Lamori – To Die Once Again

To Die Once Again è un potenziale top album, specialmente per chi ama il lato più romantico e melodico del gothic/dark

La Finlandia ha una lunga tradizione per le sonorità ispirate al gothic metal di estrazione dark rock, genere che, negli anni ottanta, ha visto il suo massimo splendore specialmente con il successo delle band britanniche capitanate da Sister Of Mercy, The Mission e Fields Of The Nephilim, ed in parte dal filone tedesco degli anni novanta con in testa i Lacrimosa.

Molti gruppi partiti come death metal band (Sentenced) o ispirati ai suoni rock’n’roll ( The 69 Eyes), si sono, nel corso degli anni, convertiti al lato più oscuro e romantico del rock, rifilando album bellissimi e rimpolpando la scena, così avara di realtà sopra le righe.
Il genere in questi anni è stato messo in ombra dal successo del gothic metal, figlio tanto del dark, quanto delle sonorità più estreme, diventato l’ascolto principale delle anime della notte nei più oscuri locali europei.
Ma, fortunatamente, a volte capita di imbattersi in creature della notte che, a discapito delle mode, guardano con i loro occhi felini alle storiche band citate, lasciando giustamente che gli ultimi vent’anni di musica oscura non siano passati invano.
To Die Once Again, licenziato dalla nostrana Wormholedeath secondo full lenght dei finlandesi Lamori, è uno di questi esempi.
Attiva dal 2009, con un primo ep dal titolo The Reservoirs of Darkness, seguito dall’album Deadly Desires, la band sforna un secondo capitolo che incorpora, da tradizione del gruppo, elementi presi dal sound ottantiano, amalgamandoli con il mood hard rock/metal, caro alle band che più hanno entusiasmato negli anni a cavallo dei due millenni: nelle trame e nelle atmosfere notturne di brani come l’opener Until Death (Do Us Part), Lost In Love, la dolce e tenebrosa titletrack e Palace Of Pleasure, troverete richiami al sound dei vari Him, Poisonblack e compagnia di vampiri.
Nulla a che fare, quindi, con le trame orchestrali dei gruppi capitanati dalle ugole celestiali delle varie muse gotiche: molto più diretti e rock oriented, i Lamori vanno subito al sodo (al collo), tramutando in schiavi di sangue i poveri malcapitati fans.
Melodie dall’appeal molto alto, un sound da far sballare orde di pipistrelli e tanto feeling notturno, non passeranno inosservati, facendo di To Die Once Again un potenziale album top, specialmente per chi ama il lato più romantico e melodico del genere, ed occhio alla giugulare.

TRACKLIST
1. T.D.O.A Prelude
2. Until Death (Do Us Part)
3. Lost in Love
4. Chapter IV
5. To Die Once Again
6. Follow the Ghost
7. Drown Me
8. The Beauty of a Wilted Rose
9. Intermezzo
10. Wicked Little Things
11. Palace of Pleasure
12. T.D.O.A Postlude

LINE-UP
Matias – Vocals
Pellas – Guitar
Mikael – Bass
Jens – Keys
Sanchez – Drums

LAMORI – Facebook

Lizzies – Good Luck

Non cambieranno il mondo della nostra musica preferita, ma in quanto ad impatto ed attitudine le Lizzies superano di molto i giovani fenomeni pubblicizzati a più riprese dagli addetti ai lavori.

Dalla Spagna, tramite The Sign Records arrivano queste quattro ragazze al debutto sulla lunga distanza con Good Luck, un buon lavoro di metal old school, che non disdegna un approccio hard & roll.

La band, attiva dal 2010 ha già licenziato un demo ed un ep, End Of Time, uscito nel 2013, ed ora si lancia sul mercato con le minime credenziali per non passare inosservata nell’universo underground.
Il gruppo di Madrid ha nell’impatto ruvido e senza fronzoli la sua più accentuata virtù, il sound proposto è una buona versione delle influenze, marcate dei gruppi storici del rock/metal mondiale, a partire dai Motorhead, per passare da casa Iron Maiden e Thin Lizzy.
Si potrebbe tranquillamente parlare di rock’n’roll, non fosse che molti dei solos guardano alla New Wave Of British Heavy Metal e l’atmosfera rimane tesa e poco riscontrabile con il rock da party.
Le Lizzies non sono qui per rallegrare la serata, il loro sound vive di una sana attitudine metallica, le songs forse mancano di ritornelli facilmente orecchiabili, ma l’intensità è buona ed una manciata di brani di discreta fattura.
L’opener Phoenix richiama la storica For Those About To Rock degl AC/DC, mentre Viper guarda al sound britannico ed alla vergine più famosa del metal, a tratti le ritmiche si fanno rockeggianti, segno che le ragazze hanno preso lezione dal Prof.Lemmy, con Good Luck che continua il suo viaggio tra le influenze del gruppo.
Night In Tokio e la conclusiva 8 Ball regalano ancora del buon metal old school, arrivando in fondo senza neanche una ballad, segno dell’attitudine da rockers dure e pure delle Lizzies.
Detto di una buona prova generale delle musiciste, Good Luck rimane un disco piacevole, suonato con l’anima e senza grosse cadute di tono, per cui lo si promuove e consiglia agli amanti delle sonorità classiche e delle band di riferimento.
Non cambieranno il mondo della nostra musica preferita, ma in quanto ad impatto ed attitudine le Lizzies superano di molto i giovani fenomeni pubblicizzati a più riprese dagli addetti ai lavori.

TRACKLIST
1. Phoenix
2. 666 Miles
3. Viper
4. Mirror Maze
5. Night in Tokyo
6. Speed on the Road
7. One Night Woman
8. Russian Roulette
9. 8 Ball

LINE-UP
Motorcycle Marina – Bass
Patricia Strutter – Guitars
Elena Zodiac – Vocals
Saray Sáez – Drums

THE LIZZIES – Facebook

Lizzies – Good Luck

Bastian – Rock Of Daedalus

Un album compatto, valorizzato dalla prova di un Vescera sontuoso, di un Macaluso che sfodera tutta la sua esperienza alle pelli, ben sostenuto dal basso di Giardina, e dalla sei corde dell’axeman nostrano, un chitarrista sanguigno che lascia ad altri virtuosismi fini a se stessi e mette il suo talento a disposizione dei brani

Quello che poteva sembrare un progetto estemporaneo, ha trovato la sua definitiva consacrazione con l’uscita di questo secondo album e i Bastian di Sebastiano Conti possono essere considerati una band a tutti gli effetti.

Due anni fa il chitarrista siciliano aveva stupito tutti con Among My Giants, un bellissimo album di hard’n’heavy che vedeva il buon Conti circondato da un nugolo di musicisti storici della scena come Vinnie Appice, Mark Boals, Michael Vescera e John Macaluso.
Lo scorso anno Among My Giants tornava a far parlare di sé con la riedizione curata dall’Underground Symphony, label per cui esce questo nuovo Rock Of Daedalus con il gruppo ridotto a quattro elementi : Sebastiano Conti alla sei corde, Michael Vescera al microfono, John Macaluso alle pelli e Corrado Giardina al basso.
Rock Of Daedalus non sposta di una virgola il concept musicale su cui si destreggia il chitarrista siciliano: il sound influenzato dalla scena ottantiana e dai mostri sacri del genere, perfettamente bilanciato tra hard rock ed heavy metal, continua a mietere vittime con questi dieci brani ruvidi e diretti, aggressivi e potenti ma tremendamente efficaci.
Una album compatto, valorizzato dalla prova di un Vescera sontuoso, di un Macaluso che sfodera tutta la sua esperienza alle pelli, ben sostenuto dal basso di Giardina, e dalla sei corde dell’axeman nostrano, un chitarrista sanguigno che lascia ad altri virtuosismi fini a se stessi e mette il suo talento a disposizione dei brani, così che possano esplodere in tutta la loro carica hard rock.
Massiccio è forse il termine più adatto per descrivere il sound di questo lavoro, e la band, fin dall’opener Strange Toughts, sfodera ritmiche dal groove viscerale, molto più zeppeliniane rispetto al suo predecessore.
Il mid tempo roccioso di The Pide Piper torna ad esplorare il sound dei Black Sabbath era Tony Martin, mentre Vlad e Terminators confermano la voglia di far male di questa multinazionale dell’hard & heavy, supportata da un Vescera in stato di grazia, epico ed emozionale.
Conti ricama di solos sanguigni e riff tutta grinta e potenza le varie songs, e siamo già alla metallica Steel Heart, apice di questo bellissimo lavoro, un brano heavy metal disegnato coi colori dell’arcobaleno più famoso della nostra musica preferita.
Smokin’ Joe e la ballad Wind Song, chiudono questo ritorno sopra le righe dei Bastian, confermando quello di Sebastiano Conti un gruppo che non può mancare tra gli ascolti degli amanti dell’hard’n’heavy di estrazione classica.

TRACKLIST
1.Strange Thoughts
2.The Pide Piper
3.Vlad
4.Terminators
5.Man Of Light
6.Man In Black
7.18 In Woodstock
8.Steel Heart
9.Smokin’ Joe
10.Wind Song

LINE-UP
Sebastiano Conti- Guitars
Michael Vescera- Vocals
John Macaluso- Drums
Corrado Giardina- Bass

BASTIAN – Facebook

Excruciation – (C)rust

Album che come nella migliore tradizione delle opere di genere cresce con gli ascolti, necessitando di tempo ed attenzione così da farlo proprio in tutte le sue sfumature

Torna al full lenght la storica band svizzera Excruciation, dopo una serie di singoli ed ep che ha caratterizzato la discografia degli ultimi due anni.

Partito una trentina di anni fa come thrash metal band, il gruppo di Zurigo ha nel corso del tempo spostato le sue coordinate stilistiche verso un doom/death grezzo, alimentandolo con ottime atmosfere dark, come si evinceva dall’ep Twenty Four Hours, recensito su queste pagine.
Questo lavoro riprende in parte l’irruenza del sound proposto sui precedenti lavori come (G)host, senza perdere le atmosfere oscure ed ottantiane espresse nelle ultime releases.
(C)rust trova nella nuova via intrapresa dal gruppo, una sorta di linfa che contribuisce a rendere il sound più fresco e vario, le atmosfere si alternano, così come il canto di Eugenio Meccariello che passa da uno stile estremo al profondo tono gothic/dark.
I ritmi si mantengono cadenzati, le chitarre abrasive, l’atmosfera sabbatica delle songs viene destabilizzata da sfumature ora dark, ora più orientate verso un metal che, dal vecchio sound suonato dal gruppo, prende l’aggressività e l’impatto.
A mio parere i due brani che si discostano di più dalla proposta monolitica e senza compromessi del gruppo risultano i momenti migliori di (C)rust: la dark oriented Olympus Mons, perfetta via di mezzo tra il gothic/dark classico e quello più intimista e dolente dei Joy Division (di cui la band ha offerto una valida cover nell’ep Twenty For Hours) e la gothic metal Days Of Chaos, che richiama i primi Paradise Lost, specialmente nella performance vocale vicina a quella del Nick Holmes di Icon.
Album che come nella migliore tradizione delle opere di genere cresce con gli ascolti, necessitando di tempo ed attenzione così da farlo proprio in tutte le sue sfumature, (C)rust conferma il gruppo svizzero come un valido esponente dello stile proposto e da riscoprire se siete amanti delle sonorità plumbee e cadenzate che fanno capo alla musica del destino.

TRACKLIST
1. Judas’ Kiss
2. Disgrace
3. Olympus Mons
4. Lutheran Psalms
5. The Scent of the Dead
6. Borderline
7. Days of Chaos
8. Glorious Times

LINE-UP
D.D. Lowinger – Bass
Andy Renggli – Drums
Marcel Bosshart – Guitars
Hannes Reitze – Guitars
Eugenio Meccariello – Vocals

EXCRUCIATION – Facebook

www.youtube.com/watch?v=var78obYE3s

Voltumna – Disciplina Etrusca

Il mondo etrusco si presta benissimo ad essere rivisitato attraverso un linguaggio metal, e i Voltumna lo fanno con sensibilità e passione.

Secondo disco per questo gruppo nato in Toscana, alfiere della cultura etrusca trasposta nel linguaggio metal.

Dopo un primo demo di quattro pezzi, Chimera, uscito nel 2011, hanno pubblicato l’esordio sulla lunga distanza Damnatio Sacrorum nel 2012, disco che li ha portati a suonare in lungo ed in largo per l’Italia. Arrivati al secondo album, i Voltumna si dimostrano un gruppo molto sicuro dei propri mezzi, proponendo un death black metal classico molto ben bilanciato e ben suonato. Non ci sono pause per tutta la durata del disco e l’ascoltatore viene incalzato ed inseguito con veemenza. I Voltumna sono discendenti degli etruschi, forse il più meraviglioso e misterioso popolo che abbia visto il suolo italico. Disciplina Etrusca era l’insieme delle arti, dei rituali e delle dottrine, in pratica la summa di quella cultura. Il mondo etrusco si presta benissimo ad essere rivisitato attraverso un linguaggio metal, e i Voltumna lo fanno con sensibilità e passione, producendo un gran disco che invoglia a conoscere più da vicino quell’antica civiltà. Oltre a ciò Disciplina Etrusca conferma i Voltumna come una delle migliori realtà italiane in ambito metal, infatti stanno girando in Europa e persino in Sudafrica con i Behemoth.

TRACKLIST
1. Roma Delenda Est
2. Prophecy Of One Thousand Years
3. Disciplina Etrusca
4. The Alchemist
5. Bellerofonte
6. Bringer Of Light
7. Tages, Born From The Earth
8. Carnal Genesis
9. Measure The Divine
10. Teofagia
11. Black Metal (Venom Cover)
12. Tirreno

LINE-UP
Zilath Meklhum – Vocals
Haruspex – Guitar
Augur – Drums
Fulgurator – Bass

VOLTUMNA – Facebook

Inishmore – The Lemming Project

Tanta melodia, dunque, per un album piacevolmente metallico in il songwriting si dimostra all’altezza ed i musicisti, senza strafare, ottengono un bel voto per tecnica e feeling.

La Svizzera ha una tradizione metallica di tutto rispetto, specialmente per quanto riguarda i suoni hard rock e metal classici, le band che nel tempo hanno trovato i favori dei fans, anche fuori confine, non sono poche e tra le cime dei monti alpini, così come nelle fiabesche valli, il genere ha trovato un sicuro rifugio, anche nei periodi che hanno visto i suoni classici perdere popolarità tra gli amanti della musica dura.

Gli Inishmore sono una band proveniente da Baden, il loro viaggio nella musica metallica è iniziato nel lontano 1997 e all’alba del nuovo millennio il gruppo licenziò il primo full length, The Final Dance, cui seguirono altri due lavori, Theatre of My Life del 2001 e Three Colours Black del 2004.
Un lungo silenzio discografico ha caratterizzato gli ultimi undici anni, anche se il gruppo si è riformato in effetti nel 2011 arrivando finalmente a dare un seguito all’ultimo lavoro con The Lemming Project, licenziato dalla Label Dark Wings.
Il sound della band si sviluppa con un power metal di scuola teutonica, impreziosito da ottime ritmiche e melodie hard rock;,il cantato femminile non punta alle solite linee sinfoniche, care ai gruppi odierni, ma offre una buona prestazione dal timbro melodico e personale della bravissima Michela Parata.
Tanta melodia, dunque, per un album piacevolmente metallico in cui il songwriting si dimostra all’altezza ed i musicisti, senza strafare, ottengono un bel voto per tecnica e feeling.
Tastiere presenti, ma non invadenti, asce a cui non manca la giusta grinta, chorus dal buon appeal e ritmiche che si alternano tra fughe power e ritmi hard rock, fanno di The Lemming Project un ottimo album, vario e ben fatto, dove ogni brano non scende sotto un livello buono e forma con gli altri un lavoro tutto da ascoltare.
Tra i solchi dei vari brani presentati le sonorità power la fanno da padrone, ma, come detto, non mancano sfumature da arena rock, che mantengono comunque un piglio ruvido, metallico, ottimo per scaldare i cuori dei true defenders, così come dei più pacati rockers vecchia scuola.
Merciful, la folk oriented Finally a Love Song, la cadenzata e old school Manifest, la bellissima Red Lake, power metal song dal piglio drammatico, e i dodici minuti della suite che dà il titolo all’album, un piccolo capolavoro di metal orchestrale e progressivo, sono all’origine del buon risultato finale; un disco che raccoglie una moltitudine di atmosfere hard/power e le ingloba in un unico lavoro che, a tratti, risulta entusiasmante.
Pink Cream 69, Masterplan e Rough Silk, sono i primi nomi che affiorano tra le trame di The Lemming Project, dategli un ascolto, ne vale la pena.

TRACKLIST
1. Cup of Lies
2. Merciful
3. Better off Dead
4. Finally a Love Song
5. Part of the Game
6. Manifest
7. Eternal Wanderer
8. Red Lake
9. Where Lonely Shadows Walk
10. The Lemming Project
11. Where Lonely Shadows Walk (Acoustic)

LINE-UP
Michela Parata-Vocals
Fabian Niggemeier-Guitars
Jarek Adamowski-Guitars
Alex Ortega-Drums
Pascal Gysi-Keyboards

INISHMORE – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=Tv3RTkKZY5k

Pino Scotto – Live For A Dream

Con il blues signore e padrone del suo background, Pino ci delizia con questi diciotto brani dove non manca una marea di ospiti illustri della scena meta/rock tricolore, a conferma dell’eclettismo di un musicista non rinuncia a collaborare con le nuove generazioni di musicisti, che siano di provenienza metal, rock o addirittura rap.

Mi è difficile parlare di Pino Scotto, un artista che amo profondamente, non solo per la sua carriera musicale che, senza ombra di dubbio, è una della più importanti e gloriose in ambito hard rock ed heavy metal del nostro paese, ma soprattutto come persona, un uomo che incarna il mio pensiero al 100%, fuori da inutili ed obsoleti discorsi di una politica che purtroppo è diventato solo un circo, puro e fuori dagli schemi in modo talmente naturale, che quello che dice, molte volte forzando la mano, anche per una persona non più di primo pelo come il sottoscritto, diventa l’unica ineluttabile verità.

Ed è così che diventa un onore scrivere qualche riga per la nostra ‘zine sull’ultimo lavoro del rocker italiano per antonomasia, una raccolta di brani che ne ripercorre la carriera, dai Pulsar, passando per i gloriosi Vanadium, i Fire Trails e l’esperienza solista.
Un rocker che ha attraversato quarant’anni di musica rock in Italia, un paese dove ancora oggi la musica del diavolo è vista come una fastidiosa sottocultura, anche in questi ultimi anni in cui i talenti continuano a moltiplicarsi.
Con il blues signore e padrone del suo background, Pino ci delizia con questi diciotto brani dove non manca una marea di ospiti illustri della scena meta/rock tricolore, a conferma dell’eclettismo di un musicista non rinuncia a collaborare con le nuove generazioni di musicisti, che siano di provenienza metal, rock o addirittura rap.
Il suo tono graffiante da rocker navigato spadroneggia su questo nuovo Live For A Dream, gli ospiti valorizzano brani stupendi, profondi, molti composti da testi di denuncia contro un mondo ed un sistema a cui il musicista partenoopeo non ha mai concesso nulla, tirando dritto per la sua strada che continua a non avere un punto d’arrivo sul proprio navigatore.
Una truppa di talenti della scena tra cui Roberto Tiranti, Fabio Lione, Ambramarie, Dario Cappanera, Stef Burns, Steve Angarthal, Rob Iaculli, Alex Del Vecchio e Fabio Treves, tra gli altri, fornisce il proprio contributo nel far risplendere questa raccolta, tra classici, ultime produzioni ed inediti (Don’t Touch The Kids e The Eagle Scream, brano scritto in memoria del suo vecchio amico Lemmy, e di cui uscirà un video).
Non mancano, chiaramente, oltre alle più datate produzioni i brani simbolo della sua carriera solista, ora più che mai sulla cresta dell’onda anche per il programma Database che conduce da ormai tredici anni su Rock Tv.
Morta La Città, Quore Di Rock’N’Roll, Signora Del Voodoo e Angus Day, e poi le stupende Dio Del Blues e Third Moon (made in Fire Trails) e via via tutte le altre, fanno di Live For A Dream una completa e suggestiva panoramica sul mondo di Pino Scotto, supportata da un DVD contenente immagini live delle registrazioni in studio, interviste e videoclips, in attesa di ritrovare in giro per i palchi nostrani per l’ennesimo tour questo inesauribile condottiero del rock’n’roll.

PS. Nel 2011, insieme a Caterina Vetro, Pino Scotto fonda Rainbow Projects, un progetto di educazione, sanità e sviluppo nato per contribuire a migliorare le condizioni di vita di bambini estremamente svantaggiati come gli orfani e le vittime di abusi in Belize, quelli della discarica di Coban in Guatemala o a forte rischio di prostituzione minorile e mendicanza in Cambogia: questo, tanto per chiarire, a chi se ne fosse fatta un’idea precostituita o travisata, di che pasta è fatto questo monumento vivente alla vera cultura rock’n’roll.
Un artista che musicisti, fans e addetti ai lavori dovrebbero solo ringraziare ogni volta che fa mattina e ci si alza dal letto …

TRACKLIST
1.Don’t Touch the Kids
2.The Eagle Scream
3.A Man on the Road
4.We Want Live Rock ‘n’ Roll
5.Easy Way to Love
6.Streets of Danger
7.Too Young to Die
8.Dio del Blues
9.Gamines
10.Leonka
11.Spaces and Sleeping Stones
12.Third Moon
13.Come noi
14.Quore di Rock ‘n’ Roll
15.Morta è la città
16.Che figlio di Maria
17.Signora del Voodoo
18.Angus Day

DVD
1.A Man on the Road
2.We Want Live Rock ‘n’ Roll
3.Easy Way to Love
4.Streets of Danger
5.Too Young to Die
6.Dio del Blues
7.Gamines
8.Leonka
9.Spaces and Sleeping Stones
10.Third Moon
11.Come noi
12.Quore di Rock ‘n’ Roll
13.Morta è la città
14.Che figlio di Maria
15.Signora del Voodoo
16.Angus Day

LINE-UP
Pino Scotto-Vocals
Roberto Tiranti, Fabio Lione, Ambramarie – Vocals
Stef Burns, Steve Angarthal, Igor Gianola, Dario Cappanera, Filippo Dallinferno, Ale “Fuzz” Regis – Guitars
Rob Iaculli, Alex Mansi, Marco di Salvia – Drums
Dario Bucca, Ciccio Li Causi – Bass
Alex Del Vecchio. Maurizio Belluzzo – Keyboards
Valentina Cariulo – Violin
Fabio Treves – Haromonica

PINO SCOTTO – Facebook

Diesear – Ashes of the Dawn

Un sound rabbioso, veloce e tempestoso, colmo di scale e solos melodic, accompagnato da un tappeto ritmico che varia tra sgommate micidiali di thrash metal e potenti muri di groove moderno

Questo giovane gruppo proveniente da Taiwan nasce nel 2007, è una delle migliori realtà della scena metallica estrema del loro paese e lo confermano con Ashes Of The Dawn, secondo full length che segue le gesta di The Inner Sear, debutto datato 2009.

In Iyezine siamo abituati a confrontarci con il metal proveniente dai paesi più remoti e fuori dai soliti circuiti, perciò non sorprende più di tanto incontrare una band nata in un luogo inusuale per queste sonorità, proponendo un ottimo compromesso tra il melodic death metal scandinavo ed il metalcore statunitense, reso ancora più brutale e potente da ritmiche thrash metal e valorizzato da un lavoro alle sei corde di altissimo livello.
Un sound rabbioso, veloce e tempestoso, colmo di scale e solos melodici, accompagnato da un tappeto ritmico che varia tra sgommate micidiali di thrash metal e potenti muri di groove moderno, una voce cartavetrata, perfetta per il genere, riescono ad elevare questo album a qualcosa di più che una canonica riesumazione del death melodico portato al successo dalle solite band a cavallo tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo millennio e diciamolo francamente, non è poco.
Taipei, ne Stoccolma o Goteborg, ma Taipei, la nuova frontiera del genere si sposta verso oriente e i Diesear non sono neanche l’unico gruppo di un certo valore che giunge da quei paesi.
India in primis e poi tutte le altre terre che formano il continente asiatico, hanno portato in dote ai vari generi metallici un’orda di gruppi intenti a sviluppare le varie influenze arrivate dall’Europa e dagli States, mettendoci sempre qualcosa di loro, così da non risultare mai banali copie dei più famosi gruppi occidentali.
I Diesear viaggiano a velocità pazzesche sulla transiberiana del metal estremo, Ashes Of The Dawn è una mazzata furibonda, ma attenzione; la tecnica e la personalità di questi giovani musicisti è di alto livello, i brani mantengono un tiro micidiale, la tensione non cala un attimo e come detto le chitarre travolgono l’ascoltatore in un vortice di violenza e melodia da infarto.
Shadows of Grey, la splendida Silent Division e poi via via tutte le altre songs, formano un album che frantuma ogni vostra convinzione su dove si suona meglio il genere in questo inizio millennio, con il quartetto che si candida come una delle più belle sorprese dell’anno, battendo sul campo molti nomi noti in rotazione su Rock Tv e compagnia satellitare.
Primi Soilwork, The Crown, At The Gates e poi Devil Driver e Machine Head, questi sono gli ingredienti con cui il gruppo confeziona un piccantissimo piatto a base di metal estremo, prendete e mangiatene tutti.

TRACKLIST
1. Faith In Ares
2. Shadows Of Grey
3. Fearless
4. Silent Division
5. Corrode My Soul
6. Dying Dust
7. Breath Remains
8. Until The Light
9. Blazing Wings
10. Falling Ashes
11.Dig Your Lies

LINE-UP
Amo – drums
Sui – guitars
Chris-J – guitars
Kurenai – vocals

DIESEAR – Facebook

Temple of Dust – Capricorn

Otto brani, otto viaggi lisergici nella musica dura, otto composizioni che si nutrono di heavy rock, psichedelia, stoner e sostanze illegali, otto danze sabbatiche, litanie messianiche che portano allo sfinimento fisico e mentale.

Otto brani, otto viaggi lisergici nella musica dura, otto composizioni che si nutrono di heavy rock, psichedelia, stoner e sostanze illegali, otto danze sabbatiche, litanie messianiche che portano allo sfinimento fisico e mentale.

Capricorn, debutto sulla lunga distanza dei lombardi Temple Of Dust, prodotto rigorosamente in vinile dalla label romana Phonosphera Records, non concede nulla in facili melodie, bisogna lasciarsi andare e farsi trasportare dalle note sporcate dal blues, violentato da noise e fuzz e dal cantato ruvido e allucinato da effetti e riverberi, come in un trip lungo quaranta minuti.
La band, nata in Brianza da un’idea del bassista/cantante Miky Bengala, a cui si aggiungono il chitarrista Mr. Diniz ed il batterista Beppe Gagliardi, arriva all’esordio dopo due ep, Capricorn del 2014 e Requiem For The Sun dello scorso anno, con questo album che riprende tutti i brani contenuti nei precenti lavori.
Difficile trovare una descrizione precisa per la musica del gruppo, inglobate nel sound del trio vivono molte anime, imprigionate da questo terribile demone lisergico in un unico spartito.
Capricorn va ascoltato come una lunga jam dove al suo interno umori diversi compongono una sola lunga danza messianica, drogata di psichedelia, stravolta da elettricità noise, appesantita dal groove stonerizzato e dalle reminiscenze sludge, un altare costruito con pietra vulcanica e reso monolitico da una gettata di cemento lavico dalla pesantezza sovraumana.
Non un minuto di questo lavoro è concesso a note in linea con le mode di questi tempi, la base su cui si staglia questo tempio di musica, che più underground di così non si può, riconduce agli anni settanta e verrà sicuramente apprezzata dagli amanti di Blue Cheer, Hawkwind e Black Sabbath.
Dalla title track fino alla conclusiva White Owl è un lungo discendere nella bocca di un vulcano verso il centro della terra, per incontrare il demone carceriere e tentare di liberare le anime imprigionate nel sound di Capricorn, ma non ci riuscirete, capitolerete prima, molto prima.

TRACKLIST
1.Capricorn
2.Temple of Dust
3.Requiem For The Sun
4.Szandor
5.Thunder Blues
6.Goliath
7.Lady Brown
8.White Owl

LINE-UP
Miki Bengala- Vocal, Bass
Mr. Diniz-Guitar
Beppe Gagliardi-Drums

TEMPLE OF DUST – Facebook

Savage Master – With Whips and Chains

Dal più profondo abisso dell’underground metallico statunitense, risalgono in superficie i Savage Master, della coppia Adam Neal e Stacey Peak, a caccia di streghe in quel di Salem e nei paesi dell’America occulta di due secoli fa.

Dal più profondo abisso dell’underground metallico statunitense, risalgono in superficie i Savage Master, della coppia Adam Neal e Stacey Peak, a caccia di streghe in quel di Salem e nei paesi dell’America occulta di due secoli fa.

Con fruste e catene, come da titolo, il gruppo proveniente dal Kentucky fa strage di chiunque viene sospettato di stregoneria e adorazione del satanasso, un massacro perpetuato più per soddisfazione sadica della bella sacerdotessa del male, che vera missione contro le forze demoniache.
Non viene risparmiato nessuno, in un’orgia di violenza sadica e senza pietà, paesi e villaggi vengono dati alle fiamme dal gruppo di incappucciati musicisti e dalla terribile Stacey.
La musica che accompagna questa carneficina è un heavy metal old school, dalle buone trame chitarristiche, Iron Maiden e Stormwitch riecheggiano a più riprese nel sound del gruppo che riprende, senza tanti fronzoli, il discordo musicale intrapreso con il primo full length, uscito un paio di anni fa (Mask of the Devil).
La produzione mantiene le caratteristiche old school come il sound proposto, la vocalist urla e sbraita mentre la frusta schiocca sulla pelle di donzelle innocenti accusate di stregoneria, il quartetto di boia incappucciati al servizio della crudele dama affilano le asce e costruiscono altari di legno per bruciare e purificare anime e corpi, mentre le varie songs accompagnano le brutali azioni dei nostri senza però contribuire in modo convincente all’atmosfera oscura del concept.
Produzione soffocata, come le terre avvolte nella nebbia fredda e terrificante scesa ad abbracciare in una stretta morbosa i luoghi dei misfatti, qualche cavalcata metallica dal buon passo, tirano fuori il disco da un mood piatto che attanaglia i brani, così come i solos, taglienti ed abrasivi, la vocalist fa di tutto per caricare l’atmosfera di malvagità e violenza, ma ci riesce solo in parte.
With Whips And Chains scivola così, fino alla fine, senza picchi, non andando oltre una sufficienza risicata, dando l’impressione di un lavoro che non va oltre le preferenze degli amanti del genere.

TRACKLIST
1. Call Of The Master
2. Dark Light Of The Moon
3. With Whips And Chains
4. Path Of The Necromancer
5. Vengeance Is Steel
6. Looking For A Sacrifice
7. Satan’s Crown
8. Burned At The Stake
9. Black Hooves
10. Ready To Sin

LINE-UP
Stacey Peak – Vocals
Adam Neal – Guitar
Larry Myers – Guitar
Brandon Brown – Bass
Zach Harris – Drums

SAVAGE MASTER – Facebook

Words That Burn – Regret is for the Dead

Cambi di umori improvvisi, muri di suoni estremi che vengono spazzati via da ariose parti di intense melodie, dove l’elettronica fa da spartiacque tra il rock ed il mood sintetico, mantenendo però il suono caldo e molto coinvolgente.

La WormHoleDeath, conosciuta ai cultori dell’underground metallico mondiale, ci investe da anni di suoni dei più svariati, mantenendo una qualità altissima delle proprie proposte che vanno dai suoni oscuri del black metal e del death, a squisite divagazioni sinfoniche ed ombrose atmosfere dark, ma senza dimenticare il metal più moderno, dal core alla nuova corrente thrash.

Puntualmente, ogni anno nuove band si affacciano nel panorama della nostra musica preferita, portate all’attenzione dei fans dall’infaticabile label, una piovra metallica dal fiuto eccezionale per il talento musicale, specialmente estremo.
Perché alla fine il termine estremo si adatta non solo al black metal o al death, ma a mio parere anche a proposte che, con buon uso della melodia, propongono qualcosa di diverso dagli stereopiti del rock di massa.
Oggi va molto di moda dare ad un album fuori dagli schemi o semplicemente composto da più sfumature prese da vari generi, la descrizione di alternativo, un modo semplice e diretto e che vale tanto per il rock, quanto per il metal, tenendo però sempre presente l’area su cui si muove il sound di un gruppo.
Ecco che Regrets Is For The Dead, primo lavoro sulla lunga distanza degli irlandesi Words That Burn, nuova scoperta dell’etichetta italiana, ha in se molti elementi del metal estremo moderno, melodico, dall’appeal enorme, ma pur sempre estremo, in un contesto alternativo, che dà all’album quel tocco di maturità in più, quindi non solo classico metalcore alla moda, ma un ottimo riassunto degli ultimi anni di musica metal/rock.
Death metal dall’inossidabile e terremotante groove, un uso delle voci perfetto, bilanciato tra l’aggressività dello scream/growl e la perfetta melodicità delle cleans, un uso parsimonioso ma geniale di parti elettroniche e tanto metallo che fulmina all’istante, scariche elettriche che folgorano incastonate in un songwriting di altissima qualità, ed ecco che il succulento piatto è servito dallo chef, per riempire di note estreme ed alternative le pance di noi ingordi consumatori di musica del nuovo millennio.
Il quartetto di Dundalk mostra muscoli e forza esplosiva, ma la contorna con una tempesta di melodie, lasciando alla varietà dei brani proposti il primo vero punto di forza dell’album.
Cambi di umori improvvisi, muri di suoni estremi che vengono spazzati via da ariose parti di intense melodie, dove l’elettronica fa da spartiacque tra il rock ed il mood sintetico, mantenendo però il suono caldo e molto coinvolgente.
Our New Sin, Disappear, Chalklines, l’intensa Mirror Perfect Mannequin, sono i picchi di questo bellissimo lavoro che riconcilia con il metal moderno, consigliato a tutti indistintamente, altrimenti che ci stiamo a fare nell’anno di grazia 2016?

TRACKLIST
1. Our New Sin
2. Unalive
3. Disappear
4. Chalklines
5. Hush
6. Scars
7. Mirror Perfect Mannequin
8. In This Moment
9. The Phoenix
10. Last Breath

LINE-UP
Roni MacRuairi – Vocals & Guitar
Ger Murphy – Bass & Vocals
Shane “Beano” Martin – Guitars & Vocals
Jason Christy – Drums

WORDS THAT BURN – Facebook

Mayfair – My Ghosts Inside

Emozioni, è proprio di questo che non smettiamo mai di aver bisogno, e fortunatamente ci ancora sono artisti come i Mayfair che ne elargiscono a profusione

Era il lontano 1993, quando aprivo il portafoglio nel mio negozio di fiducia per procurarmi l’opera prima dei Mayfair, band unica nell’universo del progressive, specialmente dopo lo scioglimento delle catene che tenevano il genere legato ai clichè settantiani e all’apertura ad altri suoni, magari mal digerita dai vecchi fans di dinosauri in continua e drammatica estinzione, ma assolutamente essenziale per portare il genere in salute, nel nuovo millennio, senza risultare obsoleto.

La band austriaca è stata una delle prime ad approcciarsi al progressive con brani dalla durata limitata, evitando lunghe suite, ma puntando tutto sull’emozionalità della propria musica e non sono pochi i gruppi odierni, sicuramente più famosi, che devono non poco al sound di quel Behind che all’epoca fu un ascolto fondamentale, almeno per chi ebbe la fortuna di poterlo fare.
My Ghost Inside torna a far parlare del gruppo dopo Schlage Mein Herz, Schlage che, tre anni fa, ne segnava il ritorno dopo un silenzio lungo quindici anni, con la sezione ritmica completamente rinnovata, ed i soli Mario e Renè a fungere da superstiti della line up originale.
I Mayfair continuano la loro evoluzione, lasciando che l’alternative metal depressivo dei vari Anathema e Katatonia, prenda il sopravvento sulle sonorità progressive: rimane l’impronta inconfondibile del sound originario, ma la tendenza di questo lavoro è più orientato verso un mood teatrale e drammatico, non lasciando indietro neppure qualche accenno toolliano.
Rimane il talento per atmosfere intimiste e rarefatte, sviluppate su tonalità grigie, pregne di un’eleganza del tutto personale, mentre le lancette dell’amplificazione arrivano al massimo solo nella metallica Schrei Es Raus, posta come penultimo atto di un lotto di brani dal mood plumbeo.
Un ascolto rilassato, arpeggi scritti su di un specchio ricoperto dalla polvere di molte primavere ormai passate, un autunno che con i suoi colori spenti riempie l’aria di malinconia, mentre brani di raffinato dark prog alternativo come Loss, Blinded By Your Light, When Angels And Demons Meet e Andermal colmano di rilassate sfumature tragico malinconiche quaranta minuti di una classica giornata di estenuante mal di vivere.
Emozioni, è proprio di questo che non smettiamo mai di aver bisogno, e fortunatamente ci ancora sono artisti come i Mayfair che ne elargiscono a profusione, bentornati.

TRACKLIST
1. Loss
2. My Ghosts Inside
3. Desert
4. Blinded By Your Light
5. When Angels And Demons Meet
6. Our Fire Starts Here
7. Ghostrider
8. Boom
9. Andermal
10. Schrei Es Raus
11. Until We Meet Again

LINE-UP
Mario – vocals
René – guitars
Johannes – bass
Jolly – drums

MAYFAIR – Facebook

The Shiva Hypothesis – Promo 2015

Se questo promo è il loro biglietto da visita, allora gli Shiva Hypothesis si candidano come clamorosa rivelazione nel metal estremo dai rimandi death/black.

Se questo promo è il loro biglietto da visita, allora gli Shiva Hypothesis si candidano come clamorosa rivelazione nel metal estremo dai rimandi death/black.

Proveniente dai Paesi Bassi, il mefistofelico quartetto rilascia, sul finire dello scorso anno, questo ep, chiamato semplicemente Promo 2015, mentre il sound prodotto e le atmosfere che in esso sono racchiuse, semplici non sono di sicuro.
La band dichiara d’ispirarsi a band storiche del metal estremo, come Behemoth, Emperor, Immortal, Death e Mayhem e noi non possiamo che essere d’accordo anche se questi tre brani racchiudono in sé un impatto, una malvagità ed una tecnica che lascia a bocca aperta.
Death/black, che non si avvicina poi molto a chi del genere è maestro (scena polacca in primis), ma si alleano per creare un estremismo sonoro entusiasmante.
Ritmiche più vicine al death metal, scream personalissimo e malato, come se al microfono ci fosse davvero un demone, tasti d’avorio che formano un tappeto rosso sangue, su cui le chitarre lacrimano cianuro e l’armageddon è servito.
Prodotto benissimo, l’album parte alla grande con Ceduceus, brano devastante, meravigliosamente armonico, crudele e maligno, come le voci che dall’inferno giurano tutto il loro odio per il genere umano.
Un’invocazione al demonio, una cantilena agghiacciante apre Praedormitium, oscura, leggermente meno veloce, ma ricca di atmosfere cangianti, in un deliro chitarristico, spaccata da una marziale parte ritmica che scuote le fondamenta e apre voragini che si schiudono sull’inferno sotto di noi, mentre un solo di estrazione thrash, esplode in tutta la sua violenta natura.
Maze of Delusion chiude il cd, nove minuti di black metal straordinariamente vario, colmo di atmosfere, oscure, maligne e demoniache, ora metalliche, ora acustiche, un’anima maledettamente prog, che si unisce alle varie sfumature compresse in un brano efficace ed esaltante nella sua agghiacciante parte black metal.
Una delle migliori prove al microfono, almeno per quanto riguarda il genere, è solo una delle doti maggiori di questo clamoroso ep: il gruppo non credo farà fatica a trovare una label e aspettiamoci dunque (spero in tempi brevi) un primo full lenght che, se proposto a questi livelli, potrebbe sconvolgere le gerarchi del genere.
Da non perdere di vista.

TRACKLIST
1.Caduceus
2.Praedormitium
3.Maze of Delusion

LINE-UP
ML -Bass, Keys & Additional Vocals
JB – Guitars & Additional Vocals
MvS – Vocals
BN – Drums & Additional Vocals

THE SHIVA HYPOTHESIS – Facebook

Within Destruction – Void

Void non lascia scampo, la sua ferocia è pari ad un incontro tra i Fear Factory del debutto Soul Of A New Machine ed i Lamb Of God, formando un moderno e devastante atto di pura violenza in musica.

Una tranvata di brutal/death core, riff chirurgici, granitici e freddi come una mazza d’acciaio che si infrange sulla schiena nuda, distruzione senza soluzione di continuità, un’atmosfera da pianeta ridotto ad un cumulo di macerie sotto i colpi inferti dalle macchine, che devastano e massacrano senza pietà in un mondo dove l’umana pietà non esiste più, solo la crudele forza dirompente delle macchine assassine: benvenuti in Void, secondo full length degli sloveni Within Destruction, micidiale gruppo nato a Jesenice nel 2010 e con alle spalle il debutto From the Depths, uscito quattro anni fa.

Il quartetto esplora con la propria musica il lato più estremo del metalcore, confezionando un lavoro improntato su di un metal estremo che si aggira nei meandri del brutal, dell’industrial e del death metal dalle ritmiche marziali.
Moderno e devastante, il sound prodotto dalla band è di quanto più violento si possa suonare nel genere, terrificante nelle sue atmosfere, brutale come una guerra nucleare, potente come un fungo atomico.
Poco più di mezzora calati in una dimensione apocalittica, raccontata dal growl disumano di Rok Rupnik, un terminator fuori controllo, che si fa spazio squartando uomini e distruggendo ogni cosa, una colonna sonora formata da mitragliate chitarristiche industrial core ed esplosioni di ritmiche al limite dell’umano, martellanti, disturbanti e nefaste.
Quando poi il gruppo decide di accelerare, la tempesta atomica raggiunge l’apice e al suolo non rimangono che macerie e cadaveri.
Non c’è un attimo di tregua, la distruzione totale è in atto, Void (la song), Desecration of the Elapsed, A Spiral Rift Towards Damnation e Martyrs (of the Wendigo), si susseguono formando con gli altri brani un muro sonoro mastodontico.
Void non lascia scampo, la sua ferocia è pari ad un incontro tra i Fear Factory del debutto Soul Of A New Machine ed i Lamb Of God, formando un moderno e devastante atto di pura violenza in musica.

TRACKLIST
1. Dark Impairment
2. Void
3. Plague of Immortality
4. Desecration of the Elapsed
5. Rebirth of an Inverted World
6. A Spiral Rift Towards Damnation
7. An Unforeseeable Anomaly
8. The Wrath of Kezziah
9. Martyrs (of the Wendigo)

LINE-UP
Rok Rupnik – vocals
Damir Juretic – guitar
Janez Skumavc – bass
Luka Vezzosi – drums

WITHIN DESTRUCTION – Facebook

Godwatt – L’ultimo Sole

I Godwatt sono l’ennesimo esempio di come nel nostro paese si fa musica come e, molto spesso, meglio dei paesi con molta più tradizione e credito, è giunta l’ora di supportare e far uscire allo scoperto le nostre realtà.

Una cascata di riff pesantissimi, una marmorea statua innalzata per glorificare le sonorità doom, il tutto originalmente cantato in Italiano, questa è la clamorosa proposta dei laziali Godwatt, tornati sul mercato con questo monolitico L’Ultimo Sole, licenziato dalla Jolly Roger Records.

Sono sincero, non conoscevo il terzetto nostrano, da dieci anni in attività, prima con il monicker Godwatt Redemption, ridotto successivamente in Godwatt, non prima di aver dato alle stampe due full length autoprodotti, The Hard Ride of Mr. Slumber nel 2008 e The Rough Sessions del 2012.
Tre anni fa, la riduzione del monicker e la scelta di cantare in lingua madre portano il gruppo a Senza Redenzione, nuovo lavoro seguito dall’ep Catrame e dall’ultimo full length MMXVXMM, licenziato all’inizio dello scorso anno e sempre autoprodotto.
L’ultimo periodo è contraddistinto dalla firma per la label nostrana e da questo nuovo lavoro che racchiude sette brani ri-registrati dal precedente album, più due da Senza Redenzione (Scheletro e Venus, ma solo nella versione cd).
Una band dalla personalità debordante, valorizzata da esperienze live accanto a gruppi come Ufomammut, Necrodeath, Doomraiser, Zippo, Karma To Burn, un sound di una pesantezza inumana che risulta molto più legato alla musica del destino che allo stoner, e la scelta, fuori dagli schemi del genere, di cantare in italiano testi di lucida decadenza, sono gi elementi che impreziosiscono queste nove incudini di metallo pesantemente lento e cadenzato, composto da una serie di riff che riducono in cenere.
Moris Fosco (chitarra e voce), Mauro Passeri (basso) e Andrea Vozza alle pelli, giustamente fanno spallucce al suono desertico, tanto di moda di questi tempi (e che io adoro, non fraintendetemi) per tornare al doom classico, messianico, oscuro e monolitico, come la discesa inesorabile di lava che cade dopo l’esplosione del vulcano attivo che risulta questo lavoro, pescando a piene mani dai gruppi della scena di primi anni novanta come i Cathedral del reverendo Dorrian e in parte dalle band d’oltreoceano come Saint Vitus ed i Revelation, e aggiungendo pochi ma azzeccati elementi settantiani che danno quel giusto tocco vintage.
Lo stoner è comunque presente, in qualche passaggio più acido, ma nel disco regna sua maestà il doom, lento, a tratti claustrofobico, inesorabile nella sua marcia cadenzata che accelera leggermente per stenderci al tappeto con frustate heavy rock, che strappano le carni, torturate nel sabba ossianico a cui i Godwatt ci invitano, vittime inconsapevoli di questa cerimonia di decadente e ruvido metallo.
Memoria, Cenere, la title track, il basso di Nessuno Mai, che pulsa come un cuore strappato ed in mano ad un sacerdote pazzoide, sono le songs che strappano applausi, ma è il lavoro nella sua interezza che non lascia scampo, con le due chicche finali tratte dal disco del 2013 (Scheletro e Veleno) che confermano il valore assoluto del combo laziale con un’heavy rock che letteralmente stende.
I Godwatt sono l’ennesimo esempio di come nel nostro paese si fa musica come e, molto spesso, meglio dei paesi con molta più tradizione e credito, è giunta l’ora di supportare e far uscire allo scoperto le nostre realtà.

TRACKLIST
1. Catene
2. Condannata
3. Memoria
4. Cenere
5. Nostro Veleno
6. Nessuno Mai
7. L’ultimo Sole
8. Scheletro (Cd Bonus)
9. Venus (Cd Bonus)

LINE-UP
Moris Fosco-Guitars, vocals
Mauro Passeri-Bass
Andrea Vozza-Drums

GODWATT – Facebook

Circle Of Indifference – Welcome To War

Welcome To War è un’altra nera perla estrema targata Circle Of Indifference

Piano piano, uno alla volta, tornano con nuovi lavori tutti i gruppi che un paio di anni fa, chi più chi meno, avevano impreziosito con album dall’elevata qualità l’underground metallico.

Questa volta tocca ai Circle Of Indifference del polistrumentista svedese Dagfinn Övstrud, realtà scandinava dalle potenzialità enormi confermate anche in questo bellissimo lavoro che ci invita senza mezzi termini alla guerra.
Infatti il mood dell’album è molto più in your face rispetto al suo splendido predecessore, anche se Övstrud non ci fa certo mancare il suo incredibile talento per melodie in piena overdose da scandinavian melodic death metal.
Al microfono troviamo, come su Shadows Of Light, il vocalist belga Brandon L. Polaris, ma gli ospiti non si fermano qui con le performance di Kostas Vassilakis (Infravision) alle tastiere ed alle pelli e la chitarra solista di Tyler Teeple.
Prodotto ottimamente da Övstrud, Welcome To War ci invita alla distruzione totale con i primi due brani, Concription e Einberufung (Conscription), pesantissimi, epici e battaglieri, che vedono la band esplorare il lato più duro e drammatico della propria anima musicale, avvicinandosi al puro death metal scandinavo.
Arriva From This I Depart e si torna a cavalcare l’onda del primo lavoro, il riff melodico che sostiene il brano è di una bellezza straordinaria e la voce pulita si alterna al growl cattivissimo di Polaris in un crescendo emozionale elevatissimo.
Neanche il tempo di metabolizzare questo splendido brano che l’elettronica si impossessa della progressiva Menschenmörder (Murderer Of Man), regalando emozioni a non finire e tornando al songwriting stellare della prima opera tra Edge Of Sanity e Pain.
Welcome To War è marziale, monolitica e con un mood da tregenda, le tastiere addolciscono leggermente l’atmosfera pesante di questa death metal song, mentre la voce pulita dai toni disperati di Kein Entkommen (No Escape) sembra non dare speranza, ma quando tutto è perduto un assolo classico e melodico, accompagnato dai tasti d’avorio di chiara ispirazione prog, riaccende una flebile speranza.
Veil Of Despair è irruente ed aggressiva in un crescendo che porta ad una parte strumentale da brividi, con i musicisti ad impartire sotto la guida del leader lezioni di metallo estremo, devastante e melodicissimo.
Ein Akt Der Güte (An Act Of Kindness) chiude, con i suoi abbondanti sette minuti, questa nuova e splendida opera estrema, lasciando che tutto il mondo dei Circle Of Indifference si apra all’ascoltatore, investito da uno tsunami di death metal melodico sopra le righe, potente, maturo, progressivo ma oltremodo drammatico e violento.
Welcome To War è un’altra nera perla estrema targata Circle Of Indifference: se il primo lavoro risultava una piacevole sorpresa, la conferma di essere al cospetto di un grande compositore e musicista l’avrete nel momento di mettere l’elmetto, imbracciare il fucile e scendere in trincea … Benvenuti alla guerra.

TRACKLIST
01.Concription
02.Einberufung (Conscription)
03.From This I Depart
04.Menschenmörder (Murderer Of Man)
05.Welcome To War
06.Kein Entkommen (No Escape)
07.Veil Of Despair
08.Ein Akt Der Güte (An Act Of Kindness)

LINE-UP
Dagfinn Övstrud – Guitars, bass and additional keyboards
Kostas Vassilakis – Keyboards, Drums
Tyler Teeple – Guitars
Brandon L. Polaris – Vocals

CIRCLE OF INDIFFERENCE – Facebook

Horrified – Of Despair

Of Despair è un’opera poco originale ma ben realizzata, un buon modo per ricordare i primi passi del famigerato death metal scandinavo

Vi avevamo già parlato dei britannici Horrified in occasione dell’uscita del loro debutto, Descent into Putridity, uscito un paio di anni fa e che vedeva il gruppo di Newcastle confrontarsi con il metal estremo di matrice scandinava.

Completamente devoto alla scena death metal nord europea di inizio anni novanta, il gruppo inglese esordì con un dischetto sufficientemente in grado di risvegliare dal torpore gli amanti del death metal scandinavo old school, con una mazzata che, se risultava ancora leggermente acerba, coinvolgeva in quanto a violenza ed impatto.
Il ritorno in questo 2016 si chiama Of Despair, otto brani che formano una cascata di sonorità estreme care alle band storiche della gloriosa scena scandinava.
Ad un primo ascolto il gruppo lascia intravedere non pochi miglioramenti, soprattutto nel songwriting, leggermente più vario ed ispirato da una maggiore esperienza, che si evince anche da un miglioramento tecnico individuale.
La band continua a martellare senza pietà, ma in questo lavoro fanno la voce grossa le melodie, che escono a frotte dai manici delle sei corde dei due axeman, Daniel Alderson e Rob Hindmarsh e, se il primo lavoro viaggiava al ritmo devastante di Entombed e Dismember, Of Despair paga dazio agli immensi Edge Of Sanity, storica creatura estrema di quel genio di Dan Swano.
Aperture melodiche, solos dall’impronta classicheggiante, ripartenze e rallentamenti atmosferici pesantissimi avvicinano il sound del gruppo ai primi lavori dei Sanity, continuando a massacrare l’ascoltatore con ritmiche veloci, ed improvvise sfuriate che rimandano a Like An Everflowing Stream dei Dismember.
Un buon passo avanti, che convince non poco, Of Despair ha nell’assalto sonoro Palace of Defilement, in Funeral Pyres, nell’ottimo strumentale che è la titletrack e nel conclusivo monumento ai Sanity, The Ruins That Remain, le sue armi migliori.
Death metal old school, questa volta assistito da una buona produzione, Of Despair è un’opera poco originale ma ben realizzata, un buon modo per ricordare i primi passi del famigerato death metal scandinavo.

TRACKLIST
1. Palace of Defilement
2. Infernal Lands
3. Chasm of Nihrain
4. Funeral Pyres
5. Amidst the Darkest Depths
6. Dreamer of Ages
7. Of Despair
8. The Ruins That Remain

LINE-UP
Matthew Henderson – Drums
Daniel Alderson – Guitars (lead), Bass, Vocals
Dan H – Bass
Rob Hindmarsh – Guitars (lead)

HORRIFIED – Facebook

Inedia – Aritmia / Wasteland

Aritmia/Wasteland entra piano in noi, prima con una dolcezza armonica ricca di melanconiche atmosfere post rock, poi in un crescendo di tensione ci prende con la violenza del metal estremo, colmo di groove stonato, in un caleidoscopio di suoni e colori

Aritmia/Wasteland entra piano in noi, prima con una dolcezza armonica ricca di melanconiche atmosfere post rock, poi in un crescendo di tensione ci prende con la violenza del metal estremo, colmo di groove stonato, in un caleidoscopio di suoni e colori alternative, scavando senza sosta nel nostro corpo e nella nostra anima.

Questa bellissima opera, profonda e alquanto matura, è il terzo album dei nostrani Inedia, gruppo veneto fondato nel 2009 e con ben saldo un contratto con la Sleaszy Rider, ottima label greca dal roster molto vario e di ottima qualità, che spazia nello sconfinato mondo dell’hard rock, sia classico che appunto moderno ed alternativo.
Non sono poche le band nel nostro paese dedite a questo tipo di suono e devo dire con sincerità che tutte possiedono un approccio maturo, che non scivola mai nella noia, ma viene apprezzato per un innato senso poetico/melodico.
Gli Inedia fanno senz’altro parte di questo gruppo di poeti moderni, che disegnano con le note paesaggi melanconici ed atmosfere depressive, dove non mancano scariche di rabbiosa elettricità, come se la mente si ribellasse a cotanta tristezza, in attimi di violenza liberatoria, prima di ricadere ancora una volta nel proprio disperato tunnel.
Gli Inedia a tutto questo aggiungono, atmosfere desertiche, jam liquide di psichedelia stonata, come persi nel fumo di sostanze illecite, viaggiando con la mente in paesaggi liquidi, attimi dove il non ritrovarsi si trasforma in pace assoluta.
Concentrato in poco più di mezzora, Aritmia/Wasteland è tutto questo, almeno per il sottoscritto, rapito dall’etereo incedere di questi sette brani sconvolti da bellissime atmosfere rarefatte e da bordate death metal che ne accentuano la drammatica atmosfera.
Una lunga jam che raccoglie in sé diversi generi, amalgamati con cura dal quintetto per donare musica profonda, matura, violenta e raffinata, liquida, oscura ed assolutamente toccante.
Album da ascoltare come un unico brano, diviso in emozioni e sensazioni, in Aritmia/Wasteland troverete ad aspettarvi un mondo di note che accomunano il depressive rock/metal dei Katatonia, lo stoner suonato dai Kyuss e che, insieme, accolgono in un abbraccio il prog estremo dei magnifici Opeth.
Disco bellissimo, da far vostro senza riserve.

TRACKLIST
1. The Fire Fellows
2. Neighbour’s Dog
3. Graveyards
4. The Days Of Sandstorm
5. Message From My Futureself
6. Paranoia’s End
7. ((π))

LINE-UP
Mattia Parolin – vocals
Marco Tossin – bass
Giacomo Lovato – guitars
Luca Munaretto – drums
Paolo Sanna – guitars

INEDIA – Facebook

Ashen Horde – Nine Plagues

L’ora delle nove piaghe è arrivata e queste si abbattono senza pietà, portando male, morte e distruzione dove prima c’era lusso e divertimento, in una devastante tempesta di suoni estremi che vanno dal death metal di scuola americana al black metal

Dopo i fasti degli anni ottanta, la Sunset Strip di Los Angeles ha lasciato ai posteri solo un manipolo di zombie armati di chiodo e spandex, che si aggirano senza meta aspettando che tutto si riaccenda come in un immenso luna park, fatto di code davanti ai locali, droga, sesso facile e tanto rock’n’roll.

Ma nella notte un’identità oscura e maligna si aggira per le vie della città degli angeli, fagocitando queste povere amebe nostalgiche di un mondo ormai finito: è Ashen Horde, mandata dall’inferno a cacciare anime dannate, perse nel vortice del vizio e pronte per bruciare nell’antro più buio nella casa del signore oscuro.
Trevor Portz, polistrumentista e mente di questo progetto diabolico, nato nelle fatiscenti vie dove tanti anni fa il via vai delle Cadillac davanti ai locali più cool era la normalità, arriva con Nine Plagues al secondo lavoro sulla lunga distanza.
L’ora delle nove piaghe è arrivata e queste si abbattono senza pietà, portando male, morte e distruzione dove prima c’era lusso e divertimento, in una devastante tempesta di suoni estremi che vanno dal death metal di scuola americana al black metal, il tutto ben congegnato ed unito da un collante progressivo che ne fa una proposta estrema molto interessante.
Assolutamente padrone di tutti gli strumenti, Trevor Portz lancia una maledizione in musica dall’effetto distruttivo, il sound di Ashen Horde non lascia molto spazio alle atmosfere e si viaggia in un clima da tregenda, come in un’invasione di cavallette il caos regna sovrano, inutile scappare, non ci si può difendere da questa martellante amalgama di death/black contaminato da belligerante e pazzoide thrash progressivo, che richiama le opere del geniale Devin Townsend.
Desecration of the Sanctuary mette subito le cose in chiaro, nove minuti di metal estremo che passa dal death metal di Covenant dell’angelo morboso, a devastanti sfuriate di black metal old school, scandinavo nel suo macabro sound e schizoide quando le ritmiche thrash, aggiungono violenza a violenza.
Bravissimo tecnicamente e sul pezzo con tutti gli strumenti, il musicista americano rifila cinquanta minuti di maligno e disturbante metal estremo, le fughe in blast beat, come le frenate sull’orlo del baratro, aggiungono monoliticità a brani che urlano dolore sconvolgendo con le oscure trame di Feral, The Stranger, il capolavoro black progressive doom Isolation e la conclusiva e terremotante A Reversal of Misfortune.
Al passaggio del demone, sulla strada rimane solo una putrida e soffocante puzza di zolfo, ora le vie sono in mano all’oscuro e feroce demone, statene alla larga, soprattutto di notte …

TRACKLIST
1. Desecration of the Sanctuary
2. Sans Apricity
3. Feral
4. Famine’s Feast
5. The Stranger
6. Atra Mors
7. Dissension
8. Isolation
9. A Reversal of Misfortune

LINE-UP
Trevor Portz – Everything

ASHEN HORDE – Facebook

Mr.Bison – Asteroid

Stoner rock suonato molto bene da due chitarre e una batteria, con una forte influenza hard e southern rock.

Stoner rock suonato molto bene da due chitarre e una batteria, con una forte influenza hard rock e southern rock.

I Mr.Bison vengono da Cecina per migliorare la nostra triste vita, con un suono che non può non farti muovere, molto rock nella sua essenza profonda, e molto stoner nel suo outfit. Dal debutto del 2011 sono cambiate un po’ di cose per questo gruppo che sta compiendo un percorso molto valido nell’ambito stoner rock, senza lasciarsi influenzare dall’esterno. Asteroid è il loro lavoro più potente e strutturato, con una fortissima vocazione rock nella totalità del genere. I Mr.Bison hanno un groove loro molto bello e particolare, e pur non facendo un genere originale lo fanno molto bene, con molti elementi diversi. Il disco è molto piacevole e vario, induce a diversi ascolti ed è il lasciapassare per gustarseli dal vivo.

TRACKLIST
1.BLACK CROW
2.WISKER JACK
3.FULL MOON
4.HANGOVER
5.BURN THE ROAD
6.RUSSIAN ROULETTE
7.RESIST
8.CANNIBAL
9.PRISON
10.HELL

MR.BISON – Facebook