Breakin Down – Judas Kiss

Un altro album da sbattere sul muso di chi afferma che il rock è morto, e questo in particolare, in virtù del suo valore, fa davvero male, molto male.

Che in questi ultimi anni l’hard rock stia vivendo una seconda giovinezza (a livello qualitativo) non è un mistero: dai suoni classici a quelli più moderni il genere sta regalando album in linea con le produzioni passate; certo, le band ai primi posti delle classifiche come negli anni d’oro sono un ricordo, ma le varie reunion e gli ottimi ultimi lavori dei nomi storici, sommato ad una scena underground più che mai viva e di qualità, fanno sperare almeno in uno stabilizzarsi del genere su livelli di popolarità sufficienti per non andare a cercare album tra le edizioni giapponesi, come accadeva negli anni novanta e all’inizio del nuovo millennio.

Via uno, sotto l’altro, ultimamente mi capita sempre più spesso di imbattermi in gruppi usciti con lavori esaltanti: i nomi sono tanti, specialmente nella scena nazionale, a cui si aggiungono i sardi Breakin Down con il loro ultimo lavoro dal titolo Judas Kiss.
Nati nell’ormai lontano 1999 da un’idea della coppia Simone Piu (voce e basso) e Francesco Manna(chitarra), iniziano a calcare i palchi della regione come cover band, ma scrivere pezzi propri è un passo obbligatorio, così come assestare la line-up che, nel corso degli anni, vede avvicendarsi vari musicisti della scena isolana.
Il primo lavoro del gruppo esce nel 2011, quando la band vola negli states e con Fabrizio Simoncioni (Ligabue, Litfiba, Negrita tra gli altri) alla produzione incidono Miss California, che li porta in tour per l’Europa calcando inoltre palchi in compagnia di Pino Scotto, Stef Burns, Paolo Bonfanti ed Eric Sardinas.
Veniamo a Judas Kiss: l’album è uno splendido concentrato di hard rock americano, un riassunto di quello che laggiù è stato offerto negli ultimi quarant’anni di musica rock racchiuso in poco più di mezzora di suoni stradaioli, ipevitaminizzati da ritmiche adrenaliniche, watts elargiti a profusione ed un’anima southern che, quando prende il sopravvento, impreziosisce i brani, che siano nati sulle strade assolate della Sardegna o sulle route americane, poco importa.
Da sentire tutto d’un fiato, il lavoro tiene l’ascoltatore in pugno per tutta la sua durata, rapito dal tono sporco e sanguigno di Simone Piu, dalle sei corde grintose che inanellano ritmiche e solos che definirle trascinanti è un eufemismo (Francesco Manna e Mauro Eretta), e stordito dai colpi sul drumkit di Fabrizio Murgia.
Potrei parlarvi dello straordinario rock’n’roll di Babylon Rock City, del riff d’apertura del lavoro su Diamonds And Bitches, brano dal groove micidiale, delle tastiere settantiane nella semiballad The Long Goodbye, delle ritmiche stoner di Liver And Lovers e Rock’N’Roll Is Dead (Kyuss), ma in realtà non c’è una sola canzone, in questo disco, che non meriterebbe una particolare menzione.
Judas Kiss raccoglie l’eredità di Lynyrd Skynnyrd, Rolling Stones, Motorhead, senza dimenticare che siamo ormai nel nuovo millennio, ed allora i Breakin Down lo ammantano di sonorità desertiche alla Kyuss, ottenendo per un risultato stupefacente.
Un altro album da sbattere sul muso di chi afferma che il rock è morto, e questo in particolare, in virtù del suo valore, fa davvero male, molto male.

Tracklist:
1.Diamonds And Bitches
2.Judas Kiss
3.Dangerous Rose
4.Blood And Blood
5.The Long Goodbye
6.Home Sweet Hell
7.Babylon Rock City
8.Liver And Lovers
9.Woman
10.Sometimes
11.Rock’n’Roll Is Dead
12.Texas Radio

Line-up:
Simone Piu- Basso Voce
Francesco Manna-Chitarra
Mauro Eretta-Chitarra
Fabrizio Murgia-Batteria

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