Il video di ‘Christmas In New York City’.
THE 69 EYES
Il video di ‘Christmas In New York City’.
Il video di ‘Christmas In New York City’.
Il video di ‘Christmas In New York City’.
Gli Ubiquity convincono grazie ad un sound che mantiene sempre alto il suo carico tensione, tra sfuriate post hardcore, black metal, pesantezze sludge e limitate pause di interlocutoria riflessione.
I sardi Ubiquity esordiscono sotto l’egida della Third I Rex con questo ottimo Forever Denied.
Muoversi oggi all’interno del post metal sludge è un po’ come camminare su un campo minato, perché è facile restare intrappolati da un certo manierismo che talvolta affligge il genere, laddove si predilige soprattutto l’impatto perdendone di vista l’intensità e quindi l’aspetto emotivo
A questo pericolo sfuggono abilmente gli Ubiquity, partendo subito con l’evocativa ripresa della poesia di Tiziano Sclavi, La Ballata della Morte, tratta dal suo romanzo (e poi film) Dellamorte Dellamore, e portando il tutto su un piano comunicativo ben preciso, grazie ad un sound che mantiene sempre alto il suo carico tensione, tra sfuriate post hardcore, black metal, pesantezze sludge e limitate pause di interlocutoria riflessione.
Il vocalist Davide si sgola seguendo i canoni del genere, mentre i suoi compagni compongono con disinvoltura un puzzle sonoro che è per lo più aspro senza disdegnare però qualche apertura melodica, con la chitarra di Leonardo capace di disegnare trame di buona intensità, specialmente nella splendida Lost Pt.2, ma l’attenzione dell’ascoltatore viene tenuta ben desta fino all’ultima nota della conclusiva Form, altra traccia davvero rimarchevole
Dall’antica Ichnusa stanno emergendo con continuità realtà metalliche di grande spessore, specialmente nell’ambito dei generi più estremi, tutte accomunate da un’invidiabile chiarezza di intenti ed una selvaggia spontaneità che ne eleva in maniera esponenziale la freschezza e conseguentemente l’impatto: gli Ubiquity si vanno a collocare da subito tra le migliori, in virtù di un album come Forever/Denied che non ha davvero nulla da invidiare alle più celebrate band continentali.
Tracklist:
1. Forever, Denied
2. Hopes
3. Lost Pt. I
4. Lost Pt. II
5. Form
Lineup:
Davide – Vocals
Alessio – Bass
Leonardo – Guitar
Marco – Drums
L’album va approcciato ben sapendo che avrà l’impatto emotivo di una carezza e non di uno scossone: stabilito questo, non vi saranno più ostacoli di sorta ad impedire che il flusso sonoro di Return attraversi gli animi più sensibili.
Una delle accuse più frequenti che vengono rivolte alle band dedite al funeral o al death doom (da quelli a cui il genere non piace, ovviamente) è quello di muoversi sempre all’interno di confini ristretti senza aprirsi a variazioni sul tema.
Il fatto che ciò avvenga o meno non determina affatto la bontà di un lavoro, ad ogni buon conto Return, terzo album degli Ixion, dimostra ampiamente che i musicisti appartenenti a questo filone musicale sanno perfettamente cosa sia una progressione stilistica.
Il duo francese, messosi in evidenza con due ottimi lavori come To The Void e Enfant de la Nuit, continua con Return a sviluppare il proprio immaginario fantascientifico/spaziale ammantandolo però stavolta di sonorità più ariose, che in diversi frangenti si aprono al post metal così come a certo progressive; il tutto però avviene senza che si abbia neppure per un attimo la sensazione che il background doom degli Ixion venga snaturato, visto che a livello di impatto emotivo e melodico l’album costituisce un ulteriore passo avanti anche in senso qualitativo.
Se i ritmi restano sempre molto controllati, prendono maggiormente corpo elementi atmosferici che mantengono saldo il legame con il doom grazie alla malinconia, sempre elemento portante di uno sviluppo melodico che appartiene di diritto ad un progressive velatamente oscuro ma anche dai tratti sognanti; succede così che Julien Prat e Yannick Dilly finiscano per regalare momenti di una bellezza cristallina, all’interno di uno sviluppo compositivo che assume aspetti davvero peculiari, pur rinvenendo a tratti riferimenti inevitabili all’afflato cosmico dei Pink Floyd e, restando sul territorio francese, a quello degli ultimi Monolithe ma con una maggiore tendenza alla creazione di una forma canzone, o addirittura degli Alcest, per la naturale levità di certi passaggi.
Appare esemplare, per cogliere appieno l’essenza dell’album, una traccia splendida come Hanging in the Sky, molto vicina alla meraviglia provocata dall’ultimo album dei Throes Of Dawn, nella quale la ricerca melodica tocca vette altissime, con un assolo di chitarra posto nel finale difficilmente rimovibile dalla memoria; va detto, effettivamente, che il lavoro strumentale di Julien Prat stupisce per equilibrio ed esecuzione in più di un frangente, così come sono appropriati i suoi interventi in growl a supportare le fluide clean vocals di Yannick Dilly.
Considerando che anche nel doom, come in tutti gli altri generi, purtroppo, esistono frange di tradizionalisti che storcono il naso di fronte agli scostamenti stilistici delle band, temo che questo lavoro degli Ixion corra il rischio di non essere compreso da molti: io stesso, del resto, ritengo che, quando un gruppo ha fatto le cose nel migliore dei modi in passato restando in un alveo compositivo ben definito, non ci sia motivo per cambiare strada, ma Return va ben oltre queste spicciole considerazioni, rivelandosi a mio avviso uno dei lavori più emozionanti dell’anno.
L’unico consiglio che mi sento di fornire a chi desidera farlo proprio è quello di approcciarlo ben sapendo che l’album avrà l’impatto emotivo di una carezza e non di uno scossone: stabilito questo, non vi saranno più ostacoli di sorta ad impedire che il flusso sonoro di Return attraversi gli animi sensibili, pronte ad accogliere la limpida bellezza delle note che si dipanano da Out Of The Dark fino alla conclusiva meraviglia atmosferica rappresentata da The Dive (Fade to Blue Part 2).
Tracklist:
1. Out of the Dark
2. Into Her Light
3. Hanging in the Sky
4. Back Home
5. The Ocean
6. Contact
7. World of Silence
8. Stranger
9. The Dive (Fade to Blue Part 2)
Line-up
Julien Prat
Yannick Dilly
Il lyric video di “All That Once Shined”, dall’album “Grimmest Hits”, in uscita a gennaio (Spinefarm Records).
Il lyric video di “All That Once Shined”, dall’album “Grimmest Hits”, in uscita a gennaio (Spinefarm Records).
Un album in cui non c’è niente da perdere,se non sé stessi. Un ascolto che nemmeno ad un muro potrebbe risultare anonimo. È una porta aperta per una stanza di cui voi decidete il contenuto,irrazionalmente. Fatevi guidare dal vento gelido di questa band in un viaggio che sfugge agli occhi indiscreti.
Il concetto di “giudizio”, divino o umano che sia, è sempre soggetto a distorsioni e mistificazioni.
E allora a spiegarcelo meglio ci pensano i francesi Silent Whale Becomes A° Dream con il loro terzo album Requiem.
Perché di giudizio si parla, nella sua accezione più pura, quella da cui nessuno può nascondersi. È quello della coscienza, e di un mondo capace di assoggettare anche i più magnanimi a sensi di colpa inesistenti.
Come nei lavori precedenti, alla band francese non servono addobbi particolari, ma bastano quattro brani per raccontare qualcosa (addirittura, in Architeuthis era solo uno). Il titolo dell’album, così come quelli delle singole canzoni, rimanda al Dies Irae, proprio una delle sequenze del Requiem. La lingua latina, oltre che madre della nostra, risulta eternamente elegante e capace di immortalare ogni sensazione, come in questo caso.
Non si lasciano scappare questi particolari i nostri amici francesi, creando un mondo in musica verso il quale si può solo mettersi comodi, ma mai passivi. 57 minuti e 46 secondi in cui il benessere sconfinato ed eterno si intreccia all’inquietudine incalzante, all’angoscia che sta in agguato e sempre fa parte di noi.
Non manca la sana malinconia, per un futuro che si compone piano piano durante l’ascolto, e la breve pausa intorno al terzo minuto del brano Recordàre assomiglia ad un profondo respiro chiarificatore.
Questo calderone di emozioni si relaziona con lo scenario, che assume qui un ruolo quasi mistico, del mare. Dal mare può provenire un pericolo, ma soprattutto proviene il giudizio, il confronto. Ispirati dal mare, i francesi producono un sound quasi elitario, sulla scia dei God is an Astronaut, solo ed esclusivamente per chi sarà paziente e capace di seguirli, ma soprattutto di seguire sé stesso.
Ma come finirà questo loro racconto? Una risposta forse possiamo trovarla nel pezzo finale Lacrymósa Dies Illa (Giorno di lacrime, quello), che si sposta senza problemi, come delle soffici onde, tra inferno, purgatorio e, dulcis in fundo, paradiso. Come negli altri brani, vi è un’esplosione improvvisa, ma stavolta ha dei connotati diversi. Stavolta possiamo percepire la grandiosità nonostante i travagli passati.
In definitiva, i Silent Whale Becomes A° Dream hanno le idee chiare pur in un percorso che si mette sempre in discussione per sua stessa natura, e forse la parola chiave adatta per i loro lavori futuri, più che “giustizia” può essere “curiosità”.
Tracklist
1.Dies Iræ, Dies Illa
2.Cor Contritum Quasi Cinis
3.Recordàre
4.Lacrymósa Dies Illa
Line-up
S.
D.
E.
M.
Il video di Already Forgotten, dall’album The Awakening (Imminence Records).
Il video di Already Forgotten, dall’album The Awakening (Imminence Records).
Ciò che viene offerto dalla coppia di musicisti è un black atmosferico e depressivo dalla notevole intensità, cantato in italiano, e con un senso melodico sempre ben presente anche quando i ritmi si fanno più incalzanti.
L’Infinito Abisso Dell’Anima è un duo bergamasco formato da Ivan Bonomi e Vito Burini, al passo d’esordio con questo ottimo In Viva Morte Morta Vita Vivo.
Ciò che viene offerto dalla coppia di musicisti è un black atmosferico e depressivo dalla notevole intensità, cantato in italiano e quindi dai testi più facilmente comprensibili nonostante siano declamati per lo più tramite uno screaming in linea con il genere, alternato sovente ad un declamatoria voce pulita.
Se a livello lirico il lavoro talvolta tende ad eccedere in enfasi, nel tentativo di descrivere in maniera quanto mai esplicita un male di vivere che sfocia infine in una morte dai connotati liberatori, l’aspetto musicale è oltremodo convincente perché vengono superati brillantemente certi minimalismi del depressive black, pur mantenendone le linee guida essenziali.
E’ appunto grazie a questo che l’operato dei due spicca sulla concorrenza, proprio perché la tensione nel lavoro è costantemente alta, grazie al contributo di un senso melodico sempre ben presente anche quando i ritmi si fanno più incalzanti.
L’aforisma di Giordano Bruno che dà il titolo all’album ben inquadra gli intenti ed il sentire che vengono riversati senza pausa nel lavoro e, alla fine, i cinque brani attestati su nove minuti medi di durata coinvolgono adeguatamente, restituendo tutto il disagio che viene espresso tramite il suo genere musicale d’elezione, del quale vengono esaltate, come detto, le caratteristiche salienti, incluso il ricorso ad una produzione non limpidissima.
A livello personale ritengo che il lavoro offra il meglio all’inizio ed alla fine, con l’apertura di grande impatto affidata a Condannato All’Oblio e la chiusura improntata sul cupo e più rallentato incedere di Vertigini, dove l’intensità creata dal connubio tra le due voci raggiunge picchi notevoli, ma gli episodi centrali si rivelano tutt’altro che marginali od inferiori, essendo ovviamente fondamentali per comprensione e la condivisone della poetica che pervade l’intero album.
Chi ama questo tipo di approccio e di sonorità si può avvicinare, quindi, senza indugi a questa prima opera firmata L’Infinito Abisso Dell’Anima.
Tracklist:
1. Condannato All’Oblio
2. Spiragli D’Ombra
3. Quello Che Resta
4. Nenia
5. Vertigini
Line-up:
Ivan Bonomi: vocals, desperation, keyboards and lyrics
Vito Burini: guitars, bass, vocals and lyrics
Sabato 2 dicembre, presso L’Angelo Azzurro Club di Genova-Borzoli, i RUXT presenteranno al pubblico il nuovo album Running Out Of Time.
Sabato 2 dicembre, presso L’Angelo Azzurro Club di Genova-Borzoli, i RUXT presenteranno al pubblico il nuovo album Running Out Of Time.
La fertile scena black metal francese fa scaturire dai suoi più reconditi anfratti gli Hyrgal, al loro esordio con questo interessante Serpentine.
La fertile scena black metal francese fa scaturire dai suoi più reconditi anfratti gli Hyrgal, al loro esordio con questo interessante Serpentine.
Il trio di Bordeaux si muove nei solchi tracciati dai principali gruppi transalpini, nel senso che ben difficilmente in quelle lande troveremo un’adesione fedele ai dettami originari del genere, bensì un approccio più obliquo e talvolta (anche troppo) sperimentale.
Gli Hyrgal provano con successo a intraprendere una via intermedia, non rinnegando le basi canoniche del genere ma infiorettandole delle giuste atmosfere senza disdegnare declivi che portano con successo a certo post black o, comunque, a sonorità più aperte e sognanti che sono caratteristica rinvenibile più facilmente al di là dell’Atlantico.
Ma tutto sommato gli scenari offerti dalle foreste del Canada o degli stati più settentrionali degli USA non sono così dissimili dai paesaggi alpini che entrano con forza nell’immaginario lirico e musicale dei nostri: in tal senso questa vicinanza produce gli effetti desiderati, grazie anche ad un prestazione complessiva di grande spessore che trova, per esempio, una testimonianza eloquente nella splendida Mouroir, traccia contraddistinta da un constante crescendo ritmico ed emotivo, ma non è certo da sottovalutare l’impatto di una Aux Diktats de l’Instinct, incalzante quasi fino all’asfissia.
Il trio aquitano convince con una prestazione solida e puntuale, dalla base ritmica incessante (Quentin Aberne, basso, ed Emmanuel Zuccaro, batteria) alla prova del vocalist e chitarrista Clément Flandrois, capace di offrire pregevoli assoli nel brano di punta Etrusca Discipina, posto in chiusura del lavoro a suggellare la bontà dell’operato degli Hyrgal con un’apprezzabile varietà ritmica ed atmosferica; del resto la combinazione tra il genere, la provenienza geografica e l’etichetta responsabile dell’immissione sul mercato (la Naturmacht) era già di per sé garanzia di qualità per un buon 50%, per il resto tutto il merito va ai bravi e consigliati Hyrgal.
Tracklist:
I – L’Appel
II – Mouroir
III- Till
IV – Représailles
V – Aux Diktats de l’Instinct
VI – Rite
VII – Etrusca Disciplina
Line-up
Clément Flandrois – Vocals, Guitars
Quentin Aberne – Bass
Emmanuel Zuccaro – Drums
Il video di Alucinari IV – The Fall, dall’album A Spectral Oblivion'(Transcending Obscurity).
Il video di Alucinari IV – The Fall, dall’album A Spectral Oblivion'(Transcending Obscurity).
Il video di ‘Hail To The Hordes’, dall’album “Gods Of Violence” (Nuclear Blast).
Il video di ‘Hail To The Hordes’, dall’album “Gods Of Violence” (Nuclear Blast).
Gli W.E.B. hanno alle spalle una storia ultradecennale che farebbe presupporre un percorso leggermente più personale, anche se sarebbe riduttivo considerare il symphonic/dark black del gruppo una semplice fotocopia dei più famosi Septicflesh.
Se è sicuramente lecito per qualsiasi band trarre ispirazione dai Septicflesh dell’ultimo decennio, ovvero quelli della fase sinfonico orchestrale, lo è ancora di più se a farlo è un gruppo greco.
Gli W.E.B. però non sono agli esordi, ma hanno alle spalle una storia ultradecennale che farebbe presupporre un percorso leggermente più personale, anche se il symphonic/dark black del combo guidato da Darkface (Sakis Prekas) può essere considerato derivativo ma non una vera e propria fotocopia.
Tartarus, quarto full length della band ateniese, è un lavoro formalmente ineccepibile e si capisce che i musicisti coinvolti sono esperti e ben addentro la materia ma, a lungo andare, emerge il reale problema che opacizza il lavoro cioè la mancanza del guizzo, il classico tocco del campione che decide la gara o la genialità dello scultore che dà vita alla materia inerte.
Alla fine dell’ascolto, la title track , posizionata in scaletta subito dopo l’intro, resta il brano più ficcante e riuscito, mentre le restanti tracce sono apprezzabili per la loro adesione precisa ad uno stile compositivo certo non di banale riproposizione.
La trilogia finale Thanatos, comprensiva dell’imprimatur fornito dell’intervento vocale di Sotiris Vayenas nella sua prima parte Golgotha, conferma le impressioni destate fino a quel momento, ovvero che gli W.E.B. siano destinati a restare interpreti credibili ma inevitabilmente sbiaditi del sound caratteristico dei Septicflesh: un qualcosa, come detto, ugualmente apprezzabile, ma dagli sbocchi limitati se a farlo è una band in pista ormai da molti anni.
Tracklist:
1. Where Everything Begun
2. Tartarus
3. Ave Solaris
4. Dragona
5. I, the Bornless
6. Morphine for Saints
7. Cosmos in Flames
8. Thanatos Part I – Golgotha
9. Thanatos Part II – Epitaphios
10. Thanatos Part III – Mnemosynon
Line-up
Darkface – Vocals, Guitars
Petros Elathan – Bass
Sextus Argieous Maximus – Guitars
Nikitas Mandolas – Drums
Gli Hundred Year Old Man non offrono nulla di differente a livello stilistico rispetto a molte altre band, ma sicuramente lo fanno al meglio delle loro possibilità, caricando di una costante tensione questa mezz’ora di musica.
Black Fire è la prima prova discografica per questo gruppo di Leeds denominato Hundred Year Old Man.
Con questi tre lunghi brani la band inglese offre la propria interpretazione del post metal/sludge, inizialmente molto aspra e dall’incedere drammatico e rabbioso (Black Fire), per poi stemperarsi nel mood disturbato e minaccioso di Welcome To The Machine, che con il suo tempestoso crescendo favorisce l’approdo, infine, alla bellisisma Disconnect, traccia che offre qualche spiraglio di luce grazie a buone intuizioni atmosferiche collocate sempre all’interno di un contesto dall’immutato impatto.
Gli Hundred Year Old Man non offrono nulla di differente a livello stilistico rispetto a molte altre band, ma sicuramente lo fanno al meglio delle loro possibilità, caricando di una costante tensione questa mezz’ora scarsa di musica, più che sufficiente però nel consentire di approvare del tutto l’operato di questo sestetto britannico, una realtà nuova ma in possesso dei requisiti essenziali (convinzione, qualità ed ispirazione) per ritagliarsi uno spazio anche importante nel prossimo futuro.
Tracklist:
1.Black Fire
2.Welcome To The Machine
3.Disconnect
Line-up
Paul Broughton – Vocals
Owen – Guitar & Vocals
Dan Argyle – Keys & Samples
Steve Conway – Drums
Aaron Bateman – Bass
Tom Wright – Guitar
In prossimità del Natale, periodo ricco di appuntamenti, è certamente da non perdere il doppio concerto metal che il 14 dicembre 2017 vedrà il ritorno nella Capitale dei cremaschi Genus Ordinis Dei in tour per l’uscita del full-length “Great Olden Dynasty” (Eclipse Records, 24 novembre 2017), bel disco con dieci nuovissime tracce di “splendore tecnico-sinfonico” impreziosito dalla presenza di Cristina Scabbia dei Lacuna Coil nel brano “Salem”.
I Genus saranno introdotti sul palco del Traffic Live dai giovani e agguerritissimi Gigantomachia, band epic/death metal di Alatri che porta in giro i sette brani del loro album di debutto “Atlas” (prossimo alla pubblicazione per Agoge Records), ottimo lavoro di riffs melodici e potenti e di growling/screaming a sostegno di mitologiche ambientazioni.
Non mancate questa serata, titanica e travolgente.
Il video di Spawn Of Rage, dall’album The Fallen Reich (Transcending Obscurity).
Il video di Spawn Of Rage, dall’album The Fallen Reich (Transcending Obscurity).
l’operato del gruppo siberiano si colloca ben al di sopra della sufficienza ma si rivela la classica messa in scena dei dettami di base di un genere, con l’inserimento di tutti gli ingredienti necessari senza che appaiano mai davvero coesi tra loro.
In un scena death doom russa davvero fiorente, il full length d’esordio di questa band di Krasnoyarsk chiamata Руины вечности (Ruins Of Eternity), corre il serio rischio di finire in secondo piano.
Questo non deriva del tutto dal valore di un album come Будни войны (The Whispers of Forgotten Hills), tutt’altro che riprovevole, bensì dal fatto che la concorrenza, anche interna, è forte e qualificata; l’operato del gruppo siberiano si colloca ben al di sopra della sufficienza ma si rivela la classica messa in scena dei dettami di base di un genere, con l’inserimento di tutti gli ingredienti necessari senza che appaiano mai davvero coesi tra loro.
Così succede che il violino, elemento sempre peculiare benché non siano affatto poche le band che utilizzano questo strumento, sembra scontrarsi più che amalgamarsi con i riff chitarristici, la base ritmica ed il growl del vocalist; per essere sulla carta un death doom melodico, l’album offre con il contagocce momenti capaci di creare un adeguato flusso emotivo, puntando più su un impatto robusto e che, molto spesso, devia verso una sorta di avanguardismo, convincendo molto di più nei momenti in cui il sound sembra avvicinarsi maggiormente alle sfumature sinfonico orchestrali dei nostri Dark Lunacy.
Quando sembra che la melodia possa finalmente assumere una forma compiuta e prendere il sopravvento, come per esempio in Эхо, viene sempre meno quel momento chiave capace di dar seguito a tali intuizioni, sia per scelta da parte della band sia per una produzione che restituisce il sound in una maniera a mio avviso troppo secca, con le tastiere che non svolgono quel ruolo di raccordo che competerebbe loro in una formazione strutturata in questa maniera.
Detto ciò, l’ascolto di Будни войны è tutt’altro che superfluo, ma il confronto con Shallow Rivers o Откровения Дождя, per esempio, vede i pur bravi Руины вечности ancora diversi gradini sotto il livello raggiunto dalle band viciniori collocabili nello stesso segmento stilistico.
Tracklist:
01. Будни войны
02. Брест
03. Кто будет первым?!
04. Танк
05. Победа для мёртвых
06. Для тех, кто потерялся на этой войне
07. Эхо
08. Наследие
Line-up:
Andrei Nasekailov – guitar
Pavel Golovnin – bass
Konstantin Terentiev – drums
Pavel Maiboroda – vocals
Eugenia Antsyferova – violin, keys
Aleksander Gasenko – guitar
Roman Nasibov – backing vocals, keys
Dallo scrigno brulicante di inquietanti forme di vita musicali della Transcending Obscurity, eccoci arrivare questo secondo full length dei brasiliani Jupiterian, interpreti di un maestoso sludge death doom.
Dallo scrigno brulicante di inquietanti forme di vita musicali della Transcending Obscurity, eccoci arrivare questo secondo full length dei brasiliani Jupiterian, interpreti di un maestoso sludge death doom.
Ho notato che sia oggi che in passato questo gruppo paulista ha riscosso pareri decisamente discordanti, e io stesso avevo apprezzato ma senza esaltarmi il death doom offerto dai nostri circa tre anni fa con l’ep di debutto Archaic, ma credo che questo sia il destino chi non si limita ad offrire musica accondiscendente o banale: personalmente ritengo che Terraforming, oltre a costituire un’evoluzione sonora davvero decisa ed importante, sia pressapoco la miglior forma possibile di sludge che si possa offrire di questi tempi perché, se proviamo a prendere una band che interpreta il genere nella maniera più estrema ed incopromissoria possibile, come per esempio i Primitive Man, conferendole una quantità minima ma fondamentale di senso melodico, ecco venirne fuori l’essenza musicale dei Jupiterian.
E’ grazie a questo che l’album non ottiene solo l’effetto di opprimere l’ascoltatore perché, aprendosi a passaggi più fruibili nonostante non venga mai meno un’assoluta pesantezza, riesce ad attrarre irresistibilmente così come farebbe l’enorme massa gravitazionale del maggiore dei pianeti richiamato dal monicker della band.
Se Matriarch e Forefathers sono l’emblema del migliore è più compiuto sludge doom (con annessi accenni di ambient), in Unearthly Glow si fanno largo quelle insperate melodie che che paiono riportare il tutto su un piano più accessibile, e se nella title track lo sperimentatore Maurice De Jong (Gnaw Their Tongues) offre il suo contributo ad un notevole break ambientale/rumoristico, la successiva Us And Them dei Jupiterian non ha davvero nulla in comune con la ben più nota canzone pinkfloydiana, anche se alla fine la chitarra disegna passaggi gradevolmente cristallini, prima che Sol rada al suolo definitivamente quel poco che era rimasto barcollante in posizione verticale, con un riffing dal carico oppressivo difficilmente descrivibile.
A mio avviso la dote migliore dei Jupiterian sta essenzialmente nel loro non accontentarsi di picchiare soltanto, ricordando a noi e a molti dei propri colleghi di genere quanto sia fondamentale variare ed offrire di tanto in tanto agli ascoltatori degli appigli ai quali potersi aggrappare per non essere spazzati via dallo tsunami di riff che la band brasiliana non fa certo mancare.
Tracklist:
1. Matriarch
2. Unearthly Glow
3. Forefathers
4. Terraforming (ft. Maurice de Jong of GNAW THEIR TONGUES)
5. Us and Them
6. Sol
Line up:
V – Voices, Guitars, Percussions, Synths
A – Guitars
R – Bass
G – Drums
Il video di Something Wicked This Way Comes, dall’album Swim With The Leviathan (Transcending Obscurity Records).
Il video di Something Wicked This Way Comes, dall’album Swim With The Leviathan (Transcending Obscurity Records).
Het Laatste Licht è una lavoro decisamente anomalo per come è costruito, ma sicuramente affascinante e dall’indubbio spessore qualitativo, mostrando un volto del genere meno virulento e più emotivo.
Ecco giungere dal Belgio un tentativo di approccio leggermente diverso dal solito nei confronti del post metal.
I Charnia presentano questo loro secondo lavoro intitolato Het Laatste Licht (l’ultima luce), che contiene una sola lunga traccia di quasi quaranta minuti con lo stesso titolo; se tutto questo può mettere sul chi vive qualche ascoltatore meno paziente va detto che, invece, l’operato della band fiamminga non è caratterizzato da un andamento monolitico, benché come è naturale che sia il brano si sviluppi con una progressione piuttosto lenta.
Se vogliamo, Het Laatste Licht è strutturato come una composizione classica, all’interno della quale troviamo diversi movimenti: il paragone non è poi così fuori luogo quando si può constatare che, effettivamente, per circa la prima metà il filo conduttore è un tenue incedere dominato dal violino dell’ospite Jens Debacker, coadiuvato dall’altro supporto esterno costituito dal contrabbasso suonato da Innerwoud.
E’ quasi impossibile non amare un’espressione musicale così intensa ed esemplare nella suo edificare un crescendo emotivo che rende a tratti spasmodica l’attesa di quell’esplosione che, anche senza saperlo a priori, prima o poi si materializzerà nelle cuffie: ma anche questo avviene rispettando i tempi, con una progressione che porta prima l’ingresso delle percussioni e infine, al venticinquesimo minuto, quello della voce e della restante strumentazione elettrica, per poi scemare nuovamente in un liquido e pacato post metal, solo sporcato dalle aspre incursioni vocali.
Het Laatste Licht è una lavoro decisamente anomalo per come è costruito, ma sicuramente affascinante e dall’indubbio spessore qualitativo, mostrando un volto del genere meno virulento e più emotivo.
Tracklist:
01. Het Laatste Licht
Line-up:
Seppe Batens – Drums
Jelle Pieters – Guitars, Vocals
Diederik Van Eetvelde – Bass
Thibaud Meiresone-Keppens – Vocals
Il video di Rising Tide.
Il video di Rising Tide.