Thakandar – Sterbende Erde

I Thakandar riecono ad attingere il meglio da tutta la tradizione black del loro paese, riversandola in maniera sufficientemente personale e coinvolgente per ritagliarsi la meritata attenzione da parte degli appassionati.

I Thakandar sono l’ennesima band di spessore che sbuca dall’underground black tedesco.

Il gruppo della bassa Sassonia interpreta il genere secondo i canoni consolidati della scuola germanica, quindi con ritmi mai forsennati ed una costante ricerca melodica senza disdegnare aperture verso il death e l’heavy metal.
Quello che ne scaturisce è Sterbende Erde, full length d’esordio per un combo attivo dalla fine dello scorso decennio e rimasto fino ad oggi un po’ sotto traccia causa una produttività piuttosto scarna.
Anche se l’unico tra i musicisti coinvolti ad avere una certa notorietà è il batterista Marlek, già membro degli storici Geist (poi Eis), la band dimostra una notevole padronanza districandosi abilmente in un ambito nel quale bisogna trovare il modo di penetrare nella memoria degli ascoltatori per sperare di ottenere un certo seguito: i Thakandar lo fanno con un mazzo di brani di buona orecchiabilità ed intensità, del tutto in linea appunto con gruppi come i citati Eis, concedendosi poi una deroga dai classici canoni, a partire dall’inserimento riuscito di voci femminili funzionali all’approdo a parti che possono richiamare anche il doom ( Hinter dem Schatten ma soprattitto Signal Of Sorrow).
Sterbende Erde è un’opera in linea con i dettami del genere in terra tedesca, quindi qualità al di sopra di ogni sospetto, con grande profondità e suoni molto curati in antitesi con la tendenza lo fi di gran parte degli interpreti abituali.
Ogni traccia presenta più di un buon motivo per essere ascoltata ed un tema portante incisivo, espresso sia tramite la robustezza del riffing (Todesmarsch I: Verdammnis) sia attraverso la solennità delle atmosfere (Todesmarsch II: Verbannung).
La lunga e superba title track suggella un album che sarebbe un peccato trascurare perché i Thakandar riecono ad attingere il meglio da tutta la tradizione black del loro paese, riversandola in maniera sufficientemente personale e coinvolgente per ritagliarsi la meritata attenzione da parte degli appassionati.

Tracklist:
1. Erbschuld
2. Hinter dem Schatten
3. Signal of Sorrow
4. Todesmarsch I: Verdammnis
5. In der Asche der Alten
6. Todesmarsch II: Verbannung
7. Sterbende Erde

Line-up:
Xorg – Vocals
Zavragor – Guitar + Vocals
Kelrath – Guitar
Argui – Bass
Marlek – Drums

THAKANDAR – Facebook

Dunkelnacht – Anthropocenia

I Dunkelnacht dimostrano ancora una volta di essere multiformi, ma senza mai dimenticare cosa significa la parola black. Per tutti gli amanti del genere, sicuramente una panacea.

È un mondo frenetico. Troppo. Lo scenario descritto dai Dunkelnacht è chiaro e spietato. L’uomo ha annientato ogni forma di pudore nei confronti di un mondo che non gli appartiene, ma che anzi lo possiede.

Il titolo di questo EP, il secondo di fila, è Anthropocenia: un termine adattissimo, che si riferisce proprio all’epoca moderna, nella quale l’essere umano è direttamente responsabile dei cambiamenti geologici nella loro totalità. Come al solito però, ne è responsabile in chiave negativa.
Quello presentatoci dai francesi è un sound letteralmente intriso di negatività e corrosione. Un pezzo emblematico come Extinction potrebbe farci pensare che ci sia concesso spazio per la riflessione, ma è presto chiaro che l’intento è piuttosto quello della pena per la stupidità umana, perché veniamo catapultati dentro una melma da cui è difficile uscire. E per farlo, certamente la band francese non ha bisogno di pretesti o giustificazioni. In passato abbiamo sentito, da parte loro, un black metal senza dubbio più forsennato e privo di catene, ma la scelta stilistica in Anthropocenia si rivela perfetta per evocare nella nostra mente esattamente ciò che i Dunkelnacht vogliono.
Durante l’ascolto, spesso si possono mescolare dentro di noi più stati d’animo, che però questi artisti riescono a far convivere. Anche gli spezzoni che potrebbero sembrare più clementi o romantici, hanno sempre una linea guida che, una volta compresa, ce li fa vedere sotto un’altra luce. È quella dell’ intolleranza, della pazienza finita, e di ogni altra energia negativa che si annida nei nostri corpi.
Insomma, un odio d’altri tempi che qualche lacrimuccia, forse, la fa scendere.

Tracklist
1. Anthropocenia
2. Extinction
3. Nenia
4. Ikonoklazt

Line-up
Heimdall – Guitars (lead), Programmings
Alkhemohr -Bass, Vocals (backing)
M.C. Abagor – Vocals (lead)
Tegaarst- Drums

DUNKELNACHT – Facebook

DEINONYCHUS

Il video di “For This I Silence You”, dall’album “Ode To Acts Of Murder, Dystopia And Suicide” (My Kingdom Music).

Il video di “For This I Silence You”, dall’album “Ode To Acts Of Murder, Dystopia And Suicide” (My Kingdom Music).

Camerata Mediolanense – Le Vergini Folli

Le Vergini Folli è rivolto ad un pubblico selezionato, il quale deve porsi come obiettivo primario quello di godere della purezza stilistica e poetica di un lavoro che ferma lo scorrere del tempo, obbligando ad ascoltare musica spogliata delle convenzioni strumentali e compositive della nostra epoca.

Da oltre vent’anni la Camerata Mediolanense costituisce una delle più piacevoli anomalie musicali del nostro paese.

Anomalia in quanto, nonostante uno stile che rifugge ogni accenno di rumorosità o modernità, l’ensemble è sempre gravitato anche nella sfera di gradimento della fascia di ascoltatori di rock e metal dotati di una naturale propensione verso sonorità impattanti dal punto di vita emotivo.
A tutto questo, poi, contribuisce poi l’ingresso nel nuovo decennio della Camerata Mediolanense nel roster della Prophecy Productions, etichetta tedesca che propone ogni volta dischi di straordinaria qualità afferenti a generi che vanno dal black metal sino al neofolk o appunto, alla derivazione neoclassica che troviamo elevata alla sua massima espressione in questo Le Vergini Folli.
Come sostiene Elena Previdi, fondatrice del collettivo, l’album può apparire datato per sonorità ed approccio perché lo è a tutti gli effetti, collocandosi ben al di fuori di ogni tentazione modaiola: proprio per questo Le Vergini Folli è rivolto ad un pubblico selezionato, il quale deve porsi come obiettivo primario quello di godere della purezza stilistica e poetica di un lavoro che ferma lo scorrere del tempo, obbligando ad ascoltare musica spogliata delle convenzioni strumentali e compositive della nostra epoca, ancor più in questa occasione che non prevede alcun intervento delle percussioni, molto importanti invece nell’economia degli album precedenti.
A dominare la scena sono quindi il pianoforte della Previdi e l’intreccio delle voci femminili di Desirée Corapi, Carmen D’Onofrio e Chiara Rolando che, assieme a quella maschile di 3vor, interpretano i sei componimenti poetici scritti da altrettante ed anonime autrici femminili d’altri tempi, oltre a due sonetti del Petrarca che si rivelano, peraltro, una gradita appendice a Vertute, Honor, Bellezza, uscito nel 2013 e del tutto basato a livello lirico sull’opera del poeta aretino.
A colpire, nell’operato della Camerata Mediolanense, è l’esibizione di una limpidezza compositiva che non può lasciare indifferenti, con le cristalline voci delle splendide interpreti che declamano versi scritti in un italiano pregno di una ricchezza espressiva destinata, irrimediabilmente, a scemare di pari passo con l’abbrutimento etico e sociale.
Gli otto brani riconciliano con l’arte, in virtù di una proposta che non ha nulla dello snobismo intellettuale di certe proposte elitarie, ma riporta direttamente all’essenza della musica, quella che riluce in particolare nella conclusiva Quando ‘l sol, dove la poetica petrarchesca viene sublimata in una trasposizione di abbagliante bellezza, grazie all’interpretazione vocale di Desirée Corapi ed al talento pianistico di Elena Previdi.
E’ magnifica anche Mi Vuoi, dal beffardo e trascinante finale, mentre l’altra traccia ispirata dal poeta toscano è Pace Non Trovo, perfetta nel suo duetto tra voce femminile e maschile: anche per questi due brani, oltre al già citato Quando ‘l sol, sono stai girati altrettanti video, meritevoli di visione anche per la cura dei particolari che li contraddistingue.
Le Vergini Folli è un album da non perdere, è un lampo di struggente poesia che si fa musica (nel senso più letterale) ed essendo in qualche modo collocabile artisticamente nel passato, per un ascolto ideale necessita dell’astrazione da un presente che non contempla soverchie pause di riflessione.

Tracklist:
1.Lacrime di gioia
2.Scrissi con stile amaro
3.Notte di novelli sogni
4.Mi vuoi
5.Notte ancora
6.Pace non trovo
7.Dolce salire
8.Quando ‘l sol

Line up:
Elena Previdi – composizione, tastiere, clavicembalo, organo, fisarmonica e percussioni
Giancarlo Vighi – tastiere, percussioni, voce (coro)
3vor – voce (baritono), percussioni, tastiere e campionamenti
Manuel Aroldi – percussioni
Marco Colombo – percussioni
Desirée Corapi – voce
Carmen D’Onofrio – voce (soprano lirico)
Chiara Rolando – voce

CAMERATA MEDIOLANENSE – Facebook

Paramnesia / Ultha – Split

I francesi Paramnesia ed i tedeschi Ultha si rivelano due ottime band che, in qualche modo, fotografano nitidamente le tendenze delle rispettive scuole nazionali in ambito black metal.

La Les Acteurs De L’Ombre Productions è un’altra etichetta che si sta facendo pazientemente largo, puntando sulla pubblicazione di album di qualità i cui autori sono spesso gruppi ancora relativamente poco conosciuti.

In quest’occasione le band portate all’attenzione del pubblico sono due, visto che l’oggetto dell’articolo è uno split album che accomuna i francesi Paramnesia ed i tedeschi Ultha.
La prima parte è appannaggio dei Paramnesia, autori di un post black dai connotati piuttosto cupi: VI è un brano decisamente elaborato che vive di qualche brusca accelerazione alternata a momenti di liquida calma, riuscendo con buona continuità a mantenere sempre alta la tensione. L’offerta del gruppo di Strasburgo va lavorata con pazienza perché non presenta grandi aperture melodiche vivendo, come detto, di una sorta di compressione sonora in un misto di rabbia e disperazione.
Se l’ambito stilistico, almeno a livello di assegnazione di un etichetta, può essere lo stesso per i teschi Ultha, in realtà l’approccio che rinveniamo è ben diverso e più canonicamente collocabile nel black metal, con ritmiche quasi sempre sostenute, chitarre che esprimono al meglio uno spiccato senso melodico con il ricorso al tradizionale tremolo e la differenza fatta da un’intensità non comune, che rende i diciotto minuti di The Seventh Sorrow un piccolo gioiello da maneggiare con estrema cura, confermando i riscontri entusiastici che la band di Colonia aveva ottenuto con il full length Converging Sins, uscito lo scorso anno.
Paramnesia e Ultha si rivelano due ottime band che, in qualche modo, fotografano nitidamente le tendenze delle rispettive scuole nazionali: se in Francia si prediligono spesso sonorità meno immediate e sovente intricate, con pulsioni estreme provenienti da altri sottogeneri, in Germnania il black metal possiede quel senso di solennità che si può esprimere sia con un mood malinconico sia come un senso di incombente minaccia.
Due maniere diverse, ma entrambe ugualmente apprezzabili, di interpretare il genere: per gusto personale preferisco gli Ultha, anche perché non posso nascondere la mia predilezione per il gusto con il quale il black viene maneggiato in terra tedesca, ma i Paramnesia non sono affatto da meno, anche se la loro proposta è naturalmente rivolta a chi preferisce un sound più disturbato ed obliquo.

Tracklist:
1. PARAMNESIA – VI
2. ULTHA – The Seventh Sorrow

Line-up
PARAMNESIA
Pierre Perichaud Drums
Antonin Gerard – Guitars
Simon Barth – Bass
Thibault Bapst – Vocals

ULTHA
Chris – Bass, Vocals
Ralph – Guitars, Vocals
Manu – Drums
Andy – Electronics
Ralf – Guitars

PARAMNESIA – Facebook

ULTHA – Facebook

Shrine Of The Serpent / Black Urn – Shrine Of The Serpent / Black Urn

Lo split album favorisce la scoperta di una band di notevole solidità come gli Shrine Of The Serpent, perché i quasi venti minuti di musica inedita offerti lasciano davvero un ottima impressione, mentre per i Black Urn, aldilà della cover degli AIC, si può comunque intuire un potenziale ugualmente interessante.

Altro giro, altro regalo, altro split album.

La label polacca Godz Ov War Productions ha immesso sul mercato la versione in CD di questo lavoro che vede all’opera con due brani ciascuno le band statunitensi Shrine Of The Serpent e Black Urn; per amore di precisione va aggiunto che il lavoro è stato contemporaneamente edito in formato musicassetta dalla Caligari Records.
Gli Shrine Of The Serpent provengono da Portland e questa è la loro seconda uscita dopo l’ep omonimo del 2015: la band evidentemente si sta prendendo tutto il tempo necessario prima di fare il passo del full length, ma la strada intrapresa, benché lenta come la loro musica, pare rivelarsi quella giusta visto che il doom death catacombale esibito nelle monolitiche Desicrated Tomb e Catacombs of Flesh è molto vicino, per indole ed approccio, a quello di un album seminale per il genere come Foresto Of Equlibrium dei Cathedral, il tutto rivisto scremato dalla componente psichedelica. Ciò che viene offerto è un sound dal grande impatto e di altrettanta qualità, inclusa una produzione del tutto all’altezza della situazione.
I Black Urn arrivano invece da Philadelphia, hanno una storia non dissimile da quelle dei compagni di split sia per anzianità di servizio che di fatturato discografico, ed appaiono fin dalle prime note di Catacombs of Flesh propensi ad uno stile più vario, con un’alternanza ritmica marcata a fronte di un’incisività appena inferiore; il colpaccio però questi ragazzi lo piazzano con una micidiale cover di Junkhead, brano degli immensi Alice In Chains che si presta in maniera naturale ad una “doomizzazione” aspra ma che ne mantiene intatte le principali caratteristiche (a parte lo screming furioso che, rimpiazzando la magia vocale di Layne Staley, inevitabilmente può risultare spiazzante).
A livello di consuntivo resta sicuramente la scoperta di una band di notevole solidità come gli Shrine Of The Serpent, perché i quasi venti minuti di musica inedita offerti lasciano davvero un ottima impressione, mentre per i Black Urn, aldilà della citata cover, si può comunque intuire un potenziale ugualmente interessante.

Tracklist:
Side A
1. Shrine of the Serpent – Desicrated Tomb
2. Shrine of the Serpent – Catacombs of Flesh
Side B
3. Black Urn – My Strength Is Within Heavenless Plains
4. Black Urn – Junkhead

Line-up:
Shrine Of The Serpent
Todd Janeczek – Guitars, Vocals
Chuck Watkins – Drums
Adam DePrez – Guitars, Bass

Black Urn
Alex Onderdonk – Bass
Tim Lewis – Drums
Jordan Pierce – Guitars
Ryan Manley – Guitars, Vocals
John Jones – Vocals

SHRINE OF THE SERPENT – Facebook

BLACK URN – Facebook

Luna – Swallow Me Leaden Sky

Swallow Me Leaden Sky regala quasi tre quarti d’ora di buon funeral death doom atmosferico, che ben difficilmente non farà breccia negli estimatori del genere.

Su quest’ultimo lavoro della one man band ucraina Luna avei potuto più o meno fare un copia incolla di quanto scritto nelle precedenti occasioni: DeMort, titolare del progetto, continua imperterrito a sfornare un buon funeral doom atmosferico interamente strumentale e che trae ispirazione in maniera piuttosto marcata dal sound degli Ea, anche se Swallow Me Leaden Sky mostra una progressione importante, se non dal punto di vista dall’originalità, sicuramente da quello prettamente qualitativo.

D’altronde, come già detto parlando di Ashes to Ashes e On the Other Side of Life, i due full length usciti rispettivamente nel 2014 e nel 2015, il rifarsi al sound tipico della misteriosa band americana non è certo da considerarsi deprecabile, specialmente se si apprezza in toto questa espressione musicale che qui viene riproposta con competenza e buona ispirazione.
Il permanere della struttura interamente strumentale resta pur sempre un limite, anche se forse in questo genere lo è meno che in altri; d’altro canto, però, in questo ultimo lavoro, non si può fare a meno di notare che alcuni degli elementi di discontinuità inseriti nel bellissimo ep There Is No Tomorrow Gone Beyond Sorrow Under a Sheltering Mask, uscito a cavallo tra i primi due full length, vengono ripresi dal musicista ucraino riuscendo cosi a conferire al tutto un’aura più drammatica e solenne, specialmente nella seconda delle due lunghe tracce, la title track. E’ proprio qui che il sound acquista parecchi punti in personalità e profondità rispetto al pur buono brano iniziale Everything Becomes Dust, con l’aggiunta di una sorta di vocalizzo campionato che si fa gradevolmente ossessivo nella seconda metà della traccia: la chitarra diviene finalmente protagonista soppiantando le tastiere nel ruolo preponderante assunto fino ad allora, spostando il tutto su un piano più cosmico affine a quello dei Monolithe, altra importante fonte di ispirazione per la musica marchiata Luna.
Grazie a questo l’operato di DeMort acquista quello spessore che era mancato talvolta nei lavori precedenti, assurgendo ad una forma decisamente compiuta e ben diversa da quella di buon surrogato del già esistente, definizione che sembrava essere fino ad oggi quella più calzante per la one man band di Kiev.
Swallow Me Leaden Sky regala così quasi tre quarti d’ora di buon funeral death doom atmosferico, che ben difficilmente non farà breccia negli estimatori del genere.

Tracklist:
1.Everything Becomes Dust
2.Swallow Me Leaden Sky

Line-up
DeMort

Black Capricorn – Omega

Un ottimo lavoro tutto italiano per un ascolto doom che vale la pena di fare. Sporco quanto basta, estroverso ma controllato, il disco è un salutare tuffo in immaginari non scontati.

Pronti? Anche qualora non lo foste, i Black Capricorn hanno le idee più chiare che mai sul loro intento in questo nuovo disco, Omega.

La band sarda ha già degli ottimi trascorsi alle spalle, e non si lascia intimidire dalla sperimentazione, essendo cosciente dei propri mezzi.
È un doom sempre di ottimo livello il loro, e con questo ultimo album decidono di guardare verso una direzione più rituale e mistica rispetto, per esempio, ad un disco molto deciso e dirompente come Cult of Black Friars (2014).
C’è un sentore di solennità già dalle prime note, ovvero l’intro, che ci accompagna dentro il loro mondo inesplorato con tanta curiosità ma anche con un leggero timore. Il cantato risulta sempre evocativo e pregnante con il contesto per tutta la durata dell’ascolto, e su questo certamente non avevamo dubbi da parte di una band con parecchia esperienza e consapevolezza.
La loro scelta stilistica per questo album non abbandona però le classiche e immancabili schitarrate senza pietà che caratterizzano questo supremo genere. I Black Capricorn cercano un equilibrio tra queste due componenti, forse tenendo ben presente in testa l’immagine dei colossi Candlemass. Il brano Antartide, il più lungo di tutto l’album, intrappola un minaccioso torpore tra due estremi, all’inizio e alla fine della canzone, in cui invece sembra venirci concessa una pausa di riflessione, la quale, ovviamente, non si realizza mai del tutto.
Questa band italiana fa esattamente il proprio dovere, il che forse è uno dei limiti di questo disco, dal sound molto diretto anche se non molto elaborato. Se questo è un ottimo pregio è anche vero che, a tratti, l’impatto sonoro sembra accontentarsi e adagiarsi su alcuni standard musicali.
Tuttavia questa band conferma tutta la sua esperienza, competenza e conoscenza dei propri mezzi. Non c’è alcun dubbio che ne vedremo ancora delle belle.

Tracklist
1. Alpha
2. Evil Horde of Lucifer
3. Accabadora
4. Flower of Revelation
5. Antartide
6. Black Capricorn’ seal
7. Devil and the Death
8. The man who dared
9. Stars of Orion
10. Quest for Agartha
11. Omega

Line-up
Virginia – Bass
Rakela – Drums
Kjxu – Guitars (rhythm), Vocals

BLACK CAPRIORN – Facebook

MACHINE HEAD

Il video dal vivo di ‘Now We Die’, dal bonus DVD di “Catharsis”, in uscita a gennaio (Nuclear Blast).

Il video dal vivo di ‘Now We Die’, dal bonus DVD di “Catharsis”, in uscita a gennaio (Nuclear Blast).

Premiata Forneria Marconi – Emotional Tattoos

Il ritorno della Premiata Forneria Marconi è il trionfo della classe, del talento e della passione, è il veicolo ideale di quelle emozioni che solo la musica sa regalare, imprimendole virtualmente sulla nostra pelle affinché si trasformino in nutrimento per l’anima.

E’ sempre difficile raccontare ciò che contiene e restituisce in termini di sensazioni un disco qualsiasi, figuriamoci se questo corrisponde al ritorno ad un album di inediti dopo oltre un decennio da parte di musicisti che hanno fatto la storia del rock progressivo, non solo in Italia.

Stiamo parlando della Premiata Forneria Marconi, band che è stata una delle tre punte del movimento tricolore negli anni settanta assieme a Banco ed Orme ma che, magari, quelli un po’ meno vetusti del sottoscritto assoceranno più naturalmente al gruppo che diede una nuova veste alle canzoni di Fabrizio De Andrè, accompagnandolo a lungo in tour ed ottenendo un enorme successo.
Il tempo passa inesorabile (sono quarantacinque gli anni che ci dividono da Storia di Un Minuto), ma i due brillanti settantenni che rispondono ai nomi di Franz Di Cioccio e e Patrick Djivas hanno ancora voglia di mostrare a tutti quanto abbiano da dire; e proprio il tempo, con il suo inesorabile trascorrere, connesso alla necessità di cogliere l’attimo e sfruttare ogni occasione senza porsi alcun limite, men che meno anagrafico, è un po’ il filo conduttore di un lavoro che non è solo splendido da un punto di vista strettamente musicale ma, appunto, da quello concettuale.
Giusto per essere chiari fin da subito, Emotional Tattoos, è quanto più lontano si possa immaginare dal fiacco ritorno di un gruppo di reduci:  Di Cioccio e Djivas, assieme al loro storico sodale Lucio Fabbri, hanno radunato attorno a loro una band che è uno spettacolare mix tra esperienza e talento; così, alle tastiere troviamo due giovani come Alessandro Scaglione e Alberto Bravin (quest’ultimo si occupa anche della backing vocals), mentre alla batteria, ad alternarsi allo storico Franz, troviamo uno dei più richiesti professionisti dello strumento come Roberto Gualdi e, infine, alla chitarra, il non facile compito di sostituire per la prima volta su un album di inediti Franco Mussida è stato affidato al napoletano Marco Sfogli, uno degli astri nascenti delle sei corde, già ampiamente apprezzato anche fuori dai nostri confini in quanto titolare del ruolo nella band che accompagna James LaBrie in veste solista.
Con queste premesse, gli scettici potrebbero continuare a ritenere che, in fondo, dal punto di vista tecnico non ci sarebbe stato nulla da eccepire a prescindere, ma riguardo ai contenuti? Ecco, qui sta il bello: i tatuaggi emotivi evocati dal titolo si stampano adornando senza soluzione di continuità la pelle dell’ascoltatore, ed ogni immagine corrisponde ad un brano che mostra una ricchezza ed una qualità che, nonostante tutto, riesce ugualmente a stupire.
Gli undici brani rappresentano un viaggio nella memoria per i più anziani e l’eccitante scoperta per i più giovani di un epopea che magari si è persa in tempo reale, ma che nulla vieta di recuperare facendola propria a posteriori: Emotional Tattoos, però, è bene ribadirlo, non ha nulla di nostalgico a livello di sonorità, bensì appare in tutto e per tutto un album assolutamente al passo con i tempi, e se l’impronta della vecchia PFM è sempre lì, ben presente nel ricordarci chi siano gli autori di Celebration (Freedom Square), sono brani dal tocco più moderno come il favoloso singolo La Lezione o caleidoscopici come La danza degli specchi, con la quale i nostri portano a scuola diverse generazioni di musicisti, a risplendere con tratti quasi accecanti all’interno di una tracklist tutta da godersi e della quale appare quanto mai superfluo, se non irrispettoso, stare a raccontarne ogni singolo episodio per filo e per segno, facendo le pulci all’operato di musicisti ai quali andrebbero piuttosto intitolate vie e piazze in segno di imperitura gratitudine.
Come ciliegina sulla torta la PFM ha pubblicato Emotional Tattoos nel formato in doppio cd offrendo agli appassionati la possibilità di ascoltare l’album sia in lingua madre che in inglese: il mio consiglio è quello di godere di entrambe le versioni, in quanto alcuni brani si esaltano nella versione anglofona (The Lesson è molto più efficace rispetto a La Lezione), mentre in altri casi l’afflato poetico che l’italiano emana a prescindere fa la differenza nel confronto tra Il Regno e We’re Not An Island e tra La Danza degli SpecchiA Day We Share.
Il ritorno della Premiata Forneria Marconi è il trionfo della classe, del talento e della passione, è il veicolo ideale di quelle emozioni che solo la musica sa regalare, imprimendole virtualmente sulla nostra pelle affinché si trasformino in nutrimento per l’anima.

Tracklist:
CD 1 – English version
1. We’re Not An Island
2. Morning Freedom
3. The Lesson
4. So Long
5. A Day We Share
6. There’s A Fire In Me
7. Central District
8. Freedom Square
9. I’m Just A Sound
10. Hannah
11. It’s My Road

CD 2 – Italian version
1. Il Regno
2. Oniro
3. La lezione
4. Mayday
5. La danza degli specchi
6. Il cielo che c’è
7. Quartiere generale
8. Freedom Square
9. Dalla Terra alla Luna
10. Le cose belle
11. Big Bang

Line-up:
Franz Di Cioccio: lead vocals, drums
Patrick Djivas: bass
Alessandro Scaglione: keyboards, Hammond, Moog
Lucio Fabbri: violin
Marco Sfogli: guitars
Roberto Gualdi: drums
Alberto Bravin: keyboards, backing vocals

PREMIATA FORNERIA MARCONI – Facebook

Hornwood Fell – My Body My Time

Il black metal è un genere molto difficile al quale approcciarsi e con il quale stringere amicizia. Una band con potenzialità e voglia di fare, ma che ancora non ha trovato la sua quadratura del cerchio.

Eccoci al terzo album degli Hornwood Fell, My Body My Time. Un duo tutto italiano e molto volenteroso, in continua evoluzione e ricerca della propria identità. È evidente questo percorso nel nuovo lavoro della band, che presenta davvero tutte le caratteristiche della ricerca e del cambiamento.

Se da una parte, dunque, c’è sempre una scintilla di curiosità e novità nell’ascoltare le loro produzioni, si possono trovare anche diversi lati negativi, che inevitabilmente qui non mancano.
Ripartendo da quello che probabilmente, fino ad adesso, è il loro album più riuscito, ovvero Yheri, dove già abbiamo trovato l’alternanza tra growl/scream e clean vocals, qui la band decide di concentrarsi al 100% sulla voce pulita. Scelta sempre azzardata e che richiede molto coraggio all’interno di un genere necessariamente (a volte troppo) elitario e chiuso come il black metal.
Grandi band si erano già cimentate in questo esperimento, su tutti Agalloch o Urfaust, senza dimenticare ovviamente gli immensi Ulver. C’erano riuscite in maniera sopraffina, sapendo portare anche della tiepida brezza in mezzo ai boschi folti, scuri e innevati dello scenario black.
Ascoltando questo album si ha, ahimè, l’idea che questo grintoso duo non sia ancora pronto per una sfida così delicata, infatti la parte vocale dà spesso la sensazione che ci sia un’altra traccia sovrapposta a quella che stiamo ascoltando, come una voce fuori campo. Non si viene a creare, anche per questo importante motivo, quell’atmosfera di agghiacciante solitudine mista ad un elegante e fiero odio che caratterizza il genere.
La parte strumentale ha ottime potenzialità, e lo vediamo per esempio in un pezzo come Passage: anche quella però, manca di un po’ di inventiva, elemento che però questi ragazzi hanno nelle loro corde, come ci hanno mostrato nei loro album precedenti, rispetto ai quali quest’ultimo rappresenta forse una regressione. Ma il cambiamento implica sempre lo smarrimento.

Tracklist
1. The Returned
2. Her Name
3. Dark Cloak
4. Passage
5. Run Through
6. The Livid Body
7. Hidden Land

Line-up
Marco Basili: Vocals, Guitars, bass and Synth
Andrea Basili: Batteria, Backing Vocals and Synth

HORNWOOD FELL – Facebook

Marygold – One Light Year

One Light Year è tutt’altro che un lavoro superfluo o anacronistico e, di conseguenza, le band come i Marygold vanno solo supportate  e ringraziate per la loro impagabile passione ed i brividi che riescono a trasmettere.

La storia dei Marygold parte piuttosto da lontano, dovendo risalire alla metà degli anni novanta per trovarne la prime tracce nelle vesti di cover band dei Marillion eraFish e dei Genesis.

Dopo aver intrapreso la lodevole strada della composizione di brani originali ed aver ottenuto buoni riscontri all’epoca della loro unica uscita su lunga distanza, The Guns of Marygold, datato 2006, la band veronese ha dovuto far fronte agli intralci tipici di chi dalla musica trae gratificazioni di tutti i generi fuorché quelle economiche.
Il ritorno, concretizzatosi un paio d’anni fa e che ha dato quale frutto l’uscita di One Light Year sotto l’egida della Andromeda Relix, si può a buona ragione definire tra l’affascinante e l’anacronistico: infatti, chi ha apprezzato nello scorso secolo tali sonorità dovrebbe trovare di che compiacersi per una loro riproposizione così ortodossa ed efficace ma, d’altro canto, lecitamente molti potrebbero chiedersi se oggi abbia ancora un senso proporre qualcosa che appare così marcatamente legato ad un epopea ben definita temporalmente.
La risposta ovvia a quest’ultima domanda è che comunque la buona musica un suo senso ce l’ha sempre, sia che possa sembrare obsoleta sia che pecchi manifestamente in originalità; a tale proposito ribalto le perplessità sui molti che accorrono a frotte ad ascoltare quella stessa musica riproposta da pur ottime cover band ignorando del tutto, nel contempo, chi invece prova a rinverdirne le gesta con brani di proprio conio.
I Marygold appartengono appunto a quest’ultima categoria e non fanno nulla per nascondere la devozione per i Marillion dei capolavori corrispondenti ai primi tre full length della loro discografia e, conseguentemente, anche quella per i primi Genesis, oltre a riferimenti ad altre importanti band della seconda ondata del prog inglese come gli IQ e i Pendragon.
Le composizioni che fanno parte di One Light Year sono facilmente riconoscibili per le loro trame grazie a un tocco tastieristico e chitarristico inconfondibile e un cantato che si ispira all’accoppiata Gabriel/Fish, con risultati apprezzabili per intensità anche se brillando un po’ meno rispetto alla sezione strumentale.
Il progressive dei Marygold è competente, elegante ed ispirato il giusto per rispedire al mittente qualsiasi obiezione: i sette lunghi brani non cambieranno la storia del genere ma sicuramente sono funzionali a rinsaldarne il peso all’interno della musica contemporanea: perché, diciamolo forte e chiaro, ascoltare queste canzoni nelle quali una chitarra rotheryana regala più di un passaggio da ricordare è un qualcosa che fa bene all’animo e allo spirito di chi quei bei tempi un po’ li rimpiange, non solo per motivi strettamente musicali.
One Light Year si trasforma così in un sempre gradito e ben poco disagevole viaggio a ritroso nel tempo: per quanto mi riguarda, l’ascolto di brani splendidi come Spherax H2O e Without Stalagmite (ne cito due quali esempi ma il discorso lo si può fare indistintamente anche per le altre cinque tracce) si rivela come una sorta di ritorno a casa, dove ad attendermi ci sono i dischi e le musicassette del genere che mi hanno sempre accompagnato fin dall’adolescenza, facendomi scoprire quanto siano irrinunciabili le emozioni che le sette note possono donare.
Ecco elencati i motivi per cui One Light Year non è affatto un lavoro superfluo e perché, piuttosto, le band come i Marygold vadano solo supportate  e ringraziate per la loro impagabile passione ed i brividi che riescono a trasmettere.

Tracklist:
Ants in the Sand
2.15 Years
3.Spherax H2O
4.Travel Notes on Bretagne
5.Without Stalagmite
6.Pain
7.Lord of Time

Line up:
Guido Cavalleri – Voce, Flauto
Massimo Basaglia – Chitarre
Marco Pasquetto – Batteria
Stefano Bigarelli – Tastiere
Baro – Basso

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Zgard – Within The Swirl Of Black Vigor

Within The Swirl Of Black Vigor è un album caldamente consigliato agli estimatori del pagan folk black.

Zgard è uno dei molti progetti solisti gestiti da musicisti dalla prolificità superiore alla norma, in quanto tale si può considerare la media di un full length pubblicato per ogni anno di attività, anche se come abbiamo constatato in questi anni c’è chi riesce a produrre musica in maniera ben più compulsiva.

Nello specifico l’ucraino Yaromisl è appunto uno tra quelli che si segnala per la non troppo scontata capacità di coniugare quantità e qualità: il primo incontro con l’operato degli Zgard risale al 2012 con l’uscita di Astral Glow, nel quale veniva esibito un pagan folk black di assoluta sostanza ed oggi li ritroviamo con Within The Swirl Of Black Vigor, che giunge dopo altri due full length, Contemplation e Totem.
Il percorso stilistico di Yaromisl si va a comporre così di un nuovo tassello che mostra anche alcune differenze rispetto al passato, assumendo sembianze maggiormente orientate al pagan pur senza perdere le proprie connotazioni folk: il tutto pare giovare ulteriormente per quanto riguarda la resa finale, in quanto favorisce l’approdo ad un sound che fa proprie le pulsioni derivanti da gradi interpreti del genere come Moonsorrow e Negura Bunget, infondendovi però caratteristiche peculiari delle tradizione musicale ucraina, grazia anche al ricorso a diversi strumenti tradizionali (oltre a quelli a corde, troviamo un particolare flauto denominato sopilka, e la drymba, che è un po’ l’equivalente del nostro scacciapensieri).
Per questo lavoro Yaromisl si fa aiutare dal vocalist Dusk e dal batterista Lycane, andando a formare un trio capace di imprimere ritmo ed intensità ai vari brani; basti sentire a tale proposito una traccia come Confession of Voiceless, dal crescendo furioso e coinvolgente, oppure la “moonsorrowiana” e splendida Where the Stones Drone, per rendersi conto di quanto Within The Swirl Of Black Vigor sia un album imperdibile per gli estimatori del pagan folk black.
Se Astral Glow era già un album interessante ma che mostrava ancora ampi margini di miglioramento, quanto fatto da Yaromisl in questi cinque anni ha reso gli Zgard una tra le migliori realtà del genere, rendendola una credibile alternativa alle grandi band citate quali riferimento.

Tracklist:
1. Dive into the night (intro) [Занурення в ніч]
2. Forgotten [Забутий]
3. Confession of voiceless [Сповідь німого]
4. Frozen space [Замерзлий простір]
5. Where the stones drone [Там де камні гудуть]
6. KoloSlovo [КолоСлово]
7. Cold bonfire [Холодна ватра]
8. Winter lullaby [Колискова зими

Line-up:
Yaromisl – rhythm, solo, bass and acoustic guitar, sopilka, drymba, keyboards, back and clean vocals

Guests:
Dusk – vocals, clean vocals
Lycane – drums

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