NiKy Nine – Suncore

Un gran bel disco per gli amanti della retrowave e del synthwave, e ottimo punto di inizio per metallari che volessero iniziare ad apprezzare questi generi.

Synthwave potente, diretta e fatta da un appassionato metallaro che risponde al nome d’arte di Niky Nine.

Il francese ha collaborato con Tommy Lee dei Mötley Crüe, Shooter Jennings, e ha anche remixato il santone del vizio Rob Zombie. Per chi ama i suoni retrowave e synthwave la sua opera non è sconosciuta, anche se Niky tende a rimanere dietro le quinte, ma è fin dal 2012 che spinge Lazerhawk ed altri, e i suoi pezzi su Youtube sono molto cliccati ed ascoltati. Suncore è un piccolo capolavoro di questi generi, essendo composto con un’anima metal e con attrezzi come l’Akai Mpc e sintetizzatori analogici, che danno una compattezza ed un calore notevole al suono, con il talento di Niky Nine a fare il resto. A differenza di alcuni dei suoi colleghi in campo synth e retro, la differenza la fa la maniera di comporre e di rendere certe atmosfere. Ci sono tutti gli stilemi che hanno riportato queste sonorità degli anni ottanta e novanta in auge, anche grazie ad una decisa modernizzazione, seguendo un gusto maggiormente elettronico rispetto alle origini. Suncore è un disco molto godibile e che ci rivela diversi aspetti narrativi, dallo spazio profondo a pazze corse su autostrade fatte di laser dove l’orizzonte è viola e postatomico. L’immaginario è quello tipico di questi generi, ma c’è qualcosa in più, come sempre nei dischi della marsigliese Lazerdiscs, etichetta che ama davvero questi suoni ed è la principale protagonista del loro attuale revival. Quello che si può trovare qui e che manca altrove è la forza del metal, perché si sente benissimo che Niky Nine compone e ragiona come solo un metallaro può fare, spingendo oltre la sua musica ed il suo stile. Le melodie elettroniche di questo disco potrebbero benissimo essere le linee di chitarra di un disco di death metal, e la batteria potrebbe aprire spazi anche in generi metallici. Un altro elemento metallico è la meravigliosa copertina dell’altrettanto francese Jeff Grimal, che ha già lavorato con i Gorod, band di death metal tecnico da Bordeaux, per chiudere un cerchio fatto di pogo e di musica altra. Un gran bel disco per gli amanti della retrowave e del synthwave, e ottimo punto di inizio per metallari che volessero iniziare ad apprezzare questi generi.

Tracklist
1.Intro
2.Cars
3.Deadchrome
4.Exhausted Divinity
5.Aftermath
6.Prey
7.Thunder Kiss
8.Tears feat. Bedroom Poet
9.Lost Souls
10.Suncore
11.Outro

Symbolical – Allegory Of Death

Allegory Of Death è un album oscuro, opprimente, a tratti maestoso: parlare di Behemoth più death oriented sarebbe fin troppo facile, consigliarne l’ascolto è invece un dovere.

La Polonia tira le fila dell’invasione di gruppi estremi provenienti dall’est europeo, non solo per essere la terra che ha dato i natali agli ormai famosissimi Behemoth, ma per una vena aurifera che non smette di donarci ottime band death e black metal.

I Symbolical sono sicuramente tra le più valide, attivi dal 2013 e formati da un quartetto di musicisti con esperienze importanti alle spalle come il batterista Daray (Dimmu Borgir, Hunter, ex-Vader), il chitarrista e cantante Cymer (Infernal Death), il chitarrista Słoq (The John Doe’s Burial), ed il bassista Lukas (Slain, Doomsayer).
Mystic death metal lo chiamano loro, fatto sta che prima il debutto Collapse In Agony, licenziato tre anni fa ed ora il nuovo Allegory Of Death risultano un notevole esempio di death metal pregno di atmosfere nere come la pece che spezzano il ritmo infernale imposto dalla band, tra potenti mid tempo, passaggi che sanno tanto di epica oscurità e veloci ripartenze classiche del genere nell’interpretazione nelle lande polacche.
Allegory Of Death è un lavoro che tiene inchiodati alla poltrona, con le cuffie brasate sulle orecchie nel seguire le cangianti sfumature di questa raccolta di brani, tendenti ovviamente al nero, ma che si sviluppano tra molti passaggi, con le chitarre che non disdegnano melodie oscure su tappeti di possente e monolitico metal estremo.
I musicisti, di provata esperienza, ci sanno fare, ma sono le sensazioni emotive a farla da padrone, apocalittiche e abissali, foriere di oscuri presagi di morte nelle notevoli Fallen Renegate, The Day Of Wrath, Prometheus Trial e Pseudo Master.
Allegory Of Death è un album oscuro, opprimente, a tratti maestoso: parlare di Behemoth più death oriented sarebbe fin troppo facile, consigliarne l’ascolto è invece un dovere.

Tracklist
1.Inner Struggle
2.Fallen Renegate
3.Let There Be Dark
4.The Day of Wrath
5.Requiem in Igne
6.Prometheus Trial
7.Not on the Cross
8.Beyond the Dogmas
9.Pseudo Master
10.Gore by Horn
11.Crowded the End

Line-up
Cymer – Guitar, Vocals
Sloq – Guitar, Vocals
Daray – Drums
Lukas – Bass

SYMBOLICAL – Facebook

BLACK THERAPY

Il video di “Dreaming”m dall’album “Echoes of Dying Memories” in uscita a marzo (Black Lion Records).

Il video di “Dreaming”m dall’album “Echoes of Dying Memories” in uscita a marzo (Black Lion Records).

Italian melodeath quintet premieres video “Dreaming” from the album “Echoes of Dying Memories”; out in March via Black Lion Records

After getting involved in a spree of live activities, the Rome based five-piece BLACK THERAPY have announced the release of their third album, Echoes of Dying Memories, slated for worldwide release on March 15th via Black Lion Records.

As the first taste of this album, the Italian melodic death metallers have offered a monumental video of the 04th number, Dreaming.

Informs the band: “We wanted the video for Dreaming to be very straight-forward and in-your-face and we think that Andrea from Dvision Zero really nailed it with his rapid editing. We already worked with him years ago and it felt pretty natural for us to ask him if he wanted to work on our new video clip. We hope everyone will enjoy the fast-pace of this video as much as we do!”

Blurr Thrower – Les avatars du vide

Come primo passo Les avatars du vide si rivela un qualcosa di solido e convincente per i Blurr Thrower, perché il solo fatto di mantenere alto il livello dell’attenzione dell’ascolatore con una formula non troppo usuale è di per sé un indicatore importante del valore di questo gruppo (o one man band che sia).

I Blurr Thrower sono una misteriosa entità parigina all’esordio con questi ep composto da due lunghissimi brani.
Il contenuto del lavoro si dimostra fin da subito tutt’altro che banale nel suo snodarsi in un black metal atmosferico ma decisamente inquieto e ben poco prevedibile, tra pulsioni post e ambient.

Non stupisce del resto il fatto che la band in questione sia transalpina, considerata la costante obliquità dell’approccio al genere da quelle parti: nel caso in questione, però, talvolta i Blurr Thrower paiono trarre linfa anche dalla scuola nordamericana in quota cascadiana.
Tutto questo rende Par-Delà les Aubes e Silences due episodi che, nonostante la considerevole lunghezza (diciotto minuti di media), scorrono in maniera mirabilmente fluida nonostante nulla venga fatto per rendere il sound più ammiccante.
Les avatars du vide è un’opera che mantiene un fondo malinconico, in quanto non tocca gli apici di disperazione del depressive e nemmeno si concede a melodie di agevole fruizione: chi ha composto questo disco ha saputo dosare molto bene le varie componenti, ora amalgamandole ora alternandole creando soprattutto nei momenti più rarefatti la giusta tensione prima di esplodere in prorompenti cavalcate.
I due brani differiscono di poco ma quanto basta per fornire loro una forma più delineata, con Par-Delà les Aubes più complessa e tormentata e Silences invece strutturata in maniera più nervosa e a suo modo aggressiva al netto dei deu minuti e mezzo d break centrale.
Come primo passo Les avatars du vide si rivela un qualcosa di solido e convincente per i Blurr Thrower, perché il solo fatto di mantenere alto il livello dell’attenzione dell’ascolatore con una formula non troppo usuale è di per sé un indicatore importante del valore di questo gruppo (o one man band che sia), il cui nome è bene che venga tenuto in debita considerazione in prospettiva futura.

Tracklist:
1. Par-Delà les Aubes
2. Silences

Vistery – Death Is Dead

Il gruppo estremo proveniente da Minsk è autore di un death metal old school, con sua maestà il riff sempre in primo piano su brani che non accelerano mai al massimo ma si sviluppano preferibilmente su potentissimi mid tempo.

Partiti come solo project del chitarrista e cantante Alexey Kizillo, i Vistery nell’arco di tre lavori si sono trasformati in una band a tutti gli effetti, ed ora come quintetto arrivano al terzo lavoro sulla lunga distanza intitolato Death Is Dead.

Il gruppo estremo proveniente da Minsk è autore di un death metal old school, con sua maestà il riff sempre in primo piano su brani che non accelerano mai al massimo ma si sviluppano preferibilmente su potentissimi mid tempo.
Un death metal ordinario e senza grossi picchi, ma che si lascia ascoltare grazie ad un buon impatto e a un lavoro chitarristico sufficiente per non deludere gli appassionati della vecchia scuola.
Il difetto che più salta alle orecchie è la mancanza di una scintilla che faccia di queste tracce qualcosa in più del solito aggressivo attacco frontale, massiccio e pesante quanto si vuole ma alla lunga esattamente uguale ad altre centinai di realtà che si muovono nell’underground estremo.
Death Is Dead è quindi un lavoro che non porterà grosse novità in casa Vistery, band che continua comunque a suonare dignitoso death metal old school rivolto ai fans devoti al genere.

Tracklist
1.Winds of Devastation
2.Tormentor
3.Rotting Earth
4.Picnic Party
5.Omniphobic
6.Swamp
7.Die from Within
8.Black Magic
9.Mortal Fear
10.Butchery
11.Death Is Dead

Line-up
Alexander “Soulless” – Bass
Aleksey “Wicked” – Guitars
Ivan “Paranoid” – Vocals
Sergiy “Def” – Drums

VISTERY – Facebook

The Price – A Second Chance To Rise

Il disco contiene ottima musica, il suo ascolto rasserena e carica, c’è maturità, ed una certa consapevolezza che nasce dalla sicurezza nei propri mezzi, e un’immensa passione che sfocia nella voglia di fare qualcosa che alberghi bene nelle nostre orecchie.

Marco Barusso da Calice Ligure, è una personalità musicale dalle molte sfaccettature: produttore, arrangiatore, chitarrista e ingegnere del suono, ha collaborato con nomi quali 883, HIM, Coldplay, Gli Atroci, Heavy Metal Kids e Cayne, solo per fare qualche nome.

The Price è il nome del suo nuovo progetto solista, all’esordio con A Second Chance To Rise. La copertina promette già bene, testimonianza di un contratto con qualcuno che puzza di zolfo e che ha pure lui collaborato con diversi musicisti e gruppi. Uno dei messaggi che vuole trasmettere Barusso è che non bisognerebbe prendere scorciatoie, ma essere sempre fedeli a se stessi, lavorando duro. E il duro lavoro, la grande passione e un talento tecnico fuori dal comune sono alcune fra le doti di Marco Barusso che confeziona un gran bel disco, con tante cose dentro, tanti ospiti di spicco ed un tiro micidiale. Come coordinate musicali si potrebbe dire che siamo dalle parti dell’hard rock proposto con estrema eleganza ma c’è molto di più. Punto di partenza è una produzione davvero puntuale e precisa, poi Barusso ci mette dentro tantissimo del suo: i riff della sua chitarra sono sempre caldi e scorrevoli, non eccede mai in inutili virtuosismi, ma si mette al servizio del contesto musicale. Troviamo anche tanto metal qui dentro, soprattutto nel senso di un epic heavy che si fonde molto bene con l’hard rock suonato in maniera eccellente. Un capitolo a parte lo meritano gli ospiti, la crema della scena rock e non solo italiana degli ultimi trent’anni: qui c’è un Enrico Ruggeri in gran forma che canta in inglese, e poi ci sono anche Luca Solbiati (Zeropositivo), Roberto Tiranti (Labyrinth, Wonderworld), Max Zanotti (Casablanca), Alessandro Ranzani (Movida), Axel Capurro (Anewrage), Alessio Corrado (Jellygoat), Enrico “Erk” Scutti (Figure of Six), Alessandro Del Vecchio (Hardline), Marco Sivo (Instant Karma), Fabio “Phobos Storm” Ficarella (The Strigas) e Tiziano Spigno (Extrema). Ospiti importanti, ma soprattutto musicisti che come Barusso preferiscono l’olio di gomito e la sala prove ai social o alle esternazioni ad minchiam. Il disco contiene ottima musica, il suo ascolto rasserena e carica, c’è maturità ed una certa consapevolezza che nasce dalla sicurezza nei propri mezzi, e da un’immensa passione che sfocia nella voglia di fare qualcosa che alberghi bene nelle nostre orecchie. Tutti dovrebbero avere una seconda possibilità, ma a Barusso ne basterà una sola per conquistarvi.

Tracklist
1 Tears Roll Down (Feat. Luca Solbiati)
2 A mg of Stone (Feat. Alessandro Ranzani)
3 My Escape (Feat. Axel Capurro)
4 Enemy (Feat. Alessio Corrado)
5 Take Back our Life (Feat. Enrico “Erk” Scutti)
6 Free from Yesterday (Feat. Roberto Tiranti)
7 Lilith (Feat. Tiziano Spigno)
8 Stormy Weather (Feat. Max Zanotti)
9 On the Edge of Madness (Feat. Enrico Ruggeri)
10 E.C.P. (Electric Compulsive Possession)
11 Under My Skin (Feat. Alessandro Del Vecchio & Marco Sivo)
12 Strange World (Feat. Fabio “Phobos Storm” Ficarella)

Line-up
Marco Barusso – Lead Guitar and Voice

THE PRICE – Facebook

One Step Beyond – In The Shadow Of The Beast

In the Shadow of the Beast è composto da nove brani uno diverso dall’altro, ma clamorosamente perfetti nel seguire il discorso compositivo dell’opera, con picchi di musica metal sopra le righe, attraversati da un’insana voglia di abbattere barriere e confini con la forza di un songwriting ispirato.

La Wormholedeath licenzia il quarto album di questa incredibile band australiana chiamata One Step Beyond, una camaleontica creatura musicale che sotto la veste di band death metal sperimentale nasconde una predisposizione nel confondere l’ascoltatore, amalgamando in un unico sound una marea di generi presi dall’immenso oceano della scena metal.

Attivo da più di vent’anni il gruppo, oggi composto da “Mad” Matt Spencer (Basso, Voce e programmazioni) e Justin Wood (voce), dà alla luce un pazzesco lavoro in cui death, grind, melodic death metal, doom, power e thrash si mischiano in un orgiastico sound che strappa applausi ad ogni passaggio, tra anime maligne e progressive in una quarantina di minuti nel corso dei quali stupire e non lasciare punti di riferimento è la parola d’ordine.
In the Shadow of the Beast è composto da nove brani uno diverso dall’altro, ma clamorosamente perfetti nel seguire il discorso compositivo dell’opera, con picchi di musica metal sopra le righe, attraversati da un’insana voglia di abbattere barriere e confini con la forza di un songwriting ispirato.
Si passa dunque dal death metal della title track, al brutal/grind della successiva The Streetcleaner, dal mid tempo power della melodica Enlightenment, dal doom evocativo della superba The Sentinel, al death melodico di Atombender.
Pitch Black Within è un brano thrash/black dall’anima progressiva, mentre la conclusiva Isolde torna su sentieri epico/melodici di stampo death.
Ne sentirete delle belle all’ombra di questa bestia, perché è difficile pure trovare delle similitudini con altre realtà visto che il duo si ispira a molte band senza assomigliare in particolare a qualcuna, risultando una bella sorpresa da non perdere se si è amanti del metal estremo a 360°.

Tracklist
1. In The Shadow of the Beast
2. The Streetcleaner
3. Enlightenment
4. Shadow Warriors
5. The Sentinel
6. Atombender
7. Pitch Black Within
8. Another World
9. Isolde

Line-up
“Mad” Matt Spencer – Bass/Vocals and Drum Programming
Justin Wood – Vocals

ONE STEP BEYOND – Facebook

Heart – Live In Atlantic City

L’ottima forma del gruppo, sommata ad una scaletta straordinaria, rendono questo live un evento imperdibile per tutti gli amanti del hard rock, tributato con il giusto talento dalle sorelle Wilson e dai loro ospiti.

Nell’universo del rock a stelle e strisce un posto tra i grandi è riservato agli Heart, il gruppo capitanato da Ann e Nancy Wilson, per anni le sorelle più famose del rock’n’roll.

Una storia lunga più di quarant’anni, con alti e bassi fisiologici in una carriera che vede la band ancora in sella nel nuovo millennio, portando in dote una discografia che vede il suo picco nei tre album usciti sul finire degli anni settanta (Little Queen, Dog & Butterfly e Bébé le Strange) e nella coppia Heart e Bad Animals, risalenti al decennio successivo.
Tra hard rock, blues, folk e patinate sonorità da arena rock, gli Heart hanno scritto pagine importanti nella storia del rock americano: nel 2006 ebbero l’occasione di registrare un live per il programma di VH1 Decades Rock Live, nel corso del quale la band diede spettacolo in compagnia di altre stelle del firmamento musicale statunitense.
Gli artisti che presenziarono a questo tributo al rock delle sorelle Wilson furono tanti e di spessore: dagli Alice In Chains a Dave Navarro, dalla star del country Carrie Underwood a Duff McKagan, dalla la cantante country Gretchen Wilson per finire con il compositore Rufus Wainwright.
Live In Atlantic City vede la band alle prese con i brani che hanno segnato la sua storia, come Bebè La Strange, Barracuda e Lost Angel e con cover dei Led Zeppelin come Rock ‘n’ Roll e Misty Mountain Hop, quest’ultima con Navarro a fare il Jimmy Page sullo storico brano tratto dal quarto album degli Zep.
Ma il culmine della performance arriva quando salgono sul palco gli Alice In Chains (con Duff Mckagan) e prima una graffiante Would? e poi le note della sentita Rooster alzano il clima emozionale del concerto.
L’ottima forma del gruppo, sommata ad una scaletta straordinaria, rendono questo live un evento imperdibile per tutti gli amanti del hard rock, tributato con il giusto talento dalle sorelle Wilson e dai loro ospiti.

Tracklist
1. Bébé Le Strange (with Dave Navarro)
2. Straight On (with Dave Navarro)
3. Crazy On You (with Dave Navarro)
4. Lost Angel
5. Even It Up (with Gretchen Wilson)
6. Rock’n Roll (with Gretchen Wilson)
7. Dog & Butterfly (with Rufus Wainwright)
8. Would? (with Alice In Chains & Duff McKagan) *
9. Rooster (with Alice In Chains & Duff McKagan)
10. Alone (with Carrie Underwood)
11. Magic Man
12. Misty Mountain Hop (with Dave Navarro)
13. Dreamboat Annie
14. Barracuda

Line-up
Ann Wilson – Vocals
Nancy Wilson – Guitars
Ben Smith – Drums
Craig Bartock – Guitars
Dan Rothchild – Bass
Chris Joyner – Drums

HEART – Facebook

ELECTROCUTION

Il video di “Psychonolatry (The Icons of God and the Mirror of the Souls)” dall’album Psychonolatry in uscita a febbraio.

Il video di “Psychonolatry (The Icons of God and the Mirror of the Souls)” dall’album Psychonolatry in uscita a febbraio.

Legendary Italian death metal band ELECTROCUTION have released a video for their track “Psychonolatry (The Icons of God and the Mirror of the Souls)”. The song is taken from their upcoming album Psychonolatry which will be released in February.

Pre-order the album here: https://tinyurl.com/psychonolatry

Helevorn – Aamamata

Non era facile riuscire a fare un ulteriore passo avanti rispetto ad un disco già splendido come Compassion Forlorn, ma gli Helevorn si sono letteralmente superati pubblicando un’opera con la quale si dovrà confrontare da oggi in poi chiunque voglia cimentarsi con il gothic doom.

Gli Helevorn appartengono a quella categoria di band che tipicamente, in ambito doom, si prendono tutto il tempo necessario tra un disco e l’altro decidendo di proporre nuovo materiale solo quando hanno realmente qualcosa da dire.

E da dire c’è davvero molto in questi tempi, specialmente per chi non accetta di restare indifferente di fronte alle tragedie umane che la maggior parte di noi preferirebbe nascondere sotto al tappeto, facendo finta di niente per non essere costretto a fare i conti con la propria coscienza.
Gli Helevorn, essendo maiorchini, come tutti gli isolani hanno un rapporto speciale  con quel Mare Nostrum che negli ultimi anni si e trasformato nell’estrema dimora di migliaia di esseri umani, costretti a rischiose e spesso fatali traversate per sfuggire alle guerre o semplicemente alla povertà,  e spinti virtualmente sott’acqua da una politica volta solo ad ottenere facile consenso da parte di popoli colpevoli, a loro volta, di una ributtante ignavia.
L’aver dedicato un intero album al dramma dei migranti, in un momento in cui chi solleva il problema viene visto quasi sospetto, fa onore alla sensibilità di una band che d’altra parte anche in passato non ha mai rinunciato a prendere posizioni ben definite in ambito sociale o politico.
A livello musicale quella degli Helevorn è stata una crescita lenta ma costante e se già Compassion Forlorn aveva sancito l’ingresso del gruppo iberico tra i  nomi di punta della scena gothic death doom europea, Aamamata rafforza questa posizione con il valore aggiunto, come detto, di contenuti lirici importanti.
Per capire appieno la potenziale levatura dell’album basta godersi la visione di un’opera che unisce magistralmente musica, filmati e grafica come è il video di Blackened Waves, brano commovente per intensità e drammatica evocatività: Josep Brunet riesce a lacerare l’anima dell’ascoltatore utilizzando praticamente la sola voce pulita, in virtù di una profondità interpretativa che non lascia dubbi alcuni sulla sincerità del suo sentire, e il growl che affiora solo nell’ultimissima parte del brano è strettamente funzionale a rimarcare con forza il dolore, la rabbia e l’impotenza di chi vuole avere ancora occhi per vedere.
Il valore dell’intero lavoro emerge poi con prepotenza ascolto dopo ascolto, facendo sì che ad ogni passaggio un brano sempre diverso si manifesti di volta in volta in tutto il suo splendore: così, se il singolo appena citato appare difficilmente superabile, successivamente la stessa impressione verrà fornita dalle ritmiche coinvolgenti e dalle aperture melodiche di A Sail to Sanity e Forgotten Fields, dalla paradiselostiana Once upon a War o dalla superba Aurora, il cui incedere nel finale riporta inevitabilmente alla più grande metal band iberica (in questo caso lusitana) di sempre.
E ancora la struggente Goodbye Hope, dall’enorme potenziale evocativo tra passaggi più soffusi e sussulti drammatici, appare quale picco qualitativo insuperabile, ma successivamente lo stesso può valere per la cangiante The Path to Puya, che dal doom più cupo passa senza alcun contraccolpo alla cristallina voce di Heike Langhans (Draconian), per arrivare al dolente e controllato finale dell’album affidato a La Sibil·la, canzone dal testo interamente in catalano.
Una citazione a parte la merita Nostrum Mare, traccia che è di fatto il manifesto lirico dell’album, con la quale gli Helevorn hanno voluto coinvolgere idealmente gran parte delle le nazioni che si affacciano sul Mediterraneo affidando parti del testo a voci recitanti nelle diverse lingue (è una grande soddisfazione scoprire che per quella italiana sia stato scelto un caro amico come Pablo Ferrarese dei Tenebrae); “Et deixo un pont d’esperança i el far antic del nostre demà perquè servis el nord en el teu navegar / Et deixo l’aigua i la set, el somni encès i el record / Et deixo un pont de mar blava / El blau del nostre silenci d’on sempre neix la cançó”: ecco, chi avesse voglia di tradursi questi versi avrà ben chiaro quale sia lo spessore dell’intero lavoro anche sul piano strettamente poetico.
La produzione affidata ad un fuoriclasse come Jens Bogren rende Aamamata inattaccabile anche dal punto di vista della resa sonora e il resto lo fa la band, capace di tessere melodie assimilabili rapidamente ma destinate a fissarsi per sempre nella memoria, sulle quali poi si staglia la prestazione vocale di un Josep Brunet che, oggi, nella speciale classifica combinata tra clean vocals e growl, si può considerare a buon diritto uno dei migliori cantanti in circolazione.
Non era facile riuscire a fare un ulteriore passo avanti rispetto ad un disco già splendido come Compassion Forlorn, ma gli Helevorn si sono letteralmente superati pubblicando un’opera con la quale si dovrà confrontare da oggi in poi chiunque voglia cimentarsi con il gothic doom.; senza dimenticare, infine, che per le sue caratteristiche Aamamata potrebbe risultare gradito non solo ai doomsters più incalliti aprendo agli Helevorn la possibilità di raggiungere un’audience più vasta, visto che, pur inducendo con costanza alla commozione, il sound non mostra quasi mai le caratteristiche più opprimenti e depressive del genere lasciando spazio solo ad una malinconia che, come un indolente moto ondoso, si infrange sulla nostra anima erodendola poco alla volta.

May the waves remind us of our shame and misery, forever

Tracklist:
1. A Sail to Sanity
2. Goodbye, Hope
3. Blackened Waves
4. Aurora
5. Forgotten Fields
6. Nostrum Mare (Et deixo un pont de mar blava)
7. Once upon a War
8. The Path to Puya
9. La Sibil·la

Line-up:
Josep Brunet – Voices
Samuel Morales – Guitars
Guillem Morey – Bass
Sandro Vizcaino – Guitars
Enrique Sierra – Keys
Xavi Gil – Drums

HELEVORN – Facebook

Burning Witches – Hexenhammer

Hexenhammer risulta così un album perfetto per i fans del genere, una raccolta di brani che poggia su riff, solos taglienti, mid tempo potentissimi ed un tocco magico di thrash teutonico che potenzia ancora di più l’impatto di brani scritti per esaltare i seguaci che, da sotto il palco, assisteranno al rito stregonesco consumato dalle Burning Witches.

La Nuclear Blast non si è fatta sfuggire quella macchina da guerra metallica chiamata Burning Witches e così Hexenhammer, secondo album delle streghe svizzere, esce con in bella mostra il logo della label metal più importante del pianeta, un traguardo preventivato da molti, dopo l’uscita del debutto omonimo dello scorso anno.

Le cinque vestali del metal più classico non tradiscono gli amanti del genere licenziando un lavoro dinamitardo, potente e in grado di far luccicare gli occhi agli adepti del sound ottantiano, ultimamente rinvigorito dal buon lavoro fatto dai Judas Priest.
E proprio dalla band di Rob Halford si parte per parlare di questo concept sul Malleus Maleficarum, testo sulla repressione della stregoneria scritto nel 1487, qui contrastato a colpi di heavy metal classico.
Judas Priest, Accept, Doro, tra lo spartito di questo lavoro troverete di che crogiolarvi con queste band che rappresentano le influenze primarie di queste cinque ragazze.
Hexenhammer risulta così un album perfetto per i fans del genere, una raccolta di brani che poggia su riff, solos taglienti, mid tempo potentissimi ed un tocco magico di thrash teutonico che potenzia ancora di più l’impatto di brani scritti per esaltare i seguaci che, da sotto il palco, assisteranno al rito stregonesco consumato dalle Burning Witches.
L’album parte spedito con Executed e Lords Of War, brani che presentano nel migliore dei modi quello che andrete ad ascoltare: un heavy metal con tutte le caratteristiche ed i cliché del caso, niente che non sia perfettamente incastonato nel genere risultando un gioiellino per chi si nutre di queste sonorità.
Ancora Maiden Of Steel, la title track e Possession ribadiscono l’ottima vena di questo lavoro che lascia alla leggendaria cover di Holy Diver il compito di salutarci, prima che le fiamme avvolgano la catasta di legna su cui brucia, maledicendo gli astanti, l’ennesima vittima dell’ottusa e crudele inquisizione.

Tracklist
1. The Witch Circle
2. Executed
3. Lords Of War
4. Open Your Mind
5. Don’t Cry My Tears
6. Maiden Of Steel
7. Dungeon Of Infamy
8. Dead Ender
9. Hexenhammer
10. Possession
11. Maneater
12. Holy Diver

Line-up
Seraina – Vocals
Romana – Guitar
Sonia – Guitar
Jay – Bass
Lala – Drums

BURNING WITCHES – Facebook

The Order Of Apollyon – Moriah

Se la base di partenza possono essere i Behemoth dello scorso decennio, il tutto viene pervaso da quell’idea obliqua di metal estremo che è caratteristica delle band francesi: quello che ne scaturisce è un album di grande spessore, forse non particolarmente originale, ma trascinante dalla prima all’ultima nota.

Moriah è il terzo full length per i The Order Of Apollyon, band nata alla fine dello scorso decennio con una configurazione transnazionale ma, oggi, al 100% composta da musicisti francesi guidati dal fondatore BST (Sébastien Tuvi), conosciuto per la sua passata militanza negli Aosoth e quella attuale nei notevoli VI.

Assieme a musicisti gravitanti nell’area di band già abbastanza note nella scena estrema transalpina, come Temple Of Baal, Merrimack e Decline Of The I, BST mette in campo un’interpretazione impeccabile del black death, riuscendo a conferire ad Ogni brano una sua fisionomia melodica pure senza far mai scemare la potenza di fuoco del sound.
Se la base di partenza possono essere i Behemoth dello scorso decennio, il tutto viene pervaso da quell’idea obliqua di metal estremo che è caratteristica delle band francesi: quello che ne scaturisce è un album di grande spessore, forse non particolarmente originale, ma trascinante dalla prima all’ultima nota, in virtù di una fruibilità che sembrerebbe a prima vista cozzare con la ferocia esibita e con l’incessante ringhio del leader.
Moriah trova pace solo a tratti, quando qualche attimo di tregua fa capolino nell’incipit di The Lies Of Moriah e Soldat, ma per la sua totalità i The Order Of Apollyon infliggono all’ascoltatore una gragnuola di colpi mortali che sfiorano il death più tetragono in Rites Of The Immolator, per poi aprirsi alla maggiore penetrazione di un brano magnifico come Grey Father, seguito dall’altrettanto efficace The Cradle, melodicamente irresistibile nella sua seconda parte, e da una The Original Cries Of Jerusalem che richiama i Rotting Christ più corrosivi.
Quello che si perde in varietà stilistica viene riacquistato con gli interessi grazie alla veemenza immessa sul piatto da un gruppo capace di manipolare con naturalezza ed efficacia sonorità che, altrimenti, avrebbero rischiato di trasformarsi un invalicabile muro di riff.
Moriah non ci consegna una band capace di riscrivere la storia del genere ma certo è che l’ascolto di album cosi ben costruiti ed eseguiti non deve mai apparire un qualcosa di scontato e, a tutto questo, va aggiunta una buona capacità di sintesi che spinge il quartetto a perseguire uno stile molto più diretto rispetto a quanto fatto dai singoli musicisti all’interno di alcune delle loro altre band.
Una bella sferzata di ragionata violenza che assunta a intervalli regolari non può che migliorare l’umore.

Tracklist:
1. The Lies Of Moriah
2. Rites Of The Immolator
3. Grey Father
4. The Cradle
5. The Original Cries Of Jerusalem
6. Trident Of Flesh
7. Soldat
8. A Monument

Line-up:
B.S.T. – Vocals, Guitars
S.K. – Drums
S.R. – Guitars, Vocals
A.K. – Bass, Vocals

THE ORDER OF APOLLYON – Facebook

Gunfire – Gunfire

Gunfire, per i più giovani e per chi non si imbatté all’epoca nel quartetto marchigiano è una bomba heavy metal, di quelle che non si possono solo archiviare come reperto storico essendo la prova di come, in quegli anni e con tutte le difficoltà del caso, anche nel nostro paese si suonasse metal di prim’ordine.

La Jolly Roger conferma la sua assoluta importanza per i suoni classici battenti bandiera tricolore con l’uscita di questo nuovo formato dello storico ep omonimo dei Gunfire, metal band marchigiana fondata addirittura dal 1981.

L’ep in questione fu rilasciato dal gruppo nel 1984 dopo la pubblicazione di un demo avvenuta nello stesso anno, che la Jolly Roger aggiunge per intero in questa nuova veste con l’aggiunta del brano Fire Cult e la versione live di Thunder Of War.
Gunfire, per i più giovani e per chi non si imbatté all’epoca nel quartetto marchigiano è una bomba heavy metal, di quelle che non si possono solo archiviare come reperto storico essendo la prova di come, in quegli anni e con tutte le difficoltà del caso, anche nel nostro paese si suonasse metal di prim’ordine, ispirato ovviamente dalla New Wave Of British Heavy Metal e dagli inossidabili Judas Priest, ma con una potenza power tutta farina del sacco di un gruppo che dovette poi aspettare vent’anni prima di vedere pubblicato il suo primo full length (Thunder of War 2004).
Hard Steel, Thunder Of War, la title track e la priestiana Wings Of Death, alle quali vengono affiancate le versioni apparse sul primo demo e le altre dinamitarde canzoni, escono in tutta la loro potenza metallica facendo sanguinare altoparlanti e lacrimare occhi in una discesa senza freni fino alle origini dell’heavy metal tricolore.
La band ha pubblicato il bellissimo Age Of Supremacy nel 2014, è poi apparsa dal vivo alla FIM di Genova in forma smagliante con il solo cantante Roberto “Drake” Borrelli della formazione originale, per poi far perdere le proprie tracce fino alla pubblicazione di questa importante ristampa che si spera possa essere foriera di ulteriori novità.

Tracklist
1.Intro
2.Hard Steel (EP Version)
3.Thunder Of War (EP version)
4.Gunfire (EP Version)
5.Wings Of Death (EP Version)
6.Firecult
7.Gunfire (Demo Tape)
8.Thunder Of War (Demo Tape)
9.The Sea Be Your Grave (Demo Tape)
10.Hard Steel (Demo Tape)
11.Bloody Way (Demo Tape)
12.Winged Horses (Demo Tape)
13.Thunder Of War (Live 1984 – Cd Bonus)

Line-up
Lord Black Cat – Guitars
Robert Drake – Vocals
Maury Lyon – Bass
Rob Gothar – Drums

GUNFIRE – Facebook

Rinunci A Satana? – Blerum Blerum

I numi tutelari sono certamente Led Zeppelin e quei disgraziati di Birmingham che riuscirono miracolosamente a scampare ad una vita in fabbrica, e questo materiale in mano a Marco Mazzoldi e e Damiano Casanova diventa un bellissimo reinventare l’occasione per esplorare nuovi lidi, il tutto con visionarietà psichedelica e tanta ironia che li rende un gruppo unico nel panorama italiano e non solo.

Seconda prova per il miglior power duo italiano di sempre, e dire che ve ne sono in giro di coppie musicali, ma nessuna come questi due.

Dopo il primo omonimo disco del 2016 eccoli tornare sul luogo del delitto con una seconda prova ancora migliore. Il genere non è bene definito, poiché i Rinunci a Satana? sono una lunghissima jam che parte dai loro cervelli per arrivare ai nostri, e in questo viaggio si toccano diversi lidi come lo stoner, il prog, lo sludge e il rock and punk alla maniera degli Mc5 e della feccia bianca anni sessanta e settanta. Dimenticatevi le coppie chitarra e batteria un po’ azzimate ed indie che si sono affermate in questi anni, perché qui troverete solo furia e fantasia musicale nelle loro forme più pure e sporche al contempo, un ribollire di note e di creatività che vi colpiranno al cuore. I numi tutelari sono certamente Led Zeppelin e quei disgraziati di Birmingham che riuscirono miracolosamente a scampare ad una vita in fabbrica, e questo materiale in mano a Marco Mazzoldi e e Damiano Casanova diventa un bellissimo reinventare l’occasione per esplorare nuovi lidi, il tutto con visionarietà psichedelica e tanta ironia che li rende un gruppo unico nel panorama italiano e non solo. Ad esempio la settima traccia, La Serata del Gourmet, è un pezzo molto prog anni settanta suonato senza chitarra ma con un synth comandato da una scheda Arduino, ed è un qualcosa di clamoroso. Gli anni settanta ed il loro immaginario sono molto presenti nel disco, dato che è da lì che parte tutto. Quell’epoca fu una fucina immensa di nuovi suoni e di ricerca musicale, l’esatto opposto del pantano mentale e creativo nel quale siamo oggi; allora la direzione era settata unicamente verso l’avanti, oggi su pausa. Non c’è una canzone che annoi, un riempitivo o un calo di divertimento e di soddisfazione. Il lavoro della chitarra è incessante e la batteria è essa stessa una chitarra che pulsa insieme alla titolare. Fughe in avanti senza ritorno, musica senza rimorso in nessun caso, ottime idee e un suono originale ed unico. Non si può rinunciare ai Rinunci a Satana?. Uno dei migliori gruppi italiani underground, e cotanta bellezza è in download libero.

Tracklist
01 Valhalla Rising
02 La Veneranda Fabbrica del Doomm
03 Blerum
04 Blerum
05 Salice Mago
06 Niente di nuovo sul fronte occidentale
07 La serata del Gourmet
08 Chi sta scavando?
09 Dr. Tomas ragtime blues

Line-up
Damiano Casanova – Chitarra
Marco Mazzoldi – Batteria

RINUNCI A SATANA? – Facebook

EXPERIOR OBSCURA

Il video di “Awake, Waking!”, dall’album “Iter In Nebula” in uscita a febbraio (Third-I-Rex).

Il video di “Awake, Waking!”, dall’album “Iter In Nebula” in uscita a febbraio (Third-I-Rex).

First single taken from the upcoming debut album of Experior Obscura “Iter In Nebula”, out in February via Third-I-Rex!

Experior Obscura is not an ordinary black metal act. Its founder Nefastus has been lurking in the Italian black metal underground for almost two decades, taking various identities during his journey.
Better known lately for his participation in Malvento, he has somehow found a way to channel his musicianship in this new revelation of torbid and obscure black metal a few years back yet left unchallenged by any label aiming to support him.
Proudly, Third I Rex will give to the present masterpiece the physical support it deserves, unleashing “Iter In Nebula” in a limited digipack edition.
A jump in a new dimension, where visible and invisible are joined and darkness forever reigns.

releases February 28, 2019

EXPERIOR OBSCURA is Nefastus.
Nefastus – Vocals, Guitars, Bass, Programming

Anno Mundi – Rock In A Danger Zone

Rock In A Danger Zone è un’opera davvero interessante, consigliata agli amanti dei suoni classici che qui troveranno un tributo ai di generi che hanno fatto la storia dell’hard & heavy, sapientemente lavorati da ottimi artisti delle sette note.

Gli Anno Mundi sono un gruppo di rockers capitolini fondato dal chitarrista Alessio Secondini Morelli, del quale abbiamo parlato non tropo tempo fa in occasione dell’uscita di Hyper-Urania, il suo lavoro solista licenziato nel 2017.

Ad accompagnare il chitarrista troviamo l’altro fondatore del gruppo, il batterista Gianluca Livi, il tastierista Mattia Liberati e il bassista Flavio Gonnellini (anche dei progsters Ingranaggi Della Valle) e il cantante Federico “Freddy Rising” Giuntoli, con un passato nei Martiria.
Rock In A Danger Zone, licenziato solo in vinile, risulta una raccolta di brani dal sound vario, nel corso della quale la band passa dall’hard rock classico a sfumature southern, da ispirazioni progressive al metal di stampo epico in un susseguirsi di sorprese e tributi all’hard & heavy del ventennio settanta/ottanta.
La perizia dei musicisti coinvolti fa sì che Rock In A Danger Zone non abbia una sola nota che non faccia sobbalzare sulla sedia gli amanti del classic rock e del metal, a partire già dalla prima bellissima traccia Blackfoot, tributo alla storica band americana che gli Anno Mundi ricamano di sfumature purpleiane.
Si cambia registro e la cavalcata in epico crescendo di Megas Alexandros farà la gioia di molti, con una prestazione di notevole impatto lirico di Giuntoli e ispirazioni che oscillano tra Rainbow e Manowar, passando per i Virgin Steele.
Chiude il primo lato la possente Searching The Faith, hard doom di notevole impatto, mentre un tributo al racconto lovecraftiano The Music of Erich Zann apre la seconda parte dell’album, che vede a seguire l’hard rock progressivo della magnifica Pending Trial, la cover di Fanfare, brano dei Kiss tratto dal controverso e poco compreso Music From The Elder, ed un medley di brani registrati dal vivo dagli Anno Mundi al RoMetal nel 2014.
Rock In A Danger Zone è un’opera davvero interessante, consigliata agli amanti dei suoni classici che qui troveranno un tributo ai di generi che hanno fatto la storia dell’hard & heavy, sapientemente lavorati da ottimi artisti delle sette note.

Tracklist
Side A
1.In the saloon
2.Blackfoot
3.Megas Alexandros
4.Dark Matter (Nibiru’s Orbit)
5.Searching The Faith

Side B
1.Tribute To Erich Zann
2.Pending Trial
3 – Fanfare
4.Live Medley
a) – Shining Darkness
b) – Dwarf Planet
c) – Timelord
d) – God Of The Sun

Line-up
Federico Giuntoli – vocals
Alessio Secondini Morelli – electric guitars, effects, bk vocals
Flavio Gonnellini – bass
Mattia Liberati – keyboards
Gianluca Livi – drums, percussions

Special guests:
Emiliano Laglia – bass (“Fanfare” and “Live Medley”)
Massimiliano Fabrizi – mandola (“In the Saloon”)

ANNO MUNDI – Facebook

Imperial Jade – On The Rise

Album bello e piacevole, On The Rise non brilla certo per originalità, ma vive di emozioni vintage che sono la forza dei brani presenti, risultando un acquisto obbligato per gli amanti del rock suonato negli anni settanta.

Siamo entrati nel 2019 e l’ondata rock vintage che si infrange sulle scogliere del mercato odierno continua a regalare perle di indubbio spessore come questo bellissimo lavoro degli spagnoli Imperial Jade, rock band in arrivo dalla provincia di Barcellona.

On The Rise è il titolo di questo ottimo album, un tributo al rock degli anni settanta, decennio dominato dal dirigibile più famoso della storia del rock.
Profuma di Bron Y Aur, questo lavoro, luogo magico per Plant e soci e dove sembra che gli Imperial Jade siano stati ispirati per la scrittura di questa raccolta di brani che affondano le loro radici nei primi quattro lavori dei Led Zeppelin.
Ovviamente è passato quasi mezzo secolo ed il sound degli Imperial Jade vive pure di altre icone del rock (Cream, Bad Company) o più giovani colleghi (Rival Sons), ma è indubbio che chiudendo gli occhi la chioma di un giovane Plant e la chitarra di Page siano le prime e più chiare immagini che si formano nella nostra mente all’ascolto del riff di Dance, che sa tanto di Custard Pie, Sad For No Reason che sembra uscita dalle sessions di Led Zeppelin III, mentre nel bel mezzo di The Call vive Whole Lotta Love e la Since I’ve Been Love In You degli Imperial Jade si intitola Lullaby In Blue.
Il quintetto di Maresme ha il pregio di far rivivere le emozionanti partiture create dal martello degli dei con la convinzione di chi conosce la materia a menadito, scendendo dal dirigibile per un paio di brani (Keep Me Singing e Heat Wave) ma risalendovi in tempo nella conclusiva Struck By Lightning, brano in cui confluiscono sentori di Deep Purple anche per la presenza dell’hammond.
Album bello e piacevole, On The Rise non brilla certo per originalità, ma vive di emozioni vintage che sono la forza dei brani presenti, risultando un acquisto obbligato per gli amanti del rock suonato negli anni settanta.

Tracklist
1.You Ain’t Seen Nothing Yet
2.Dance
3.Sad For No Reason
4.The Call
5.Glory Train
6.Lullaby In Blue
7.Keep Me Singing
8.Heat Wave
9.Rough Seas
10.Struck By Lightning

Line-up
Arnau Ventura – Vocals
Alex Pañero – Guitar
Francesc López Lorente – Drums
Hugo Nubiola – Guitar
Ricard Turró – Bass

IMPERIAL JADE – Facebook

Dewfall – Hermeticus

Hermeticus è un album riuscito ma che, al contempo, è propedeutico ad un ulteriore salto di qualità, specialmente se l’attività della band dovesse svilupparsi con maggiore frequenza e regolarità, considerato che la base di ripartenza è collocata già piuttosto in alto.

Dopo un silenzio piuttosto lungo tornano i baresi Dewfall con il loro black death davvero ricco di spunti di interesse e tutt’altro che appiattito sulle posizioni più confortevoli del genere.

La band pugliese offre un album che ha il grande pregio di non risentire troppo della sua lunghezza, in virtù di un sound cangiante senza scadere nella dispersività; a tale riguardo si rivela giustamente esemplificativo il brano d’apertura The Abomination Throne, nel corso del quale vengono esibite tutte le armi a disposizione, a partire da un approccio tecnico che concede il giusto spazio a passaggi solisti di grande pregio per finire con ampie aperture melodiche, anche con l’utilizzo di ottime clean vocals, passando per qualche dissonanza che riporta all’evoluzione del sound che ha coinvolto protagonisti iniziali della scena black come Ihsahn o gli Enslaved.
Se la successiva canzone Murex Hermetica conferma appieno le doti esibite nella precedente taccia, Monolithic Dome e Apud Portam Ferream sono decisamente validi episodi ma in qualche modo più canonici e meno penetranti, mentre The Eternal Flame of Athanor gode di un magnifico lavoro chitarristico che fa veleggiare il brano verso un coinvolgente finale intriso di robusta epicità.
Moondagger, The Course to Malkuth e Apostasy of Hopes mantengono il lavoro su livelli analoghi, anche grazie agli spunti della chitarra solista che intervengono a spezzare trame che, in questi ultimi brani, perdono un pizzico di incisività e se proprio si vuole fare un appunto ai Dewfall è proprio quello d’aver proposto una scaletta che vede i suoi picchi nella parte iniziale, anche se non si può certo dire che le tracce conclusive non siano l’altezza della situazione.
Del resto mantenere elevata la tensione per oltre cinquanta minuti non è banale, ma la cosa ai Dewfall riesce con buona continuità, anche perché i musicisti coinvolti si rendono protagonisti di una prova notevole, con menzione d’obbligo per il lavoro di Flavio Paterno alla chitarra, capace di ricavare importanti sbocchi melodici ad un sound spesso molto abrasivo con splendide fiammate soliste.
Hermeticus è un album riuscito ma che, al contempo, è propedeutico ad un ulteriore salto di qualità, specialmente se l’attività della band dovesse svilupparsi con maggiore frequenza e regolarità, considerato che la base di ripartenza è collocata già piuttosto in alto.

Tracklist:
1. The Abomination Throne
2. Murex Hermetica
3. Monolithic Dome
4. Apud Portam Ferream
5. The Eternal Flame of Athanor
6. Moondagger
7. The Course to Malkuth
8. Apostasy of Hopes

Line-up:
Flavio Paterno – Guitars (2003-present)
Saverio Fiore – Bass (2011-present)
Vittorio Bilanzuolo – Vocals (2011-present)
Antonio “Eversor” Lacoppola – Drums (2016-present)

DEWFALL – Facebook

Larsen – Tiles Ep

Sedersi, mettersi le cuffie ed ascoltare Tiles è un atto molto bello ed insieme positivo per il vostro cervello, che essendo sempre connesso sarà stanchissimo: questi signori torinesi insieme a Miss Bendez hanno una meravigliosa medicina.

Tornano i torinesi Larsen, uno dei pochi gruppi italiani veramente di avanguardia e di rottura.

Parlare di avanguardia è però in questo caso un po’ vuoto, poiché i Larsen fanno da sempre musica alla loro maniera, senza guardare se siano avanti od indietro. In questi venti anni circa di carriera il gruppo ha fatto ascoltare a chi lo ha voluto una visione della musica profondamente diversa rispetto a quella comune e a quella della massa, ovvero un flusso naturale che coglie e narra la realtà ed oltre. I Larsen sono forse l’unico gruppo italiano che ha saputo trarre ispirazione dalle band del post punk inglese e da una certa concezione di musica minimale americana, per arrivare a proporre una sintesi originale e molto personale che in questo ep si avvale della validissima collaborazione di Annie Bendez, che magari non conoscete di nome ma probabilmente di fama, poiché è stata con i Crass nonché musa del dub e molto altro della On-U Sound. La sua voce è quella di una narrazione fuori dal tempo e dal tempio, di un cercare senza sosta, di un parlare sopra una musica ipnotica e molto fisica ma al contempo eterea e leggera. Tiles è un racconto di viaggi in terre lontane, di impercettibili movimenti della nostra tazzina di caffè, di cose che pensiamo e non ci siamo mai detti. La dolcezza mista a verità e crudezza dei rari momenti di illuminazione che seguono a momenti indolenti o dolorosi, un guardare meglio per vedere oltre. Recentemente è uscito un documentario della televisione nazionale italiana sul cosiddetto indie, l’insopportabile necessità di essere alternativi per fare mainstream, e i Larsen sono una delle cose più lontane da questa tragedia musicale ed umana, sono un gruppo che fa cose molto belle e godibili, soprattutto durature, perché questo ep con Little Annie girerà molto nelle orecchie di chi vuole andare oltre. L’uso dell’elettronica nei Larsen raggiunge vette molto alte, dato che si fonde completamente con altre forme musicali e fuoriesce in maniera del tutto naturale. Sedersi, mettersi le cuffie ed ascoltare Tiles è un atto gradevole ed insieme positivo per il vostro cervello, che essendo sempre connesso sarà stanchissimo: questi signori torinesi insieme a Miss Bendez hanno una meravigliosa medicina.

Tracklist
1. First Song
2. Barroom Philosopher Pt. 1
3. She’s So So
4. Barroom Philosopher Pt. 2

Line-up
Fabrizio Modonese Palumbo – Guitar, electric viola
Little Annie – Vocals
Marco Schiavo – Drums, cymbals, percussions, glockenspiel
Paolo Dellapiana – Keyboards, synths, electronics
Roberto Maria Clemente – Guitar

LARSEN – Facebook