Never To Arise – Gore Whores On The Killing Floor

Questo delirio estremo proviene dalla Florida, già di per se una garanzia se si parla di death metal e specialmente di brutal: tecnico, devastante, oscuro e violentissimo.

Questo delirio estremo proviene dalla Florida, già di per se una garanzia se si parla di death metal e specialmente di brutal: tecnico, devastante, oscuro e violentissimo.

I Never To Arise sono un duo composto da Gordon Denhart ( batteria programmata, chitarra e voce) e Michael Kilborn (chitarra solista e basso), sono al secondo lavoro dopo l’esordio Hacked to Perfection di tre anni fa e ripiombano sulla scena estrema con questo nuovo e massacrante album, Gore Whores On The Killing Floor, un micidiale esempio di death metal brutalizzato e tecnico, un uragano sonoro di dimensioni abnormi, cattivo, oscuro ma assolutamente imperdibile per chiunque si professi fan del genere.
Prodotto dai due musicisti e caratterizzato da un artwork che definire gore è un’eufemismo , l’album letteralmente travolge, forte di una potenza disarmante, un songwriting esagerato ed una tecnica invidiabile da parte dei due poco raccomandabili musicisti, veri torturatori di dolci donzelle e padiglioni auricolari.
Tutto rasenta la perfezione in questo lavoro, la batteria programmata su velocità da gran premio, su cui si staglia il gran lavoro delle sei corde, sia nelle ritmiche, che creano muri di impressionante sound estremo, sia nei solos, taglienti katane pronte allo scontro che tranciano, affilate come rasoi, amputano, tagliano ed infliggono torture mortali.
Colonna sonora delle aberrazioni umane, splendida glorificazione di morte e perversione, Gore Whores On The Killing Floor si bea di un songwriting esagerato, i brani si alternano uno più violento dell’altro, mitragliate e bombardamenti musicali che si scagliano sull’ascoltatore, aggredendolo, in un’orgia di note al limite, ed un’atmosfera da carneficina, decantata dal growl mostruoso del “buon” Denhart.
Uno più bello dell’altro i brani formano una suite del male, un’opera maledetta, dove, senza pietà i due musicisti ci chiudono nel loro nascondiglio e senza essere disturbati compiono le loro gesta a colpi di Butcher Knife Birth Control, Boiled Alive in Battery Acid, Severed and Embalmed e la conclusiva Last Supper.
Malevolent Creation, Cannibal Corpse, Six Feet Under, tanto per fare qualche nome e convincervi ad ascoltare questo ennesimo e bellissimo lavoro, che il metal estremo ha regalato nell’anno in corso.

Tracklist:
01. Butcher Knife Birth Control
02. Razor Sliced Hemophiliac
03. Fornicating in the Blood of the Mutilated
04. Boiled Alive in Battery Acid
05. A Most Unwilling Organ Donor
06. To Cum Is To Die
07. Open Heart Punching Bag
08. Severed and Embalmed
09. Anatomically Pulverized
10. Last Supper

Line-up:
Gordon Denhart – Rhythm Guitars,Vocals, Drum Programming
Michael Kilborn – Lead Guitar,Bass

Avulsed – Altar of Disembowelment

Un gran bel lavoro, che conferma lo status della band spagnola e ci dà appuntamento al futuro album sulla lunga distanza che, visto lo stato di grazia qui dimostrato, promette scintille.

Che Dan Swanö sia il Re Mida del death metal degli ultimi vent’anni, non lo dice il sottoscritto ma tutta la musica di qualità che ha creato come musicista prima, ed i tanti capolavori in cui ha messo la sua esperienza ed il suo talento dietro ad un mixer, in seguito.

Fare un elenco degli ultimi album, tutti bellissimi, che hanno invaso il mercato negli ultimi due anni, toglierebbe un po’ d’attenzione a questo ultimo lavoro dei deathsters spagnoli Avulsed, in cui il genio svedese ha curato la masterizzazione ai rinomati Unisound Studios.
Così succede che il buon Swanö si ritrova a collaborare con un altro personaggio, degno di nota nella scena estrema Europea, Dave Rotten, cantante del gruppo madridista e manager della Xtreem music, etichetta spagnola specializzata in metal estremo, molto attiva a livello underground.
D’altronde gli Avulsed sono un monumento della scena death, non solo spagnola, da oltre vent’anni di attività e con una bella sfilza di lavori editi, di cui sei sono full length.
Accompagnato da una copertina di chiara ispirazione brutal, creata dall’artista Juanjo Castellano, Altar of Disembowelment è composto da quattro brani inediti, più la cover di Neon Knights dei Black Sabbath, ciliegina sulla torta di un ep clamoroso dove il gruppo amalgama il classico death metal dai rimandi brutal, amalgamandolo questa volta con richiami al genere, suonato su in Scandinavia nei primi anni novanta, per un risultato entusiasmante.
Come se, alle ritmiche e la struttura del brutal alla Cannibal Corpse, ci si aggiungessero chitarre di chiara impronta Entombed/Dismember, per un ibrido che ha nell’opener To Sacrifice And Devour, la massima espressione.
La band, in piena forma, non fa mancare ritmiche veloci e potenti, Rotten sfodera la solita prestazione da urlo con il suo growl cavernoso e brutale, mentre stop and go, ripartenze fulminee e rallentamenti monolitici sono l’arma con cui il gruppo non fa prigionieri (Red Viscera Serology).
Ma, questa volta sono le chitarre a fare la differenza (Jose “Cabra” e Juancar), assassine, taglienti, ma capaci di aperture melodiche che fanno rizzare le orecchie e spalancare bocche (Ceremony Of Impalement) in una tempesta di suoni old school valorizzati dal lavoro in studio (registrazione e missaggio in balia di Raúl Fournier agli Overhead Studios).
Tremble In Darkness continua imperterrita la mattanza e la citata cover dei Sabbath, impreziosisce un gran bel lavoro, che conferma lo status della band spagnola e ci dà appuntamento al futuro album sulla lunga distanza che, visto lo stato di grazia qui dimostrato, promette scintille.

Tracklist:
01. To Sacrifice And Devour
02. Red Viscera Serology
03. Ceremony Of Impalement
04. Tremble In The Darkness
05. Neon Knights (Black Sabbath)

Line-up:
Dave Rotten: Vocals
Cabra: Guitar
Juancar: Guitar
Tana: Bass
Erik: Drums

Stormy Atmosphere – Pent Letters

Pent Letters è opera di musica progressive dove strepitose parti sinfoniche, atmosfere gotiche ed elettrizzante metal, formano un caleidoscopio di suoni, un clamoroso tuffo nella parte nobile della nostra musica preferita.

Opera mastodontica, questo secondo lavoro della band Israeliana, al secolo Stormy Atmosphere, in attività dal 2002, ma con solo due lavori licenziati: il primo, ColorBlind del 2009 e appunto questo maestoso Pent Letters.

Prendendo spunto da una manciata di capolavori letterari come Il ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde, Il Conte Di Montecristo di Dumas ed Il Faust di Goethe tra gli altri, la band costruisce un’opera di musica progressive dove strepitose parti sinfoniche, atmosfere gotiche ed elettrizzante metal, formano un caleidoscopio di suoni, un clamoroso tuffo nella parte nobile della nostra musica preferita, interpretata in modo strepitoso dai musicisti del gruppo, protagonisti di prove da urlo, valorizzate da emozionati brani, dove la teatralità prende il sopravvento e si alterna con mirabolanti vortici di musica progressiva.
Impreziosito dal contributo di Tom S. Englund, vocalist degli Evergrey, l’album vive come un’opera teatrale, davvero interpretata dai due vocalist del gruppo: la stupenda
Dina Shulman, dotata di un’ugola strepitosa e carismatica che letteralmente ipnotizza l’ascoltatore e l’ottimo Teddy Shvets, protagonista di una prova emozionale, mattatore tanto quanto la sua partner, con duetti che lasciano a bocca aperta, così che, chiudendo gli occhi vi ritroverete al cospetto di un palco, con i due vocalist a dispensare perle di recitazione, in una rappresentazione teatrale entusiasmante.
Il sound su cui è strutturato Pent Letters, non può che correre dietro ai due assi al microfono, una sinfonia progressiva alimentata da soluzioni metalliche, ed atmosfere gotiche, dove i musicisti del gruppo danno sfoggio di una maestria elevata, anche se è la musica che in Pent Letters incanta, calda, ricca di cambi repentini di atmosfere, fughe tastieristiche, sinfonie operistiche, solos che sparano lingue di fuoco, ritmiche veloci come il vento, o intricate come la tela di un ragno, che creano attimi entusiasmanti, costringendo i generi di cui l’album si nutre ad allearsi per far risplendere la musica di Pent Letters.
D’altronde non si può rimanere indifferenti alle trame di cui sono composti brani esagerati come Science Fiction, Historical Adventure, The Menippeah (epica, operistica, un capolavoro), Tragic Play (metallica, debordante e bombastica), songs che valorizzano un’opera che interamente incanta.
Ayreon, Dream Theater, la Turunen solista, Evergrey e Within Temptation, prendete i gruppi e gli artisti in questione, amalgamateli sapientemente ed avrete una minima idea di quello che vi aspetta all’ascolto di Pent Letters … il resto lo mettono i fantastici Stormy Atmosphere.

Tracklist:
1. Afterlight
2. The Way Home
3. First Day
4. Science Fiction
5. First Year
6. Historical Adventure
7. Hour
8. The Menippeah
9. While
10. Suspense
11. Gothic Dread
12. Decennary
13. Tragic Play
14. Outcome
15. Time

Line-up:
Teddy Shvets – Vocals
Dina Shulman – Female Vocals
Stas Sergienko – Guitars
Eduard Krakov – Keyboards
Max Man – Bass

Mattia Gosetti – Il Bianco Sospiro Della Montagna

A tratti epico, Il Bianco Sospiro Della Montagna, cresce col passare dei minuti ed accentua la vena drammatica della storia, le sinfonie si fanno sempre più pressanti fino all’epilogo, dove non manca la speranza, quel mood positivo che dà la forza per ricominciare

Premessa: se siete appassionati di musica, cioè quella sublime ed emozionante sequenza di note che portano a sognare o per meglio dire, entrare in un mondo parallelo, che viaggia a fianco ma molto distante dalla, troppe volte, cinica e faticosa vita reale, allora quest’opera d’arte (perchè questo è) concepita da Mattia Gosetti, non potrà che esaltarvi, commuovervi, farvi vivere più di un’ora tra le delicate ma insidiose atmosfere montane: quei monti dove l’artista è nato e cresciuto e che vengono glorificate dal talento suo e dei musicisti protagonisti di questa opera tra tradizione e rock, folk e sinfonie, immersi nel paesaggio silenzioso e ovattato delle alpi bellunesi.

Il concept tratta la storia di un brigante ribelle, in lotta per la libertà del suo popolo e che tra le montagne combatte contro i signori della guerra, così come fece la nostra gente di montagna, tanti anni fa, difensori di labili confini ma non solo, di una nazione intera e che i nostri monti raccontano ad ogni passo, tra i bellissimi sentieri e i paesaggi di cui veniamo circondati ogni qualvolta le nostre mete e il nostro sguardo si spostano a nord.
Mattia Gosetti dimostra, ancora una volta di essere un musicista, ma sopratutto un compositore straordinario, accompagnato come sempre dalla splendida voce di Sonia Dal Col e da una manciata di musicisti oltremodo fantastici.
Un’operetta la chiama lui, uno stupendo affresco di musica universale che trasuda rock ma viene nobilitato da orchestrazioni e sinfonie, in un panorama tragico, drammatico, ma anche fiabesco, dove il candido colore della neve che scende copiosa riempe narici di aria gelida, così come i camini accesi di chalet persi tra i boschi e sicuri nascondigli per il brigante, si fanno caldi ripari dove l’aria e pregna dell’odore di legna che arde e riscalda, cuoce e abbraccia in caldi momenti di riposo.
La musica, la parte più importante, è emozionante tanto quanto la storia, l’orchestra e gli strumenti rock si alleano per donare una sequela di sfumature che con il passare dei minuti si fanno sempre più intense, i vari passaggi cantati a più voci tengono l’ascoltatore incollato alle cuffie, perso nelle trame di una storia affascinante, propio per il contesto originalissimo creato da Gosetti.
Il Bianco Sospiro Della Montagna è composto da diciotto movimenti: quasi inutile per un’opera del genere citare  dei titoli, anche se la poesia che sprigiona La Grande Nevicata mette i brividi, lasciando che i fiocchi si posino sul vostro stereo, mentre la splendida voce della Da Col colma il gap tra il vostro divano e le valli montane, circondate dal generale inverno.
A tratti epico, Il Bianco Sospiro Della Montagna, cresce col passare dei minuti ed accentua la vena drammatica della storia, minuto dopo minuto le sinfonie si fanno sempre più pressanti fino all’epilogo, dove non manca la speranza, quel mood positivo che dà la forza per ricominciare: il sole fa capolino dalle alte vette, il bianco della neve lascia il posto ai mille colori della primavera, metafora di un nuovo inizio per gli uomini, uniti, insieme.
L’opera verrà trasportata sul palco non solo, come sembra, nella provincia di Belluno, e il sogno di Mattia si appresta a diventare realtà. Auguri!

TRACKLIST
1.I Viaggiatori delle Stelle
2.Al Di La Della Foschia
3.Lo Straniero Silenzioso
4.Il Bianco Sospiro Della Montagna
5.Il Veterano Ribelle
6.La Città Del Nord
7.La Gitana Sperduta
8.Donata A Me
9.L’Oste Irriverente
10.Un Giudizio Clemente
11.Le Stagioni Di Una Veranda
12.La Grande Nevicata
13.A Lume Di Candela
14.Fuga Tra Le Montagne Innevate
15.Un Gesto Libero
16.La Reliquia Si Rivela
17.Discesa Dalla Montagna
18.Un Ultimo Bianco Sospiro

LINE-UP
Mattia Gosetti
Sonja Da Col
Mauro Baldissera
Salvatore Bonaccorso
Roberto Cian
Denis Losso
Marco Busin

SIRGAUS – Facebook

Diaboł Boruta – Stare Ględźby

Tra le foreste dell’est europeo si aggirano i menestrelli Diabol Boruta

Tra le foreste dell’est europeo (in questo caso della Polonia) si aggirano i menestrelli Diabol Boruta al secondo lavoro, dopo l’esordio dell scorso anno (Lesny duch…) licenziato dalla Pure Steel che ne cura la distribuzione.

Una bella sorpresa per gli amanti dei suoni metallici amalgamati con la tradizione folk, questo nuovo lavoro, quasi interamente cantato in lingua madre, dalle atmosfere festaiole, da taverna persa nei meandri di foreste, in cui perdere l’orientamento è un attimo, ed essere attirati da folletti birichini in osterie scavate nei tronchi millenari di giganti ricoperti da dura corteccia è una piacevole fortuna.
Pinte di birra, femminee muse dai voraci appetiti carnali e tanto divertimento tra strumenti metallici che rendono la proposta del gruppo un’interessante mix di suoni fusi nell’acciaio o costruiti con i regali di madre natura, per una cinquantina di minuti di folk metal ben strutturato.
Non mancano brani dalla forte connotazione metallica, che si alternano ad altri più orientati verso quello già scritto da band ormai storiche del genere come i Korpiklaani e i Finntroll, il tutto preparato a dovere per un piatto ben condito.
La cover di Vodka dei menestrelli finlandesi fa bello sfoggio di se in Stare Ględźby, confermando la band di Jonne Jarvela come massima influenza del gruppo polacco che diverte, anche per un buon uso degli strumenti e le atmosfere metalliche che si avvicinano al death melodico, con l’uso di una voce alquanto aggressiva nelle parti, dove buone cavalcate metalliche accompagnano gli strumenti tradizionali per un’orgia di suoni folk metal.
Si avvicina il mattino, stravolti da una notte di canti, balli e sane bevute ci addormentiamo tra il seno prosperoso di una procace taverniera e l’alito alcolico di un compagno di sbronza, al risveglio rimane l’albero dove al suo interno non esiste che legno, un vago ricordo di festa pagana, ma sopratutto un’incudine posata sulla testa, benvenuti nel mondo dei Diabol Boruta e nella magia del folk metal.

Tracklist:
1. …poczatak
2. Epos
3. Perun
4. Kikimora i zboze
5. …trzcia w nocy…
6. Zency i Potudnica
7. Stare Gledzby
8. Srebrne Zmije
9. Bytem ongi Debem
10. Lesnik
11. Vodka
12. koniec…
13. Kikimora and the grain
14. Of the reapers and Field Maiden

Line-up:
Pawel Rudobrody – vocals, bass
Mirek “Miras” Mamczur – vocals, guitars
Michal “Balon” Balogh – drums
Dawid “Dejvid” Warchol – keyboards
Michal “Gilas” Wyrwa – guitars

DIABOL BORUTA – Facebook

Idolatry / Unrest – Infection Born of Ending

Uno split riservato agli amanti del true black metal, Infection Born of Ending è da evitare se non avete confidenza con il genere proposto.

L’etichetta Appalachian Noise Records ci presenta, in questo Split in edizione limitata a cento copie, due realtà oscure e misantropiche con base aldilà dell’oceano: i canadesi Idolatry e gli statunitensi Unrest.

La black metal band canadese è attiva da solo un anno e formata da ex membri di svariati gruppi della scena di Edmonton come: Ides of Winter, Helgrind, Dead Jesus e Spawned by Rot, ed hanno licenziato un ep omonimo di quattro brani nell’autunno dello scorso anno.
Il brano che presentano su questo split, dal titolo Clefs au Chambre de Tristêsse / …Once Thought of Webs è un buon esempio di black metal dal sound cadenzato, accelerazioni improvvise e claustrofobiche atmosfere oscure, vario nei suoi sette minuti di durata, mantiene alta l’atmosfera di decadente black metal, insano e satanico fino al midollo.
Il gruppo ha, dalla sua, l’esperienza underground dei protagonisti che, senza clamorose prestazioni fa capire l’ottima amalgama tra i musicisti e le buone potenzialità, che potrebbero regalare soddisfazioni nei prossimi sviluppi futuri.
Gli statunitensi Unrest provengono dall’Ohio e sono la one man band del polistrumentista Destroyer, risultano attivi dal 2004, ed hanno esordito lo scorso anno con il primo full length Isolation.
Odio, rabbia e distruzione per un brano (On Filth) di black metal scarno, corrosivo ed assolutamente Only For Fans, devastante nel suo approccio old school, ed alimentato da uno spirito hardcore che rende la proposta ancor più minimale.
Uno split riservato agli amanti del true black metal, Infection Born of Ending è da evitare se non avete confidenza con il genere proposto.

Tracklist:
Side A
1. Unrest – Of Filth
Side B
2. Idolatry – Clefs au Chambre de Tristêsse / …Once Thought of Webs

Line-up:
Idolatry
Lycaon Vollmond – Guitars
Daemonikus Abominor – Drums
Nox Invictus – Guitars
Lörd Matzigkeitus – Vocals

Unrest
Destroyer – Everything

Amorphis – Under The Red Cloud

Under The Red Cloud non deluderà i fans degli Amoprhis i quali troveranno, perfettamente al loro posto, tutti gli ingredienti che hanno fatto della loro musica uno dei migliori esempi di metal degli ultimi vent’anni.

Premessa: il nuovo album degli Amorphis, il dodicesimo per la precisione, ed il settimo dell’era Joutsen ( se consideriamo “Magic & Mayhem – Tales from the Early Years” del 2010 che vedeva il vocalist reinterpretare vecchi brani dei primi dischi) è un lavoro molto bello, che poco aggiunge ma, assolutamente, non scalfisce una discografia che, in vent’anni di onorata carriera, ha visto il gruppo finlandese esprimersi sempre ad alti livelli grazie ad una manciata di album da considerare sicuramente capolavori del death metal melodico scandinavo, anche se con un approccio al genere sempre personalissimo ed originale.

Progressive death metal, sempre colmo di riferimenti alle tradizioni del loro paese, un talento per la melodia straordinario e un nugolo di musicisti che, pur avvicendandosi nella line up, hanno mantenuto un livello tecnico altissimo, sono stati gli ingredienti per il successo della band fin dal lontano 1994, anno di uscita del secondo e meraviglioso “Tales from the Thousand Lakes”, seguito dal capolavoro assoluto “Elegy” (1996).
“Eclipse”, album del 2006 che segnava l’entrata in formazione dell’attuale vocalist, è stato per gli Amorphis un nuovo inizio: Joutsen, dotato di talento e carisma ha regalato al gruppo un vero frontman, mentre la discografia inanellava buoni lavori e nulla più, con l’eccezione dello spettacolare “Skyforger” del 2009.
Under The Red Cloud consolida una formula collaudatissima, marchio di fabbrica del gruppo, un’ora di immersione nel mondo prog/folk/death metal direttamente dalla terra dei mille laghi, pregno di stupende melodie, ottimamente prodotto e suonato, dove il vocalist continua imperterrito a regalare interpretazioni emozionali, alternando con la solita maestria ed eleganza, growl, scream e voce pulita (migliorata in modo esponenziale), tra digressioni di epico prog, sfuriate estreme e melodie estrapolate dalle tradizioni popolari della loro terra.
Niente di nuovo direte voi, vero, infatti il nuovo album pecca solo per un pilota automatico nel songwriting ormai lungi dall’essere disinserito, così che Under The Red Cloud risulta un album formalmente perfetto ma un pò freddino, piccolo difetto che non lo inserisce fra i capolavori della band, anche se, come già detto rimane un lavoro molto bello.
L’album vede come ospiti Chrigel Glanzmann degli Eluveitie al flauto e Martin Lopez (ex Opeth) alle percussioni e si snoda lungo un lotto di brani dal flavour epico su cui spiccano la stupenda Death Of A King, le arcigne Bad Blood e Dark Path, l’epicissima The Four Wise One e l’ipermelodica Sacrifice.
Gli Amorphis aggiungono un altro buon lavoro alla loro ormai considerevole discografia: Under The Red Cloud non deluderà i fans della band che troveranno, perfettamente al loro posto, tutti gli ingredienti che hanno fatto della loro musica, uno dei migliori esempi di metal degli ultimi vent’anni.

Tracklist:
1. Under the Red Cloud
2. The Four Wise Ones
3. Bad Blood
4. The Skull
5. Death of a King
6. Sacrifice
7. Dark Path
8. Enemy at the Gates
9. Tree of Ages
10. White Night

Line-up:
Jan Rechberger – Drums
Esa Holopainen – Guitars (lead)
Tomi Koivusaari – Guitars (rhythm)
Santeri Kallio – Keyboards
Niclas Etelävuori – Bass, Vocals (backing)
Tomi Joutsen – Vocals

AMORPHIS – Facebook

Atropas – Episodes of Solitude

Episodes Of Solitude è un buon lavoro, superiore a molti di quelli usciti nei circuiti mainstream, ed è assolutamente consigliato agli amanti del modern metal dal taglio core, i quali non devono lasciarselo sfuggire.

Episodes Of Solitude è la seconda, violentissima mazzata, creata dai pesantissimi Atropas, gruppo melodic/metalcore di Zurigo, nati nel 2011 e con alle spalle “Azrael”, primo lavoro datato 2013.

Siamo nei lidi metalcore, ipervitaminizzati da violentissime parti death/thrash, e attraversati da clean vocals melodiche e disperate in un clima di devastazione come ben rappresentato nell’artwork, che vede un uomo, solo circondato dal panorama apocalittico di una città distrutta.
Il sound del gruppo svizzero ha poco di originale, ma dal lato puramente metallico i fans del genere avranno di che gioire: ritmiche core, pesantissime, un growl dal timbro death che entra dentro le viscere e aperture melodiche, con ottimi solos dal taglio classico, sono le maggiori peculiarità della musica prodotta dalla band, un ottimo esempio di metal estremo moderno, dal forte impatto, aggressivo e con una vena di melanconica disillusione.
Prodotto benissimo, il suono dell’album esce come una tempesta di note cristalline e potentissime, il gruppo con gli strumenti ci sa fare e la sezione ritmica, varia, potentissima e dal groove micidiale (Kevin Steiger al basso e Sandro Chiaramonte alle pelli) risulta la gettata di cemento armato su cui i due chitarristi (Dave Colombo e Mahmoud Kattan anche al microfono) costruiscono riff devastanti e bellissimi solos, ora sanguinanti e taglienti, a tratti melodici e come detto, dal taglio classico, vicino al più puro death metal melodico.
Brani che alternano un mood classico, a devastanti parti di metalcore modernissimo, così che l’ascolto non annoia, continuando a girovagare spersi per le rovine della città distrutta, simbolo di un’umanità arrivata inesorabilmente alla fine e di cui Episodes Of Solitudes può senz’altro rappresentare la devastante colonna sonora.
Le influenze del gruppo sono ben riscontrabili tra le band storiche del genere, dai sempre presenti Pantera degli ultimi album, ai Machine Head e poi i gruppi del movimento “Core” degli ultimi anni.
Anche se alle prese con un genere che comincia a tirare leggermente la cinghia, gli Atropas risultano convincenti, dall’alto di una raccolta di brani che mantengono una buona media qualitativa dall’inizio alla fine con le ottime Lost Between Worlds, il singolo Crimson Zero, Hit the Floor e Alone che spiccano sulla scaletta dell’album.
Episodes Of Solitude è un buon lavoro, superiore a molti di quelli usciti nei circuiti mainstream, ed è assolutamente consigliato agli amanti del modern metal dal taglio core, che non devono lasciarselo sfuggire.

Tracklist:
1. Молотов
2. Lost Between Worlds
3. Crimson Zero
4. One Last Time
5. Take Me Home
6. Hit the Floor
7. Real Me
8. Alone
9. I Dreamed I Was Old
10. Closure

Line-up:
Kevin Steiger – Bass
Sandro Chiaramonte – Drums
Dave Colombo – Guitar
Mahmoud Kattan – Vocals & Guitar

ATROPAS – Facebook

Ten – The Dragon And Saint George

Sono tornati i Ten, a livelli molto alti e questo non può che far bene a tutta la scena hard rock melodica, bisognosa di una band guida per rialzare la testa.

Dopo moltissimi anni dall’ep che portava come titolo “Fear The Force”, opener del capolavoro “Spellbound” del 1999, i Ten dopo i due ottimi full length, usciti a distanza di sei mesi tra il 2014 e quest’anno (“Albion” e “Isla De Muerta”), confermano una ritrovata voglia di riprendersi lo scettro di regnanti sul melodic hard rock, tornando con questo altro lavoro breve, che ha il suo perno in The Dragon And Saint George, stupendo brano tratto dall’ultimo album.

Il nuovo lavoro è composto da sette tracce, di cui tre inediti, la title track e altri brani usciti come bonus sugli ultimi due album.
La nostra attenzione non può che cadere sulle nuove canzoni, che impreziosiscono e danno un senso a questa operazione, dall’alto della qualità superiore della musica composta dal buon Gary Hughes, tornato ai fasti dei primi lavori in quanto al valore del songwriting.
Musketeers: Soldiers Of The King sembra uscita dalle sessions di The Robe: epica, melodica, interpretata alla grande da uno Hughes stratosferico, tanto che mi chiedo come possa essere stata lasciata per un’uscita “minore”.
Hard rock dalle ritmiche grintose risulta Is There Anyone With Sense, dove Hughes entra con la sua calda voce, prima che uno dei ritornelli più belli degli ultimi anni alzi centimetri di pelle d’oca sulle braccia dell’ascoltatore.
Le chitarre (Dann Rosingana, Steve Grocott e John Halliwell) sono le protagoniste dei nuovi brani ed anche l’ultimo inedito (The Prodigal Saviour) lascia ad un riff fuso nell’acciaio, i primi secondi del brano, che risulta ritmicamente vario, prima che un refrain AOR torni all’hard rock ipermelodico, dove i Ten non trovano avversari.
Le altre tracce riempiono di splendida musica rock, questa mezzora scarsa di hard rock melodico tornato a risplendere nello spartito del gruppo britannico, una band fuori dal comune, anche quando la magia folk/epica di Albion Born (dal penultimo “Albion”) ci disegna nella mente verdi colline, dove guerrieri impavidi riposano le membra dopo una lunga giornata di battaglia, tra castelli a guardia di cristallini laghi persi nella bruma.
Sono tornati i Ten, a livelli molto alti e questo non può che far bene a tutta la scena hard rock melodica, bisognosa di una band guida per rialzare la testa.

Tracklist:
1.The Dragon And Saint George
2.Musketeers: Soldiers Of The King
3.Is There Anyone With Sense
4.The Prodigal Saviour
5.Albion Born
6.Good God In Heaven What Hell Is This(12 inch Picture Disc exclusive)
7.We Can Be As One (European Exclusive track to Isla De Muerta)

Line-up:
Gary Hughes – vocals, guitars, backing vocals
Dann Rosingana – Lead guitars
Steve Grocott – Lead guitars
John Halliwell – Rhythm Guitars
Darrel Treece-Birch – keyboards, Programming
Steve Mckenna – Bass guitar
Max Yates – drums and percussion

TEN – Facebook

Soulline – Welcome My Sun

Un album indicato per gli amanti del death metal melodico.

Nuovo lavoro in casa Soulline, band svizzera nata all’alba del nuovo millennio, giunta al quarto lavoro in studio: non più dei novellini dunque, ma una band dalla buona esperienza, anche se in questi quindici anni di attività non è mai riuscita a sfondare sul mercato.

Ci riprovano con oggi Welcome My Sun, album che porta con sé una novità non trascurabile, l’entrata in formazione del singer Ghebro, ottimo interprete del genere, aggressivo e corrosivo.
I Soulline per questo lavoro si è affidata alle cure degli Unisound Studios in Svezia e al talento del guru del death metal melodico Dan Swanö, ed il risultato non può che essere convincente.
Welcome My Sun, aiutato così da un ottimo lavoro in fase di produzione, deflagra per poco più di trenta minuti, consacrati allo scandinavian melodic death metal, aggiungendovi quel tocco di ritmiche core che fanno tanto cool di questi tempi, pur mantenendo la sua impronta scandinava ben salda.
Infatti l’album risulta un ottimo esempio del genere, le chitarre rifilano solos grondanti melodie, le ritmiche alternano la potenza ed il groove del core alle accelerate death, con il nuovo arrivato che rifila una prova più che convincente al microfono.
Niente che non sia già stato fatto da chi il genere lo ha portato alla ribalta (In Flames e Soilwork su tutti) ma l’ottima vena del gruppo e canzoni che spaccano riescono a far decollare il lavoro che, complice anche la durata ridotta, si lascia ascoltare dall’inizio alla fine, senza perdere un grammo in potenza e tensione.
Ora, che il metalcore cominci a tirare la cinghia è un fatto, ma questo buon compromesso tra la tradizione nord europea e il sound americano riesce ad entusiasmare, sopratutto se le band hanno dalla loro un songwriting ispirato, come nel caso dei Soulline e del loro nuovo lavoro, sound che in sede live spacca, regalando devastanti brani dove sfumature elettroniche arricchiscono la struttura dei brani, così da risultare pieni, grosse mazzate di metal estremo melodico.
Tra le songs che compongono il lavoro e che ripeto, va assolutamente ascoltato tutto d’un fiato, Anvils, Drunk, Right Here, Right Now hanno una marcia in più, per potenza e senso della melodia nel buon lavoro di chitarra, risultando toste ma allo stesso tempo facilmente memorizzabili.
L’ultima canzone è la riuscita cover di Anytime Anywhere dei conterranei e grandissimi hard rocker Gotthard del compianto Steve Lee, resa chiaramente molto più ruvida, senza perdere lo spirito della più famosa band elvetica.
In definitiva un album da ascoltare e far proprio senza indugi, specialmente se siete amanti del death metal melodico.

Tracklist:
1. Rise Up
2. Anvils
3. Wild Sneak
4. Drunk
5. Broken My Madness
6. Right Here Right Now
7. Welcome My Sun
8. No Exception
9. Anytime Anywhere

Line-up:
Lore – Guitar
Marco – Guitar
Ghebro – Vocals
Miles – Bass
Yuval – Drums

SOULLINE – Facebook

Critical Solution – Sleepwalker

Grande band e album fantastico in cui nel brano di chiusura troviamo come special guest Michael Denner e Hank Shermann dei Mercyful Fate … e se si sono scomodati loro qualcosa vorrà pur dire.

I Critical Solution provengono dalla Norvegia, non suonano black o death metal ma una riuscita commistione tra il thrash metal americano e l’heavy metal dalle tinte horror, caro a band come Mercyful Fate e ovviamente King Diamond.

Sleepwalker è il secondo lavoro sulla lunga distanza di una discografia iniziata con l’ep “Evidence of Things Unseen” del 2011, proseguita con il primo full length “Evil Never Dies” del 2013 e con l’ulteriore ep “The Death Lament”, dello scorso anno.
Il quartetto scandinavo rilascia il nuovo lavoro, rigorosamente autoprodotto, stupendo per maturità compositiva, impatto ed ottima tecnica, e confezionando uno dei thrash album old school più belli degli ultimi tempi.
Velocità, impatto, melodie metalliche a iosa ed un songwriting davvero notevole, fanno di Sleepwalker un album che, nel genere, rasenta la perfezione.
Testament, primi Metallica e tanto heavy europeo per una decina di brani dalle tinte oscure, bilanciati con sagacia tra la tradizione statunitense e quella del vecchio continente, colma di ritmiche veloci, bellissime parti armoniche, crescendo entusiasmanti e solos incastonati in brani che spaccano.
Signori, questo è il thrash old school nella sua più splendente forma, suonato e cantato alla grande, drammatico, orrorifico, ma sempre ultra melodico.
Non c’è un brano che non entri in testa al primo ascolto, non un riff o un’accelerazione che non sia al posto giusto, sempre perfettamente strutturato su una voce che nasce per il genere e non potrebbe cantare altro, tanto è perfetta.
Christer Slettebø, voce e colpevole dei solos che per tutto l’album impazzano e vi terranno per le palle, Egil Mydland alle pelli, che in compagnia di Eimund Grøsfjell al basso formano una sezione ritmica da infarto, aiutati dalla sei corde della seconda chitarra tra le mani di Bjørnar Grøsfjell, questi sono i musicisti che compongono questo fenomenale combo, di cui non vi dimenticherete tanto facilmente.
La title track e Welcome To Your Nightmare incendiano i padiglioni auricolari; l’album parte a mille con due brani velocissimi e potenti, ma dalla terza song Blood Stained Hands il thrash lascia spazio ad una songs heavy, in un crescendo di emozioni metalliche da pelle d’oca; Sleepwalker inizia ad esaltare regalando atmosfere di drammatico horror metal, tra semiacustiche parti atmosferiche, cavalcate di puro metallo nobile e parti strumentali da brividi, tutti compressi nella stupenda Dear Mother, brano capolavoro di questo stupefacente lavoro.
Album fantastico e grande band che, non contenta, ci regala ancora brividi con Back from The Grave, posta in chiusura, dove troviamo come special guest Michael Denner e Hank Shermann dei Mercyful Fate … e se si sono scomodati loro qualcosa vorrà pur dire.

Tracklist:
1.The Curse
2.Sleepwalker
3.Welcome To Your Nightmare
4.Blood Stained Hands
5.Murder In The Night
6.Evidence Of Things Unseen
7.LT. Elliot” (featuring Mika Lagreen)
8.Dear Mother
9.The Death Lament
10.Back From The Grave (featuring Michael Denner and Hank Shermann)

Line-up:
Christer Slettebø – Vocals/Lead Guitar
Egil Mydland – Drums
Eimund Grøsfjell – bass Guitar
Bjørnar Grøsfjell – Guitars

CRITICAL SOLUTION – Facebook

88 Mile Trip – Through the Thickest Haze

Nove tracce che formano una dannata e pesante jam attraversata da vene dove scorre il blues più marcio e stravolta, come da copione, da dosi illegali di erbe e funghi.

Il Canada è terra di foreste che si perdono per chilometri, inverni che non finiscono mai, con il freddo che attanaglia ed una natura a suo modo difficile, in molti casi estrema, come il deserto, lontano migliaia di miglia, ma mai così vicino, raccontato dallo stoner rock degli 88 Mile Trip.

Il gruppo di Vancouver licenzia il suo primo album sulla lunga distanza dopo aver dato alle stampe un ep omonimo nel 2013 (anno di fondazione del gruppo) e addirittura un live album, sempre dello stesso anno e dal titolo “Live in the DTES”.
Giunge il momento, anche per loro, di sfornare il primo full length e Through the Thickest Haze arriva puntuale in questa metà dell’anno travolgendoci con la sua carica rock stonata, molto settantiano nell’approccio, senza grossi picchi ma lineare e dalla buona fruibilità.
Senza nessuna concessione alla psichedelia, l’album risulta un monolite di ritmiche hard rock desertiche; le canzoni tengono ad assomigliarsi un po’ troppo tra loro (forse l’unico difetto dell’album), ma le atmosfere da viaggio allucinato tra fumo e alcool, persi nelle desolate lande dove sole e caldo annebbiano la mente più che un joint, sono assicurate dall’ottima attitudine del quintetto canadese che, da buon Caronte, ci accompagna per le strade bruciate dell’America più vera, quella che noi amiamo di più.
Nove tracce che formano una dannata e pesante jam attraversata da vene dove scorre il blues più marcio e stravolta, come da copione, da dosi illegali di erbe e funghi, è ciò che ci propongono gli 88 Mile Trip, fieri paladini del rock settantiano amalgamato ai suoni desertici degli anni novanta.
E’ così che, tra le note dei vari capitoli di questo viaggio tra le nebbie della mente, vi imbatterete in richiami alle band cardine del genere, dagli stranominati (quando si parla di stoner) Black Sabbath, ai Kyuss e Fu Manchu.
Le canzoni scorrono piacevolmente e non ci si annoia tra le spire di questo Through the Thickest Haze, fino ad arrivare al capolavoro Song Of The Dead, stoner blues da applausi in cui l’hammond crea un alone di mistico discendere nei meandri di un rito stonato, che band come gli 88 Mile Trip continuano imperterrite a consumare.
Per concludere, un buon lavoro, gli amanti del genere sono invitati all’ascolto e troveranno di che crogiolarsi tra le note di Through the Thickest Haze.

Tracklist:
1. The Repressed
2. 20 & 8
3. Serpent Queen
4. Call to Rise
5. Burn the Saints
6. The Awakening
7. I’m Not Mad (I’m Just Disappointed)
8. Song of the Dead
9. Sacred Stone

Line-up:
Darin – Bass
Eddie – Drums
Hugo – Guitars
Casey – Guitars
Dave – Vocals

88 MILE TRIP – Facebook

Motörhead – Bad Magic

Una raccolta di brani che richiamano il tema del diavolo e della magia nera, convogliato in un sound che si fa leggermente più oscuro rispetto alle abitudini del gruppo, rimanendo ancorato però a quell’hard rock strafatto di rock’n’roll e sconvolto da un’attitudine punk che è il marchio di fabbrica dei Motorhead.

Difficile, se non impossibile, parlare di una band storica come i Motörhead di mister Lemmy Kilmister senza cadere nel banale o nel già scritto.

Troppi anni ad incendiare palchi e licenziare album (quest’anno ricorre il 40° anniversario della nascita del gruppo), troppe righe scritte su un uomo sempre in bilico sulla “sottile linea bianca”, ma probabilmente vera ed indiscussa icona del vivere rock’n’roll.
Eppure solo pochi mesi fa sembrava che il buon Lemmy dovesse lasciare le scene, il troppo stroppia anche per lui ed invece, a quasi settantanni, radunata la banda, torna con un nuovo lavoro.
Bad Magic è il ventiduesimo album dei Motörhead, con la coppia Campbell – Dee ad affiancare Lemmy in quello che probabilmente è l’album più riuscito degli ultimi anni.
Prodotto da Cameron Webb nei NRG Studios, l’album parte alla grande con Victory Or Die e non si ferma più, un razzo di rock’n’roll dinamitardo, un pugno in faccia che stordisce, come ai vecchi tempi, grazie a brani travolgenti e dall’impronta live.
Sarà dura per il gruppo scegliere le canzoni da lasciar fuori dalla scaletta dell’imminente tour mondiale, che vedrà il trio di questi inesauribili vecchietti prima girare gli States e poi sbarcare in Europa a novembre, vista la qualità complessiva di Bad Magic.
I primi otto brani sono cavalcate hard & roll tremendamente efficaci e bisogna arrivare alla semi-ballad Till The End per riuscire a tirare un po’ il fiato; Lemmy, con la sua voce sporcata da una vita al limite, continua a dispensare carisma ed i suoi degni compari lo seguono in questa nuova avventura, anche loro in forma splendida,(Phil Campbell è protagonista di un lavoro disumano alla sei corde, mentre Mikkey Dee si conferma picchiatore inesauribile).
L’ospite Brian May sulla roboante The Devil e l’omaggio agli Stones con la cover dell’immortale Sympathy For The Devil, sono le novità di un album dal sound nuovamente votato all’impatto live che ha caratterizzato i migliori lavori di una band che sembra essere rinata dopo un paio di opere zoppicanti come “The Wörld Is Yours” (2010) e “Aftershock”, di due anni fa.
Una raccolta di brani che richiamano il tema del diavolo e della magia nera, convogliato in un sound che si fa leggermente più oscuro rispetto alle abitudini del gruppo, rimanendo ancorato però a quell’hard rock strafatto di rock’n’roll e sconvolto da un’attitudine punk che è il marchio di fabbrica dei Motörhead.
C’è da divertirsi e tanto tra i solchi di Bad Magic, stravolti e cotti da canzoni dinamitarde come Thunder & Lightning, Electricity, l’oscura e “diabolica” Choking On Your Screams e l’esplosiva When The Sky Comes Looking For You.
Dopo un’estate passata a riempire le tasche a bolsi fenomeni da baraccone, è l’ora di tornare a fare sul serio: Bad Magic riconcilia il sottoscritto con i troppi gruppi storici ormai diventati patetiche cover band di se stessi e rifila una lezione di rock’n’roll a cui dovete assolutamente assistere … lunga vita a Lemmy Kilmister.

Tracklist:
1.Victory Or Die
2.Thunder & Lightning
3.Fire Storm Hotel
4.Shoot Out all of Your Lights
5.The Devil
6.Electricity
7.Evil Eye
8.Teach Them How To Bleed
9.Till The End
10.Tell Me Who To Kill
11.Choking On Your Screams
12.When The Sky Comes Looking For You
13.Sympathy For The Devil

Line-up:
Lemmy Kilmister – Bass, Vocals
Phil Campbell – Guitars
Mikkey Dee – Drums

Motörhead – Facebook

Dr. Gore – Viscera

L’ottima produzione e la cura di ogni dettaglio fanno di Viscera un gran bel lavoro, i brani si susseguono uno più violento dell’altro, strapazzati dal vocione del bassista che, trasformatosi nel sadico dottore, sventra, taglia e svuota corpi.

Disturbante per molti, venerato da altri, il brutal death si può senz’altro considerare come il genere più estremo di cui si nutre il metal: mai uscito dallo spirito underground se non in pochissimi casi, continua ad essere alimentato da band in ogni parte del mondo.

Guardando nel nostro paese, le realtà dedite al genere sono molte e in molti casi di assoluto valore, specialmente se ci si rivolge alla scena della capitale, alimentata da un nugolo di gruppi dalle potenzialità enormi, usciti negli ultimi due anni con opere di un certo spessore (Degenerhate, Corpsefucking Art, Devangelic, tre le altre).
Viscera è il nuovo lavoro dei Dr. Gore, uscito a distanza di tre anni dal primo full length, “Rotting Remnants”, nonché il secondo in dodici anni di attività, un lasso di tempo che ha donato al gruppo esperienza da vendere, dimostrata in questa mezz’ora di devastante massacro brutal/grind.
Il dottore ci sa fare eccome, torturando pazienti inermi, con una furia ed un impatto straordinari: i tredici brani raccolti in Viscera travolgono letteralmente, compatti e ferali, facendo risultare il tutto una valanga di musica violenta che non fa prigionieri.
Ottima la sezione ritmica, precisa e potente, inumana quando schiaccia il piede a tavoletta e parte come un razzo (Alessio Pacifici basso e Massimo Romano alle pelli) e letali le due asce (Marco Acorte e Luigi Longo).
L’ottima produzione e la cura di ogni dettaglio fanno di Viscera un gran bel lavoro, i brani si susseguono uno più violento dell’altro, strapazzati dal vocione del bassista che, trasformatosi nel sadico dottore, sventra, taglia e svuota corpi.
Il sound, che passa agevolmente dal brutal al grind, ed in alcuni casi si lascia apprezzare per sfumature e riff che ricordano il death classico, mostra l’ormai consolidata maturità del combo capitolino, maestro nel tenere in scacco la bestia che si aggira tra lo spartito dei brani, senza scendere a compromessi e mantenendo sempre altissima la tensione.
Le influenze, o meglio le affinità, con le band storiche sono tante e diverse, ma interpretate con grande personalità dalla band: se siete fans del genere, Viscera è assolutamente consigliato.

Tracklist:
1. Viscera
2. Grotesque Corpse Sculpture
3. Hordes of Dead Flesh
4. Diseased Altered Corpse
5. Embalmer
6. Fast Death
7. Freezer Full of Flesh
8. In Your Rotten Cavity
9. Time to Kill
10. Born in Corpse
11. Postmortem Blood Ejaculation
12. Zombie Brutalized Mankind
13. Back from the Grave to Kill Again

Line-up:
Alessio Pacifici – Bass,Vocals
Luigi Longo – Guitars
Marco Acorte – Guitars/Vocals
Massimo Romano – Drums

DR. GORE – Facebook

Pavillon Rouge – Legio Axis Ka

Album difficile da assimilare per chi vive di musica a compartimenti stagni, Legio Axis Ka è consigliato agli amanti dell’estremo che non disdegnano soluzioni moderniste ed elettroniche.

I suoni metallici amalgamati a quelli sintetici ed elettronici non fanno più quel clamore di una ventina d’anni fa: anche in questo ibrido musicale si è già detto più o meno tutto e gli album che hanno fatto storia sono stati saccheggiati dalle nuove leve in ogni loro parte.

Vero è che, chi ha raccolto maggiori proseliti sono quei gruppi che, partendo dalla lezione impartita dai Fear Factory, hanno creato mostri di abominevole metal estremo, violentato e reso ancora più devastante dalle soluzioni industriali.
Ma i francesi Pavillon Rouge fanno spallucce e proseguono imperterriti la loro discesa negli inferi con Legio Axis Ka, un monolite di black metal estremizzato da iniezioni di elettro/industrial, dalle forti reminiscenze new wave e dall’appeal straordinario.
Il gruppo estremo di Grenoble, attivo da quasi una decina d’anni, immette sul mercato tramite la Dooweet, questo secondo, splendido lavoro dopo cinque anni dall’ultimo parto, “Solmeth Pervitine”.
Black metal si diceva, feroce, e distruttivo, una bestia malefica che si nutre di suoni drogati e sintetici, atmosfere cyber ed industriali, fanno del nuovo lavoro una massacrante prova di forza da parte della band transalpina, in un viaggio per lo spazio che finisce inevitabilmente con una interminabile caduta tra le braccia di un demoniaco signore residente nel più profondo abisso.
Ottimamente usati, i suoni moderni trasmettono atmosfere che si diversificano ad ogni passaggio: ora disturbanti, molte volte creando sfumature sinfoniche e spaziali, ora tuffandosi nella techno (Kosmos Ethikos), creando un universo di musica estrema varia e dall’ottimo feeling.
Un mostro creato, come dal dottor Frankenstein, impossessandosi di parti che, ricucite assieme prendono vita, richiamando sotto la fiamma nera del black oltranzista una serie di generi nati dai suoni sintetici come l’industrial, la techno e la new wave per un risultato forse ambiguo ma molto affascinante.
Spaziale nel suo incedere, Legio Axis Kla, ha nelle parti estreme , dove la furia black è tenuta per le briglie dalla marzialità dei suoni cyber, i momenti più intensi come nell’opener Prisme vers l’Odysée e L’enfer se souvient, l’enfer sait, ottima accoppiata di songs estreme e furiose.
Mars Stella Patria si allontana dall’approccio black sinfonico delle prime due tracce per una canzone molto più sintetica e techno, ed è proprio su questa alternanza di stili che Legio Axis Ka vive, lasciando alla monumentale A l’Univers, il compito di inglobare tra il suo spartito tutti gli umori e le sfumature che compongono la musica dei Pavillon Rouge.
Album difficile da assimilare per chi vive di musica a compartimenti stagni, Legio Axis Ka è consigliato agli amanti dell’estremo che non disdegnano soluzioni moderniste ed elettroniche, se ne astengano invece gli adepti del black più oltranzista.

Tracklist:
1. Prisme vers l’Odysée
2. L’enfer se souvient, l’enfer sait
3. Mars Stella Patria
4. A l’Univers
5. Aurore et Nemesis
6. Droge Macht Frei
7. Kosmos Ethikos
8. Notre Paradis
9. Klux Santur

Line-up:
E.Shulgin – Bass
Kra Cillag – Vocals
Mervyn Sz. – Guitars, Programming
François Guichard – Guitars (lead), Vocals

PAVILLION ROUGE – Facebook

Watch Them Burn – Watch Them Burn

Debutto per i valdostani Watch Them Burn con cinque brani di metal moderno, tra richiami al death melodico e al metalcore.

Debutto omonimo autoprodotto per i valdostani degli Watch Them Burn, autori di un lavoro composto da cinque brani di metal moderno, tra richiami al death melodico e al metalcore.

Non male questo mini: la band, attiva da quattro anni, sa come muoversi tra i solchi del genere suonato, cercando di variare la propria proposta con ritmiche cangianti, mai troppo core, riuscendo ad amalgamare perfettamente il death melodico scandinavo, con il genere più in voga ultimamente tra quelli estremi.
Ne escono brani potenti e devastanti e dall’ottimo appeal; ottimo il lavoro delle chitarre, a cura di Corruptor e Mithra che, tra l’impatto prodotto dal gruppo, se ne escono con qualche assolo classico di ottima fattura, e sopra le righe la sezione ritmica (Shinigami al basso e Anubi alle pelli) che asseconda la vena cangiante dei brani, tra le ritmiche sostenute delle tracce più death oriented (bellissima l’opener The Day After) ed il groove potente e cadenzato di quelle più core (Dark Side).
Impreziosito dalla prova sontuosa del vocalist Maniac, vario e perfetto nell’adattare il suo scream ad ogni situazione musicale creata (finalmente un gruppo che non usa la voce pulita) mantenendo una tensione che si alza ad ogni brano, Watch Them Burn risulta un’opera prima riuscita ed in più parti avvincente.
Soul-R, la modernissima e marziale My Country e la conclusiva Afterlife, dove il gruppo valdostano torna alle sonorità death dell’opener, completano un album che si rivela, così, un buon ascolto sia per il fans del death metal melodico, sia per quelli più orientati a sonorità in linea con i gusti del momento: la band ha diverse strade da far percorrere alla propria musica, vedremo in futuro quale sarà l’indirizzo preso, magari con un lavoro sulla lunga distanza.

Tracklist:
1.The Day After
2.Soul R
3.My Country
4.Dark Side
5.Afterlife

Line-up:
Maniac – vocals
Corruptor – Guitar
Mithra – Guitar
Shinigami – Bass
Anubi – Drum

WATCH THEM BURN – Facebook

EVERSIN – Intervista

Intervista con la band siciliana autrice dell’ottimo “Trinity : The Annihilation”.

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Ignazio Nicastro e Angelo Ferrante, rispettivamente bassista e vocalist dei devastanti Eversin, thrash metal band autrice del notevole Trinity : The Annihilation.
Ne è scaturita una piacevole panoramica sul passato e presente del gruppo …

eversin2

iye Ciao a tutti e complimenti per il nuovo album; facciamo un passo indietro, però, e raccontateci la vostra storia!!

Ignazio: Ciao a te e grazie mille per le belle parole che hai speso sul nostro nuovo disco. Gli Eversin nascono nel 2008 dalle ceneri dei Fvoco Fatvo, e nel 2010, per My Kingdom Music, esce il nostro primo disco Divina Distopia, un album molto particolare, sperimentale e lontano dal thrash tecnico e violento che proponiamo oggi. L’album era una sorta di esperimento e presentava sonorità molto atipiche per una band thrash. Ci interessava esordire in maniera piuttosto atipica anche se non mancano le sfuriate che ci contraddistinguono. Diciamo che ce ne stanno meno del solito. Tears on the Face of God del 2012 e sempre per MKM, è il disco che ci riporta alle nostre radici, infatti è un album thrash molto diretto, anche se presenta molte parti piuttosto epicheggianti. Per quanto riguarda il neonato Trinity: the Annihilation, beh, è IL disco degli Eversin. E’ quanto di meglio abbiamo mai composto e pubblicato ed è la perfetta fotografia dell’anima della band.

iye Nonostante la bontà del precedente lavoro a mio parere i passi avanti fatti con “Trinity: The Annihilation”, sono stati esponenziali: avete avuto la stessa percezione e quale è stato il processo compositivo che vi ha portato a questo risultato ?

Angelo: Gli Eversin sono in costante evoluzione e come dici tu la cosa è assolutamente ravvisabile se si paragonano i nostri due ultimi lavori. In fin dei conti sono usciti a poco più di due anni di distanza l’uno dall’altro ma la differenza tra i due è notevole. Trinity: The Annihilation è assolutamente molto più violento rispetto a Tears on the Face of God, ma allo stesso tempo esalta le capacità tecniche di ognuno di noi e porta la nostra musica ad un livello ancora più alto. Il processo compositivo seguito è stato lo stesso usato per gli altri dischi solo che stavolta abbiamo avuto molto meno tempo per comporre e rifinire le canzoni. La cosa ci ha messo davvero sotto pressione ma dal risultato ottenuto posso dire che lavoriamo molto bene sotto pressione.

iye Il vostro album, supportato da un’ottima tecnica, cresce a dismisura con gli ascolti: in questi mi dà l’idea di un lavoro di vecchio stampo, cioè un’opera in cui l’ascoltatore non subisce passivamente la musica ma ne diviene parte attiva nell’elaborarne i contenuti.

I: Ciò che hai notato è esattamente ciò che vogliamo che succeda. L’ascoltatore deve essere catapultato all’interno di ciò che noi narriamo nei testi e deve esserne parte. Per questo i nostri testi devono rispecchiare ciò che suoniamo, proprio per consentire a chi ascolta di calarsi completamente all’interno delle atmosfere del disco. Prova a guardare la copertina e contestualmente ascolta una qualsiasi canzone del cd … ti sembrerà di essere davvero parte di ciò che stai guardando.

iye Il titolo ricorda la prima detonazione nucleare da parte degli U.S.A nel New Mexico del 1945, e la musica segue questo concept risultando apocalittica, a tratti capace di evocare puro terrore: questa scelta fotografa in qualche modo la vostra visione attuale del mondo che ci circonda?

I: Assolutamente sì. Ho scritto io tutti i testi, e non ho problemi a dire che l’umanità mi disgusta. Mi disgusta ciò che ha fatto in passato, ciò che fa e ciò che farà. Il mondo è un bel posto, è l’uomo che fa schifo. Un essere costantemente votato all’autodistruzione ed alla ricerca del bene personale. Ciò che ho voluto mettere in risalto coi testi non è la creazione dell’arma nucleare, bensì l’idea di autodistruzione che sta alla base della creazione della bomba atomica. Se ci pensi un attimo è l’abominio per eccellenza.

iye Ad inizio recensione ho accennato alle illustri collaborazioni che impreziosiscono l’album, ovvero quelle di James Rivera e Glen Alvelais: come siete riusciti a coinvolgere i due musicisti? Tra l’altro sto notando che sempre più i gruppi nostrani, in tutti i generi metallici, accolgono nei loro album graditi ospiti internazionali, segno che all’estero la nostra scena è più che rispettata, mentre in Italia si fatica, anche solo a supportare le band meritevoli; è davvero così anche secondo voi?

A: Li abbiamo contattati via mail ed in seguito, dopo che hanno accettato di collaborare, abbiamo inviato loro i pezzi su cui suonare. Sono due persone squisite e due professionisti davvero in gamba. Il fatto che molte band ospitino guest sui loro dischi è indubbiamente un buon segno e mette in luce, come dicevi tu, che le band italiane vengono ben considerate all’estero, cosa che non succederà mai in Italia, patria dell’invidia e delle maldicenze.

iye Slayer, Forbidden e Testament in un contesto estremo ed apocalittico, supportato da ottima tecnica e grande personalità: questo è ciò che risponderei a chi mi chiedesse una sintetica descrizione della musica degli Eversin: vi ci ritrovate o avete altro da aggiungere?

I: Che bisogno c’è di aggiungere altro? Meglio di così…

iye Oltre i gruppi citati, quali sono i vostri ascolti abituali?

I: Thrash metal in lungo ed in largo, molto death metal, qualcosa di black metal e qualcosa di heavy classico…

A: Testament, Slayer, Annihilator, Kreator, Grip.Inc ed Exodus, poi qualcosa di classico come Maiden, Ozzy o Savatage…

iye Parliamo di concerti, argomento spigoloso specialmente sul suolo nazionale: come vanno le cose in casa Eversin riguardo agli impegni on stage, in particolare per quanto riguarda le opportunità di esibirsi con una certa continuità?

I: Beh guarda, non ci possiamo lamentare … Abbiamo suonato con i Death Angel, con i Destruction per ben due volte, l’anno scorso al Rock Off in Turchia con i Megadeth e quest’anno coi i Korn, sempre l’anno scorso all’Agglutination e ad ottobre suoneremo con gli Annihilator … Inoltre abbiamo già qualcosa in cantiere per il 2016 …

A: Facciamo il possibile per far convivere la band con le nostre vite personali e lavorative, e a volte non è proprio facilissimo. Posso dire però che al momento ci stiamo riuscendo alla grande, e vedrai che nel 2016 saremo molto più presenti sui palchi di mezza Europa.

iye Concludiamo chiedendovi di anticiparci qualcosa riguardo ai vostri progetti a beve e lunga scadenza.

I: Come diceva Angelo, il 2016 ci vedrà sui palchi europei per dei festival ma nel frattempo già a Natale inizieremo a comporre del nuovo materiale. Ci sarà un quarto disco degli Eversin e sarà ancora più devastante. Per adesso c’è Trinity: the Annihilation a spaccare il culo a chiunque provi a mettere in discussione gli Eversin … il resto verrà a suo tempo.

Gravesite – Horrifying Nightmares …

Senza un brano sotto la media, “Horrifying Nightmares …” sembra uscito davvero dalle orde barbariche che ci investirono nei primi anni novanta: parlare di influenze è superfluo, ascoltatelo.

Supergruppo estremo tutto italiano? E perchè no?

D’altronde, a ben vedere il curriculum dei musicisti impegnati in questa band c’è da stropicciarsi gli occhi: David, batterista di almeno tre gruppi esagerati come Haemophagus, Morbo ed ex Sergeant Hamster, Gioele axeman di Haemophagus e Repulsione, oltre a Claudio (basso) e Gabri (voce) a dare il loro contributo ad una miriade di band tra cui Ancient Cult, Bland Vargar, Nagasaki Nightmare il primo e Black Temple Below, Cancer Spreading, Terror Firmer il secondo.
Nati lo scorso anno, i Gravesite hanno all’attivo un demo, “Obsessed by the Macabre”, prima che il full lenght d’esordio irrompa sulla scena underground sotto l’ala della Xtreem Music, che di lavori old school se ne intende, e ci massacrino sotto le bordate death metal del loro devastante Horrifying Nightmares …
Album che si rifà alla tradizione del death metal classico, il lavoro del gruppo emiliano travolge l’ascoltatore che, ad un primo disattento approcciarsi al disco, potrebbe pensare di trovarsi al cospetto di una delle band storiche del nostro genere preferito, direttamente dai primi ’90, tanto è perfetto a livello di sound, composto da tutti gli ingredienti che hanno fatto storia nella musica estrema.
Tanto death nord europeo, ed una spruzzata di sound made in Bay Area, fanno di Horrifying Nightmares … un ascolto obbligato per tutti i deathsters dagli ascolti old school, sparsi per lo stivale e non solo.
Atmosfera orrorifica già dalla stupenda copertina retrò, partenze a razzo per le vie di un massacro senza soluzione di continuità e brusche frenate doom/death, sono le virtù principali di un lavoro pregno di impatto non solo death, visto che la band ci tiene a sottolineare un’orgogliosa attitudine punk che aiuta non poco l’aggressività e la voglia della band di non scendere a compromessi.
Ottimo il lavoro dei musicisti e non potrebbe essere altrimenti, iniziando dal bestiale orco al microfono, per passare al gran lavoro della sei corde (Gioele è una garanzia di qualità) esaltato da una sezione ritmica da orgia infernale.
Senza un brano sotto la media, Horrifying Nightmares … sembra uscito davvero dalle orde barbariche che ci investirono nei primi anni novanta: parlare di influenze è superfluo, ascoltatelo.

Tracklist:
1. Intro / Anguished Sheep
2. Submerged in Vomit
3. Horrifying Nightmares of Flesh and Blood
4. I Want to Rot
5. The Painter of Agonies
6. Where Mortals Fear to Thread
7. Curse of the Red Moon
8. Worship Death in All Its Forms
9. Suscipe Mortem

Line-up:
Claudio – Bass
David – Drums
Gioele – Guitars
Gabri – Vocals

GRAVESITE – Facebook

Psychophobia – The Fall

Una quindicina di minuti di musica che costituiscono un’importante conferma delle qualità del gruppo.

Certo che gli In Flames di band ne hanno influenzate molte: più passa il tempo e più il gruppo di Anders Friden si rivela un importante modello, sia per i gruppi orientati al death melodico, sia per quelli che si ispirano alla band svedese dopo la svolta dall’impronta americana che avvenne da “Reroute to Remain” in poi.

Gli Psychophobia fanno man bassa del sound di album storici come “Whoracle” e “The Jester Race” e lo arricchiscono di ritmiche power: il risultato è una buona amalgama, che stordisce ed a tratti esalta; derivativo certo, ma i tre brani proposti in questo ep sono manna per gli amanti del genere, che vogliono tornare alle origini del death melodico senza perdersi in soluzioni core e godendo degli elementi classici del genere, con solos melodici e voce cattiva oltre alle suddette ritmiche.
La band, non è proprio di primo pelo, e la sua discografia si avvale di un demo del 2003, di un mini cd e di un full length risalente a tre anni, il tutto in oltre un decennio di carriera nel mondo metallico underground.
L’esperienza si sente tutta e pur senza apparire troppo personale, il gruppo il proprio mestiere lo sa fare bene, confezionando tre brani feroci, scorrevoli e melodici, pur picchiando da par loro.
The Fall, se concepito per sondare il terreno per un futuro album, la sua missione la porta a casa con dignità: Servants Of Deception, la title track e The Code piacciono, colme di riferimenti al genere ed ottime soluzioni ritmiche, solos che strappano qualche convinto applauso e growl che impazza, finalmente anche nei ritornelli, aggressivo e sul pezzo.
Una quindicina di minuti di musica che costituiscono un’importante conferma delle qualità del gruppo, sono quello che avrete da quest’opera, datele un ascolto e mettetevi in attesa del prossimo lavoro sulla lunga distanza.

Tracklist:
1.Servants of Deception
2.The Fall
3.The Code

Line-up:
Pater – guitar
Maryjan – guitar
Maly – drums
Stygmat – vocal
Kom – bass

PSYCHOPHOBIA – Facebook

Lectern – Fratricidal Concelebration

Per gli amanti del death metal americano questo album è un oggetto da mettere vicino, con orgoglio, alle opere dei nomi storici del genere.

Un dinamitardo album di death metal tecnico, feroce e old school, direttamente dagli states dei primi anni novanta.

No , questo assalto sonoro dal titolo Fratricidal Concelebration fa molta meno strada per arrivare a noi, sia in margini di tempo che di chilometri percorsi: infatti la band protagonista di cotanto massacro è romana e l’album datato 2015.
I Lectern provengono quindi dalla capitale, una vita nell’underground metallico ed ora finalmente giunge il momento di dare alle stampe l’agognato debutto che risulta un autentico e devastante tributo al death metal americano, prodotto benissimo e suonato ancora meglio.
Mezz’ora basta e avanza al combo per mettere tutti d’accordo, qui si fa death con palle che sono mastodontiche sfere d’acciaio, risultando un brutale assalto sonoro, un’aggressione senza pietà resa superba da una tecnica invidiabile.
Velocità, pesantezza, virtuosismi ritmici formidabili ed un growl belluino, fanno di Fractricidal Concelebration un tributo al re dei generi estremi, qui assolutamente nobilitato da un songwriting in stato di grazia ed un’attitudine da top band del genere.
Prodotto da Giuseppe Orlando nei The Other Sound Studios, l’album letteralmente spacca, la band non concede un attimo di tregua, il loro death che, a tratti, si avvicina al brutal, è un perfetto esempio di come si può essere estremi e tecnici senza finire nel caos senza costrutto.
Fratricidal Concelebration è composto da canzoni che si dimostrano una più feroce dell’altra, una più brutale e devastante dell’altra, una più bella dell’altra.
Sedici anni sono passati dalla nascita dei Lectern, una vita se si pensa a come il mondo della musica, anche estrema, sforna gruppi e dischi come panini dal fornaio sotto casa, eppure mai attesa fu meglio premiata, così che la band romana si guadagna un posto d’onore tra le top band del panorama estremo, non solo nazionale.
Per gli amanti del death metal americano questo album è un oggetto da mettere vicino, con orgoglio, alle opere dei nomi storici del genere.

Tracklist:
1. Fratricidal Concelebration
2. Labial of Inveigher
3. Genuflect for Baptismal Transubstantiation
4. Falsifier Bribed in Desanctification
5. Pulpit of Tormentation
6. Lordless
7. Deign of Ceremonier
8. Golgothanean
9. Libidinal Tabernacles

Line-up:
Fabio Bava – vocals, bass
Enrico Romano – guitars
Marco Valentine – drums
Pietro Sabato – guitars

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