, ed aprendosi a quelle sfumature post che risultano comunque meno accentuate che in altre band, senza rinunciare ad una componente melodica equilibrata e ben inserita nel contesto.
In tal senso, l’ascolto dell’ultima traccia Deliverance si rivela decisamente emblematico, in virtù di un incedere che spazia con grande disinvoltura tra le varie fonti di ispirazione mantenendo ugualmente il sound sempre ben compatto ed efficace.
Nonostante si tratti di un ep, Integra vale ampiamente a livello qualitativo un album completo, rafforzando le reputazione del nome Anomalie al quale, forse, sarebbe opportuno dedicare qualche attenzione in più in futuro.

Tracklist:
1. Rebirth
2. Aurora
3. Temples
4. Deliverance

Line-up:
Christian “Marrok” Brauch – Vocals, Guitars, Bass, Synths, Percussions
Lukas Schlintl – Drums

ANOMALIE – Facebook

Accept – Symphonic Terror

Anche gli inossidabili Accept hanno ceduto alle lusinghe del supporto orchestrale: l’esperimento è senz’altro riuscito, con gli strumenti classici a donare quel tocco di raffinata epicità al sound di una delle più importanti metal band nate nel vecchio continente.

Negli anni settanta le grandi band, dal successo dei Deep Purple con Made in Japan in poi, presero l’abitudine di immortalare il loro album di maggior successo o un’intera carriera con l’uscita di un live nella terra del Sol Levante, moda che fecero propria i anche gruppi metal degli anni ottanta.

Di questi tempi è il Wacken Open Air il festival in cui le band fotografano il loro momento magico o l’evento, se possibile con il supporto dell’orchestra.
Tanti ormai sono i gruppi che hanno sfruttato l’immensa distesa di appassionati che, ogni agosto, si danno appuntamento vicino al paesino più famoso della storia del metal, nel 2017 è stata la volta degli storici ed arcigni Accept, dieci anni dopo la reunion.
Symphonic Terror – Live At Wacken 2017 vede il gruppo di Wolf Hoffmann alle prese con i suoi maggiori successi con un concerto che suddiviso in tre parti.
Nella prima la band esegue una manciata di brani tratti da due classici intramontabili come Restless And Wild e Final Journey, accompagnati da altri presi dall’ultimo lavoro intitolato The Rise Of Chaos.
Nella seconda parte il palco è tutto per Wolf Hoffman che, accompagnato dalla sola chitarra e dall’orchestra filarmonica esegue dei brani presi dal suo lavoro solista (Headbangers Symphony), sicuramente affascinante nel contesto di Wacken, ma è con la terza parte che i cuori dei fans si incendiano.
La band torna al completo ed uno dopo l’altro dà in pasto al pubblico quegli inni che hanno fatto la storia della band e del metal, da Princess Of The Dawn a Fast As The Shark, passando per le leggendarie Metal Heart e Balls To The Walls.
E così anche gli inossidabili Accept hanno ceduto alle lusinghe del supporto orchestrale: l’esperimento è senz’altro riuscito, con gli strumenti classici a donare quel tocco di raffinata epicità al sound di una delle più importanti metal band nate nel vecchio continente.
Licenziato dalla Nuclear Blast in vari supporti, Symphonic Terror si rivela quindi la celebrazione di uno dei gruppi più amati nella sempre suggestiva atmosfera del Wacken Open Air.

Tracklist
Part 1: Accept
01. Die By The Sword
02. Restless And Wild
03. Koolaid
04. Pandemic
05. Final Journey

Part 2: Headbanger’s Symphony
06. Night On Bald Mountain
07. Scherzo
08. Romeo And Juliet
09. Pathétique
10. Double Cello Concerto in G Minor
11. Symphony No. 40 in G Minor

Part 3: Accept with Orchestra
12. Princess Of The Dawn
13. Stalingrad
14. Dark Side Of My Heart
15. Breaker
16. Shadow Soldiers
17. Dying Breed
18. Fast As A Shark
19. Metal Heart
20. Teutonic Terror
21. Balls To The Wall

Line-up
Mark Tornillo – Vocals
Wolf Hoffmann – Guitar
Peter Baltes – Bass
Uwe Lulis – Guitar
Christopher Williams – Drums

ACCEPT – Facebook

Flying Disk – Urgency

Ascoltare Urgency dà l’idea che il noise e il grunge si possano ancora incontrare per fare ottime cose, con un pezzo come Hammer che è nei dintorni dei migliori Unsane.

I Flying Disk sono giovani, vengo da Fossano provincia di Cuneo e suonano divinamente.

Con questo secondo lavoro i ragazzi superano il già buon esordio del 2014 Circling Further Down, che li ha portati all’attenzione di chi ama le sonorità pesanti ben strutturate e con una melodia solida e che si snoda per tutta la canzone. Il gruppo fossanese ha un tiro micidiale, una naturalezza nel muoversi che rende piacevole e solido tutto ciò che fa. Urgency è il disco perfetto fatto da chi sta in provincia, ma possiede una grande apertura mentale, per quanto riguarda la musica, di chi ha talento e vuole suonare. Ci sono momenti di estrema goduria nell’ascoltare questo disco, e alcuni pezzi hanno un deciso retrogusto grunge, nel senso che si ha quello stato di grazia fra melodia e pesantezza che solo i grandi gruppi possiedono. Sulla risposta alla domanda se i Flying Disk siano appunto un grande gruppo, la risposta è un sì molto deciso. Ascoltare il loro nuovo disco ti da l’idea che il noise e il grunge si possano ancora incontrare per fare ottime cose: un pezzo come Hammer è nei dintorni dei migliori Unsane, creando quella bella tensione musicale che solo il noise sa fare, con mille rivoli che vanno a formare un unico fiume lavico. Inoltre ci sono dei momenti di grazia vera e propria dove sembra di trovarsi con loro in saletta a suonare come se fuori ci fosse l’apocalisse. La chitarra sale e scende, il basso pulsa e la batteria è bella pulita con una voce che è pressoché perfetta per questo tipo di musica. Chi vedrà dal vivo questa band capirà quanta passione e dedizione abbia: i Flying Disk fanno fluire la musica in una provincia che non ti dà molto ma ti dà la spinta e il giusto inquadramento, nel senso che sai che probabilmente non farai mai i soldi, ma resterai sempre te stesso e potrai fare dischi bellissimi come questo Urgency, album che non conosce data di scadenza, e che a ogni nuovo ascolto regala sempre qualche sorpresa.

Tracklist
1. One Way to Forget
2. On the Run
3. Straight
4. Dirty Sky
5. Night Creatures
6. Hammer
7. Young Lizard
8. 100 Days

Line-up
Simone Calvo – Guitars, Vocals
Enrico Reineri – Drums
Luca Mauro – Bass

FLYING DISK – Facebook

Rock e Africa: storia e protagonisti di un incontro

Quando si pensa all’incontro fra la tradizione occidentale della musica rock e la cultura africana, la mente va, non a torto, a dischi come Graceland (1986) di Paul Simon, oppure al successo avuto dal giamaicano Linton Kwesi Johnson. Altri ancora, scavando più indietro nel tempo, fanno magari il nome degli Osibisa, che nella prima metà degli anni Settanta proposero un blando mix di atmosfere progressive anglosassoni e melodie subsahariane, in svariati e leggeri dischi, in taluni casi anche di un certo successo. Un certo riscontro commerciale ha avuto pure la serie Realworld inaugurata negli anni Ottanta da Peter Gabriel, che ha lanciato la moda etnica della world music. Ma il vero nocciolo della questione riposa altrove. Proviamo a indagare e a vedere la cosa più in dettaglio.

Il primo, serio e felice tentativo di fare incontrare rock anglo-americano e ritmi africani venne fatto dal grande Dr. John. Nel suo terzo album, Remedies (1970), l’intera seconda facciata era occupata da Angola, una suite di venti minuti che costituiva un interessante e meraviglioso ponte fra il blues e le ritmiche di matrice afro. Una composizione davvero pionieristica, destinata a far registrare con il tempo notevoli sviluppi a più latitudini.
In quello stesso, anno uscì anche lo stupendo e coraggioso LP di debutto di Peter Green. Il grande chitarrista aveva appena lasciato i Fleetwood Mac, dopo cinque storici lavori di British Blues. Prima di scomparire dalle scene, per quasi un decennio – sarebbe ritornato a calcare i palchi della musica, grazie all’aiuto di Peter Bardens (tastierista dei primi Camel), solo nel 1979, con il santaniano In the Skies – pubblicò nel 1970 l’opera magna End of the Game: un album difficile e complesso, all’epoca poco capito, in ragione appunto della sua estrema innovatività, ma divenuto con il tempo un vero e proprio cult-album. Molto sperimentale ed allora con poche pietre di paragone, End of the Game – con, in copertina, la famosa tigre della savana – metteva in scena uno riuscito, eterogeneo connubio di retaggio hard-blues inglese (comunque, a quell’epoca, neonato) e di costruzioni musicali dalla ascendenza africana.
Altro personaggio di gran spicco per il nostro discorso fu Ginger Baker. L’ex-batterista dei Cream – che aveva suonato, anche, con i Blues Incorporated di Alexis Korner (1962), gli Organisation di Graham Bond (1963-1966) ed i Blind Fate di Eric Clapton e Steve Winwood (1969) – già con i suoi Airforce – due album nel 1970, entrambi doppi: dal vivo il primo ed in studio il secondo – unì jazz-rock e sonorità afro. Non certo casualmente, pure lui veniva dal blues, che fu il trait-d’union per la convergenza di rock europeo ed Africa. La matrice storica e culturale era, del resto, la medesima. Il 1971 vide Baker trasferirsi in Nigeria, dove comprò un appezzamento di terra a Akeja. Vi inaugurò, nel gennaio di solo due anni dopo, uno studio di registrazione, pensato per farvi registrare musicisti locali, valorizzandone e creatività e messaggio, e si interessò, sempre di più, alla musica africana, specie sul piano delle ricerche ritmiche.

Quello di Ginger Baker, beninteso, non fu un amore estemporaneo e fuggevole. Nel 1971, pubblicò, con il nigeriano Fela Kuti, un famoso Live e, nel 1972, uscì il suo Stratavarius, lavoro percussivo, impregnato di aromi africani, scambiato dalla critica di allora per un mero esercizio di stile. Ancora nel 1978, il grande batterista britannico tenne un celebre concerto a Berlino con gli African Friends, uscito poi pochi anni fa, per la Voiceprint. Baker portò altresì con sé tracce di questo background in occasione di Album, il capolavoro dei Public Image Limited di John Lydon, che apparve – trainato dal singolo Rise – nel 1986, per la Virgin: nel disco – oltre a Steve Vai alla chitarra, Tony Williams alla seconda batteria, Sakamoto alle tastiere e Bill Laswell al basso – erano presenti inoltre Malachi Favours dell’Art Ensemble of Chicago alle percussioni e Ravi Shankar, al violino. Nel 1987, quindi solo un anno dopo, Baker si esibì in tournée con i suoi African Force, che portarono ancora avanti il discorso legato all’afro-rock, calandolo nel contesto musicale della nuova decade.

Quando Ginger Baker si esibiva con i suoi colleghi africani, erano già apparsi dischi come Ambient 3: Day of Radiance di Laraaji (1981) – caratterizzato in prevalenza da pattern ritmici di dulcimer e zither, con un’impronta fortemente new age – My Life in the Bush of Ghosts (1981) di David Byrne, entrambi prodotti dal vulcanico Brian Eno, di fatto l’invenzione della world music. In questi lavori, tutto sommato, poca Africa: o meglio, un’Africa che perdeva la sua orgogliosa identità – predicata, già durante gli anni Sessanta, da tanti grandi del free jazz, a partire da John Coltrane – proprio nel suo incontro con le altre tradizioni musicali, provenienti da ogni parte del mondo. Stesso discorso si può fare pure per i diversi lavori realizzati da Jon Hassell, trombettista peraltro geniale, ancora con Eno in cabina di regia. Quest’ultimo produsse anche gli artisti ghanesi Edifanko, facendoli in tale maniera conoscere in Occidente. Un’opportunità non indifferente.

Nel 1982, vide la luce il capolavoro IV quarto capitolo della carriera solista di Peter Gabriel, dopo l’uscita dai Genesis, nel 1975. Un disco epocale e strepitoso, registrato interamente in digitale, con un massiccio uso di campionamenti (grazie al famoso sintetizzatore Fairlight CMI). La canzone The Rhythm of the Heat venne costruita attraverso le più moderne tecnologie elettroniche, sulla base dell’esperienza di Carl Gustav Jung, mentre osservava un gruppo di percussionisti africani. Eccolo, dunque, l’incontro cruciale di rock (in questo caso freddo e tagliente) e ritmiche afro (calde, rituali, evocative e dense di suggestione ipnotica). La combinazione gabrieliana di freddezza digitale, data dai synth, ed aromi percussivi avvolgenti fece letteralmente sensazione. In Italia, pure scuola: Ivano Fossati ne trasse gran frutto per l’incipit della sua indimenticabile Una notte in Italia, dal gioiello I 700 giorni (CBS, 1986).

Altro grande musicista inglese che si innamorò, musicalmente e non solo, dell’Africa fu l’ex Police – e Curved Air, almeno una volta lo si rammenti – Stewart Copeland. Intanto, egli vi visse – per la precisione in medio-oriente, a Beirut – al seguito della famiglia (per esigenze di lavoro del padre), studiandovi e suonando jazz. Dopo lo scioglimento dei Police, Copeland compose la colonna sonora di Rusty il selvaggio (1983, per Francis Ford Coppola), collaborò quindi con Stan Ridgway dei Wall of Voodoo e con Stanley Clarke, ma soprattutto incise nel 1985 The Rhythmatist, perfetto punto di incrocio fra la strada aperta da Peter Green e Ginger Baker nei primissimi ’70 e gli apporti forniti da Gabriel nel decennio successivo. Un disco formidabile e innovativo, che riscriveva e trasformava in chiave rock la tradizione musicale di area africana: un vero punto di approdo, a quindici anni dalle prime ricerche compiute negli Stati Uniti da Dr. John.
A metà degli anni ’80, rock e Africa dialogano ormai in maniera pressoché regolare. Nel film OC & Stiggs di Robert Altman (1985, da noi Non giocate con il cactus), divertente e grottesco come nello stile del regista, viene filmato un concerto eseguito allora negli USA da King Sunny Ade: piacevole intrusione di ritmiche africane nell’altrimenti monotona vita americana di provincia.

Per Alice