Protector – Summon The Hordes

I Protector tirano su, a forza di riff sparati a velocità proibitive e ritmiche da bombardamento, un muro metallico invalicabile risultando per il genere suonato una band su cui si può sicuramente contare.

Non cambia di una virgola il sound dei Protector, al settimo sigillo di una discografia infinita, tra demo, split, compilation ed appunto sette lavori sulla lunga distanza compreso questo inossidabile Summon The Hordes.

A tre anni di distanza dal precedente Cursed And Coronated, la band tedesco/svedese ci investe ancora una volta con il suo thrash metal di scuola teutonica, un carro armato metallico con le scritte Sodom-Kreator-Destruction in evidenza sulla bocca del cannone.
I Protector però non sono semplicemente dei cloni: la loro storia, partita a metà anni ottanta non lascia dubbi sulla loro attitudine old school, così come un impatto che non ha nulla da invidiare alla famosa triade del thrash metal europeo.
Un sound, quello dei Protector, rimasto fedele a sé stesso per oltre tre decenni, quindi se amavate la band prima di questo lavoro, sicuramente Summon The Hordes non vi deluderà.
Voce cartavetrata, ritmiche speed/thrash, cavalcate metalliche e accelerazioni devastanti persistono nel sound di queste dieci nuove bombe sonore, assolutamente ignoranti e senza compromessi così come il thrash metal di matrice old school vuole.
Difficile trovare un brano che più rappresenti il gruppo, i Protector tirano su, a forza di riff sparati a velocità proibitive e ritmiche da bombardamento, un muro metallico invalicabile risultando per il genere suonato una band su cui si può sicuramente contare.

Tracklist
1. Stillwell Avenue
2. Steel Caravan
3. Realm of Crime
4. The Celtic Hammer
5. Two Ton Behemoth
6. Summon the Hordes
7. Three Legions
8. Meaningless Eradication
9. Unity, Anthems and Pandemonium
10. Glove of Love

Line-up
Martin Missy – vocals
Michael Carlsson – guitar
Mathias Johansson – bass
Carl-Gustav Karlsson – drums

PROTECTOR – Facebook

Painqirad – Empires’ Sema’yi

Qui tutto ha il suo tempo, la crescita di melodie molto diverse da come le intendiamo è graduale e credibile, portando avanti l’essenziale concetto che ascoltare la musica di popoli diversi fa parte del processo di comprensione della loro cultura.

Nel sottobosco musicale ci sono spesso vere e proprie gemme da scoprire e da cullare, come questo lavoro del multistrumentista Damiano Notarpasquale sotto il nome Painqirad.

Damiano è uno studioso della musica in tutte le sue forme e si è sviluppata in maniera binaria: l’universo metal è sempre stata la sua passione, mente ha portato avanti studi classici musicali al conservatorio studiando inizialmente clarinetto e trombone, per poi avvicinarsi al jazz, al sassofono e alle musiche del mondo, in special maniera quella araba. Questo lavoro è infatti una bellissima dichiarazione d’amore in musica per il mondo e la sue diversità. Damiano si è innamorato della musica araba nel 2014 e la sua seconda tesi di conservatorio è un metodo per trombone per suonare musica araba e turca. Nasce da queste sonorità, unite ad una certa visione del metal, questo disco che è qualcosa di magnifico, un’eruzione musicale, un’unione di stili e di ritmi diversi che si incontrano nel deserto e proseguono ben oltre. Preponderante è la parte della musica araba, che possiede una metrica molto diversa dalla nostra, e che in questo caso viene supportata da intarsi metal molto adeguati. Il disco è stato registrato in soli dieci giorni, ma c’è un lavoro immenso dietro, con una produzione maestosa che ne rende al meglio le atmosfere. Empires Sema’Yj è un disco dall’immaginario potentissimo, trasporta in un futuro, o forse un passato in cui le dune incontravano il silicio, montagne di sabbia da attraversare senza posa, un miraggio nel caldo soffocante del deserto e tanto altro. Damiano riesce a rendere della atmosfere magiche ed uniche, unendo alla perfezione tutte le componenti e facendolo non in maniera fragorosa e caciarona nella quale ci si imbatte altrove in più di un qualche caso. Qui tutto ha il suo tempo, la crescita di melodie molto diverse da come le intendiamo è graduale e credibile, portando avanti l’essenziale concetto che ascoltare la musica di popoli diversi fa parte del processo di comprensione della loro cultura. E qui l’ascolto è ricchissimo, per un risultato unico nel suo genere.

Tracklist
1.Tahmila
2.Saz Temple
3.Nubah No. 10
4.Dunes
5.Allayl Nahawand
6.Taksim
7.Nawakht
8.Iron, Far Away

Line-up
Damiano Notarpasquale – soprano clarinet, G clarinet, alto sax, tenor sax, trombone, ney, zurna, bağlama, algerian mondol, mandolin, keyboards, guitars, bass, bendir, darbuka

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Burial In The Woods – Church of Dagon

Burial In The Woods diviene, grazie a questo primo passo discografico, un altro dei nomi da tenere sotto stretta osservazione in ambito doom, stante l’incedere strisciante, disturbante ma al contempo ricco di oscuro fascino.

Burial In The Woods è il nome del nuovo progetto di Gerileme, musicista tedesco noto anche per la sua attività solista con l’altro monicker Asche der Welten.

Se in quel caso il genere proposto gravita in ambito black/ambient, con Church Of Dagon il nostro esplora le tematiche lovecratftiane con il genere d’elezione che il doom metal.
Questo lavoro presenta più di un motivo di interesse visti i diversi elementi che vanno alimentare la struttura di un sound che, volendo esemplificare al massimo, rappresenta una sorta di ideale punto di confluenza fra i Doomed del connazionale Pieere Laube, i Monolithe e tutte le altre band che, nel genere, utilizzano l’organo quale strumento portante, partendo dagli imprescindibili Skepticism, passando per i Profetus e sfiorando in più di un passaggio anche gli Abysmal Grief.
Forbidden Pages apre l’album in maniera arcigna, lasciando ad un lavoro chitarristico dai tratti vagamente orientaleggianti il compito di delineare un sound che si fa ben più avvolgente grazie al dominio dell’organo nella splendida e prevalentemente strumentale Ecclesia Dagoni.
Growing Shadows appare una sorta di sintesi tra i brani precedenti, con i due strumenti chiave che si alternano nel condurre un brano che, come gli altri possiede, una forte connotazione orrorifico/liturgica, in ossequio al titolo dell’album.
La conclusiva traccia, Gölgeler Alemi, dura da sola quanto le tre precedenti messe assieme, ovvero circa 25 minuti, e rappresenta la rielaborazione di un brano che lo stesso Gerileme pubblicò nel 2008 in occasione dell’unico album dei Negatum, Suizid – Der Gedanken Schattenspiele: si tratta di un’interminabile quanto notevole litania, con un breve testo in turco che si sposa alla perfezione con il resto del lavoro, a dimostrazione del buon talento compositivo che esibito nell’intera opera.
Burial In The Woods diviene,  così, grazie a questo primo passo discografico, un altro dei nomi da tenere sotto stretta osservazione in ambito doom, stante l’incedere strisciante, disturnìbante, ma al contempo ricco di oscuro fascino che dovrebbe attecchire agevolmente nei confronti degli appassionati che apprezzano le band citate nel orso dell’articolo.

Tracklist:

1. Forbidden Pages
2. Ecclesia Dagoni
3. Growing Shadows
4. Gölgeler Alemi

Line-up:
Gerileme